una segnalazione di Dia Battioni
Repubblica 28.5.05 prima pagina
LE IDEE
La Costituzione e i fondamentalisti
STEFANO RODOTA
ERA prevedibile, ed era stato detto, che la legge sulla procreazione assistita sarebbe stata utilizzata come apripista per mettere in discussione, peraltro in modo improprio, le norme sull´aborto. Qualche difensore della legge 40 aveva sostenuto che questo non era vero, probabilmente preoccupato d´una possibile reazione, in particolare delle donne, ricordando che la legge sull´aborto era stata confermata con un massiccio 88,4% dei votanti in occasione del referendum del 1981.
Ma ora dall´interno della maggioranza vengono esplicite dichiarazioni in quel senso. È bene, quindi, rendersi conto del fatto che il voto del 12 giugno serve anche a respingere questa tentazione.
In realtà, l´intera vicenda della legge sulla procreazione assistita è nata, si è sviluppata e si svolge all´insegna di una regressione istituzionale, e ormai ha assunto i caratteri di una inequivocabile, anche se indiretta, messa in discussione della stessa Costituzione. È un segnale inquietante, che scavalca la legge in discussione, e che quindi esige da tutti una valutazione approfondita che vada oltre l´occasione referendaria.
Potrebbe sembrare il contrario se si considerano i richiami che molti sostenitori del no e dell´astensione fanno alla Costituzione, sottolineando che assicura tutela al concepito, e alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, sottolineando che il suo articolo 2 riconosce il diritto alla vita. Ma è proprio il modo in cui sono fatti questi richiami a mostrare subito come il quadro costituzionale venga profondamente e pericolosamente distorto.
Il riferimento alla tutela del concepito è tratto dalla sentenza con la quale, nel 1975, la Corte costituzionale dichiarò parzialmente illegittimo l´articolo del codice penale che puniva chi interrompeva la gravidanza di una donna consenziente, avviando così quella depenalizzazione dell´aborto che avrebbe poi trovato pieno riconoscimento nella legge n. 194 del 1978. Ma che cosa dice davvero quella sentenza, pronunciata da una Corte presieduta non da un pericoloso relativista laico, ma da un rigoroso esponente dei giuristi cattolici, Francesco Paolo Bonifacio? Parla sì di un fondamento costituzionale per la tutela del concepito, ma immediatamente dopo aggiunge: "questa premessa va accompagnata dall´ulteriore considerazione che l´interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venir in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione". E, con assoluta nettezza, conclude così: "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell´embrione che persona deve ancora diventare".
Letta nella sua interezza, quella decisione va dunque nella direzione opposta rispetto a quella verso la quale i sostenitori della legge vorrebbero forzarla. È inammissibile quella sorta di dittatura dell´embrione, che ispira l´intera legge, perché all´interesse del concepito non può darsi una tutela assoluta che travolga ogni altro interesse in gioco e perché l´embrione non può essere considerato persona. Attenzione: il discorso della Corte è tanto più forte in quanto, pur usando termini come concepito e embrione, in realtà si riferisce al feto, dunque ad un embrione in uno stadio molto più avanzato e già impiantato nel corpo materno. A maggior ragione, quindi, esso vale per embrioni nei loro stadi iniziali e ancora non impiantati.
Altrettanto netta è la distorsione operata con il riferimento all´articolo 2 della Carta dei diritti, corrispondente allo stesso articolo della Convenzione europea dei diritti dell´uomo. Ora, proprio la Corte europea dei diritti dell´uomo, con una sentenza del luglio dell´anno scorso, ha constatato che "non v´è consenso a livello europeo sulla definizione scientifica e giuridica su che cosa sia l´inizio della vita"; di conseguenza, sull´inizio della vita si decide a livello nazionale; e, in conclusione, si possono riconoscere tutele all´embrione "senza considerarlo persona con diritto alla vita secondo l´articolo 2". Di nuovo, una corretta lettura dell´articolo 2 della Carta fornisce piuttosto argomenti a chi osserva come non vi sia alcun principio che imponga di identificare l´inizio della vita con il concepimento e di considerare l´embrione come una persona.
Caduto questo maldestro tentativo di dare fondamento costituzionale al modo in cui la legge sulla procreazione assistita definisce lo statuto dell´embrione, risaltano con evidenza ancora maggiore le forzature che essa contiene, vere e proprie cancellazioni di principi e valori che stanno alla base della prima parte della Costituzione, dove si disciplinano libertà e diritti fondamentali. È ignorato il principio di dignità nel momento in cui la donna non è considerata nel suo particolarissimo rapporto con chi solo attraverso di lei può nascere, ma viene ridotta a puro contenitore. Viene negata l´eguaglianza dei cittadini davanti alla legge attraverso una serie di irragionevoli divieti all´accesso delle donne alle tecniche procreative. Si comprime così il diritto alla salute, il cui carattere "fondamentale" è affermato dalla Costituzione e ripetutamente ribadito dalla Corte costituzionale. Si sottopone a controllo il corpo della donna e si cancella la soggettività femminile.
Siamo di fronte ad un disegno perseguito con determinazione, ignorando le molte osservazioni che, in tempi non sospetti, avevano messo in guardia contro questa deriva, questo abbandono di una solida fondazione costituzionale di una legge che incide pesantemente sulla vita delle persone. È necessario, allora, interrogarsi sulla cultura che sostiene questa impresa, sugli obiettivi perseguiti, sulla durezza con cui si difende anche l´indifendibile.
Siamo di fronte ad una operazione analoga a quella realizzata con la riforma che ha alterato principi ed equilibri della seconda parte della Costituzione. Emerge ora la volontà di distaccarsi anche dai valori contenuti nella prima parte, sostituendoli con riferimenti che cancellano principi condivisi (dignità, eguaglianza, salute) e che propongono in modo autoritario un´idea di natura astratta da cultura, storia, scienza. Questo tentativo è ancor più pericoloso di quello perseguito con la riforma costituzionale, perché questa volta si toccano le libertà e i diritti fondamentali.
La ragione dell´asprezza dello scontro di queste settimane sta proprio qui. L´attuale legge sulla procreazione assistita è ormai percepita come il primo atto di una contesa che ha come posta l´occupazione dello spazio costituzionale da parte di diversi fondamentalismi. Si può ben dire che su questo terreno i nostrani teocon stanno facendo con impegno le loro prove. Avanza un´altra idea di Stato e di società ed emerge, con caratteri inediti, la Chiesa cattolica come vero soggetto politico.
Si è aperto un conflitto destinato a proiettarsi nel futuro. E questo accade perché è stato abolito il filtro costruito pazientemente intorno allo Stato costituzionale dei diritti, anche come strumento di coesione sociale e di reciproco riconoscimento tra persone e gruppi.
Ma questo non sta forse avvenendo perché il mondo cattolico, a differenza di quello laico, è oggi l´unico capace di esprimere valori forti? Le cose stanno davvero così? Si abbia la pazienza di guardare ai valori intorno ai quali è stata costruita la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. È questo il regno del relativismo, della debolezza, o sono deboli la cultura e la convinzione con cui troppi laici hanno guardato a quel nuovo quadro costituzionale e, prigionieri d´un vecchio pregiudizio che vede il mondo cattolico più attrezzato per le questioni etiche, hanno finito con il cadere nella trappola di chi continua a sostenere che la fondazione dell´Europa è debole perché non ha voluto parlare delle sue radici cristiane?
Oggi ci troviamo su un crinale molto sottile, in bilico tra Stato democratico e Stato etico, tra libertà e autoritarismo. Per uscire da questa difficile situazione non ci si può più affidare alla sola libertà di coscienza dei parlamentari. Per molti motivi. Anzitutto perché, trincerandosi dietro questo argomento, non ci si accorge che, quando si interviene sulla vita, si rischia di negare la libertà di coscienza degli altri, di tutti i cittadini. E poi perché si rimane chiusi in un´idea di legislazione, di produzione delle norme, ignara della necessità di una paziente costruzione di consenso sociale quando si tratta di passare dall´etica al diritto. Altrimenti la legge, che dovrebbe chiudere il conflitto, lo incentiva, esponendosi al rifiuto dei cittadini, all´aggiramento da parte di chi ha risorse culturali ed economiche per farlo. Così le leggi falliscono e il loro autore, il Parlamento, viene delegittimato, o addirittura cade nel discredito.
Forse bisognerebbe riflettere sulle sagge sentenze ricordate all´inizio, che non negano tutela giuridica all´embrione, ma indicano come la via corretta per farlo non sia quella dell´orgoglio ideologico, ma della sobrietà democratica. Che non impone impossibili equiparazioni, ma si impegna nel distinguere e nell´offrire discipline differenziate, permettendo pure quel confronto continuo che, solo, può consentire la nascita di posizioni comuni, come stava accadendo prima dell´improvvido intervento legislativo.
È troppo tardi per tornare su questa strada, per fermare la decostituzionalizzazione ideologica dell´intera Costituzione? La discussione sui referendum dovrebbe aver aperto gli occhi di molti. Dopo il voto, e quale che ne sia l´esito, verrà il momento per rivendicare con forza, contro risse e forzature, le ragioni di una politica colta e appassionata. A condizione di saperlo fare.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 29 maggio 2005
150 opere di Antonio Ligabue
L'Arena Domenica 29 Maggio 2005
Ligabue, espressionismo tragico
Due mostre celebrano il grande pittore naif italiano a quarant’anni dalla morte
Quella allestita a Palazzo Mignani di Reggio Emilia e a Palazzo Bentivoglio di Gualtieri fino al 28 agosto è la più grande antologica mai realizzata prima sull’arte di Ligabue, presenta 270 opere e s’intitola , «Antonio Ligabue. Espressionismo tragico».
Curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani, l’esposizione allestisce nella sede reggiana 110 dipinti, tra cui molti di grandi dimensioni, mentre in quella di Gualtieri (dove nel 1965 Ligabue è morto ed è stato sepolto) si può ammirare un’ampia raccolta di opere su carta (60 disegni e 30 incisioni originali) e 70 sculture, tra terrecotte e bronzi. La selezione compiuta dai curatori è finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando comunque a sottolinearne il grande valore al di là delle etichette riduttive che l’hanno a lungo travisato e penalizzato.
L’obiettivo è far conoscere un Ligabue non «naif», bensì esponente sanguigno e tragico del filone «primitivo» ed espressionista del ’900 non solo italiano, protagonista indiscusso del panorama artistico internazionale. La mostra si pone quindi, proprio in base al numero e alla qualità delle opere scelte, come un rinnovato punto fermo nella valutazione critica e nella comprensione dell’artista. Mentre spesso ci si limita alle tristi vicende che accompagnarono l’intera vita di Antonio Ligabue, nato nel 1899 a Zurigo, dalla madre operaia (e padre sconosciuto), Elisabetta Costa, che si sposa dopo due anni con Bonfiglio Leccabue, di Gualtieri, che gli da il nome.
È proprio nel comune della Bassa reggiana che fa ritorno a vent’anni, dopo un’infanzia di sofferenze e miseria, il successivo affidamento (alla morte della madre, nel 1913) a un istituto rieducativo di Marbach e quindi, nel 1917, il ricovero nel manicomio di Psafers.
Espulso dalla Svizzera per la sua vita turbolenta arriva così a Gualtieri nel 1919, scortato dai carabinieri come un malavitoso, straniero in terra straniera perchè d’italiano ha il nome, ma parla unicamente tedesco. Il municipio gli assegna un letto al Ricovero di mendicità Carri, una modesta sovvenzione e la possibilità di lavorare presso qualche contadino o nella costruzione degli argini del Po. Preso da nostalgia per la sua prima patria, Ligabue cerca di fuggire più volte per rientrare clandestinamente in Svizzera, ma viene sempre fermato e non vi farà mai più ritorno.
I primi dipinti dell’artista risalgono alla fine degli anni venti, quando entra in contatto con uno dei fondatori della Scuola Romana, Marino Renato Mazzacurati che insegna a quell’uomo ridotto a vivere come un selvaggio nei boschi e nelle golene del Po l’uso dei colori a olio.
Il genio di Ligabue esplode nei cromatismi che plasmano «atmosfere incantate, scene idilliache, piante lussureggianti, animali in lotta», scrive nel catalogo pubblicato da Skira Giuseppe Amadei, suggestioni di un’infanzia per sempre vagheggiata passando da un ospedale psichiatrico all’altro. «Dileggiato in vita», il reietto Ligabue viene osannato dopo la morte. Lui lo sapeva, e a chi lo scherniva rispondeva: «A me faranno un film, quando sarò morto, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perchè sono un grande artista, avete capito?».
Una sorta di ritorno alle origini a quarant'anni dalla morte: potrebbe essere definita così la grande mostra antologica di Ligabue a Cencenighe Agordino che rimarrà aperta fino al 25 settembre.
In realtà tra i monti del Veneto Ligabue non c'è mai stato: vi era nata la madre Elisabetta Costa che, emigrata, lo metterà alla luce in Svizzera per poi morire tre anni dopo. Forse in quei primi tre anni di vita questa mamma semplice, attaccata come tutti gli emigranti alla nostalgia della sua terra, gli avrà parlato dei monti e gli avrà sussurrato le nenie agordine. Forse…. di certo Ligabue, destinato (o condannato) a vivere per buona parte della sua vita in una pianura piatta come l'olio, avrà sempre un rapporto speciale con le montagne, che fossero svizzere o quelle ancestrali del Veneto.
E speciale possiamo definire il rapporto tra le genti della montagna e Ligabue, a giudicare dall'enorme successo che ebbe la prima mostra a Cencenighe nel ventennale della morte: quasi 100.000 visitatori, con personaggi in pellegrinaggio dalla vicina Cortina del calibro di Barilla, Montanelli, Casaroli. Un record rimasto imbattuto.
Il secondo motivo che rende quest'occasione davvero speciale è la presentazione e messa in vendita in mostra del Catalogo Generale Ragionato delle opere di Ligabue a cura di Augusto Agosta Tota e Marzio Dall'Acqua, con la prefazione di Vittorio Sgarbi. Si può definire senza dubbio "ufficiale", a contare gli attestati, i patrocinii e i riconoscimenti che l'erede di Ligabue, lo Stato Italiano, ha conferito all'opera: a partire dall'Alto Patronato del Presidente della Repubblica per arrivare ai patrocini della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per i Beni e Attività Culturali. Promosso dal Comune di Gualtieri e dal Museo Documentario di Ligabue, è indispensabile per gli amanti dell'artista, e per tutti coloro che vogliono avere un punto di riferimento scientifico chiaro e sicuro sulla sua opera.
La rassegna, a cura di Augusto Agosta Tota, comprende 150 opere -110 dipinti, 23 disegni e 17 sculture - tutti capolavori selezionati e reperiti in Italia e all'estero tra la miglior produzione artistica di Ligabue.
Ligabue, espressionismo tragico
Due mostre celebrano il grande pittore naif italiano a quarant’anni dalla morte
- A Reggio Emilia e a Gualtieri la più grande antologica mai realizzata prima, con 270 quadri, finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando a sottolinearne il valore al di là delle etichette riduttive. A Cencenighe Agordino esposti 150 lavori, tra dipinti, disegni e sculture, e in vendita il Catalogo Generale Ragionato delle opere
Quella allestita a Palazzo Mignani di Reggio Emilia e a Palazzo Bentivoglio di Gualtieri fino al 28 agosto è la più grande antologica mai realizzata prima sull’arte di Ligabue, presenta 270 opere e s’intitola , «Antonio Ligabue. Espressionismo tragico».
Curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani, l’esposizione allestisce nella sede reggiana 110 dipinti, tra cui molti di grandi dimensioni, mentre in quella di Gualtieri (dove nel 1965 Ligabue è morto ed è stato sepolto) si può ammirare un’ampia raccolta di opere su carta (60 disegni e 30 incisioni originali) e 70 sculture, tra terrecotte e bronzi. La selezione compiuta dai curatori è finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando comunque a sottolinearne il grande valore al di là delle etichette riduttive che l’hanno a lungo travisato e penalizzato.
L’obiettivo è far conoscere un Ligabue non «naif», bensì esponente sanguigno e tragico del filone «primitivo» ed espressionista del ’900 non solo italiano, protagonista indiscusso del panorama artistico internazionale. La mostra si pone quindi, proprio in base al numero e alla qualità delle opere scelte, come un rinnovato punto fermo nella valutazione critica e nella comprensione dell’artista. Mentre spesso ci si limita alle tristi vicende che accompagnarono l’intera vita di Antonio Ligabue, nato nel 1899 a Zurigo, dalla madre operaia (e padre sconosciuto), Elisabetta Costa, che si sposa dopo due anni con Bonfiglio Leccabue, di Gualtieri, che gli da il nome.
È proprio nel comune della Bassa reggiana che fa ritorno a vent’anni, dopo un’infanzia di sofferenze e miseria, il successivo affidamento (alla morte della madre, nel 1913) a un istituto rieducativo di Marbach e quindi, nel 1917, il ricovero nel manicomio di Psafers.
Espulso dalla Svizzera per la sua vita turbolenta arriva così a Gualtieri nel 1919, scortato dai carabinieri come un malavitoso, straniero in terra straniera perchè d’italiano ha il nome, ma parla unicamente tedesco. Il municipio gli assegna un letto al Ricovero di mendicità Carri, una modesta sovvenzione e la possibilità di lavorare presso qualche contadino o nella costruzione degli argini del Po. Preso da nostalgia per la sua prima patria, Ligabue cerca di fuggire più volte per rientrare clandestinamente in Svizzera, ma viene sempre fermato e non vi farà mai più ritorno.
I primi dipinti dell’artista risalgono alla fine degli anni venti, quando entra in contatto con uno dei fondatori della Scuola Romana, Marino Renato Mazzacurati che insegna a quell’uomo ridotto a vivere come un selvaggio nei boschi e nelle golene del Po l’uso dei colori a olio.
Il genio di Ligabue esplode nei cromatismi che plasmano «atmosfere incantate, scene idilliache, piante lussureggianti, animali in lotta», scrive nel catalogo pubblicato da Skira Giuseppe Amadei, suggestioni di un’infanzia per sempre vagheggiata passando da un ospedale psichiatrico all’altro. «Dileggiato in vita», il reietto Ligabue viene osannato dopo la morte. Lui lo sapeva, e a chi lo scherniva rispondeva: «A me faranno un film, quando sarò morto, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perchè sono un grande artista, avete capito?».
Una sorta di ritorno alle origini a quarant'anni dalla morte: potrebbe essere definita così la grande mostra antologica di Ligabue a Cencenighe Agordino che rimarrà aperta fino al 25 settembre.
In realtà tra i monti del Veneto Ligabue non c'è mai stato: vi era nata la madre Elisabetta Costa che, emigrata, lo metterà alla luce in Svizzera per poi morire tre anni dopo. Forse in quei primi tre anni di vita questa mamma semplice, attaccata come tutti gli emigranti alla nostalgia della sua terra, gli avrà parlato dei monti e gli avrà sussurrato le nenie agordine. Forse…. di certo Ligabue, destinato (o condannato) a vivere per buona parte della sua vita in una pianura piatta come l'olio, avrà sempre un rapporto speciale con le montagne, che fossero svizzere o quelle ancestrali del Veneto.
E speciale possiamo definire il rapporto tra le genti della montagna e Ligabue, a giudicare dall'enorme successo che ebbe la prima mostra a Cencenighe nel ventennale della morte: quasi 100.000 visitatori, con personaggi in pellegrinaggio dalla vicina Cortina del calibro di Barilla, Montanelli, Casaroli. Un record rimasto imbattuto.
Il secondo motivo che rende quest'occasione davvero speciale è la presentazione e messa in vendita in mostra del Catalogo Generale Ragionato delle opere di Ligabue a cura di Augusto Agosta Tota e Marzio Dall'Acqua, con la prefazione di Vittorio Sgarbi. Si può definire senza dubbio "ufficiale", a contare gli attestati, i patrocinii e i riconoscimenti che l'erede di Ligabue, lo Stato Italiano, ha conferito all'opera: a partire dall'Alto Patronato del Presidente della Repubblica per arrivare ai patrocini della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per i Beni e Attività Culturali. Promosso dal Comune di Gualtieri e dal Museo Documentario di Ligabue, è indispensabile per gli amanti dell'artista, e per tutti coloro che vogliono avere un punto di riferimento scientifico chiaro e sicuro sulla sua opera.
La rassegna, a cura di Augusto Agosta Tota, comprende 150 opere -110 dipinti, 23 disegni e 17 sculture - tutti capolavori selezionati e reperiti in Italia e all'estero tra la miglior produzione artistica di Ligabue.
Giovanni Sartori
Corriere della Sera 29.5.05
Contraddizioni dei sostenitori della legge 40
L’EMBRIONE E LA PERSONA
di GIOVANNI SARTORI
La legge 40 che sarà sottoposta tra poco (il 12-13 giugno) a referendum è una legge su che cosa? Ufficialmente è una legge sulla «fecondazione artificiale», o assistita, anche detta, seppur impropriamente ed erroneamente, sulla fecondazione eterologa. In verità è molto molto di più. È una legge che stabilisce che l’embrione è già vita umana, e che perciò correda l’embrione di «diritti». Ora, nessuno contesta che l’embrione sia vita. Un sasso non ha vita; ma tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore, è vita. Le piante sono vita, gli animali sono vita. E da un punto di vista biologico il genoma (i geni) di uno scimpanzé è quasi eguale - al 99,5% - a quello di un essere umano. Eppure la differenza tra uno scimpanzé e un homo sapiens è immensa. Qual è? Perché l’embrione umano va protetto e quello dello scimpanzé no? Se dobbiamo proteggere la vita, allora di questa «vita e basta» esistono miliardi di miliardi di specie e di varietà. Ma se ci interessa specificamente la protezione della vita umana, allora la dobbiamo definire, allora dobbiamo stabilire quale vita è umana e perché. Fino a circa mezzo secolo fa, lo sapevamo. Grosso modo (ci sono eccezioni) per la Chiesa e per la fede l’uomo è caratterizzato dall’anima, e l’«anima razionale», per dirla con San Tommaso, arriva tardi, non certo con il concepimento. Invece per la filosofia, o per la riflessione razionale, l’uomo è caratterizzato dalla ragione, dalla autocoscienza o quanto meno da stati mentali e psicologici coscienti. Per Locke, per esempio, la persona è «un essere consapevole di sé», e «senza coscienza non c’è persona» ( Saggio , II, 27). Ma ecco che d’un tratto, la Chiesa cattolica dimentica l’anima (e con essa tutta la sua teologia) e si affida alla biologia, alla quale fa dire che tra il mio embrione e me non c’è differenza: vita umana la sua, vita umana la mia. Ma purtroppo la differenza c’è; ed è anche addirittura a mio danno. Se, come mi augura un simpatico lettore, io fossi stato ucciso in embrione io non me ne sarei accorto e nemmeno avrei sofferto; invece io come persona umana so che dovrò morire e forse anche soffrire. E il discorso serio, l’argomento logico, è questo: che se un embrione sarà una persona, ancora non lo è come embrione. E sfido qualsiasi ruiniano a fornire una definizione di «persona umana» che si applichi all’embrione.
Passo ai risvolti pratici e agli aspetti concreti della questione. Un primo argomento dei sostenitori della 40 è che proteggere l’embrione è proteggere il più debole, la vita più debole. Ma da questo punto di vista gli embrioni non se la stanno cavando tanto male. I testi di demografia di quando nascevo prevedevano per il 2000 una popolazione di 2 miliardi; invece siamo addirittura più di 6 miliardi e si prevede che saliremo fino a 9. Ne risulta un eccesso di successo degli embrioni: una sovrappopolazione che porta alla distruzione della Terra, del pianeta Terra, e così anche al suicidio tendenziale del genere umano. In questo contesto, il diritto alla vita si capovolge in una straziante condanna a morte per i già nati, i viventi in eccesso.
Un altro argomento è che la 40 tutela la donna. Questa poi. Se l’embrione è sacro e inviolabile, anche la pillola (contraccettiva) del giorno dopo deve essere proibita. Così centinaia di milioni di minorenni inesperte o anche violentate si devono tenere un bambino indesiderato o altrimenti ricorrere all’aborto. Che però dovrà essere anch’esso lestamente proibito, perché se passa la 40, la legge 194/78 sull’aborto non potrà essere mantenuta: la contraddizione non lo consente. E così torneremo alle «mammane» clandestine che spesso massacrano e ammazzano le loro clienti. Davvero una bella tutela.
Contraddizioni dei sostenitori della legge 40
L’EMBRIONE E LA PERSONA
di GIOVANNI SARTORI
La legge 40 che sarà sottoposta tra poco (il 12-13 giugno) a referendum è una legge su che cosa? Ufficialmente è una legge sulla «fecondazione artificiale», o assistita, anche detta, seppur impropriamente ed erroneamente, sulla fecondazione eterologa. In verità è molto molto di più. È una legge che stabilisce che l’embrione è già vita umana, e che perciò correda l’embrione di «diritti». Ora, nessuno contesta che l’embrione sia vita. Un sasso non ha vita; ma tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore, è vita. Le piante sono vita, gli animali sono vita. E da un punto di vista biologico il genoma (i geni) di uno scimpanzé è quasi eguale - al 99,5% - a quello di un essere umano. Eppure la differenza tra uno scimpanzé e un homo sapiens è immensa. Qual è? Perché l’embrione umano va protetto e quello dello scimpanzé no? Se dobbiamo proteggere la vita, allora di questa «vita e basta» esistono miliardi di miliardi di specie e di varietà. Ma se ci interessa specificamente la protezione della vita umana, allora la dobbiamo definire, allora dobbiamo stabilire quale vita è umana e perché. Fino a circa mezzo secolo fa, lo sapevamo. Grosso modo (ci sono eccezioni) per la Chiesa e per la fede l’uomo è caratterizzato dall’anima, e l’«anima razionale», per dirla con San Tommaso, arriva tardi, non certo con il concepimento. Invece per la filosofia, o per la riflessione razionale, l’uomo è caratterizzato dalla ragione, dalla autocoscienza o quanto meno da stati mentali e psicologici coscienti. Per Locke, per esempio, la persona è «un essere consapevole di sé», e «senza coscienza non c’è persona» ( Saggio , II, 27). Ma ecco che d’un tratto, la Chiesa cattolica dimentica l’anima (e con essa tutta la sua teologia) e si affida alla biologia, alla quale fa dire che tra il mio embrione e me non c’è differenza: vita umana la sua, vita umana la mia. Ma purtroppo la differenza c’è; ed è anche addirittura a mio danno. Se, come mi augura un simpatico lettore, io fossi stato ucciso in embrione io non me ne sarei accorto e nemmeno avrei sofferto; invece io come persona umana so che dovrò morire e forse anche soffrire. E il discorso serio, l’argomento logico, è questo: che se un embrione sarà una persona, ancora non lo è come embrione. E sfido qualsiasi ruiniano a fornire una definizione di «persona umana» che si applichi all’embrione.
Passo ai risvolti pratici e agli aspetti concreti della questione. Un primo argomento dei sostenitori della 40 è che proteggere l’embrione è proteggere il più debole, la vita più debole. Ma da questo punto di vista gli embrioni non se la stanno cavando tanto male. I testi di demografia di quando nascevo prevedevano per il 2000 una popolazione di 2 miliardi; invece siamo addirittura più di 6 miliardi e si prevede che saliremo fino a 9. Ne risulta un eccesso di successo degli embrioni: una sovrappopolazione che porta alla distruzione della Terra, del pianeta Terra, e così anche al suicidio tendenziale del genere umano. In questo contesto, il diritto alla vita si capovolge in una straziante condanna a morte per i già nati, i viventi in eccesso.
Un altro argomento è che la 40 tutela la donna. Questa poi. Se l’embrione è sacro e inviolabile, anche la pillola (contraccettiva) del giorno dopo deve essere proibita. Così centinaia di milioni di minorenni inesperte o anche violentate si devono tenere un bambino indesiderato o altrimenti ricorrere all’aborto. Che però dovrà essere anch’esso lestamente proibito, perché se passa la 40, la legge 194/78 sull’aborto non potrà essere mantenuta: la contraddizione non lo consente. E così torneremo alle «mammane» clandestine che spesso massacrano e ammazzano le loro clienti. Davvero una bella tutela.
«la fede non è un argomento»
L'Unità 29 Maggio 2005
La fede non è un argomento
Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ruini,
con tutta l’autorevolezza che le viene dall’essere presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e Vicario delle diocesi di Roma (quasi un «vice Papa», insomma) non solo lei è intervenuto sistematicamente nelle vicende politiche italiane, non solo ha teorizzato il diritto a tale «presenza» politica delle gerarchie ecclesiastiche, ma ne ha sostenuto addirittura la necessità. Per il bene della democrazia stessa.
Qualche mese fa Eugenio Scalfari ha sostenuto - con dovizia di riferimenti testuali - che i suoi interventi violano le norme del Concordato, e quindi la Costituzione italiana. Non entro nel merito, ma solo perché voglio spingermi oltre, e domandare se i suoi interventi, malgrado il paternalistico abbraccio alla democrazia («per il suo bene») non rinverdiscano invece ostilità e sospetti tradizionali nella Chiesa di Roma nei confronti della democrazia stessa, ancora orgogliosamente rivendicati da papa Pacelli e felicemente attenuati e posti in sordina durante la stagione (evidentemente assai breve) del cattolicesimo conciliare.
Valga il vero. Converrà certamente anche lei che una società democratica è tale perché in essa ciascuno partecipa in modo eguale alla comune sovranità, ha eguale titolo a determinare ogni decisione. Credente o non credente che sia. Ma tale decisione ha poi carattere vincolante per tutti, anche per chi non la ha condivisa.
(...) L'unico “fondamento” della convivenza democratica, insomma, è solo un diffuso e saturante ethos democratico. L'abc del quale - davvero minimo e irrinunciabile - è che ad ogni decisione si arrivi attraverso un processo deliberativo in cui ciascuno ha il dovere di rivolgersi a tutti gli altri cittadini, e argomentare, per convincerli della propria opinione.
Poniamo che una persona X, debitamente eletta in parlamento, voglia introdurre una legge che consente la poligamia. Se ne dovrà discutere. Cioè ciascuno dovrà addurre argomenti. Pro e contro.
Argomenti. Cioè valori democratici, fatti empirici accertabili, logica. Potrà, l’on. X, partire ad esempio dal valore democratico della libera scelta, e allora la poligamia, se consensuale, perché no? Gli si potrà ampiamente obiettare, gli argomenti "contro" non mancano. Non entro nel merito. Mi interessa solo sottolineare quelle che non potrebbero essere considerate argomentazioni (democratiche) a favore della poligamia. Non si potrebbe, ad esempio, pretendere di introdurre la poligamia solo per gli uomini. Violerebbe il principio di eguaglianza. E a tale obiezione non si potrebbe replicare: ma lo dice il Corano, che esprime la volontà di Dio.
Dio non può essere un argomento, insomma, perché non può essere mai convincente - in linea di principio - per chi non è credente, per chi creda in un Dio diverso, per chi creda nello stesso Dio ma ritenga che la Sua Parola vada interpretata differentemente. Non può, in linea di principio, diventare fattore di un dia-logos fra cittadini. Anzi: annulla dia-logos, argomentazione raziocinante, persuasione reciproca, dunque deliberazione democratica, nella regressione dello scontro tra dogmi.
Prendiamo altri due esempi. Il signor Y, debitamente eletto in parlamento, vorrebbe stabilire per legge la proibizione del preservativo, e la signora W, sua collega, la proibizione per legge delle trasfusioni di sangue. Dovranno argomentare. Il che, ovviamente, non ha nulla a che fare con la disponibilità personale e soggettiva a rinunciare, nella loro vita, all'uso del preservativo o delle trasfusioni.
(...) Tutto questo è noto da secoli come il fondamento della convivenza laica (precondizione di quella democratica). Che recita: Etsi Deus non daretur. Una legge, proprio perchè dovrà vincolare tutti, credenti e miscredenti (e ogni credente è miscredente rispetto ad un diverso credente) deve essere proposta, discussa, decisa, ricorrendo solo ed esclusivamente ad argomenti che, in linea di principio, non discriminino. Mentre la fede, per definizione, è un dono. Appartiene a pochi. Comunque non a tutti (diversamente dalla ragione, per ipotesi).
La propria fede non è un argomento, insomma. Non può essere mai invocata in quanto tale nell'argomentazione per la legge, dunque. Altrimenti l'islamico potrà invocare la volontà del suo Dio, e così l'ebreo e il gentile, e il cattolico e il testimone di Geova. E all'interno di ogni fede poi, secondo un pluralismo ermeneutico che rende ciascuno eretico all'altro. Ecco perché, in democrazia, la fede deve restare privata. L'opinione di ciascuno, per farsi pubblica, per farsi valere, per essere valore che si propone come legge, deve partire da valori comuni (cioè quelli non in contrasto con una costituzione democratica), e dai fatti accertabili, e dalla logica.
Questo lascerà ampio margine all'incertezza nella reciproca persuasione e nella decisione (ampi margini anche alla scelta irrazionale, se vogliamo: degli interessi). Ma se ammettessimo che Dio può valere come argomento, non potremmo che piombare nel contenzioso teologico-dogmatico, e della logica dell'anatema reciproco.
Del resto, anche nelle recenti polemiche sul referendum che riguarda la legge sulla procreazione assistita, personalità cattoliche note per il loro integralismo non fanno che ribadire che la loro posizione è perfettamente argomentabile in termini e logica puramente umani, a prescindere da ogni convinzione di fede. Di nuovo: non entro nel merito se tali argomenti siano davvero di peso o assolutamente claudicanti. Sotto il profilo del metodo è invece certo che si tratti dell’unico approccio compatibile con la democrazia. Un "argomento" che facesse riferimento alla fede, cioè a qualcosa di cui, per definizione, alcuni cittadini sono privi, violerebbe quell'abc dell'ethos democratico di cui abbiamo parlato.
Eppure, è proprio quello che lei ha fatto, ripetutamente. Lei infatti non si è rivolto agli italiani in quanto prof. Ruini, utilizzando tutti gli argomenti empiricamente e razionalmente possibili per rifiutare il referendum. Lei ha parlato in quanto card. Ruini, presidente dei vescovi italiani, e si è rivolto ai cattolici in quanto cattolici. Lei cioè ha intimato, in nome di una fede religiosa - non della comune ragione umana - una linea di comportamento politico. E con ciò, lei si è allineato, sul piano del metodo, con l'eventuale testimone di Geova che intendesse far proibire per legge le trasfusioni di sangue o il futuro deputato islamico che volesse per legge consentire la poligamia (solo per gli uomini). Ma il piano del metodo è qui cruciale, perché mette in gioco la logica, la sostanza, l'ethos della democrazia stessa.
Delle due l'una, infatti. O i suoi argomenti possono, almeno in linea di principio, rivolgersi ad ogni coscienza raziocinante, e allora lei deve parlare a tutti noi (quando si tratti di leggi dello Stato e di politica) in quanto prof. Ruini, in quanto cittadino Ruini. O i suoi "argomenti" sono invece costituiti dalla fede in un Dio e nella Sua Volontà interpretata secondo la "tradizione apostolica" della Chiesa di Roma, e allora è comprensibile che lei parli da cardinale ai fedeli.
Ma in tal modo sancisce un principio: che Dio possa diventare "argomento" nello scontro politico. E se il suo Dio, allora inevitabilmente anche il Dio della Torah in tutte le sue interpretazioni, e il Dio di Maometto (anche in ermeneutica fondamentalista), e accanto ad Allah Geova, e infine ogni Dio che una qualsiasi religione (vecchia o nuova) voglia adorare, e la cui Volontà voglia rendere "argomento".
In una società pluralista, insomma, ci sono solo due vie possibili: o tutte le fedi rinunciano alla tentazione di far valere i propri principi erga omnes (cioè di farli diventare leggi dello Stato), e dunque si limitano a proporre quanto delle loro convinzioni è argomentabile anche a prescindere dalla fede, o tutte le fedi hanno un eguale diritto a tentare di far diventare legge i valori della propria fede (etici, sociali, eccetera) in quanto fede.
E sarebbe risposta risibile quella del cattolico che sostenesse che le sue norme morali (che vietano la poligamia, il divorzio, il preservativo, l'aborto, l'eutanasia) sono norme naturali, dunque argomentabili in modo semplicemente umano (basandosi su logica, fatti accertabili, valori democratici), mentre quelle dell'islamico che volesse consentire la poligamia o del testimone di Geova intenzionato a proibire le trasfusioni devono far ricorso al dogma delle rispettive religioni, poiché infondate sul piano semplicemente naturale, razional-umano (argomentabile a prescindere dalla fede). Perché, se davvero è così, sarebbe logico e coerente (e magari anche utile per la Chiesa) che - quando si tratta di politica e di leggi - lei si esprimesse solo e sempre in quanto prof. Ruini e mai in quanto cardinale e vescovo.
Temo invece che l'antica e antidemocratica pretesa della chiesa di imporre al secolo le norme morali desunte dal dogma stia conoscendo una nuova stagione di fioritura opulenta. Ma questa volta più pericolosa e contraddittoria che mai. (...)
C'è poco da illudersi. Se non si esce radicalmente dalla pretesa di far valere qualcosa (ogni fede e ogni Dio) che esuli dal mero argomentare umano (e lei da tale pretesa non esce, anzi la riafferma, ogni volta che parla di politica e di leggi in quanto card. Ruini) saranno tutte le fedi, ciascuna con il proprio Dio, a voler decidere la norma penale e civile, in uno scontro interreligioso micidiale, oltre che in una tracimante ostilità alla logica della convivenza laica e democratica. Moltissimi anni fa sostenni che due capisaldi "irrinunciabili" della politica vaticana, l'8 per mille e il finanziamento alle scuole private confessionali, in un paio di generazioni si sarebbero rivelati dei tragici boomerang anche dal punto di vista della Chiesa. Non è passato ancora il tempo di una sola generazione, e già ci siamo: per quanto anni ancora si riuscirà e mantenere l'islam italiano (nelle sue diverse componenti) incostituzionalmente fuori dall'8 per mille? E le scuole private ispirate ad Allah e sostenute da finanziamento pubblico non sono ormai all'ordine del giorno?
(...) Infine, un accenno al merito dei suoi interventi. Lei, nella sua veste di card. Ruini, ha intimato ai fedeli di non andare a votare nel prossimo referendum. Tecnicamente, per chi vuole sconfiggerne i promotori, è la scelta più "furba". Poiché un'astensione del 30% in un referendum è ormai fisiologica, basta convincere due italiani su dieci a restare a casa e il referendum è sconfitto. Il referendum in quanto strumento, però, non solo il sì a questo referendum. Ma è sicuro che questa scelta "furba", che affossa di fatto l'istituto (perché in futuro tutti agiranno nello stesso modo, e convincere il 20% è alla portata di quasi tutti), sia anche lungimirante? Ha forse dimenticato che a voler l'introduzione del referendum fu proprio la sua Chiesa, per poter abrogare la legge che introduceva il divorzio? E se domani una maggioranza parlamentare introducesse altre leggi in contrasto con il diritto "naturale" (posto che come tale riesca ad argomentarlo, da professor Ruini, non da cardinale) non sarà il referendum uno strumento di tutela anche per il cittadino Ruini?
La fede non è un argomento
Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ruini,
con tutta l’autorevolezza che le viene dall’essere presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e Vicario delle diocesi di Roma (quasi un «vice Papa», insomma) non solo lei è intervenuto sistematicamente nelle vicende politiche italiane, non solo ha teorizzato il diritto a tale «presenza» politica delle gerarchie ecclesiastiche, ma ne ha sostenuto addirittura la necessità. Per il bene della democrazia stessa.
Qualche mese fa Eugenio Scalfari ha sostenuto - con dovizia di riferimenti testuali - che i suoi interventi violano le norme del Concordato, e quindi la Costituzione italiana. Non entro nel merito, ma solo perché voglio spingermi oltre, e domandare se i suoi interventi, malgrado il paternalistico abbraccio alla democrazia («per il suo bene») non rinverdiscano invece ostilità e sospetti tradizionali nella Chiesa di Roma nei confronti della democrazia stessa, ancora orgogliosamente rivendicati da papa Pacelli e felicemente attenuati e posti in sordina durante la stagione (evidentemente assai breve) del cattolicesimo conciliare.
Valga il vero. Converrà certamente anche lei che una società democratica è tale perché in essa ciascuno partecipa in modo eguale alla comune sovranità, ha eguale titolo a determinare ogni decisione. Credente o non credente che sia. Ma tale decisione ha poi carattere vincolante per tutti, anche per chi non la ha condivisa.
(...) L'unico “fondamento” della convivenza democratica, insomma, è solo un diffuso e saturante ethos democratico. L'abc del quale - davvero minimo e irrinunciabile - è che ad ogni decisione si arrivi attraverso un processo deliberativo in cui ciascuno ha il dovere di rivolgersi a tutti gli altri cittadini, e argomentare, per convincerli della propria opinione.
Poniamo che una persona X, debitamente eletta in parlamento, voglia introdurre una legge che consente la poligamia. Se ne dovrà discutere. Cioè ciascuno dovrà addurre argomenti. Pro e contro.
Argomenti. Cioè valori democratici, fatti empirici accertabili, logica. Potrà, l’on. X, partire ad esempio dal valore democratico della libera scelta, e allora la poligamia, se consensuale, perché no? Gli si potrà ampiamente obiettare, gli argomenti "contro" non mancano. Non entro nel merito. Mi interessa solo sottolineare quelle che non potrebbero essere considerate argomentazioni (democratiche) a favore della poligamia. Non si potrebbe, ad esempio, pretendere di introdurre la poligamia solo per gli uomini. Violerebbe il principio di eguaglianza. E a tale obiezione non si potrebbe replicare: ma lo dice il Corano, che esprime la volontà di Dio.
Dio non può essere un argomento, insomma, perché non può essere mai convincente - in linea di principio - per chi non è credente, per chi creda in un Dio diverso, per chi creda nello stesso Dio ma ritenga che la Sua Parola vada interpretata differentemente. Non può, in linea di principio, diventare fattore di un dia-logos fra cittadini. Anzi: annulla dia-logos, argomentazione raziocinante, persuasione reciproca, dunque deliberazione democratica, nella regressione dello scontro tra dogmi.
Prendiamo altri due esempi. Il signor Y, debitamente eletto in parlamento, vorrebbe stabilire per legge la proibizione del preservativo, e la signora W, sua collega, la proibizione per legge delle trasfusioni di sangue. Dovranno argomentare. Il che, ovviamente, non ha nulla a che fare con la disponibilità personale e soggettiva a rinunciare, nella loro vita, all'uso del preservativo o delle trasfusioni.
(...) Tutto questo è noto da secoli come il fondamento della convivenza laica (precondizione di quella democratica). Che recita: Etsi Deus non daretur. Una legge, proprio perchè dovrà vincolare tutti, credenti e miscredenti (e ogni credente è miscredente rispetto ad un diverso credente) deve essere proposta, discussa, decisa, ricorrendo solo ed esclusivamente ad argomenti che, in linea di principio, non discriminino. Mentre la fede, per definizione, è un dono. Appartiene a pochi. Comunque non a tutti (diversamente dalla ragione, per ipotesi).
La propria fede non è un argomento, insomma. Non può essere mai invocata in quanto tale nell'argomentazione per la legge, dunque. Altrimenti l'islamico potrà invocare la volontà del suo Dio, e così l'ebreo e il gentile, e il cattolico e il testimone di Geova. E all'interno di ogni fede poi, secondo un pluralismo ermeneutico che rende ciascuno eretico all'altro. Ecco perché, in democrazia, la fede deve restare privata. L'opinione di ciascuno, per farsi pubblica, per farsi valere, per essere valore che si propone come legge, deve partire da valori comuni (cioè quelli non in contrasto con una costituzione democratica), e dai fatti accertabili, e dalla logica.
Questo lascerà ampio margine all'incertezza nella reciproca persuasione e nella decisione (ampi margini anche alla scelta irrazionale, se vogliamo: degli interessi). Ma se ammettessimo che Dio può valere come argomento, non potremmo che piombare nel contenzioso teologico-dogmatico, e della logica dell'anatema reciproco.
Del resto, anche nelle recenti polemiche sul referendum che riguarda la legge sulla procreazione assistita, personalità cattoliche note per il loro integralismo non fanno che ribadire che la loro posizione è perfettamente argomentabile in termini e logica puramente umani, a prescindere da ogni convinzione di fede. Di nuovo: non entro nel merito se tali argomenti siano davvero di peso o assolutamente claudicanti. Sotto il profilo del metodo è invece certo che si tratti dell’unico approccio compatibile con la democrazia. Un "argomento" che facesse riferimento alla fede, cioè a qualcosa di cui, per definizione, alcuni cittadini sono privi, violerebbe quell'abc dell'ethos democratico di cui abbiamo parlato.
Eppure, è proprio quello che lei ha fatto, ripetutamente. Lei infatti non si è rivolto agli italiani in quanto prof. Ruini, utilizzando tutti gli argomenti empiricamente e razionalmente possibili per rifiutare il referendum. Lei ha parlato in quanto card. Ruini, presidente dei vescovi italiani, e si è rivolto ai cattolici in quanto cattolici. Lei cioè ha intimato, in nome di una fede religiosa - non della comune ragione umana - una linea di comportamento politico. E con ciò, lei si è allineato, sul piano del metodo, con l'eventuale testimone di Geova che intendesse far proibire per legge le trasfusioni di sangue o il futuro deputato islamico che volesse per legge consentire la poligamia (solo per gli uomini). Ma il piano del metodo è qui cruciale, perché mette in gioco la logica, la sostanza, l'ethos della democrazia stessa.
Delle due l'una, infatti. O i suoi argomenti possono, almeno in linea di principio, rivolgersi ad ogni coscienza raziocinante, e allora lei deve parlare a tutti noi (quando si tratti di leggi dello Stato e di politica) in quanto prof. Ruini, in quanto cittadino Ruini. O i suoi "argomenti" sono invece costituiti dalla fede in un Dio e nella Sua Volontà interpretata secondo la "tradizione apostolica" della Chiesa di Roma, e allora è comprensibile che lei parli da cardinale ai fedeli.
Ma in tal modo sancisce un principio: che Dio possa diventare "argomento" nello scontro politico. E se il suo Dio, allora inevitabilmente anche il Dio della Torah in tutte le sue interpretazioni, e il Dio di Maometto (anche in ermeneutica fondamentalista), e accanto ad Allah Geova, e infine ogni Dio che una qualsiasi religione (vecchia o nuova) voglia adorare, e la cui Volontà voglia rendere "argomento".
In una società pluralista, insomma, ci sono solo due vie possibili: o tutte le fedi rinunciano alla tentazione di far valere i propri principi erga omnes (cioè di farli diventare leggi dello Stato), e dunque si limitano a proporre quanto delle loro convinzioni è argomentabile anche a prescindere dalla fede, o tutte le fedi hanno un eguale diritto a tentare di far diventare legge i valori della propria fede (etici, sociali, eccetera) in quanto fede.
E sarebbe risposta risibile quella del cattolico che sostenesse che le sue norme morali (che vietano la poligamia, il divorzio, il preservativo, l'aborto, l'eutanasia) sono norme naturali, dunque argomentabili in modo semplicemente umano (basandosi su logica, fatti accertabili, valori democratici), mentre quelle dell'islamico che volesse consentire la poligamia o del testimone di Geova intenzionato a proibire le trasfusioni devono far ricorso al dogma delle rispettive religioni, poiché infondate sul piano semplicemente naturale, razional-umano (argomentabile a prescindere dalla fede). Perché, se davvero è così, sarebbe logico e coerente (e magari anche utile per la Chiesa) che - quando si tratta di politica e di leggi - lei si esprimesse solo e sempre in quanto prof. Ruini e mai in quanto cardinale e vescovo.
Temo invece che l'antica e antidemocratica pretesa della chiesa di imporre al secolo le norme morali desunte dal dogma stia conoscendo una nuova stagione di fioritura opulenta. Ma questa volta più pericolosa e contraddittoria che mai. (...)
C'è poco da illudersi. Se non si esce radicalmente dalla pretesa di far valere qualcosa (ogni fede e ogni Dio) che esuli dal mero argomentare umano (e lei da tale pretesa non esce, anzi la riafferma, ogni volta che parla di politica e di leggi in quanto card. Ruini) saranno tutte le fedi, ciascuna con il proprio Dio, a voler decidere la norma penale e civile, in uno scontro interreligioso micidiale, oltre che in una tracimante ostilità alla logica della convivenza laica e democratica. Moltissimi anni fa sostenni che due capisaldi "irrinunciabili" della politica vaticana, l'8 per mille e il finanziamento alle scuole private confessionali, in un paio di generazioni si sarebbero rivelati dei tragici boomerang anche dal punto di vista della Chiesa. Non è passato ancora il tempo di una sola generazione, e già ci siamo: per quanto anni ancora si riuscirà e mantenere l'islam italiano (nelle sue diverse componenti) incostituzionalmente fuori dall'8 per mille? E le scuole private ispirate ad Allah e sostenute da finanziamento pubblico non sono ormai all'ordine del giorno?
(...) Infine, un accenno al merito dei suoi interventi. Lei, nella sua veste di card. Ruini, ha intimato ai fedeli di non andare a votare nel prossimo referendum. Tecnicamente, per chi vuole sconfiggerne i promotori, è la scelta più "furba". Poiché un'astensione del 30% in un referendum è ormai fisiologica, basta convincere due italiani su dieci a restare a casa e il referendum è sconfitto. Il referendum in quanto strumento, però, non solo il sì a questo referendum. Ma è sicuro che questa scelta "furba", che affossa di fatto l'istituto (perché in futuro tutti agiranno nello stesso modo, e convincere il 20% è alla portata di quasi tutti), sia anche lungimirante? Ha forse dimenticato che a voler l'introduzione del referendum fu proprio la sua Chiesa, per poter abrogare la legge che introduceva il divorzio? E se domani una maggioranza parlamentare introducesse altre leggi in contrasto con il diritto "naturale" (posto che come tale riesca ad argomentarlo, da professor Ruini, non da cardinale) non sarà il referendum uno strumento di tutela anche per il cittadino Ruini?
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