martedì 11 gennaio 2005

citato al lunedì: fecondazione
il prof. Severino contro il prof. Reale

L'ARTICOLO DI SEVERINO DEL 6.11 È STATO CITATO AL LUNEDI

Nel giorno in cui il Corsera pubblica la notizia che il Governo ha deciso di chiedere alla Corte costituzionale di proibire il referendum sulla fecondazione, il giornale pubblica a pagina 10 due opinioni filosofiche contrapposte sull'embrione, quella del filosofo cattolico Giovanni Reale, e quella di Emanuele Severino. Dal momento che entrambi prendono le mosse da un altro articolo di Severino, apparso il 1 dicembre 04. Lo ri-pubblichiamo dunque per primo.

Corriere della Sera 1 dicembre, 2004
L'EMBRIONE E IL PARADOSSO DI ARISTOTELE
di Emanuele Severino


È di domenica la notizia che la Svizzera approva la ricerca sulle cellule staminali umane tratte dagli embrioni soprannumerari. E tra poco in Italia si aprirà la discussione su questo problema relativamente al referendum sull’uso delle cellule staminali. È allora il caso di avviare, con calma, la riflessione su questa importante e delicata questione. Molti sostengono che l’embrione è un essere umano. Ma, al di là delle intenzioni, la loro logica - se vuol esser coerente ai propri princìpi - spinge ad affermare che l’embrione non è un essere umano. Lo si può scorgere in base a un «argomento» decisivo, che non è mai stato preso in considerazione e che indico qui per la prima volta, con la speranza di farmi capire. Si crede comunemente che uomini e natura siano capaci di realizzare infinite opere e cose. Il bambino è capace di diventare adulto; l’alba è capace di diventare giorno. Alcuni secoli prima di Cristo il pensiero filosofico ha dato una interpretazione tale, del senso della capacità , che è rimasta alla base di ciò che l’uomo ha poi compiuto in ogni campo: politico, religioso, economico, artistico, giuridico, scientifico, culturale.
Con Aristotele è prevalso il principio che la capacità esiste anche prima di essere esplicata o messa in pratica. Un corpo è capace di cambiar luogo anche prima che lo cambi o che glielo si faccia cambiare; un bambino è capace di diventare adulto anche prima che lo divenga effettivamente. Aristotele ha chiamato «potenza» la capacità così intesa, e di una cosa capace di essere o di fare qualcosa ha usato dire che essa è «in potenza» tale essere o fare. Provi la scienza, o il cristianesimo (e tutto il resto), a compiere un solo passo prescindendo dal concetto aristotelico di «potenza».
Che l’embrione prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia essere umano in potenza - ossia qualcosa che in condizioni «normali» ha la capacità di diventare un essere umano - è un principio accettato sia da coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione sia già un essere umano. I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della «potenza».
Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia un esser-già-uomo , ma, appunto, un esserlo già «in potenza». Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia «in potenza» un essere umano, sia tuttavia un non-essere-ancora-uomo . In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio - e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della «potenza». Ma nel secondo caso ci si limita ad esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un’ipotesi sia pure altamente confermata. Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle ipotesi della scienza quella che dovrebbe essere la verità assoluta, cioè non ipotetica, del proprio insegnamento. In favore del carattere umano dell’embrione suona invece il principio che il suo esser uomo «in potenza» è il suo esser-già-uomo , sebbene, appunto, «in potenza». E se già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio.
Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo «in atto», dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico , ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto , allora, proprio perché «lo può» (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo , cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore). L’embrione - si dice - è in potenza un-esser-già-uomo . Ma, si è visto, proprio perché è «in potenza» uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo . È già uomo e, anche, è già non uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente.
Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo . Infatti - anche per coloro che pensano alla luce dell’idea di «potenza» - l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il color rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza, quell’esser già uomo che è necessariamente unito all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è già un uomo - non è cioè quell’esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo. Questo autentico esser uomo non è pertanto «contenuto» nell’unità potenziale dell’esser uomo e del non esser uomo: così come lo scapolo - l’uomo che non è unito a una donna - non è «contenuto» nell’ammogliato - cioè nell’uomo che invece è unito a una donna.
Non essendo, l’uomo, «contenuto» nell’embrione, non si può quindi dire che sopprimendo l’embrione si uccide l’uomo. Sia pure inconsapevolmente, ad affermare che l’embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio, son dunque proprio coloro che dell’embrione, alla luce dell’idea di «potenza», intendono essere gli amici più fedeli.

Corriere della Sera 6.1.05
L’embrione va difeso, è vita
Lo ha spiegato anche Aristotele
di Giovanni Reale


Emanuele Severino su questo giornale ha pubblicato un articolo dal titolo L'embrione e il paradosso di Aristotele , discutendo filosoficamente il problema sull'uso delle cellule staminali con alcune sue implicazioni e conseguenze di carattere metafisico e morale. L'articolo ha suscitato molto interesse, ma nello stesso tempo grandi perplessità e, in effetti, richiede una serie di precisazioni. Severino imposta il suo ragionamento sulla celebre dottrina aristotelica della "potenza" e dell'"atto". In potenza, secondo lo Stagirita, è ciò che ha in sé determinate caratteristiche con la connessa capacità di realizzarle, ossia di diventare di conseguenza un essere in atto. L'embrione (l'ovulo fecondato dallo sperma) ha in sé la capacità strutturale di diventare uomo e, quindi, è in potenza uomo.
Proprio partendo da tale concezione si sono formati due schieramenti fra di loro in netta antitesi. Infatti, alcuni intendono l'essere in potenza dell'embrione un "essere-già-uomo", altri lo intendono, invece, come un "non-essere-ancora-uomo". Per i primi, di conseguenza, la soppressione dell'embrione andrebbe considerata come una sorta di omicidio, per i secondi, invece, non potrebbe considerarsi tale, in quanto l'embrione è, sì, potenzialmente uomo, ma "non-è-ancora-uomo". Severino dà torto ai primi e ragione ai secondi, ritenendo questi ultimi "amici più fedeli" della teoria aristotelica della potenza e gli altri molto meno amici di essa. Egli ha in parte ragione, ma nel nucleo centrale del suo ragionamento cade in errore, come subito vedremo.
Ha ragione nel ritenere errato affermare - come qualcuno fa - che l'embrione sia un uomo (addirittura persona) già in atto e che siano, in potenza, solo le varie caratteristiche particolari dell'uomo che si attueranno nel corso dello sviluppo. In effetti, nell'embrione risulta essere in atto solo la struttura e, quindi, il progetto formale, che richiede una sua attuazione ontologica. Pertanto l'embrione è uomo appunto come "potenza" - sia pure in senso forte - ma "non-ancora-in-atto". Per poter affermare che l'embrione è già un uomo in atto, occorrerebbe capovolgere una delle strutture di base della metafisica aristotelica. (Si cadrebbe, in qualche modo, in quella posizione dei Megarici - i quali, ispirandosi all'ontologia eleatica, negavano la possibilità di distinguere la potenza dall'atto - che Aristotele espressamente confuta).
Severino ha invece torto (dal punto di vista della vera e propria dottrina aristotelica della potenza e dell'atto) quando afferma che, «se l'embrione può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché "lo può" (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non uomo, cioè qualcosa che uomo non è». In realtà, è contrario al pensiero dello Stagirita affermare che nell'embrione sia contenuta a un tempo la possibilità di essere "uomo" e "non-uomo". È contenuta la possibilità di diventare uomo e anche quella di non diventare uomo, morendo prima di nascere, ma non è affatto contenuta quella di diventare un "non-uomo" (per esempio un qualsiasi altro tipo di essere vivente). Per giustificare la propria tesi, Severino fa richiamo all'affermazione di Aristotele, secondo cui «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Ma, con tale affermazione, Aristotele fa riferimento non a caratteri essenziali, ma a caratteri accidentali; non alla sostanza o sostrato, ma a caratteri che ineriscono o che comunque si riferiscono alla sostanza: «Tutte le cose che si dicono essere in potenza sono, ciascuna, in potenza ambedue i contrari: per esempio, ciò, di cui si dice che può essere sano, è quel medesimo soggetto che può anche essere malato ed esso ha la potenza di essere malato e di essere sano allo stesso tempo. Infatti, la potenza di essere sano e malato è la medesima e, così, anche quella di essere in riposo e in movimento e quella di costruire e abbattere, di essere costruito e di essere abbattuto». Il soggetto cui si riferiscono tali caratteristiche (appunto la sostanza) rimane identico.
Il concetto di "potenza" non è certamente "deterministico" - come Severino dice giustamente - però non ammette deviazioni in senso formale e sostanziale. Aristotele precisa con chiarezza che ciò che si dice essere in potenza non può de iure non attuarsi in ciò di cui si dice essere in potenza; tuttavia, può non attuarsi di fatto, ossia empiricamente per ragioni contingenti (quindi, de iure, l'embrione non può non attuarsi come uomo). Le sue parole sono inequivocabili: «Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui è detta avere potenza non implica alcuna impossibilità» (nessuna impossibilità strutturale).
Di conseguenza, non regge la seguente conclusione che Severino trae: «Non si può quindi dire che sopprimendo l'embrione si uccide l'uomo». Infatti, sopprimendo l'embrione, si elimina la possibilità dell'attuazione di quell'essere potenziale di uomo incluso nell'embrione. Una precisazione va - a mio giudizio - in ogni caso fatta, ossia che quanto detto vale in modo particolare per l'embrione già situato in loco. Aristotele stesso chiarisce in maniera ben precisa la sua convinzione: «Le cose che hanno in sé il principio della generazione saranno in potenza per virtù propria, quando non vi siano impedimenti dall'esterno. Lo sperma, ad esempio, non è ancora l'uomo in potenza, perché deve essere deposto in altro essere e subire mutamento; invece quando, in virtù del principio suo proprio, sia già passato in tale stadio, allora esso sarà uomo in potenza».
Molti si sono stupiti che Severino faccia appello alle figure teoretiche della potenza e dell'atto, che non rientrano nel quadro categoriale parmenideo del suo sistema. Infatti, la dottrina della potenza e atto porta alle conseguenze estreme il "parricidio di Parmenide" iniziato da Platone (da lui presentato nel Sofista sotto la maschera del personaggio chiamato "Straniero di Elea") che si fonda su una concezione polivoca dell'essere, ossia sull'esistenza di differenti forme di essere. Ma, nell'articolo di cui discutiamo, Severino - per dirla con una metafora - "gioca fuori casa". Assume, cioè, figure tipiche della filosofia aristotelica diventate ormai un patrimonio della communis opinio . E proprio in questo gioco drammaturgico non assume quel rigore e quella coerenza che manifesta quando "gioca in casa", che è una dote di pochissimi filosofi. Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvila io penso che «la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza. La verità è somma di evidenze incoerenti» come la vita e la morte, l'essere e il non essere, il bene e il male.
Il mistero della vita e della morte costituisce un limite invalicabile per il pensiero razionale (sia per la scienza, sia per la filosofia). H. G. Gadamer diceva, giustamente, che per noi che siamo «viandanti sul confine fra l'al di là e l'al di qua» «soltanto i messaggi religiosi concedono la possibilità (...) di uno sguardo ulteriore» ossia di vedere qualcosa al di là della pura ragione. Con Sergio Quinzio sono convinto che «la verità cristiana può ancora inghiottire tutte le mezze verità del mondo» sia quelle filosofiche sia quelle scientifiche.

Corriere della Sera 6.1.05
No, secondo il pensiero occidentale definirlo così è contraddittorio
Il concetto di «potenza» secondo lo Stagirita costringe a negare che l’embrione sia un essere umano, sia pure potenziale
di Emanuele Severino


L’embrione è un essere umano? Il mio articolo sul Corriere NON intendeva mostrare come a questa domanda risponde il mio discorso filosofico. (Ho scritto più volte che la soppressione di ogni forma di vita umana è omicidio). Che cosa intendevo mostrare, allora, in quel mio articolo? 1) Che, al di là delle intenzioni di chi accetta il concetto aristotelico di «potenza», tale concetto costringe a negare che l’embrione sia un essere umano, sia pure potenziale; 2) Che tale costrizione sussiste perché il concetto stesso di «potenza» è contraddittorio, assurdo. La tesi è tutt’altro che familiare (ovvio che di primo acchito non la si capisca e la si rifiuti) e ha vaste implicazioni, perché il pensiero filosofico greco è il terreno in cui cresce l’intera storia dell’Occidente (cristianesimo incluso) e al centro del terreno appartiene appunto la riflessione di Aristotele sul senso della «potenza». Una gigantesca incoerenza guida dunque la nostra civiltà, che tuttavia, per essere potente, non ha bisogno né della verità, né della coerenza. Tutto questo molti non l’hanno capito. Al Corriere sono arrivate centinaia di e-mail; Giuliano Ferrara è intervenuto due volte sul Foglio , due volte il professor A. Pessina su l’ Avvenire . Ma con quell’articolo ha a che fare anche un recente testo della Commissione di bioetica dell’Accademia dei Lincei inviato a noi membri. Enrico Berti - uno dei nostri maggiori interpreti di Aristotele e cattolico - ha mandato una lettera al Corriere . Potrei continuare.
L’equivoco maggiore si è prodotto tuttavia a proposito dell’espressione, da me usata, «esser-già-uomo in potenza». Per Aristotele, ciò che è uomo in potenza è già un uomo, ma, appunto, lo è in potenza. Un gran numero di lettori (Ferrara compreso) ha replicato richiamando l’insegnamento della Chiesa che l’embrione è «uomo in atto» sin dal momento della fecondazione dell’ovulo della donna. Tuttavia la Chiesa, e i suddetti lettori, riconoscono che l’embrione non parla, non ragiona, non costruisce case, ecc. Ossia riconoscono che l’embrione è, in potenza, uomo «adulto». Ma che altro vuol dire l’espressione «essere-già-uomo in potenza» se non, appunto, che l’embrione è in potenza un adulto, cioè un essere che ha sviluppato le sue facoltà umane? Non aveva forse detto, il mio articolo, che secondo Aristotele l’essere in potenza uomo non significa «non essere ancora un uomo» (come invece accade, sul piano filogenetico nell’interpretazione evoluzionistica del concetto di «uomo-in-potenza», ma significa esser già uomo (che tuttavia che deve ancora sviluppare, cioè rendere attuali le proprie potenzialità)? E «ogni potenza - dice Aristotele (Metaph., IX, 8 ) - è insieme potenza di ambedue i contrari» (trad. G. Reale) «Ogni» potenza: non solo ciò che ha in potenza proprietà accidentali opposte, ma anche ciò che, non esistendo ancora, può diventare come non diventare una sostanza.
Ma è a questo punto che incomincia l’«argomento decisivo» (e certamente inedito) accennato nel mio articolo. Ne richiamo il senso centrale (invitando a rileggere il suddetto articolo). L’uomo che è in potenza adulto è già un uomo ma è anche già un non-uomo , perché, secondo Aristotele, invece di svilupparsi potrebbe morire ( e non perché - lo dico anche a Berti - possa diventare un gatto o una locomotiva). Un essere in potenza, e cioè un che di contraddittorio, di impossibile, di assurdo. Lo è l’embrione, ma lo è qualsiasi essere in potenza. Il concetto di «potenza» è un grandioso costrutto teorico della follia. Il divenire del mondo deve essere reinterpretato al di fuori della categoria della «potenza».
Ma, intanto, gli amici della «potenza» e dell’embrione debbono riconoscere che, proprio perché è qualcosa di contraddittorio, l’embrione non può essere né può diventare quell’esser uomo che per costoro è invece un ente incontraddittorio (questo discorso non va confuso, come invece lo è stato, con la banale ed errata critica al concetto di «potenza», per la quale sarebbe contraddittorio essere in potenza uomo, e non esserlo in atto), e debbono riconoscere che la soppressione dell’embrione non è omicidio.
Berti - per il quale «l’embrione è certamente uomo in potenza» - condivide sostanzialmente, mi sembra, quanto ho scritto sul concetto aristotelico di potenza. (Aspetto però che si pronunci sulla tesi della contraddittorietà di tale concetto). Si aggiunga che per Aristotele lo sperma deve esser deposto in altro», cioè nell’utero della donna, e che solo «allora esso sarà l’uomo in potenza» (Metaph., IX, 7). Un ente unitario che sia uomo in potenza, e che non può essere sperma e ovulo separati, ci deve pur essere da qualche parte, perché altrimenti non potrebbe mai realizzarsi l’uomo in atto. (Ci pensino i critici come il prof. Pessina).
Su san Tommaso la chiesa fonda buona parte del proprio pensiero filosofico-teologico. Ma egli ritiene che per Aristotele esser uomo in potenza significhi essere animale in atto, e condivide pienamente questa tesi: «Nel tempo il feto è animale prima di essere uomo» (prius tempore est fetus animal quam homo ) e pertanto «il corpo umano... che precede temporalmente l’anima... non è umano in atto, ma solo in potenza» (Summa contra gentiles, II, capp. 86-89). Su questi punti la chiesa ha preso le distanze da Tommaso; ma si tratterebbe di vedere con quanta coerenza. Comunque, problemi non miei, questi, ma degli amici della «potenza».

L'Unità:
a proposito dei test psicologici per gli aspiranti magistrati

L'Unità 11.1.05
MALE PER LA PSICHIATRIA, MALE PER LA GIUSTIZIA
Olga Pozzi Giovanni De Renzis Fausto Petrella*


Il documento che segue, che in pochi giorni ha raccolto moltissime adesioni, era stato pensato come momento di pressione critica nei confronti di quel particolare punto della Riforma della Giustizia che prevede l'uso di test o colloqui psicoattitudinali, per la selezione dei candidati ai concorsi di magistratura. Nel frattempo, con una rapidità che non corrisponde agli standard cui siamo abituati, il Parlamento ha approvato il decreto che contiene tra l'altro l'attivazione di quelle procedure. Secondo una mera logica di tempestività giornalistica, tutta questa iniziativa dovrebbe, a questo punto, venir considerata come ormai "inattuale", essendo di fatto superata dagli eventi.
Ci sembra, al contrario, che essa, se possibile, acquisti ora più chiaro significato e valore: certo nessuno avrebbe potuto credere che un'opposizione, per quanto ampia e qualificata, espressa dalla nostra parte, avrebbe potuto incidere sugli obiettivi delle parti politiche e sui rapporti di forze attualmente esistenti tra di loro. Il senso del messaggio contenuto nel documento deve perciò essere inteso come rivolto innanzitutto alla coscienza critica degli operatori nel mondo psy, più che "immediatamente" a interlocutori politico-istituzionali: ciò che in esso si intende difendere è l'autonomia della nostra cultura professionale, prima ancora che quella della magistratura.

Testo del documento
Sull'art. 2, comma 1, lettera c del Disegno di Legge Castelli. Sappiamo quanto sia stato e continui a essere ampio e aspro il dibattito sul progetto di riforma della Giustizia preconizzato dal ministro Castelli e consegnato nel Disegno di Legge a firma dello stesso Castelli e di Tremonti, che sta per concludere il suo iter parlamentare. Non è ovviamente nostro còmpito esprimere pareri, né tantomeno convinzioni, che pure, come cittadini, soggettivamente abbiamo e personalmente difendiamo, sulla complessità del provvedimento. Sentiamo però l'esigenza e perfino la responsabilità, di dover dichiarare pubblicamente la nostra più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione per quanto previsto all'art. 2, comma I, lettera c del succitato Disegno, relativamente all'introduzione, nei concorsi di magistratura, di test o colloqui, propedeutici alle prove orali o nell' ambito delle stesse "di idoneità psicoattitudinale all'esercizio della professione di magistrato, anche in relazione alle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione".
La nostra critica è "tecnica" prima ancora che "politica", se e per quanto possa ritenersi sensato distinguere questi due livelli a proposito delle enormi questioni di fatto implicate nelle poche righe del DdL sopra riportate. E' noto, non solo agli addetti ai lavori, come Psichiatria e Psicologia da un canto, Giustizia dall'altro rispondano, nel tessuto della vita delle comunità, a esigenze sociali e personali fra le più rilevanti e delicate, e talvolta anche complementari, che impongono interventi necessari ma di difficilissima gestione, fin nelle sfere più intime della soggettività umana. Ma proprio perciò risulta necessario che questi còmpiti, tanto impegnativi e responsabilizzanti, non inducano a pervertire le utili complementarità in pericolose commistioni.
E' ugualmente noto, in particolare nella storia recente del nostro paese, come sia stata necessaria una lunga battaglia di forte spessore etico culturale, e mai davvero definitivamente conclusa, per affrancare da un'impropria sudditanza alla categoria della pericolosità sociale le forme più diverse di sofferenza e disagio psichico: una legge che costringeva gli operatori pubblici della salute mentale ad avvilire il proprio operato in quella funzione di controllo sociale, che Foucault, con una formula ormai celebre, sintetizzò nei termini di "sorvegliare e punire".
Il "disegno di legge" sembra oggi proporre una nuova, ribaltata ma altrettanto impropria, commistione: dovrebbero essere questa volta i magistrati, se venisse approvato questo inquietante punto qui discusso,a dover essere "sorvegliati" (ed eventualmente "puniti") da un controllo demandato a una competenza psicologico-psichiatrica, nella presupposizione di una capacità "scientifica" di discriminare, attraverso test o colloqui, la specifica "idoneità psicoattitudinale" degli aspiranti magistrati, addirittura "in relazione alle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione". E' doveroso chiarire che nessuno, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione; e questo non per una attuale insufficienza dei nostri strumenti di indagine, ma in ragione di piu cogenti criteri metodologici, che impediscono anche soltanto di "fantasticare" costruzioni di griglie riduttive atte a testare ideali, motivazioni, passioni, interessi come se si trattasse di mere capacità oggettivamente standardizzabili. Ne conseguirebbe che gli "esperti" esaminatori (da chi scelti, secondo quali criteri?), non avendo alcun ancoraggio "scientifico" per validare i propri "giudizi", si troverebbero, nella migliore delle ipotesi, in balia di suggestioni empatiche e intuitive; o, più facilmente, indotti a surrogare la mancanza di appropriati criteri ordinativi nella propria "disciplina" di competenza con un "disciplinato" affidamento, se non proprio con la subordinazione, all'ordinamento politico del momento. La legittimità dell'operato di simili "esperti" correrebbe così il rischio di vedersi risolta nell'adeguamento delle proprie risposte "diagnostiche" all'aspettativa di quella domanda "politica" che li ha cooptati come suoi "funzionari". Il risultato di tutto ciò sarebbe, con tutta evidenza, negativo per la psichiatria, per la psicologia, e altrettanto inopportuno e sfavorevole per la magistratura, per la giustizia, per la cultura e la civiltà del nostro paese.
* Il testo proposto da Olga Pozzi, Giovanni De Renzis, Fausto Petrella ha già raccolto duecento adesioni: i firmatari appartengono alla Società Psicoanalitica italiana; alla Società italiana di Psicoterapia Psicoanalitica; alla Associazione Italiana Psicologia Analitica; alla Associazione Italiana di Psicoanalisi; sono pervenute anche adesioni a titolo personale.

sull'embrione

L'Unità 11.1.05
VEDI ALLA VOCE EMBRIONE
Paolo Prodi


Quando la confusione raggiunge il massimo la cosa più opportuna è prendere le distanze dalle parole che vengono strumentalizzate in tutti i sensi nelle polemiche quotidiane. Non ho nessuna competenza scientifica né il mestiere dello storico mi autorizza ad intervenire in un dibattito sulla scienza genetica: forse però il mestiere mi insegna a prendere le distanze dal suo uso politico distorto. Se uno rimane all'interno della cronaca di questi ultimi mesi, nel breve periodo, c'e da rimanere allibiti.
Una legge su questa tematica, la cosiddetta legge 40, che tocca il problema della nascita dell'uomo, viene varata con passaggi strani tra maggioranza e minoranza, in modo confuso e contraddittorio, senza tener conto che le ricerche e le sperimentazioni genetiche non possono più essere controllate all'interno delle frontiere, con una legge statale, in un mondo globalizzato. Contro questa legge è stata avanzata una giusta richiesta di referendum abrogativi, giusta perché si tratta di una questione che per natura sua non ha nulla a che fare con le obbedienze politiche.
In questi giorni abbiamo assistito alla riappropriazione della legge da parte del governo il quale si schiera a difesa della legge nel dibattito sull'ammissibilità dei quesiti referendari presso la Corte costituzionale. Le contraddizioni esplodono così in tutta la loro violenza: chi è schierato con l'opposizione e a favore del referendum abrogativo e quindi delle manipolazioni genetiche (nonostante singoli pronunciamenti in contrario); chi è di destra è a favore dell'intangibilità della persona umana sin dal suo concepimento. Pazzesco. Il tutto con conseguenze che vanno a riflettersi nella nostra piccola Italietta sui risultati delle prossime elezioni regionali e politiche e che nel grande mondo si ripercuotono a sostegno dei valori dei neo-con, delle nuove religioni civiche contro i radicali (che allo stesso mondo liberista di destra appartengono).
Se dal ritmo convulso della cronaca, dal tempo breve, passiamo ad un tempo medio esaminando il problema delle manipolazioni genetiche alla luce dei dibattiti degli scorsi decenni la confusione non diminuisce: si ricreano gli schieramenti confessionali e laici (intesi nel senso di non appartenenti alle Chiese) con fossati che credevamo superati da tempo. Cattolici contro laici: da una parte i dogmatici, per natura loro conservatori e contrari alla modernità, e dall'altra i libertini aperti alle scoperte della ragione e della scienza. Qualche mente illuminata a dire il vero, come Jurgen Habermas, ha fatto presente che non si tratta di questo, che queste diatribe tra neoilluministi e sostenitori delle confessioni religiose hanno fatto il loro tempo: qui si tratta - ha spiegato con grande saggezza - non di una disputa tra illuministi e anti-illuministi ma del futuro dell'uomo occidentale. I pensatori nostrani continuano invece a discettare aristotelicamente su ciò che distingue l'embrione come uomo "in potenza" dall'uomo "in atto". Bene. Di fronte a questo io propongo di fare un esercizio di ginnastica saltando indietro di alcuni secoli e poi avanti nel futuro prossimo. Non ci farà male: al massimo si tratta di una ginnastica intellettuale che ci allontana dalla confusione di oggi. Siamo nel 1211. Il priore e i monaci di una certosa si rivolgono al papa Innocenzo III per esporre il caso di un loro confratello che essendo responsabile dell'aborto di una donna da lui messa incinta siera autosospeso dal servizio dell'altare: decida il papa; Innocenzo III risponde che se il concepito non era ancora vivificato ("si nondum erat vivificatus conceptus") il monaco avrebbe potuto continuare a servire all'altare, in caso diverso avrebbe dovuto astenersi (per il controllo dei competenti la lettera di Innocenzo III è entrata a far parte delle Decretales, X, 5, 12, 20). Appoggiandosi alle conoscenze diffuse nelle università e nel pensiero filosofico scientifico di allora la Chiesa romana distingueva tra il momento del concepimento e il momento della "vivificazione" che avveniva qualche settimana dopo il concepimento stesso. Da quest'episodio lontano penso si possa partire per rovesciare una quantità di luoghi comuni e fornire alcuni chiarimenti per l'oggi. Il primo è che la Chiesa romana allora come oggi segue la scienza e non la determina (anche se ovviamente con momenti di tensione e di attrito): è la scienza che nei secoli successivi ha acquisito il principio dell'identificazione tra concepimento e "vivificazione". La seconda osservazione importante è che non si parla di "vita" in astratto ma si parla di embrione "viviflcatus": nella Bibbia e nella religione ebraico-cristiana non si parla mai di vita come sostantivo astratto ma di "vivente", di rispetto per il vivente: Dio è il Vivente per eccellenza; del Dio Vivente l'uomo è l'immagine e quindi come tale sacro. La vita come astrazione non esiste.Facciamo allora un salto in avanti nel tempo. Il mestiere dello storico non mi autorizza a questo ma fornisce un discreto allenamento: non certo alla profezia ma alla consapevolezza che le cose sono statediverse nel corso dei tempi e quindi lo saranno anche in futuro. Forse non dovremo aspettare secoli ma soltanto qualche decennio data l'accelerazione delle scoperte nel campo dell'ingegneria genetica. La medicina avrà certamente compiuto a metà di questo secolo molti progressi con le cellule staminali e ottenuti importanti risultati nella cura della sclerosi multipla e di altre malattie di origine genetica. Davanti alla commissione bio-etica provinciale (della AUSL o come si chiamerà allora) sipresenta nel settembre 2055 la sig.ra X. Y. (che ci sia o no il partner presente èpoco importante) che dice di volere un figlio con determinate caratteristiche: naturalmente con la eliminazione dei geni responsabili di particolari patologie, fisiche e psichiche (una pro-zia era schizofrenica), poi con indicazioni via sempre più propositive: intelligenza creativa, occhi azzurri, carattere forte, atletico, di temperamento non incline alla melanconia (del resto che differenza c'è tra malinconia e depressione se non per gli artisti?) ecc. Richieste lecitissime - tutto ciò che si può desiderare per un figlio - accolte dall'apposita commissione etica senza difficoltà: allora sarà ancora più facile ottenere le stesse cose in una clinica all'altro capo del mondo, senza alcun permesso, a pagamento maggiorato. Da tempo le delibere di salvauardia dalle malattie gravi: eliminazione degli embrioni contenenti deviazioni di carattere fisico e psichico sono diventate prassi normale e non rappresentano più un problema: dove starebbe il confine tra la patologia e la normalità e quindi il crinale tra la riparazione e la sostituzione dei geni?
Dopo 25 anni, nel 2080, il nuovo nato, così programmato, uccide un suo amico o vince un premio Nobel (dal mio punto di vista è la stessa identica cosa). La conseguenza è che l'uomo come lo conosciamo adesso, responsabile delle sue azioni, delle scelte tra il bene e il male non esiste più: il suo futuro è stato programmato nelle sue linee essenziali e sarà sottoposto soltanto alle variabili casuali. Non potrà essere certo giudicato colpevole o meritevole da nessuna giuria umana degna di questo nome. Come può essere responsabile delle sueazioni?
Roba da altro mondo. Oppure da un mondo terribile che abbiamo già sperimentato: la eugenetica nazista sta rispetto a questo mondo possibile che si preannuncia come l'alchimia sta alla chimica: era solo una tecnologia genetica allo stadio infantile. Non credo nello scienziato giudice o commissario etico eviceversa che possano giudicare della vita e della morte. Potremo riprendere questo discorso da un altro punto di vista, ad esempio riguardo alla pratica dell'eutanasia. La costante è sempre - questo purtroppo lo insegna davvero la storia - che chi ha il potere (e i mezzi che il potere stesso fornisce) potrà ottenere cio che è reso possibile dalle nuove scoperte e se ne servirà per se stesso e per dominare gli uomini. Per gli altri c'è - quando va bene - la mutua: se non diventa troppo costoso per un sistema economico mantenere gli inabili e gli anziani oltre una certa età.
Il problema quindi esiste. Non immiseriamolo né in senso politico né in senso confessionale. Lasciateci votare per i referendum in coscienza senza identificare il voto con una parte politica o con un'adesione confessionale. Anche coloro che i referendum li hanno indetti non ci costringano a non votare. Per favore.

Tullio Regge
«la scienza non è sapere»?
cosi disse Heidegger, un nazista

Le Scienze gennaio 2005
L'opinione
I nipotini di Heidegger
Tullio Regge


Verso la fine di novembre, su «La Stampa» è stato pubblicato un elzeviro firmato da Lanterna Rossa, pseudonimo di un noto opinionista. La lettura mi ha lasciato sbigottito, ma anche indignato. La Lanterna cita come verbo assoluto una frase lapidaria di Heidegger: «la scienza non è sapere». Scoprire di essere un bieco scienziato ignorante assieme a tanti onorati colleghi – essi pure ignoranti – mi deprime. Ma subito sorgono i dubbi sulle credenziali del filosofo. Heidegger, nazista iscritto e certificato, sarebbe maestro di sapere e di saggezza? Non mi preoccupa tanto il livore di un filosofo politicamente screditato, quanto il permanere di sentimenti antiscientifici nella cultura non solo italiana. La polemica contro la scienza pare abbia avuto inizio come reazione alla riforma della scuola in Germania operata da Humboldt all'inizio dell'Ottocento. La riforma pose grande enfasi sulla cultura scientifica, cardine del formidabile sviluppo tecnologico di quel paese, ma proprio il suo successo scatenò reazioni indesiderate. Ricordo molto bene gli anni delle elementari, della scuola media e infine del liceo scientifico, quando la scienza era relegata in terza fila dalla famigerata riforma Croce-Gentile. Durante l'era fascista, «cultura» era esibire un latino maccheronico, la censura sugli interessi scientifici del Leopardi (che ne aveva, e molti) e naturalmente osannare l'impero romano e il Duce. Ricordo le ore passate a studiare a memoria il Piemonte del Carducci. Lo detesto ancora. Anni or sono mi fu riferito un aneddoto significativo che varrebbe la pena di controllare. Negli anni trenta ci fu un incontro tra Fermi e Croce in cui lo scienziato illustrò al filosofo l'attività del gruppo di Roma. Pare che, uscito Fermi, il primo commento di Croce sia stato: «ingegneria», ossia il lapidario «la scienza non è sapere» caro a Lanterna Rossa. I seguaci di Heidegger sono ancora tra noi: le odierne e scomposte reazioni contro nucleare, elettrosmog, OGM e terapia genica sono espressione del permanere di un sentimento antiscientifico a livello popolare. Sarebbe un errore sottovalutare questo sentimento, ma anche rispondere a insolenza con insolenza. Dobbiamo aprire un dialogo e ragionare assieme, compito quanto mai arduo. Recentemente ho partecipato, assieme ad alcuni colleghi, a una serie di trasmissioni televisive dedicate al tema ambientale e centrate su argomenti controversi. Lo schermo ci ha mostrato folle e politici di vario calibro che gridavano invettive contro OGM, elettrodotti, centrali nucleari e radioattività sparsa nei mari dai sommergibili statunitensi. In tutti questi casi, si tratta si argomenti che vanno affrontati seriamente, con onestà e, ove occorre, severità. Purtroppo però tra chi manifesta e il mondo scientifico non c’è alcun dialogo, dialogo che invece sarebbe quanto mai necessario in un momento in cui un’Italia impreparata dovrà affrontare a breve termine una crisi energetica planetaria. Immanuel Kant era affascinato dal cielo stellato. La scienza è sapere, ma anche sviluppo tecnologico che va gestito per il bene comune. L'ostilità nei confronti del mondo scientifico è anche colpa nostra e di una cattiva gestione della nostra immagine. Smettiamola di darci arie, e cominciamo finalmente a parlare con le persone: con chiarezza ma senza spocchia.
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crimini cattolici
la documentazione sulla Inquisizione

...ma è già stata censurata dai preti!

Repubblica, cronaca di Napoli 11.1.05

L'INVENTARIO DELL'INQUISIZIONE NAPOLETANA
Pierroberto Scaramella


Nella Facoltà di Teologia in viale Colli Aminei è stato ieri presentato il primo volume di inventario dei documenti conservati nel Fondo Sant'Ufficio (Inquisizione) dell'Archivio storico diocesano di Napoli. Il volume, curato da Giovanni Romeo, professore di Storia moderna all'Università Federico II, è stato presentato - alla presenza del cardinale Michele Giordano che ne ha scritto la prefazione - dal professor Mario Del Treppo, emerito della Federico II, e dal dottor Johan Ickx, olandese, archivista della Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, dove sono gli archivi centrali della Inquisizione romana. Ha moderato il professor Ugo Dovere, docente di Storia della Chiesa all'Università Suor Orsola Benincasa.
L'apertura, nel 1998, dell'archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, ex Sant'Ufficio, ha prodotto, in questi ultimi anni, un notevole numero di studi dedicati al funzionamento dei tribunali della Congregazione della Santa Romana Inquisizione. Sin da subito, però, gli studiosi si sono accorti delle pesantissime perdite subite dall'archivio, a cominciare dalla mancanza quasi totale di atti processuali. Sono proprio queste lacune a rendere oggi ancor più importante la pubblicazione della prima parte del corposo inventario delle carte inquisitoriali napoletane, contenuto in un numero unico della rivista Campania Sacra. In corso di elaborazione è il secondo volume, che abbraccerà dalla metà del Seicento alla metà del Settecento.
Romeo è uno dei più autorevoli studiosi dell'Inquisizione romana. I suoi studi, dal più volte ristampato "Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma" al recente "L'Inquisizione nell´Italia moderna", sono un punto di riferimento obbligato per la comunità scientifica. Il fondo napoletano si presenta oggi, grazie a questo inventario, come la più importante fonte locale per lo studio del funzionamento e delle attività dei tribunali di fede in Italia. Sono finora circa 3000 atti processuali. Uno dei vantaggi dei criteri adottati dal curatore è la precisa identificazione della natura dei singoli procedimenti (divisi tra processi formali, processi sommari, denunce e inchieste), dei delitti perseguiti e delle persone finite nel mirino degli inquisitori. Un fittissimo indice dei nomi permette inoltre incroci rapidi e comodi con altre fonti. Le cause più antiche concernono le emergenze antiereticali. A esse si deve aggiungere una massa documentaria imponente. Si va dalla repressione della stregoneria e delle pratiche magico-diaboliche alla lotta contro le superstizioni, dai processi contro i giudaizzanti e gli apostati all'Islam (i rinnegati) al controllo dei libri e delle immagini proibite, dalla sollicitatio ad turpia (l'adescamento delle donne in confessione) alla simulazione di santità, dai processi per bigamia alle verifiche sull'ortodossia degli stranieri che vivevano o capitavano a Napoli.

santi e demoni

La Stampa 11.1.05
UN LIBRO AL GIORNO
Quando il demonio scherza con i santi
di Lorenzo Mondo


SANTI posseduti dal Demonio? I fenomeni inspiegabili di cui sarebbe stato oggetto Padre Pio da Pietrelcina e che egli attribuiva ad «aggressioni» diaboliche, hanno riportato l'attenzione su una lunga, secolare casistica. Su questa si è esercitata l'ironia degli spiriti volteriani ma anche la prudenza della Chiesa che, pur ammettendo la veridicità di certe esperienze, si è ben guardata dall'enfatizzarle. Marco Tosatti, vaticanista di lungo corso alla Stampa si è interessato alla materia, fortemente indiziata di parentela con la patologia, assumendo un atteggiamento scevro da pregiudizi creduli o scientisti. Certo è più facile accedervi a chi sia persuaso che esiste nel mondo un attivo principio del male. Ma resta il fatto che una disamina rigorosa, proprio mentre dimostra la rarità di eventi eccezionali riferibili al demoniaco, sembra dimostrarne nello stesso tempo l'esistenza. Ci sono figure straordinarie per elevatezza spirituale che affermano di essere state sottoposte alle più crudeli vessazioni fisiche e morali. Attraverso tentazioni, ossessioni e possessioni che si esprimono con il crudo linguaggio del blasfemo e dell'osceno. Fino a incorrere in accuse di stregoneria, a disperare della propria salvezza, a sfiorare il suicidio. Questi supplizi sarebbero stati provocati da potenze malefiche insofferenti delle loro virtù, e permessi da Dio per saggiarne la perfezione. E' la spiegazione che si è cercato di dare a fatti che restano misteriosi, non soltanto nelle abnormi manifestazioni esteriori, ma nel loro vero significato.
Nel suo libro Tosatti, dopo un inquadramento storico e teologico, si limita a toccare di passata i personaggi più illustri, da Santa Teresa d'Avila a Maria Maddalena de' Pazzi, a Giuseppe da Copertino, al Curato d'Ars. Concentra invece il suo racconto su tre santi pressochè sconosciuti, attingendo alle testimonianze, di per sè vivacissime, di «vite», diari, lettere, resoconti di confessori. Sono vicende che si svolgono nel Duecento, nel Quattrocento e nell'Ottocento. La beata Cristina di Stommeln, una «beghina» tedesca, ebbe in sorte di essere bersagliata da innominabili sozzure, quasi per sporcarne l'anima. Di lei si occuparono con diverso contegno - tra l'ammirazione e lo scetticismo - Huysmans e Renan. Eustochio da Padova fu generata da una monaca. Affidata in tenera età al convento della madre, sembrò espiarne le colpe con le pratiche ascetiche e la lotta contro i raggiri diabolici. Un agiografo racconta che «arrivò persino a tenersi caro il suo demonio, e a temere di perderlo solamente perchè serviva a tenerla più umile». Mariam Baouardy, nata nella Palestina dell'Impero ottomano, diventò suora carmelitana e fondatrice di monasteri fin nell'India. La «piccola santa araba», che opponeva agli assalti del Maligno visioni paradisiache, è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Tre storie che, senza indulgere a toni da «legenda aurea», vengono proposte alla riflessione, a incrinare la fede positivista che per oltre dieci secoli tutti, ma proprio tutti i posseduti «si siano messi d'accordo, da tutti i punti del mondo, per ammettere le stesse manifestazioni diaboliche, raccontarle e presentarle come vere».

sinistra
Paolo Franchi ed Enrico Marro sul Corriere

Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 11.1.05
Paolo Franchi su Bertinotti, in prima pagina

C'è stato un tempo, non lontanissimo, in cui tutti o quasi i dubbi e gli interrogativi, sotto l'Ulivo, riguardavano Fausto Bertinotti, e i mille problemi che avrebbe comportato la stipula, con Rifondazione comunista, di un patto per governare resistente e accettabile anche per gli elettori moderati. Poi di tutto questo si è parlato sempre meno. Perché l’epicentro della litigiosità si è spostato nella zona centrale dell’Alleanza. È perché Bertinotti ha il suo congresso. Un congresso molto difficile, in cui alla mozione del segretario se ne contrappongono ben quattro di opposizione. Ieri Bertinotti, che tutto è fuorché un acchiappanuvole, ne ha parlato in una bella intervista rilasciata, per l' Unità , a Simone Collini. E ha detto cose assai chiare, facendo ricorso a un lessico che, se questi aggettivi non lo offendessero, si potrebbe definire maggioritario e persino decisionista. Per cominciare: «Io non sono un segretario di sintesi», «il congresso decide con il 51%», un consenso più ampio è naturalmente ottima cosa ma non bisogna annacquare le scelte per guadagnarlo, perché «in ogni caso vale la democrazia». E dunque chi ha una maggioranza, anche risicata, su una linea politica deve guidare il partito su questa linea.
Questa maggioranza Bertinotti se la guadagna sul campo, prendendo di petto (prima di tutto con la scelta della non violenza) questioni identitarie cruciali per Rifondazione comunista e, nello stesso tempo, indicando una scelta netta, non negoziabile, per quella che una volta si chiamava (e sarebbe bene si chiamasse ancora) la prospettiva politica. Una scelta (attenzione) che non consiste necessariamente nell'ingresso al governo. «Una sola cosa non esiste: la desistenza. Bisogna lavorare per costruire un programma comune» per battere Berlusconi, replica agli oppositori, convinti invece che, con il centrosinistra, si dovrebbe cercare al massimo un accordo simile a quello (di desistenza, appunto) stipulato nel '96. Un accordo che valse a Romano Prodi la vittoria, certo, ma, due anni dopo, anche il licenziamento anticipato. Il suo congresso, è chiaro, Bertinotti lo vincerà. Lo sa lui, lo sanno i suoi avversari interni che, come tutta Rifondazione, di lui non possono fare a meno. E lo sanno pure Prodi e i partner riformisti dell'Ulivo. Che hanno tutti i motivi al mondo per esserne felici e contenti, meno uno. Perché i problemi veri si presenteranno proprio quando Bertinotti avrà raccolto, com'è giusto, i frutti di una battaglia dichiarata, combattuta e vinta. Cominceranno nelle famose primarie, che il leader di Rifondazione vuole come Prodi, ma per parteciparvi e per pesare attorno al suo nome la forza della sinistra più a sinistra. E si faranno più spinosi quando si tratterà di mettere a punto un programma che, avverte già ora Bertinotti, «non è un pranzo di gala, ma un processo politico, in cui c'è il consenso e c'è il conflitto». La partita è difficile. Ma la sua strategia e i suoi tempi Bertinotti li ha calibrati bene. Non sarebbe facile sostenere la stessa tesi a proposito di molti suoi interlocutori.

Corriere della Sera 11.1.05

Bertinotti a Monti: grazie ma alla concorrenza preferisco la programmazione
di Enrico Marro


ROMA - «Mario Monti, nell’editoriale pubblicato domenica dal Corriere della Sera, pone a Rifondazione comunista una domanda così precisa che merita una risposta altrettanto precisa».
Prego.
«L’ex commissario europeo - dice il leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti - domanda se il nostro partito "ritiene che nella politica della concorrenza si possano cogliere sufficienti meriti distributivi da giustificare il rigore che la politica della concorrenza deve avere". La risposta è no. Un no tanto fermo quanto cortese».
Perché no?
«In un certo senso la risposta è contenuta nello stesso articolo di Monti, quando dice che il potenziamento della politica della concorrenza dovrebbe essere il perno della politica di un governo che si consideri liberale. Vero, ma proprio per questo non può essere il perno di uno schieramento che si propone di essere alternativo a quello di centrodestra».
Solo questo?
«No. L’assolutizzazione della concorrenza in realtà produce un aumento delle contraddizioni nella società e la crisi della sua coesione. Vorrei capire in che cosa una corretta regolazione dei rapporti di competizione è in grado di affrontare il problema di chi, per esempio, si trova in una condizione di disoccupazione strutturale. Quindi dico no a Monti perché gli interessi tali da qualificare una società risultano esclusi o scarsamente influenzati da questa regolazione. Del resto è stata falsificata la tesi secondo la quale la concorrenza determina una efficiente allocazione delle risorse. L’Europa è diventata sempre più simile agli Stati Uniti, ma vive un declino».
Sta dicendo che è meglio la non concorrenza?
«No, che è meglio la programmazione. Il campo della concorrenza deve essere iscritto in un progetto di società in cui altri fattori debbono essere mobilitati per raggiungere questi obiettivi che la concorrenza non raggiunge».
Per esempio?
«È giusto regolare la concorrenza tra chi vende le acque minerali, ma questo non risolve il problema che tutti i cittadini del mondo e poi d’Europa e poi d’Italia dispongano del bene naturale dell’acqua. Per portare l’acqua in Sicilia ci vuole una mano pubblica».
Lei invoca la programmazione. Indichi anche un’esperienza storica dove questa sia stata un successo.
«Perché devo farlo? Io sto dicendo che dobbiamo provarci, perché veniamo da 15 anni di progressiva occupazione di spazi da parte del mercato e della concorrenza senza che questo abbia prodotto una rinascenza, ma un declino. L’assolutizzazione della concorrenza ha messo in scacco la politica. Non solo. Ha prodotto anche un dumping sociale che trascina verso il basso la condizione dei lavoratori. Detto questo, io penso che ci voglia l’Antitrust e che debba essere forte e autonoma».
Che giudizio dà della presidenza dell’Antitrust di Giuseppe Tesauro che sta per concludersi?
«È stato bravo. Il suo bilancio è significativo. Sono preoccupato perché queste esperienze rischiano di essere travolte da una logica di riduzione dell’autonomia attraverso una dilatazione dello spoils system che alla fine porta a un grande monocolore dell’esecutivo».
Lei chi vedrebbe bene come successore di Tesauro?
«Se lo dicessi gli farei del male. Quello che invece voglio dire è che il sistema attuale di designazione non va bene perché è erede di una condizione dove i presidenti delle due Camere erano uno espressione della maggioranza e l’altro dell’opposizione mentre oggi non è più così».
E quindi?
«A me piacerebbe, per un gentlemen’s agreement, che ogni maggioranza attribuisse a personalità interne all’opposizione la presidenza delle maggiori Autorità, sicuramente quella dell’Antitrust e quella delle Comunicazioni».

sinistra
Rifondazione: polemica sulle tessere

La Stampa 11 Gennaio 2005
IN VISTA DEL CONGRESSO NAZIONALE DEL PARTITO
Rifondazione, polemica sulle tessere


Alla vigilia dei primi congressi di circolo, che determineranno i rapporti di forza all'interno di Rifondazione comunista in vista del sesto congresso nazionale che si terrà la prima settimana di marzo scoppia il «caso» tesseramento. Ad alzare la voce contro una presunta «corsa» alle iscrizioni proprio a «fini congressuali, sono le quattro mozioni che hanno deciso di sfidare Fausto Bertinotti. Le opposizioni nel Prc denunciano il rischio che il segretario «in difficoltà» e con una maggioranza sul filo del rasoio, voglia vincere con «qualsiasi mezzo» anche con i «pacchetti di tessere». Bertinotti però tira dritto e all'Unità dice: «È chiaro che il congresso decide con il 51%. Se si supera il 50% vuole dire che il consenso c'è, punto». Il dato che fa gridare gli oppositori allo scandalo era stato reso noto nei giorni scorsi da Francesco Ferrara: gli iscritti 2004 che voteranno per il congresso sono circa 97 mila 500. Ma, insorgono gli oppositori, questo vuole dire quasi 12 mila tessere in più, rispetto alle 85 mila 770 del 2003, ovvero un più 13,5% e con picchi di crescita «abnormi» in circa 15 federazioni di 6 o 7 regioni del centro-sud.

il nuovo libro di Margherita Hack

L'Unità, 10.1.05
Hack è tra gli scienziati più noti e simpatici al grande pubblico. Se si legge "Qualcosa di inaspettato", il nuovo libro in cui racconta la sua vita e le sue scelte, si capisce perché
VIVERE CON RAGIONE E PASSIONE, IL SEGRETO DI MARGHERITA
Pietro Greco


Margherita Hack, la signora delle stelle, è uno dei personaggi del mondo della scienza più noti al grande pubblico. Certo è la più simpatica. E se leggete il suo libro più recente, "Qualcosa di inaspettato", (Laterza), capirete perché.
Il nuovo libro è un lungo racconto della sua vita e del suo modo di intendere la vita costruito in collaborazione con Mauro Scanu, un giovane giornalista scientifico. In questo suo narrarsi, Margherita Hack rivela il segreto della sua notorietà e della sua simpatia. Un impasto di elementi semplici, anche se spesso inaspettati rispetto allo stereotipo che il grande pubblico ha dello scienziato (e, soprattutto della scienziata).
Gli elementi semplici con cui Margherita Hack ha costruito la sua vita e la sua visione della vita sono due: la ragione e la passione. Inutile dire che questi due elementi non sono affatto in contraddizione. E che in ciascuno di noi sono sempre presenti. Tuttavia in Margherita Hack sono presenti con una certa radicale purezza in ogni e ciascun aspetto della sua vita. Quando incontro e pratica l'astronomia, alla ricerca di "qualcosa di inaspettato". Quando incontra e sposa Aldo, il compagno della sua vita. Quando incontra e si batte contro l'astrologia (e tutta la lunga teoria che fanno della superstizione una delle culture popolari più diffuse persino nell'Occidente illuminista). Quando scrive i suoi libri di divulgazione (una ventina e più) e partecipa a innumerevoli conferenze pubbliche. Quando arringa la folla, a Barcola (alle porte di Trieste) per "salvare le balene". Quando esplicita il suo ateismo, nel pieno rispetto dei lavori religiosi. Quando, infine, si batte senza reticanza per affermare la sua visione politica del mondo.
In tutte e ciascuna di queste sue dimensioni - scienzata, moglie, intellettuale illuminista, divulgatrice, ecologista, politica - Margherita Hack esercita la sua passionale razionalità o, se volete, la sua razionale passionalità. Senza calcoli né ipocrisie. Con una radicalità che fa tenerezza. Ecco, in breve, qual è il segreto del successo e della simpatia che Margherita Hack suscita, meritatamente, presso il grande pubblico.
In questo suo raccontare e rivendicare un'umanità a tutto tondo - non solo scienziata, ma appunto moglie, intellettuale illuminista, divulgatrice, ecologista, politica - c'è una esplicita rivendicazione di normalità: "Pur avendo trascorso gran parte della mia vita a studiare il cielo - scrive - i miei piedi sono rimasti sempre ben piantati per terra. Rappresento una smentita abbastanza evidente di quel luogo comune secondo cui gli scienzati, e in particolare gli astronomi, sono totalmente disinteressati agli eventi quotidiani: fin da quando facevo il ginnasio, infatti, mi interessavano la politica e i problemi sociali". Una normalità che Margherita Hack rivendica non solo a se stessa ma alla figura dello scienziato. L'impegno politico e sociale, scrive, è "comune alla maggioranza dei miei colleghi".
Margherita Hack, dunque, appartiene a quella categoria di ricercatori che si sentiva a disagio nella "torre d'avorio" in cui, fino a qualche tempo fa, gli scienziati vivevano e si trova a proprio agio ora che le mura di quella torre sono definitivamente crollate e gli scienziati sono costretti "a vivere nella società". Margherita con i piedi per terra ha - e rivendica - un preciso e attualissimo obiettivo politico. Che va oltre l'imperativo etico che Francis Bacon indicava agli uomini e alle donne della nuova scienza: "lavorare per il bene dell'umanità". Margherita Hack si sente di andare oltre. "Oggi - scrive - è più che mai necessario stare dalla parte dei più deboli e degli emarginati, dei "diversi", di coloro che vengono dal Sud povero del mondo a cercare lavoro e una vita più degna e spesso sono male accolti da una popolazione di corta memoria che ha vissuto le umiliazioni e le difficoltà dell'emigrazione fino a pochi decenni fa".
Lei non ama l'irrazionalità. E la disuguaglianza è un elemento irrazionale del mondo. Margherita coi piedi per terra vorrebbe, con la forza della passione, rimuovere questo elemento contro ragione: "Una delle sfide più grandi è rappresentata dal miglioramento delle condizioni del Terzo Mondo che, a causa delle politiche ultraliberiste imposte dalla globalizzazione, diventa ogni giorno più povero, più affamato e più assetato".
In questa lotta alla disuguaglianza la scienza, secondo Margherita Hack, ha un ruolo primario da compiere. E gli scienziati hanno il dovere di schierarsi. "Per questi motivi sono sempre stata di sinistra e mi batto perché (la lotta contro la disuguaglianza) non si limiti solo al nostro paese ma al mondo intero nel suo complesso".
Margherita Hack, la signora delle stesse, è uno dei personaggi scientifici più noti e simpatici al grande pubblico non perché nasconde il suo essere di parte (contro la superstizione, contro il neoliberismo, per lo sviluppo sostenibile, per una visione laica della società). Ma perché lo rivendica. Con ragione e con passione.

nati prematuri

L'Unità, 10.1.05
Da "New England Journal of Medicine"
I BAMBINI NATI PRETERMINE HANNO PROBLEMI A SCUOLA


Cosa succede ai bambini nati dopo meno di 25 settimane di gestazione? Secondo i ricercatori Neil Marlow e Dieter Wolke dell'Università di Nottingham, ancora a sei anni di età subiscono le conseguenze di uno sviluppo neurologico parziale. Lo studio, pubblicato sul "New England Journal of Medicine", è basato su 241 bambini nati molto prematuri negli ospedali inglesi e irlandesi, nel corso dell'anno 1995. Ognuno di loro è stato valutato dal punto di vista neurologico a 30 mesi di vita e poi a sei anni di età, quando sono stati sottoposti a dei test cognitivi e neurologici insieme a 160 altri bambini di prima elementare. Nel gruppo dei bambini nati pretermine, si è rilevato che il 41% aveva dei difetti cognitivi rispetto alle capacità dei propri compagni di classe. E il 12% di loro mostrava i sintomi di una paralisi cerebrale infantile.

«ok, ma i topini ballano il merengue con le belle topine?»

da Gianluca Cangemi

Le Scienze 10.01.2005
Anche i ratti distinguono le lingue
Identificano il ritmo e l'intonazione di due diversi linguaggi umani

http://www.lescienze.it/index.php3?id=10149

Anche altri mammiferi, oltre gli uomini, possono distinguere fra differenti schemi linguistici. Alcuni neuroscienziati spagnoli riferiscono che i ratti, proprio come gli esseri umani (adulti e neonati) e le scimmie Tamarin, possono identificare ed estrarre gli schemi regolari di un linguaggio da un discorso. La ricerca è stata pubblicata sul numero di gennaio della rivista "Journal of Experimental Psychology: Animal Behavior Processes".
Il gruppo di ricerca di neuroscienza cognitiva del Parc Cientific de Barcelona ha scoperto che i ratti sono in grado di individuare abbastanza informazioni dal ritmo e dall'intonazione di un discorso umano per distinguere l'olandese parlato dal giapponese parlato. Dopo aver addestrato i ratti a premere una leva quando udivano una frase sintetizzata di cinque secondi in olandese oppure in giapponese, i ricercatori hanno messo alla prova la risposta degli animali a linguaggi diversi. I ratti ricompensati per rispondere al giapponese non rispondevano all'olandese, e viceversa: premevano la leva soltanto quando udivano la lingua per la quale erano stati addestrati. Inoltre, i ratti hanno generalizzato la capacità di differenziazione anche a nuove frasi in giapponese e olandese che in precedenza non avevano mai udito.
Questa capacità di individuare le caratteristiche di un tipo di lingua rispetto a un altro, dunque, è stata ora documentata in tre differenti specie di mammiferi: gli esseri umani (sia neonati sia adulti), le scimmie Tamarin e i ratti. In ogni caso, la sofisticazione linguistica di questi ultimi è molto limitata: quando i ricercatori hanno chiesto a individui differenti di pronunciare le frasi, gli animali hanno avuto molte più difficoltà a distinguere le due lingue. Gli esseri umani, anche durante la prima infanzia, superano facilmente questo problema apprendendo il lessico, la sintassi, la fonologia e le informazioni semantiche delle parole.
Juan M. Toro, Josep B. Trobolan, PhD, and Núria Sebastián-Gallés, “Effects of Backward Speech and Speaker Variability in Language Discrimination by Rats”. Journal of Experimental Psychology: Animal Behavior Processes, Vol. 31, No. 1 (gennaio 2005).

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preti e psicoanalisi

SOCIETÀ E COSTUME
Preti, troppa psicanalisi
Parla il teologo Giuseppe Mazzocato, che ha condotto uno studio sull’utilizzo della psicologia nei seminari italiani
Di Riccardo Maccioni


La parola non è solo uno strumento per comunicare. Può essere una carta d'identità, un sintomo di malattia, una cura. In psicanalisi è strumento di guarigione. Per il cristianesimo, quindi scritta con la lettera maiuscola, la Parola è il cuore della fede, che sana e salva. Si tratta di stabilire con chiarezza i confini, di non confondere i campi di intervento. In Malattia della mente o infermità del volere? (Edizioni Glossa), Giuseppe Mazzocato, moralista, preside dello Studio teologico di Treviso, si sofferma sull'uso della psicologia in campo educativo, con particolare attenzione ai Seminari. «La ricerca dei confini tra psicologia e morale - spiega - ha caratterizzato il dibattito teologico degli anni 60 e 70 ma non ha dato risultati soddisfacenti. Il motivo è che si dà per scontato l'oggetto di cui tali discipline si occupano, cioè i vissuti e i fatti psichici. Se è vero che le psicologie moderne hanno prodotto nuove conoscenze sulle dinamiche mentali, emotive, pulsionali, sentimentali e così via, è altrettanto vero che di tali dinamiche non possono vantare la competenza esclusiva. Questo perché il loro motore non è qualcosa di biologico, ma è il senso di cui sono portatrici. Più precisamente è il senso morale. Ecco perché il moralista non può non essere esperto di psicologia e l'assegnazione di una competenza esclusiva alle scienze psicologiche produce quello svuotamento della morale, evidente nella società contemporanea. Così com'è lampante la sproporzione del rilievo assegnato alla figura dello psicologo nei mass media e negli ambienti formativi».Anche i formatori del resto devono occuparsi di inconscio, di animo.«Esattamente. Le questioni oggi demandate allo psicologo, come le dinamiche relazionali e i loro disturbi, la strutturazione della personalità e le persistenti immaturità, l'instaurarsi di stati d'animo depressivi quali l'angoscia o un senso di colpa diffuso o di inferiorità o di negazione di sé e così via, costituis cono i passaggi cruciali di un'esperienza spirituale e di un cammino formativo. Lo psicologo certamente aiuta e talvolta è necessario per fare chiarezza ma il senso che possiedono o debbono possedere tali dinamiche chiama in causa altre figure di riferimento»Quando parla di "senso" e di "senso morale" cosa intende?«L'elemento che "mette in moto" la psiche. Per questo critico la concezione ancora molto diffusa che vede le dinamiche psichiche come una sorta di ambito pre-morale, sottratto alla competenza del moralista e dell'educatore. Al contrario, secondo me il moralista e l'educatore devono scorgere nei moti dell'animo le forme originarie della coscienza morale e la distinzione tra psicologia e morale non può fondarsi su una supposta anteriorità dei vissuti psichici rispetto alla coscienza morale, come insegna la concezione freudiana dell'inconscio».L'approccio psicanalitico si fonda sul valore terapeutico della parola che, si pensi al sacramento della riconciliazione o alla direzione spirituale, è molto importante anche per l'educatore. C'è il rischio che la psicanalisi diventi una specie di religione senza trascendenza?«Quello che io vedo è il rischio di un uomo senza morale. È significativo il fatto che il tema "religione" abbia avuto molto più sviluppo del tema "morale". Infatti malgrado l'interrogativo continui ad affacciarsi sulla scena psicanalitica, non si è mai sviluppata una "psicologia della morale" o una "psicologia morale". Il motivo mi sembra evidente: è più facile tradurre in "costrutti mentali" l'esperienza che non la morale».In altre parole la dimensione pratica dell'esperienza morale sfugge all'analisi psicanalitica.«Certo. Il rilievo indiscusso della parola, ad esempio, ha imbarazzato Freud fin dall'inizio della sua ricerca; imbarazza molto meno i suoi seguaci. Ciò che sfugge sia agli psicologi che ai teologi è la valenza pratica della parola, che prima ancora di essere strumento per l'elaborazione de i vissuti, va intesa come forma dell'agire, come esperienza pratico-morale».C'è la sensazione che la nostra società tenda a rimuovere il concetto stesso di morale.«Si tratta di un tratto evidente. Le teorie psicologiche infatti concordano nel prescindere dai profili morali dell'esperienza umana. Nel momento in cui si propongono come teorie generali dell'umano, concorrono a un'antropologia che prescinde da tale valore. Purtroppo quest'utilizzo delle psicologie è più facilmente presente proprio negli ambienti formativi ed in quelli cattolici, in particolare. C'è poi il fatto che le psicologie hanno introdotto una sorta di medicalizzazione della sofferenza psichica. In questo modo i disagi e le fragilità sono ricondotte a cause o circostante che non dipendono dalla volontà dell'individuo e debbono essere dunque rimosse, grazie ad una specifica competenza, di natura "tecnica". La morale è quindi rimossa sia dalla teoria che dalla relazione umana su cui si riversa quel disagio, quella fragilità. Il libro si propone di portare la riflessione al cuore del problema, all'interpretazione di tali vissuti psichici dolenti o disagiati: si tratta di malattia o di infermità della volontà? Anche nel caso in cui tale disagio vada qualificato come patologia, va pensato in riferimento alla mente oppure al volere?».La questione antropologica è sempre più centrale. In particolare la ricerca scientifica si sta interrogando, sulla funzione del cervello. Inoltre ai concetti tradizionali di ragione e pensiero si sostituisce il termine "mente". La teologia è pronta a un confronto, a un'analisi seria e costruttiva?«Mi sembra di vedere una teologia ancora a rimorchio delle scienze: prima la psicanalisi, poi gli indirizzi più umanistici, quindi quelli cognitivisti e, a seguire quelli psico-sociali o relazionali, ora le neuroscienze. Invece la teologia non deve riflettere sui dati offerti dalle scienze ma, alla luce di quei dati, sull'esperienza umana. Non è il risultato scientifico l'elemento da cui partire ma l'esperienza che accomuna ogni uomo. Prima del rapporto tra le diverse discipline, la teologia deve farsi carico dell'esperienza umana cui si riferiscono».