sabato 3 gennaio 2004

Marc Ferro:
il diritto alla storia

L'Unità 3.1.04
L'intervista
Il diritto alla storia
Parla Marc Ferro, storico francese delle Annales:
«L'indagine del passato non va affidata all'ideologia o alla superficialità dei media.
È un'esigenza collettiva, come la salute e l'istruzione. Perciò occorrono garanzie di verità»
La storiografia ha una funzione «terapeutica» nella nostra società, ma la cura non può essere lasciata soltanto agli addetti ai lavori.
Un'alleanza tra cittadini e storici di professione nel quadro di una nuova accessibilità delle fonti oggi ancor regolata con criteri arbitrari.
intervista di Marco Dolcetta


Incontro Marc Ferro nella stanza che occupa al settimo piano della Maison des Sciences de l’Homme a boulevard Raspail, Rive Gauche Parigi. È la sede della più prestigiosa rivista di Storia del mondo: «Les Annales». Lo conosco bene ho studiato per anni con lui ed ho realizzato anche con lui diversi documentari storici per Rai e per la tv franco tedesca «Arte». È uno storico di rilievo internazionale ha scritto più di 50 libri, tradotti nel mondo intero, su cinema e storia, sulla Francia e sulle colonie, sull’Unione Sovietica e gli Zar, su come si deve insegnare la storia.
Qual è la funzione della Storia, ora che siamo nel XXI° secolo?
La prima è una funzione militante, missionaria, solo che il segno della sua missione cambia seguendo il segno dell’ideologia (lo Stato, il monarca, la nazione, i partiti, eccetera). Ha d’altra parte anche una funzione «scientista»: è quella delle «Annales»: la scienza costruisce un proprio oggetto. Questa funzione scientista è la punta di diamante della Storia. Lungi da me l’idea di condannarla. Ci vuole infatti una Storia scientista - così come ci vogliono di laboratori negli ospedali. Semplicemente però non bisogna che tutti i malati siano affidati ai laboratori. Vi sono delle malattie psicologiche la cui origine è chiara; la moglie ha tradito, non hanno bambini, eccetera. Le "Annales" sono il laboratorio della Storia. Ora questo laboratorio "Annales", scopre un certo numero di correlazioni, si fanno nuove scoperte. Queste spiegazioni però non spiegano tutto. Allo stesso modo in cui il rapporto globuli bianchi globuli rossi non spiega tutte le malattie degli uomini, così, le correlazioni tra il prezzo degli affitti e l’età del matrimonio nelle vedove nell’Inghilterra del XVII secolo non spiega a sua volta tutto il capitalismo o a maggior ragione tutta la storia della società. Penso dunque che questa storia di punta vada sviluppata. Essa però ha avuto finora troppo la tendenza a non dare la parola ai vari soggetti che compongono la Storia. Ed infine ai giorni nostri la Storia diventa terapeutica, nella misura in cui certi gurppi sociali non vogliono più affidare agli storici la cura di parlare al loro posto. Così come d’altra parte i cittadini non vogliono più affidare ai partiti politici la cura delle loro rivendicazioni. È un po’ lo stesso fenomeno. Allo stesso modo i pazienti non vogliono più saperne di un medico che tiene nel loro confronto un linguaggio a loro incomprensibile. Preferiscono lo psicologo o lo psicanalista.
Ma che cosa deve dunque fare lo storico? Forse egli deve autocancellarsi, deve scomparire dietro le quinte?
No, non deve cancellarsi più di quanto lo facciano il laboratorio o la medicina. Lo sbaglio che lo storico ha sinora commesso è stato quello di essersi troppo allontanato dai soggetti, dai cittadini, dalla gente, un po’ come i militanti dei partiti politici si stanno allontanando dalla popolazione. I loro discorsi rischiano così di apparire loro incomprensibili e senza legami con le aspirazioni della società. Allo stesso modo esistono dei discorsi storici, dei libri scritti da storici che sono troppo lontani dai bisogni della società, dalle sue richieste e che diventano così articoli puramente scientifici.
Lo storico allora, questa è la sua funzione, deve innanzitutto raccogliere tutti i discorsi di coloro che non anno mai avuto la parola; Foucault l’ha già detto molto tempo fa e aveva ragione. Lo storico deve confrontare le fonti della Storia, siano esse in rapporto a un’immagine o a un testo scritto, deve ricercare nuovi metodi di punta come hanno cercato di fare le Annales, deve immaginare delle spiegazioni globali, perché di esse abbiamo maggiormente bisogno: non possiamo lasciare agli uomini politici o ad esempio ai biologi, il monopolio delle spiegazioni della società; dove andremo a finire? Ecco la conclusione: rimangono un sacco di funzioni per lo storico. Anche la funzone militante, ma non al servizio dello Stato, del partito e della Chiesa cattolica, bensì al servizio di una società che si sviluppa indipendentemente dai poteri che la opprimono. Ecco allora che il disacorso cambia compltamente.
Le "Annales" godono almeno di un’autorevolezza, per così dire, istituzionale?
No, non ne godono. Non sono più nella posizione di ghetto come lo erano nel 1946 o nel 1950. Hanno delle buone posizioni, occupano delle roccaforti, a destra e a sinistra, come l’Ecole des Hautes Etudies en Sciences Sociales. E annoverano anche dei militanti - se così posso esprimermi- un po’ dappertutto. E soprattutto hanno un grande peso all’estero, e godono di un grande riconoscimento. In Francia hanno vinto in un certo senso la battaglia della Storia. Non v’è dubbio, però, le "Annales" non regnano. Non dobbiamo credere che esse regnino incontrastate: sarebbe assolutamente falso. Che esistano d’altra parte altre forme di Storia, e che le "Annales" si rigenerino a contatto con le altre storie, non è affatto un male, sebbene sia vero che sono state al contrario sovente copiate. Intellettualmente invece le "Annale"s regnano. Regnano anche nei mass media, ma penso per altre ragioni. Vi sono state infatti alcune persone di grande talento fra gli storici dell’«histoire nouvelle»: i lavori di Emmanuel Le Roy Ladurie, hanno segnato per esempio un punto di convergenza tra la pratica e gli interessi della gente.
E in Italia? C’è la possibilità di uno sviluppo di una storiografia annalista?
In Italia, senza dubbio, la Storia è rimasta molto tradizionale poiché essa è essenzialmente uno strumento della politica. È uno strumento della politica e in un certa maniera è il prolungamento delle organizzazioni politiche. Noi invece, in Francia, un po’ grazie anche alle "Annales", siamo almeno in parte sfuggiti a tutto questo: da qui il nostro conflitto con i comunisti, che ho potuto ben constatare all’interno della rivista. Per molto tempo la Storia è stata al servizio delle organizzazioni, è stata tipicamente ideologica ed è dipesa dal Partito comunista, non come organizzazione, ma come ideologia, o dal Partito socialista, o dai trotskisti, o da altre formazioni, ecc. E questo è decisivo quanto alla metodologia. A ciò si è opposta chiaramente la linea delle "Annales" che si sono scagliate contro questo tipo di approccio negli anni 20 e non certo per approvarlo oggigiorno.
Passiamo ad una argomento di più stretta attualità per uno storico nel mondo di oggi. La comunicazione per uno storico non avviene più soltanto su supporto cartaceo ma soprattutto attraverso il mezzo televisivo e l’utilizzo di videocassette e i dvd. Qual è la sua opinione sullo stato attuale della storia per immagini in movimento visto che Lei è stato il primo storico già dagli anni 70, a realizzare numerosi documentari e anche la decennale trasmissione «Histoire Parallele» che per 10 anni ogni sabato pomeriggio è stata trasmessa in Francia ed in Germania.
Voglio anche ricordare quello che abbiamo fatto insieme io e lei: «La storia in un minuto» per la Rai, tutto il XX secolo come uno spot pubblicitario. Vorrei parlare dell’Italia, anche se spesso i problemi della comunicazione non sono solo italiani. Riguardano soprattutto gli archivi. In Italia esiste l’archivio dell’Istituto Luce, quello di maggiore importanza. Innanzitutto c’è da rilevare che gli originali dei filmati del Luce, e quindi anche i negativi della pellicola, sono negli archivi di Stato di Washington, che detengono tutti i diritti delle cinematografie di Stato degli Stati vinti nella seconda guerra mondiale. Vengono considerati dei bottini di guerra e così vengono concessi in maniera praticamente gratuita a chi li richiede; è curioso come gli archivi di Stato di Berlino e gli archivi degli Stati, che hanno perduto la guerra, vendano questo materiale non autentico, ma che hanno in copia, a delle cifre che si aggirano sui 1.000 euro al minuto! Questo è il primo problema, i costi elevatissimi, e inoltre la difficile reperibilità dei detentori reali dei diritti. Un comportamento più trasparente spesso viene da grandi fondi privati o da istituzioni universitarie che hanno più scrupolo e meno scopo di lucro, come la U.C.L.A. Università di Los Angeles, e noi delle "Annales".
Un altro problema è il controllo della veridicità storica dei testi ed immagini.
Lei mi accennava prima all’assurdo caso del congelamento fatto dalla redazione giornalistica della Rai del suo documentario sulle «Sette Torri del diavolo» ovvero sull’analisi dell’attuale crisi medio-orientale e dei rapporti Occidente-Islam. È un tipico esempio di superficialità, da parte dell’emittenza, la non comprensione, voluta o inconscia, di questa problematica basata sulle teorie dello storico Renè Guenon, unico riconosciuto conoscitore degli Yezidi, una setta nomade molto importante e ancora operativa. Decisiva per intendere il simbolismo dela salvaguardia territoriale islamica e che spiega le ragioni sottili del terrorismo integralista. È un sintomo della superficialità del giornalismo televisivo, che è comprensibile per il dovere della spettacolarità della televisione, ma che rivela carenza di conoscenza storica dei responsabili delle rubriche televisive. Per ovviare a tutto questo il ruolo delle "Annales", che si sta strutturando a livello di tecnologia avanzata nella razionalizzazione dei suoi archivi, prevede la consulenza nella fornitura ed il reperimento di immagini, foto, filmati, riproduzioni di documenti, l’inquadramento del sistema dei diritti e soprattutto il coordinamento di storici qualificati sui singoli argomenti trattati, al fine di assicurare un’opinione di garanzia per il testo definitivo delle trasmissioni di carattere storico e quelle di attualità con riferimenti storici.

pettegolezzi:
forse Cristoforo Colombo era il figlio di Innocenzo VIII?

La Repubblica 3.1.04
La scienza prova a risolvere il giallo delle origini del navigatore. Analogo tentativo in Spagna
Colombo figlio di un Papa? La prova dal test del Dna

Le sue presunte ceneri a confronto con i resti del fratello
Gli storici non hanno dubbi: era genovese l'uomo che scoprì l'America. Ma per gli spagnoli era nato a Siviglia
Il giallo comincia a Santo Domingo: qualcuno avrebbe mandato a Siviglia l'urna di un parente del "Descubridor"
di ROBERTO BIANCHIN


MILANO - Sarà l'esame del Dna a sciogliere (forse) uno dei più grandi enigmi della storia, quello dell´identità dell'uomo che scoprì l'America. E a dire se Cristoforo Colombo era genovese, figlio naturale di un Papa oppure di un nobile spagnolo, se era alto e robusto, come parrebbe, o mingherlino e cagionevole di salute, e se soffriva di gotta e mal di cuore, o di artrite come raccontò nel suo diario di bordo. Da Petrarca a Giotto, da Sant'Antonio a Billy The Kid, dal Conte Ugolino a Giovanni delle Bande Nere, la mania di sottoporre alla prova del Dna i resti veri o presunti dei più celebri personaggi storici sta diventando una vera e propria moda, anche grazie all'intervento di facoltosi sponsor privati, tanto interessati alle scoperte storiche quanto ai ritorni di immagine. L'ultima indagine riguarda la figura del celebre navigatore, parte delle cui ceneri, sia pure di incerta attribuzione, sono conservate in una teca triangolare alla biblioteca universitaria di Pavia.
Una «istanza formale» in questo senso è stata formulata al rettore dell'ateneo pavese Roberto Schmid da parte dello storico romano Renato Biagioli, autore di due libri su Colombo. «Siamo tecnicamente pronti a fornire il nostro contributo per risolvere l'enigma», ha dichiarato il direttore del laboratorio di biologia dell'università Carlo Alberto Redi. Si tratterà di fare una comparazione fra le ceneri contenute nella teca, che apparterrebbero a Colombo, e quelle di un altro uomo che viene ritenuto fratello del navigatore. «Ma bisognerà muoversi con la dovuta cautela a livello scientifico», mette in guardia la direttrice della biblioteca Anna Maria Campanini Stella.
Attorno al giallo storico delle ceneri di Colombo è infatti scoppiato un caso internazionale, provocato dagli spagnoli che, per volere di un gruppo di nobili e di sponsor, hanno deciso l'estate scorsa la stessa operazione: riesumare parte dei presunti resti del navigatore custoditi nel sepolcro della cattedrale di Siviglia, per dimostrare, attraverso il Dna confrontato con quello del fratello Diego e del figlio Hernando, che «El Descubridor» non era genovese, figlio del tessitore Domenico Colombo e di Susanna Fontanrossa, bensì spagnolo e per giunta nobile, figlio illegittimo di Carlos principe di Viana e di Margherita Colon. Mentre, secondo lo storico Biagioli, Colombo potrebbe anche essere nato in Emilia o nelle Marche, e addirittura essere il figlio di un papa, Innocenzo VIII, e di una nota nobildonna dell'epoca.
«L'indagine dovrà stabilire se i veri resti di Colombo sono quelli conservati a Siviglia o i nostri che sono provenienti da Santo Domingo» spiega la dottoressa Campanini. Il mistero sulle ceneri di Colombo non aiuta infatti a fare chiarezza. Di certo si sa che quando morì, nel 1506 a Valladolid, fu sepolto lì, nella chiesa di San Francesco, poi fu portato a Siviglia, e solo nel 1544 nella cattedrale di Santo Domingo, come voleva lui. Successivamente i suoi resti furono portati a Cuba e poi di nuovo a Siviglia. Ma a Santo Domingo, alla fine dell'800, dissero che gli spagnoli si erano sbagliati, che avevano portato via i resti di altri componenti della famiglia, e che quelli di Cristoforo erano rimasti là. Fu il console genovese a Santo Domingo che ottenne una piccola porzione dei resti che divise in tre parti: una la mandò in Venezuela, la prima terra scoperta da Colombo, un'altra a Genova dov'è conservata in un'urna a Palazzo Tursi, sede del Comune, e la terza a Pavia perché si pensava che avesse studiato in quella università che adesso lo risveglierà per l'ultimo esame.

GYöRGY LUKÁCS
non fu uno stalinista

il manifesto 3.1.04
GYöRGY LUKÁCS
Pubblicato un volume che raccoglie scritti inediti del filosofo ungherese

L'accusa di connivenza con lo stalinismo fu sempre rifiutata dal filosofo ungherese. Solo nel lungo saggio, scritto agli inizi degli anni Settanta e dal titolo fortemente programmatico «Testamento politico», l'autore di «Storia e coscienza di classe» ammise apertamente di aver compiuto alcuni compromessi, in nome di un margine di libertà per denunciare il carattere illiberale e autoritario del regime sovietico
di ANTONINO INFRANCA


Il libro di György Lukács (Testamento politico, Buenos Aires, Herramienta, pp. 188), pubblicato di recente in Argentina in lingua spagnola, contiene materiale in parte del tutto inedito e in parte inedito in italiano. Si tratta di documenti imprescindibili per ricostruire una vicenda esistenziale e una stagione di pensiero importanti di un filosofo del calibro di Lukács, pensatore che è un vero e proprio paradigma del rapporto tra intellettuali e stalinismo. In Italia, la condanna all'oblio decretata da alcuni intellettuali nei suoi confronti è dovuta proprio all'accusa di essere stato uno stalinista. Ma è vero piuttosto il contrario. Vale la pena a questo proposito di leggere alcuni brani tratti soprattutto dall'ultimo saggio del libro, Testamento politico, che dà titolo all'intera raccolta. Il volume contiene scritti che risalgono al periodo post-bellico, dal 1946 al 1971. Tre di essi sono stati pubblicati da tempo in italiano: La visione aristocratica e democratica del mondo, I compiti della filosofia marxista nella nuova democrazia, La responsabilità sociale del filosofo, che risalgono agli anni compresi tra il 1946 e il 1950. Pubblicata per la prima volta è una lettera a Cesare Cases dell'8 giugno 1957, cioè dopo il ritorno di Lukács dalla deportazione in Romania, dopo la Rivoluzione Ungherese del 1956. Inediti in italiano sono un'intervista del 1969, il saggio Al di là di Stalin (1969) e uno scambio espistolare con Janos Kadar, l'allora segretario del Partito comunista ungherese. Il carteggio avvenne nel 1971 in seguito all'intervento di Lukács a favore di due giovani dissidenti ungheresi, Dalos e Haraszti, accusati di maoismo e arrestati. Da questo scambio epistolare nacque l'idea di intervistare il vecchio filosofo per raccogliere le sue ultime riflessioni politiche. Ne sortì il Testamento politico apparso finora soltanto in ungherese nel 1990, cioè dopo la fine del regime, che ne aveva vietato la pubblicazione.
Per comprendere che tipo di lotta che Lukács condusse contro lo stalinismo è sufficiente limitarsi a narrare i fatti. Lukács entrò a far parte del Partito comunista ungherese nel dicembre 1918. Partecipò alla Rivoluzione ungherese dei consigli del 1919 e per questo fu condannato a morte dal governo reazionario di Horthy. Fu così costretto a rifugiarsi prima in Austria e poi in Germania. Durante questo periodo (1919-1930) i suoi rapporti con la maggioranza del partito comunista, guidata da Bela Kun, furono sempre cattivi anche perché Lukács sosteneva l'alleanza con i socialdemocratici contro la politica di Kun e di Stalin. A causa della salita al potere di Hitler, dalla Germania fu costretto a rifugiarsi in Unione Sovietica, dove rimase fino al 1946, quando fece ritorno nell'Ungheria liberata dall'Armata Rossa. In Urss i suoi rapporti con il regime stalinista furono tanto cattivi che lo stesso Lukács fu arrestato nel 1941 per un mese.
In Ungheria la posizione di Lukács rimase «tranquilla» soltanto per pochi anni, dal 1946 al 1949, quando le sue aperture politiche nei confronti dei partiti cosiddetti «borghesi» e la democrazia occidentale furono dichiarate eccessivamente eclettiche e quindi condannate. Nel 1949 si scatenò nei suoi confronti una offensiva di stampa da parte del regime comunista che portò alla sua destituzione dall'Università di Budapest. Lukács si fece «dimenticare», dedicandosi alla stesura della sua Estetica, salvo tornare all'attività politica intensa nel 1955. I suoi discorsi, tenuti presso il "Circolo Petöfi", erano diretti contro il regime stalinista ungherese, messo in crisi dalla morte di Stalin e da una forte crisi economica, ed erano talmente affollati che era necessario affittare un teatro per contenere la folla.
Nell'ottobre 1956 lo scoppio della rivoluzione permise a Lukács di entrare nel governo Nagy e nel Comitato centrale del Pcu. Particolarmente drammatica fu la riunione nella notte tra il 3 e il 4 novembre, quando il Comitato centrale doveva decidere l'uscita o meno dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. Kádár, che diverrà poi segretario del partito, votò a favore dell'uscita per offrire ai sovietici un pretesto per giustificare l'invasione dell'Ungheria, che era stata già decisa. Lukács votò, invece, a favore della permanenza nel patto di Varsavia per non offrire questo pretesto. La decisione di uscire fu presa con 3 voti contro 2 e da lì la tragedia dell'Ungheria con la pretesa giustificazione sovietica.
A seguito della sua partecipazione al governo Nagy, Lukács fu deportato con tutto il governo in Romania. Dopo sei mesi, fu riportato a Budapest e ritornò ai suoi studi, pur non volendo una «riconciliazione con la realtà alla maniera del vecchio Hegel» e mantenendosi fedele al motto di Zola, «La verità è lentamente in marcia e alla fine nulla la fermerà», come scrive nella lettera a Cases. Nel 1967 gli fu chiesto dal Comitato centrale di rientrare nel partito e Lukács accettò, salvo uscirne nuovamente il 24 agosto 1968 a seguito dell'invasione della Cecoslovacchia. Gli ultimi anni di vita - Lukács morì il 4 giugno 1971 - il filosofo li trascorse impegnato nella stesura dell'Ontologia dell'essere sociale, ma sempre pronto a partecipare alla vita politica del paese in posizione critica, come conferma il carteggio con Kádár.
Costante fu il suo rifiuto di accettare i diktat del regime stalinista, come conferma il saggio Al di là di Stalin, che è una sorta di bilancio dei suoi rapporti con lo stalinismo. Saggio che deve essere costato tantissimo al filosofo ungherese, perché vi è anche il riconoscimento di qualche compromesso con lo stalinismo, ma sempre al fine di guadagnare posizioni per ottenere maggiori spazi di libertà. Spazi che poi furono patrimonio comune degli intellettuali ungheresi, che poterono godere delle maggiori aperture di un regime post-stalinista come quello kadarista. Conferma ne è, paradossalmente, la stessa vicenda Dalos e Haraszti, quando Lukács interviene per protestare contro la condanna a 25 giorni di prigione inflitta ai due dissidenti.
Paragoniamo la vicenda di Lukács a Ernst Bloch, altro grande pensatore marxista che fu coinvolto in vicende drammatiche di contrasti con il regime comunista tedesco-orientale e che preferì fuggire in Germania occidentale dopo la costruzione del Muro di Berlino: la posizione di Lukács invece fu quella di rimanere a lottare contro il regime ungherese perché ritenne che questa era la sua lotta per la libertà e la «democrazia socialista» nel suo paese. Una scelta che non può essere scambiata per un atto di compromesso con lo «stalinismo» e con il «socialismo reale», come i nuovi documenti di cui sopra contribuiscono a confermare.