venerdì 18 marzo 2005

la psicoanalisi è finita
un articolo sull'Espresso adesso in edicola

L'Espresso p.140
Cultura
Freud si è fermato al megastore
Ha favorito il capitalismo. Ma i consumi cambiano, e la psicoanalisi non serve più.
Parola di storico
di Enrico Pedemonte

La psicoanalisi? "Il suo futuro è più che mai in dubbio". Comincia così, con un'affermazione apocalittica, l'ultimo libro di Eli Zaretsky, docente di Storia alla New School University di New York. Il volume ("Secrets of Soul" Alfred Knopfler editore, 430 pagine) ha suscitato un rispettoso imbarazzo tra gli addetti ai lavori per la sua natura interdisciplinare. Zaretsky racconta le radici della psicoanalisi, la sua evoluzione e il suo inarrestabile declino con l'occhio dello storico, evitando di disquisire sulla dottrina. E nel volume (le cui traduzioni in tedesco, francese e spagnolo sono in corso) offre alcune idee forti. La psicoanalisi, dice Zaretsky, fu la forza di libertà che all'inizio del Novecento favorì il successo del nuovo capitalismo fordista e la sconfitta dell'ottusa cultura vittoriana. Ma dopo gli anni Sessanta entrò in crisi, vittima del suo stesso successo di massa e, soprattutto, di un nuovo capitalismo che impose nuovi comportamenti. Da allora, il declino è continuato, irrimediabile. Ne abbiamo parlato con l'autore.
Lei sostiene che il pensiero di Freud ha aiutato il capitalismo a creare i meccanismi del consumo di massa. Fu lo strumento culturale necessario al nuovo capitalismo del Novecento?
"Fino all'inizio del XX secolo il capitalismo era basato sulla scarsità, sul risparmio, sul contenimento dei consumi. Aveva incorporato la cultura protestante, il calvinismo. Ma all'inizio del XX secolo il capitalismo cambiò. Non ovunque nello stesso momento: in Italia la svolta avvenne più tardi, nel dopoguerra. Ma perché una svolta simile si verifichi, c'è bisogno che siano le persone a cambiare. Quando si verifica un grande cambiamento sociale, non bastano le motivazioni economiche per spiegarlo. Una società non cambia solo perché la gente vuole più denaro o più cose da comprare".
In pratica che cosa accadde?
"Perché la società dei consumi si affermasse c'era bisogno di definire un nuovo stile nei comportamenti personali. Era necessario un cambiamento profondo nella famiglia. Gli individui non potevano più definire se stessi sulla base del loro ruolo familiare. Ci voleva più libertà nell'acquistare e nel consumare. E anche la sessualità doveva mutare. Io sostengo che la psicoanalisi ebbe un ruolro analogo a quello del calvinismo alcuni secoli prima. Fu un movimento carismatico necessario al cambiamento della società. In questo caso nella direzione della società dei consumi.
Il suo libro suggerisce che Freud fu inconsciamente l'araldo della rivoluzione fordista. E' così?
"Sì. Non ne era conscio anche perché aveva ben poco il senso della storia. E' interessante visitare la biblioteca di Freud, a Londra: si scopre che ci sono pochissimi libri di storia. Freud vedeva la psicoanalisi come un episodio dell'Illuminismo. Pensava che fosse un grande passo verso la consapevolezza della complessità nelle relazioni umane. Non credeva che ci fosse legame con la politica. Non capiva perché i regimi fascisti e comunisti la mettessero al bando. Non aveva la minima idea del legame esistente tra la psicoanalisi e i grandi cambiamenti che avvennero nel corso della sua vita".
Lei descrive la psicoanalisi come un movimento epocale...
"La psicoanalisi passò come un uragano nella società dei primi decenni del XX secolo. E' difficile oggi avere la percezione di quanto fosse popolare, sia tra gli intellettuali sia tra la gente comune. Fu così diffusa proprio perché la vita della gente stava cambiando in modo profondissimo. Si passava da una società industriale, ancora parzialmente contadina e in buona parte basata sulla famiglia, a una società centrata sull'individuo. All'improvviso, le persone avevano bisogno di comprendere se stesse come individui, non più come membri di un gruppo. E la psicoanalisi si focalizzò proprio su questo. Si tratta di un'idea molto potente, che può, forse essere confrontata con altre idee fondamentali come la democrazia e la libertà".
Freud insegnò alla gente a rompere le catene della famiglia?
"La psicoanalisi decretò la fine di una famiglia basata sull'obbedienza, il cui la moglie accettava il ruolo di madre e l'autorità del marito. E creò un nuovo tipo di famiglia, basata su quello che io chiamo "vita personale", dove i valori e l'amore valgono per ogni singolo individuo. E questo porta alla libertà individuale, al divorzio, e più avanti all'amore omosessuale e al matrimonio tra gay".
Divenne una nuova religione?
"Lo divenne solo per piccoli gruppi di persone. Nella prima parte del XX secolo, in Occidente, ci fu un calo nella fede religiosa, dovuto al fatto che molti subirono il fascino del proprio ego, delle idee dell'inconscio e della sessualità, tutte nuove dimensioni aperte dalla psicoanalisi, in cui molti trovarono nuove fonti di significato. Freud era ateo, ma capiva l'importanza della religione. E quanto fosse difficile da realizzare il progetto illuminista di creare un mondo più razionale, laico, senza bisogno di Dio".
Freud era l'ideologo che preparò i nuovi mercati che esplosero negli anni Sessanta?
"Metterla così è semplicistico. Freud non è stato certo il portavoce del nuovo mercato di massa. Ma è stato l'uomo che ha teorizzato un nuovo modo di essere persone. Ha spiegato che non conta quello che sei nella società: dentro di te sei unico, puoi essere ricco o povero, bianco o nero, italiano o americano, uomo o donna. Ma Freud lanciò questo messaggio nel momento in cui stava nascendo la società dei consumi di massa, dove tu diventi un individuo in relazione alla cose che acquisti. L'individuo coincide con il consumatore, cioè l'oggetto dell'interesse da parte dell'industria".
Fu una coincidenza?
"Sì. E non è la prima volta che una simile coincidenza si verifica. Accadde una cosa analoga nel rapporto che ci fu tra capitalismo e calvinismo alcuni secoli prima".
Il parallelo tra psicoanalisi e calvinismo è uno dei capisaldi del suo libro...
"Anche il calvinismo fu molto importante per lo sviluppo delle prime forme di capitalismo. Era un nuovo modo di concepire la relazione con Dio, ma siccome sottolineava il ruolo dell'individuo, favorì l'accumulazione del capitale. Ma fu un ruolo consapevole. La psicoanalisi giocò un ruolo analogo quando il capitalismo cambiò, all'inizio del XX secolo".
Perché la psicoanalisi entrò in crisi dopo gli anni Sessanta?
"Tutti i movimenti carismatici sono destinati ad entrare in crisi. Accadde anche al calvinismo. Quando si partecipa a un movimento carismatico, non si fa molta attenzione alla vita di tutti i giorni. Si segue il proprio Dio, che in questo caso è la psicoanalisi. Le persone pensano solo a essere psicoanalizzate, capire se stesse, innamorarsi, indagare la propria sessualità. Tutti desideri molto profondi che prima di allora non esistevano. Ma il carisma ha un tempo limitato, è insabile. E poi le idee della psicoanalisi sono state in gran parte assimilate. La letteratura è cambiata. Il cinema è cambiato. La gente ha accettato le nuove idee. E quindi non sono più così importanti. Molti non sentono più il bisogno della psicoanalisi. Sono nate le psicoterapie, e soprattutto sono nati nuovi movimenti carismatici che hanno sfidato la psicoanalisi. Il più importante è stato il femminismo, che è stato un'idea del tutto nuova su che cosa significa essere un essere umano, e che si oppose duramente alla psicoanalisi".
Nel suo libro lei sostiene che questo cominciò negli anni Sessanta, quando ci fu una reazione violenta contro la vita privata...
"Sì, era finita una fase storica. Nel corso dei movimenti sociali degli anni Sessanta ci fu una rivoluzione contro la vita privata. Tutti criticarono la psicoanalisi: il movimento degli studenti, le femministe, i gay. Tutti sostenevano che quello che contava era la vita pubblica. "Il personale è politico". Il sé è pubblico, è teatrale. C'è anche una versione economica di questo cambiamento: il sé è un attore razionale, è un agente dell'economia. E questo cambia tutto".
E' il cambiamento sociale a inghiottire la psicoanalisi?
"La fabbrica fordista prevedeva la produzione di massa, anonima. Ora nascono i prodotti e i servizi adattati all'individuo. Nasce la segmentazione dei mercati. Il capitalismo non è più una fabbrica, diventa un emporio. La vita personale viene ridefinita. La tradizionale struttura della vita privata all'interno della famiglia, che aveva giustificato lo sviluppo della psicoanalisi, è ormai un ricordo. Nasce la società aperta. E questa società è basata sulla confessione. Oggi la gente costantemente si spiega, si confessa, racconta chi è. Lo fa dappertutto, con gli strumenti che trova. In televisione, nei siti web, nei blog".
All'inizio del libro, lei dice che la psicoanalisi è un paradosso. Può spiegare perché?
"I critici della psicoanalisi dicono che non funziona, che non è scienza, che si ottengono risultati assai migliori con i farmaci e così via. Ma chi fa questi discorsi dimentica che la psicoanalisi è stato un fenomeno assai più grande, non semplicemente una metodologia per trattare le malattie mentali. E' stata la strada attraverso la quale la gente, nel XX secolo, ha cercato di capire che cos'è un essere umano. E per fare questo ha dovuto mettere insieme elementi artistici e scientifici. Così, da una parte la psicoanalisi è stata benvenuta da miglioni di persone e ha avuto un impatto enormemente positivo sul mondo. Ma dall'altra si è logorata e oggi molti pensano che non ce ne sia più bisogno. Nel mio libro ho cercato di mettere insieme i due poli del paradosso".

quei cari frugoletti...

Corriere della Sera 18.3.05
Il genitore ideale è Bonolis seguito da Berlusconi
Sondaggio: il papà? Va bene solo se ricco

Ricerca di Eta Meta sui figli tra i 15 e i 24 anni: ragazzi e ragazze rimproverano al padre di avere pochi soldi e fatto poca carriera

ROMA - Il papà? Meglio ricco e con una bella carriera alle spalle. I figli italiani sono assolutamente insoddisfatti dei loro padri. Solo la metà salva la mamma, meno del 10% se potesse scegliere si terrebbe il padre che ha. I motivi? Accusano il genitore di non aver fatto abbastanza carriera (63%) e di non aver raggiunto una posizione tale da garantire loro un futuro privo di preoccupazioni (58%). La paura per il futuro fa insomma invidiare i figli dei personaggi che contano, tra i sogni più frequenti impieghi da favola, senza dover fare gavetta (37%), belle auto e ville nei luoghi più esclusivi (24% e 19%). Ecco allora che se potessero scegliere vorrebbero rinascere da un padre ricco e famoso. Tra i papà più sognati Paolo Bonolis (67%), Berlusconi (59%), Sirchia e Montezemolo (55% e 53%).
È quanto emerge da uno studio di Eta Meta Research, in collaborazione con un pool di 30 psicologi. Per lo studio sono stati realizzati 6 focus group che hanno coinvolto complessivamente 110 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 15 e i 24 anni. «La paura e l'incertezza per il futuro rappresentano un elemento sempre più presente tra i giovani che per altro si trovano di fronte a modelli mediatici di loro coetanei che non devono preoccuparsi per soldi o lavoro, sottolinea Saro Trovato, presidente di Eta Meta Research. Un mix davvero esplosivo che si tramuta in insoddisfazione, tanto che aumenta il numero di ragazzi che sogna una vita differente, con maggiori »garanzie«. Dallo studio emerge con forza proprio il desiderio di trovarsi la strada spianata, di avere delle certezze. Ed è sui genitori che si riversa questa insoddisfazione, ritenuti in parte responsabili di non aver fatto abbastanza per arrivare al successo».
Ma quali sono i motivi di tale insoddisfazione nei confronti della propria famiglia? Nessuno si sente maltrattato ed è bassa la percentuale di quei ragazzi che si sentono trascurati e messi da parte (13%). In molti però ritengono che la propria famiglia in passato non abbia fatto abbastanza per conquistarsi una posizione (34%), o che abbia frequentato compagnie sbagliate, senza cercare di conoscere personaggi famosi e potenti (27%). E quando si parla direttamente dei papà le accuse si fanno ancora più circostanziate. Secondo il 71% dei partecipanti ai focus, infatti, il papà «non ha fatto abbastanza» per garantir loro un futuro tranquillo. Nello specifico non si è impegnato sufficientemente nel far carriera (63%), non ha guadagnato abbastanza soldi (58%), e non ha creato aziende e società da lasciargli in eredità (51%). Ai propri padri, poi, contestano di avere un'immagine trascurata (44%), tale da impedire di avvicinarsi all'alta società, e di manifestare troppa poca ambizione (39%). Tutte cose che secondo i ragazzi rischiano di mettere un'ipoteca sul loro futuro.

ieri
tre bimbi uccisi dai genitori in un solo giorno

Corriere della Sera 18.3.05
Dopo l’infanticidio di Varese, in poche ore altre due omicidi
Genitori e depressione. Uccisi tre bambini
Madre accoltella neonata. Un papà suicida con il figlio

ROMA - Ancora delitti in famiglia. Tre piccoli bimbi, nati da pochi giorni, talvolta da poche ore, sono stati travolti dal furore omicida di madri e padri che hanno anche cercato di seguirli nella morte. Una tragica scia di sangue ha attraversato il Paese seminando in meno di 24 ore morte a Roma, Rimini e Varese. A far da sfondo, un miscuglio di depressione e follia. Nella periferia della capitale una giovane donna di 23 anni, con un passato di cure presso un centro d’igiene mentale, ha colpito mortalmente alla gola ieri mattina all’alba con un coltello da cucina la figlioletta di due mesi e poi ha cercato di uccidersi piantandosi un secondo coltello in petto. Poco prima a Rimini, nella notte, un padre separato di 27 anni si era gettato dall’ottavo piano di un palazzo stringendosi al petto il bambino di otto mesi avuto da una relazione con una giovanissima romena. L’uomo e il bimbo sono morti sul colpo. Due vicende terribili che sono andate ad aggiungersi alla scoperta del corpicino di un neonato nascosto in un armadio in una casa di Uboldo (Varese) da un’altra madre di 22 anni, Stefania M., da ieri accusata di omicidio volontario.

LA COLTELLATA - Un’alba livida, a Roma, ha registrato l’urlo che si è levato poco dopo le sei del mattino in una stradina della Romanina, quadrante sud della città. In un seminterrato un falegname di 31 anni, Marco Mariani, si era appena svegliato scoprendo la convivente insanguinata nel letto, con un coltello piantato dentro il petto. La donna, la commessa di profumeria Maria De Pace di 23 anni, ansimava: «Dovevo farlo, ho ucciso il demonio...». Il demonio era la loro bambina di due mesi, Ilaria, uccisa nel bagno con una coltellata alla gola.
«È successa una tragedia», così è stato svegliato subito dopo il padrone di casa. Il giovane falegname che aveva citofonato in preda alla disperazione ha poi raccontato agli agenti della Squadra Mobile il suo calvario, a fianco di una donna che dagli stessi psichiatri del dipartimento di salute mentale dell’Asl Rmc era stata invano dissuasa dall’affrontare una maternità.
«Gliel’avevano detto - ha ricordato più tardi Paolo Marconi, lo zio della bimba -. Ma non aveva voluto saperne. Erano venuti a vivere qui a settembre, quando lei era ormai incinta di qualche mese. Lei frequentava i pentecostali, a Pietralata, si era un po’ fissata sul battesimo della bambina. Chissà cosa le è scoppiato in testa.». Forse l’idea di dover aspettare per il battesimo che la bimba diventasse adulta, secondo il rito pentecostale, ha scatenato paure incontrollabili, come quella del demonio. In casa prescrizioni di Xanax, un tranquillante, e tracce di vecchi appuntamenti con la psichiatra pubblica Teresa Gravagnuolo, l’ultimo a dicembre.

IL VOLO DALLA FINESTRA - A Rimini Antonio Leggeri, un piccolo commerciante di 27 anni, ha scelto di morire col suo piccolo Emiliano di 8 mesi lanciandosi nel vuoto dall’ottavo piano di un palazzo di via Monfalcone davanti agli occhi di alcuni agenti che lo aspettavano dopo averlo accompagnato a casa a riprendere il bimbo. L’uomo alcuni giorni fa aveva sottratto il bimbo alla compagna, Nicoletta, una romena diciannovenne, e si era rifugiato in casa di due amici cingalesi, commercianti come lui. Aveva reagito così dopo mesi di dissapori a una decisione del Tribunale dei minori di Bologna, che aveva disposto l’affidamento congiunto del bambino con l’obbligo per i genitori di vivere sotto lo stesso tetto, un obbligo infranto nei giorni scorsi quando la coabitazione era finita e l’uomo s’era eclissato col figlio. La donna era allora andata in questura e gli agenti dopo aver rintracciato il padre erano riusciti a convincerlo a riportare il bambino dalla madre. Ma una volta entrato in casa, l’uomo ha deciso di farla finita gettandosi da una finestra. Con in braccio il bambino.

Corriere della Sera 18.3.05
LO PSICHIATRA «Pianto e pessimismo, i segnali della crisi dopo il parto» Paolo Pancheri: la malattia colpisce dal 30 all’80 per cento delle neomamme
Margherita De Bac

ROMA - Comincia con un profondo, ricorrente pessimismo che si manifesta con affermazioni come queste: «Tanto non sono capace, la mia vita è un fallimento, il nostro matrimonio è in crisi». Il pianto è un compagno costante. Sono alcuni dei segnali premonitori della depressione, patologica o successiva al parto: «Quando in famiglia si cominciano a notare comportamenti quantitativamente rilevanti di questo genere nel partner o in un parente non bisogna sottovalutarli. Il dialogo, l’ascolto sono già uno strumento di prevenzione. Mai minimizzare con la frase di prammatica "ti passerà"» commenta i due casi di Roma e Rimini Vincenzo Mastronardi, psichiatra e criminologo dell’Università La Sapienza. E’ stato uno degli argomenti affrontati nell’ultimo congresso della Società italiana di psicopatologia organizzato a Roma, presidente Paolo Pancheri. Non c’è certezza sulle cause che hanno spinto una madre a uccidere col coltello la sua neonata e un padre a gettarsi dalla finestra col bambino di sette mesi.
Per quanto riguarda la donna, l’istinto omicida nei confronti del figlio può essere attivato da due tipi di depressione, patologica (ne sono affette 17 italiane su 100) e post partum (il cosiddetto «Baby blue», che accompagna dal 30 all’80% delle neomamme, dura circa un mese dopo la nascita e di tanto in tanto degenera in gesti estremi). «In questo secondo caso - distingue Mastronardi - si rintraccia l’immaturità ad affrontare l’essere madre, condizione che si può accompagnare a basse soglie di tolleranza». Ambedue le condizioni dipendono da una visione negativa di sé e del mondo e si esteriorizzano con una serie di segnali. Ogni tipo di difficoltà, sia pur banale e ridicola all’apparenza, viene ingigantita. Se i comportamenti si protraggono nel tempo e il problema cronicizza, il figlio può diventare oggetto di «proiezione». Il suicidio allargato diventa l’unica via per salvarlo.

Il Messaggero 18.3.05
L’OTTIMISMO ufficiale...
di FRANCO FERRAROTTI


L’OTTIMISMO ufficiale può ben continuare a enumerare i suoi traguardi e a dar fiato alle fanfare dei suoi trionfi. E’ comprensibile, ma ad uno sguardo anche rapido e superficiale sulla realtà effettiva di questo Paese, non appare giustificabile. Correttamente, d’altro canto, l’opposizione sottolinea la caduta della produzione industriale e il perdurante disagio di un precariato che somiglia in maniera sempre più inquietante ad una ferita che si trasforma in cancrena. Tutto questo è vero, ma non basta. La cronaca, nei suoi semplici, spietati resoconti, ci dice che questo Paese, rapidamente trasformatosi da Paese agricolo in società industriale, manca ancora vistosamente di una cultura industriale, la prontezza dei servizi di protezione sociale, la velocità dei loro interventi e la tempestività dei loro apporti, servizi sociali che suppliscano validamente a quella rete protettiva della famiglia allargata che è venuta meno.
Tre fatti di cronaca gettano una luce sinistra e angosciante sulla qualità della vita quotidiana in Italia. Le vittime sono tre bambini, in circostanze diverse, che andranno attentamente analizzate, ma le vittime sono anche gli adulti, madri e padri, dalla mamma che accoltella la figlia di due mesi per quindi rivolgere l’arma contro se stessa al padre che si butta dall’ottavo piano con il bambino di otto mesi, infine, caso che ci riporta indietro nel tempo, all’epoca in cui una gravidanza indesiderata si traduceva inevitabilmente in tragedia, nel varesotto, in una delle zone più prospere d’Italia, una ragazza, all’insaputa dei genitori, partorisce da sola, chiude la sua creatura in un sacchetto di plastica nel buio di un armadio, esplode l’emorragia, corre in ospedale; quando le forze dell’ordine arrivano e trovano l’infante nell’armadio, sono di fronte a un corpicino senza vita.
Com’è possibile? Nell’epoca del viagra, dei profilattici a varia sensibilità, del femminismo militante e del permissivismo imperante (“il corpo è mio e me lo gestisco io”), com’è possibile che si diano ancora esempi così gravi di ritardo civile, che una giovane donna senta di dover nascondere il suo stato alla sua stessa famiglia per timore di chi sa quali rimproveri e vada incontro, fatalmente, ad un esito tragico?
Di fronte a questi fatti orripilanti si parlerà di follia, raptus incontrollabile, esasperazione emotiva, offuscamento della capacità di intendere e di volere. D’accordo. Tutti questi elementi e fattori possono essere presenti e attivi in ogni singolo caso specifico. Ma è il quadro sociale che non va dimenticato, il contesto pesa. Dove sono, non solo le forze dell’ordine già oberate per la lotta contro la criminalità comune e organizzata, ma dove sono coloro che detengono ruoli di responsabilità nella comunità, i sacerdoti, gli assistenti sociali, i politici locali, i sindacalisti? E’ troppo facile versare lacrime sulle apparentemente piccole tragedie della vita quotidiana e mettersi con un certo grato di commozione, certamente genuina, e magari con un applauso all’uscita delle piccole bare bianche dalla chiesa, la coscienza a posto. Qualcosa scricchiola negli assi portanti della nostra società. La follia degli individui non piove dalle nuvole. E’ la spia di contraddizioni profonde. Si manifesta negli individui e nei loro comportamenti aberranti, ma per capirla fino in fondo e apprestare i rimedi idonei occorre chiamare in causa la società globale.

studiocataldi.it 17/03/2005
La donna, di 23 anni, da tempo era sottoposta a cure psichiatriche
DUE BIMBI DI POCHI MESI UCCISI DAI GENITORI A ROMA E RIMINI
A Rimini, un uomo di 28 anni si è gettato insieme al figlioletto di sette mesi dall'ottavo piano di un condominio. Sono morti entrambi

Roma, 17 mar. (Adnkronos) - Doppia tragedia familiare a Roma e Rimini dove due bimbi di pochi mesi sono stati uccisi dai loro genitori. Nella capitale una donna di 23 anni ha ucciso con una coltellata la figlia di due mesi e poi ha tentato di suicidarsi. E' successo all'alba di oggi in via Carlo Coccorese, alla Romanina. Sul posto è intervenuta la polizia, che ha fermato la madre della bimba, ora ricoverata al Policlinico Casilino per le ferite da taglio all'addome e al torace che s'è procurata da sola dopo aver ucciso la figlia nel bagno di casa. La donna, da tempo sottoposta a cure psichiatriche, dopo l'infanticidio si sarebbe rimessa a letto, dove si trovava il compagno ancora addormentato. In quel momento nell'abitazione si trovavano anche gli zii della piccola vittima. Le indagini sono coordinate dalla Squadra mobile. A dare l'allarme al 113 è stato appunto il convivente della giovane, 31 anni, dopo aver scoperto il cadavere della bambina nella vasca da bagno. A Rimini, un uomo di 28 anni, originario di San Giovanni Rotondo (in provincia di Foggia), si è gettato stanotte insieme al figlioletto di sette mesi dall'ottavo piano di un condominio di via Monfalcone a Rimini. Sono morti entrambi. Alla base del gesto potrebbe esserci un contrasto con la giovane moglie, una rumena di 18 anni, per l'affidamento del piccolo. Sembra, infatti, che lo scorso agosto l'uomo abbia allontanato la compagna da casa e da allora non le faceva vedere il bambino. A quel punto la donna si è rivolta alla polizia denunciandone la scomparsa. Rintracciato, pare che il padre stanotte, dopo un colloquio in questura, sia stato accompagnato dagli agenti a prelevare il figlioletto dall'abitazione di alcuni amici in via Monfalcone, ma una volta giunto in casa si è gettato nel vuoto con la creatura.

kataweb.it/news
Varese, 17 mar 2005 - 11:41
VARESE, CADAVERE NEONATO IN ARMADIO, ACCUSATA LA MADRE

Occultamento di cadavere. E' questa l'accusa formulata per ora dal sostituto Loredana Giglio della Procura di Busto Arsizio, alla 22enne di Uboldo (Va). Dopo aver partorito, la donna ha messo il neonato in un sacchetto di plastica e chiuso in un armadio di casa dove e' stato trovato qualche ora dopo, privo di vita, dai Carabinieri. S.M. potrebbe anche vedersi contestare il reato ben piu' grave di infanticidio qualora l'autopsia, che sara' eseguita nelle prossime ore, dovesse stabilire che il neonato e' deceduto dopo il parto. La ragazza e' gia' madre di un'altra bimba di un anno e da pochi mesi si e' trasferita con il convivente in una palazzina di Uboldo.

«Si dice creatività, si pronuncia nevrosi.
O addirittura psicosi»

Corriere della Sera 18.3.05
La critica analitica di Elio Gioanola applicata ai grandi del ’900:
nei conflitti irrisolti dell’inconscio la chiave del successo artistico
le nevrosi dei geni


Si dice creatività, si pronuncia nevrosi. O addirittura psicosi. La tesi di Elio Gioanola è presto detta: «Dietro e dentro l'opera c'è sempre la presenza di un conflitto pulsionale, di un desiderio inibito e deviato, di una sofferenza». Gioanola infatti è un critico psicanalitico della letteratura. Uno dei pochi. Perché in Italia, come dimostra il saggio introduttivo del suo nuovo libro ( Psicanalisi e interpretazione letteraria , Jaca Book, pagg. 446, 24 ), quello tra psicanalisi e letteratura è sempre stato un rapporto difficile. I nomi, dopo quello di Giacomo Debenedetti, sono noti: Stefano Agosti, Francesco Orlando, Mario Lavagetto e pochissimi altri. I numerosi saggi contenuti nel volume di Gioanola sono sondaggi che vanno «al di là della compiutezza formale» dell'opera letteraria per indagare le «zone oscure del fantasmatico profondo». Detto in parole povere, analizzano i testi in relazione al vissuto dei loro autori, alle loro fantasie, paure, ossessioni, e viceversa. Rifiutando un biografismo di superficie ma anche quella sacralità del testo come un tutto chiuso e spiegabile in sé. Opponendosi dunque alle letture strutturaliste o sociologico-marxiste che hanno segnato molta parte della nostra critica.
«La tradizione idealistica italiana - dice Gioanola - ha influito sulla critica italiana per oltre mezzo secolo: c'è stata una specie di storicismo radicale che ha impedito una vera attenzione alla psicanalisi». Dunque, da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale, da Caproni a Sanguineti, tutta la letteratura italiana moderna si trova qui raccolta sotto i fari dell'analisi dell'inconscio. Da questo e dagli studi precedenti di Gioanola, viene fuori, volendo, una mappa dei nostri scrittori come «casi clinici». A cominciare da quelli che il critico considera i più gravi: Luigi Pirandello, Federigo Tozzi e Carlo Emilio Gadda. Vediamo.
«La personalità di Pirandello - dice Gioanola - ha a che vedere con una vera e propria psicosi, con una compromissione della consistenza dell'io. Nel Fu Mattia Pascal , l'identità del protagonista è impossibile, una personalità che tende a scindersi e un io che esplode». Passando dal personaggio al suo creatore, le cose stanno diversamente, ma non troppo. «La condizione psicologica dello scrittore è quella di uno schizoide sano di mente, per così dire, uno schizoide che non diventa schizofrenico ma che è tendenzialmente scisso. Nelle lettere alla sorella, Pirandello rivela un'ossessione della follia che poi si incrementa quando si sposa con Antonietta, con esplicite manifestazioni di sessuofobia». Altra storia quella di Italo Svevo, suo contemporaneo. «L'io di Svevo è un io integro, che però stenta a rapportarsi al reale. Svevo soffre di una nevrosi isterica che ritroviamo in Zeno: tutti i personaggi sveviani comprano l'amore. Si pensi alla tabaccaia di Zeno, che per integrare le entrate si dà alla prostituzione». Il problema di Tozzi è un altro: il padre. «Basta leggere Con gli occhi chiusi , dove c'è un padre violento che fa pensare al padre di Kafka. Anche la violenza espressionistica di Tozzi è una ribellione verso il padre. La madre, viceversa, era una povera vittima che però, come quella di Kafka, alla fine sta al gioco di suo marito contro il figlio».
Tolto il caso di Dino Campana, la cui «écriture en folie» è piena di tautologie e di balbettamenti tipici del delirio psicotico, per trovare un caso di malcelata follia, si arriva subito all'ingegner Gadda. «Un nevrotico ossessivo», secondo Gioanola, «che spesso si spinge fino alla paranoia: non dimentichiamo che Gadda negli ultimi anni vedeva minacce d'ogni genere e persino assassini dappertutto». ovviamente anche qui il rapporto con i genitori è cruciale. «Un vero e proprio lapsus è contenuto in una sintesi biografica di Gadda, dove invece che "famiglia paterna" parla della sua "famiglia padreterno". Più lapsus di questo...». Gioanola ricorda un episodio ormai leggendario: quando il critico Vigorelli si presentò sotto casa Gadda e chiese al citofono se ci fosse lo scrittore, la madre di Carlo Emilio rispose: «Quale scrittore, qui c'è l'ingegner Gadda», e lo cacciò.
Altro caso clinico complesso per le relazioni familiari è quello di Giovanni Pascoli, cui Gioanola ha anche dedicato una monografia intitolata Sentimenti filiali di un parricida : «Pascoli non è capace di parlare da uomo, - dice - in lui c'è una netta dominanza del materno e la figura del padre è un ingombro sulla strada dell'identificazione con la madre: c'è un infantilismo anche espressivo che è adesione all'originario, regressione verso l'arcaico e rifiuto di ogni idea di progresso. Per questo, quando suo padre muore si sviluppa in lui un senso di colpa che lo porta a una devozione smodata verso la famiglia d'origine. Dall'Ottocento in poi il poeta si sente oppresso dalla modernità e rivendica un'adesione alla natura: è impressionante come in poesia si moltiplichino le figure dell'oppressione: donne, ebrei, omosessuali...».
Sul versante opposto rispetto al Pascoli, c'è l'estroverso D'Annunzio, per il quale «nulla è segreto e tutto va esibito»; non per nulla, se il Vate ammirava il poeta-fanciullino, non si può dire che sia valido l'inverso. «L'esibizionismo sfrenato di D'Annunzio - dice Gioanola - nasconde una vocazione oscura: il poeta della vitalità per eccellenza è in realtà attratto dalla morte e ossessionato dal suicidio. C'è in lui un delirio di onnipotenza tale che non può trovare un corrispettivo se non nella morte». La stessa vocazione di Pavese? Non proprio, con Pavese siamo altrove. Siamo nell'ambito di una malinconia leopardiana che «non è semplice malattia dell'animo, ma senso di in appartenenza e di deiezione, incapacità di identificarsi con la ragione: la vigna della sua campagna per Pavese è al di là, come un infinito leopardiano. E' una nostalgia radicale per ciò che è andato perduto senza mai essere stato posseduto, una speranza disperata perché rivolta all'indietro». Questo malessere è aggravato dalle circostanze storico-biografiche: «Nel decadente Pavese la malinconia o l’inadeguatezza del vivere è rafforzata dal fatto che si viene a trovare in un ambiente laico-illuministico, la Torino degli anni Venti, che sente estraneo. Il nevrotico Pavese è incapace di risolvere la propria malinconia nella cultura data, positivistica e razionalista».
Il poeta è un Narciso? Se passiamo a Umberto Saba, la risposta è: sì. «Saba è un narcisista radicale. Lavagetto riconduce Saba alla presenza di Edipo come instauratore del mito "donna che non si può avere". Ma io gli oppongo Oreste, cioè il mito del matricida e dell'omosessuale che ama Pilade: la sessualità non è ancora un oggetto dato, dunque siamo in zone preedipiche, molto arcaiche». Non per nulla Saba, alla nascita, fu abbandonato da sua madre che disse: «se volete coprirlo, copritelo». Il padre era fuggito subito dopo le nozze e il piccolo Umberto fu dato subito a balia. Nasce da lì il risentimento per la madre, che diventa «faccia marmorea», e insieme «un'identificazione dell'io con il ruolo materno»: il poeta diventa la madre che non ha avuto. Il matrimonio con Lina, spiega Gioanola, farà precipitare il poeta in una crisi depressiva: «malinconia da scelta mancata dell'autentico oggetto d'amore». Quale? Il «bel fanciullo appassionato», ovviamente. Una scelta erotica che verrà raccontata nel romanzo Ernesto .
Opposta e speculare a quella di Saba è la condizione psicologica di Eugenio Montale: «Ha voluto essere il padre, - dice Gioanola, - meglio, non si è arreso alla tentazione materna ma senza riuscire a identificarsi con il padre». Figlio di un commerciante che vendeva trielina al suocero di Svevo, figlio dunque della borghesia mercantile, Eugenio cresce a famiglia e lavoro. Il padre è padreterno. «C'è tutto un filone novecentesco - ricorda Gioanola - di figli nevrotici e geniali di padri commercianti: Svevo, Kafka, Mann. Il padre di Montale voleva un figlio ragioniere». Se la Triste sabina è madre, il mare degli Ossi è tutto nel segno del padre. «Il paterno è qualcosa che si vorrebbe inutilmente conseguire: da qui si instaura una fantasmatica della caccia, investita di una carica di emozioni primarie legate al rapporto conflittuale padre-figlio». Come spesso accade, è una caccia che paralizza nel vivere ma che dà energia alla «angelica farfalla» della poesia.

«lo stile è l'uomo stesso»
(George-Louis Leclerc de Buffon)

L'Unità 18.3.05
lo sfogo su «Libero»
Veneziani: mia moglie mi brucia i libri
Fulvio Abbate

In questa vicenda è possibile immaginare un uomo di destra distrutto, disperato, un uomo di destra straziato fra i suoi libri violati, calpestati, strappati, venduti per sicuro sfregio dall'ex moglie che ha scelto di diventare una furia irrefrenabile. L'uomo di destra in questione è Marcello Veneziani, non un tipo qualunque, bensì la pupilla della nostra destra di governo, membro di spicco del consiglio d'amministrazione della Rai, gioiello di famiglia della destra intellettuale. La donna che, parole sue, da tempo si starebbe accadendo sulle prime edizioni e altri volumi «chiosati, con annotazioni a margine, sottolineature, spesso introvabili», purtroppo, non c'è modo di vederla bene in volto.
Una storia di separazione in corso, con gli avvocati al lavoro, il magistrato che dovrà mettere ordine nella complicata matassa, così lo scenario. Di fronte all'evidenza dello sfregio, l'uomo di destra distrutto Veneziani prende carta e penna e, lasciando da parte il pudore e perfino il timore di sporcare il proprio blasone professionale, mette tutti a conoscenza del proprio dramma umano dalle pagine di «Libero».
«Cari lettori, vi considero ormai la mia famiglia e perciò vorrei parlarvi con il cuore in mano di cose che solitamente non si scrivono sui giornali», dichiara subito il consigliere d'amministrazione della Rai. Quanto al resto della sua lettera aperta, contiene sia lacrime da bibliofilo («la cosa a cui più tengo, dopo le persone care, sono i miei libri. Ne ho 15 mila divisi in sette grandi librerie a parete, sono il mio pane e la mia anima; li vivo e li respiro... ») e amarezza da studioso privato violentemente delle proprie «sudate carte». Veneziani cita le perdite: «Gentile, Soffici, Bergamin, Borges, Campo, testi spariti. Strappate le “Enneadi” di Plotino, opera a me cara a cui dedicai un mio libro, bruciata la biografia di Simone Weil, bruciato “Così parlò Zarathustra”». Accenna poi alla sorte toccata alle opere di Heidegger, di Arendt, «con le mie annotazioni, e potrei continuare il doloroso elenco, a cominciare dai libri che mi sono più cari, su cui studio e ho studiato. Non posso far nulla, oltre una denuncia, libri deturpati o spariti non sono tomi intonsi per abbellire la biblioteca; no, sono libri letti, chiosati da me, con annotazioni a margine, sottolineature, spesso introvabili. Non possono essere ricomprati».
Strada facendo, come è proprio di certi bibliofili, Veneziani non sa davvero nascondere neppure un grammo di disperazione. Che tuttavia non gli impedisce di soffermarsi sulle modalità distruttive dell'ex moglie: «Altri sono stati prima nascosti tra i materassi, sotto i divani, per poi farli sparire del tutto. I miei figli hanno salvato le opere di Borges, almeno per ora. Però, confermano i miei figli, i libri escono di casa in gruppi di 40-50, per non far più ritorno, ed essere venduti. Ricevo telefonate deliranti che mi ripetono: venduti».
Ci sarebbe la soluzione di portare via tutto, ma Veneziani non sembra contemplarla perché ha «speranza di rientrare in casa dopo che i miei figli hanno chiesto al magistrato di restare con me nella casa famigliare».
Non resta dunque che immaginarlo, come lui stesso si descrive, costretto a entrare in casa furtivamente; giusto il tempo di prendere un cambio d'abito, un paio di mutande, alcune magliette, o, più nobilmente, per consultare in fretta questo o quell'altro testo. Non è dunque vero, come il comunista ha creduto fino a questa mattina, che i fascisti ignorano dove i libri stiano esattamente di casa. O, nel migliore dei casi, hanno letto soltanto «Navi e poltrone» dove opportunamente si dimostra che fu la Regia Marina a sabotare lo sforzo bellico di Mussolini.
f.abbate@tiscali.it

La Provincia 18.3.05
l'intervista Willy Pasini, sessuologo
Uomini vittime: andiamoci piano
S. Gol.

Reduce dalla registrazione di una puntata di "Porta a porta" andata in onda ieri sera, Willy Pasini non ci sta a catalogare l'uomo come la vera vittima della coppia che scoppia. Psichiatra, sessuologo e scrittore di libri che hanno sviscerato ogni aspetto, nel bene e nel male, del rapporto d'amore, Pasini si dice anche contrario alla nuova moda dell'outing, della confessione "pubblica" dei sentimenti più privati. Eppure, ormai non che vip che si rispetti che non lavi i panni sporchi in pubblico. Lo so, è un fenomeno diffuso. Ma non mi piace. Io chiamo questa moda extimità. E' l'esatto contrario dell'intimità. E' come indossare una sottoveste sopra gli abiti, anzichè sotto. Sono convinto, e la mia esperienza di sessuologo me lo conferma, che i sentimenti devono restare privati, anche quando un matrimonio, un'unione si sfascia. Quindi non approva neanche la confessione di Marcello Veneziani? Non conosco questo caso, quindi non posso parlarne. Posso però dire in modo più generale che questa voglia di outing a tutti i costi forse farà salire le vendite dei giornali o salire gli ascolti della tv ma è controproducente. E cosa pensa delle tante storie di ordinaria separazione in cui è lui che diventa la parte debole? Ogni giorno nasce una nuova associazione che riunisce padri separati. Sulla storia dell'uomo che soccombe, dell'uomo-vittima non sono tanto d'accordo. O meglio, ci saranno anche casi che dicono il contrario, ma la verità è che il maschio ora si ritrova spesso a subire una rottura del rapporto perché a volerlo è la donna e, semplicemente, l'uomo non è abituato a subire una decisione. E soprattutto non è abituato a venire abbandonato. E' così da secoli, non inventiamo nulla. Certo, sono invece favorevole alle battaglie dei padri separati quando si parla di figli negati. Un genitore ha diritto a seguire, vedere, proteggere i propri figli anche quando il matrimonio si è rotto. Sono d'accordo sull'affido condiviso. Sarebbe un grande passo verso la civiltà della coppia separata, per il bene dei figli oltretutto. Ammetterà almeno che qualcosa di strano nel rapporto tra i sessi c'è, se è vero che gli uomini hanno sempre più paura a lasciarsi andare. Non c'è dubbio: gli uomini sono terrorizzati. La donna fa paura, o meglio fa paura la determinazione della donna. Sa cosa sento spesso dai ragazzi nella mia veste di sessuologo? "Non mi voglio sposare perché so già come va a finire: lei tra due anni mi molla, in più la devo mantenere e magari devo anche rinunciare al figlio che è nato". Sposarsi, diciamolo, non conviene più. E le donne, improvvisamente sono tutte aguzzine? Le donne dovrebbero certo farsi un esame di coscienza prima di piangere dicendo che non esistono più uomini veri.

Bertinotti a Torino

18 Marzo 2005
La Stampa 18.3.05
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE SULLA CRISI FIAT E DELL’INDOTTO AUTO
Bertinotti: serve una guida pubblica
per una nuova politica industriale

Il Piemonte paga il fallimento delle politiche del laisser-faire, del non intervento pubblico sulla crisi industriale volute da Berlusconi e Roma e da Ghigo in Piemonte. E’ ora di cambiare. Serve una guida pubblica di questa fase di transizione, un progetto nazionale su mobilità e innovazione che coinvolga la Fiat, le banche e lo Stato e le Regioni». E’ la proposta che secondo Fausto Bertinotti deve fare «una coalizione di centrosinistra che si candida alla guida del Piemonte». Il segretario di Rifondazione, a Torino per sostenere la candidatura di Mercedes Bresso, sottolinea come «in Francia e Germania non si discute se lo Stato debba intervenire per salvare un settore strategico ma di come farlo». Dunque «possiamo farlo anche in Italia invertendo la linea fin qui seguita da Berlusconi». Certo «non si tratterebbe di un intervento di tipo assistenziale ma di un progetto di sviluppo decennale del settore auto». Aggiunge: «Naturalmente lo Stato deve intervenire se la proprietà inverte la tendenza alla diversificazione e alla fuoriuscita dall’auto». Anche le «banche devono assumersi la responsabilità del progetto».
Bresso ipotizza «la possibilità che la Regione intervenga per dare corpo a quei progetti sul motore pulito. Interventi economici ma anche legislativi come, ad esempio, stabilire che in un determinato numero di anni sarà permessa la circolazione solo alle vetture ecologiche».
Prima di loro il capolista indipendente di Prc, Mario Valpreda, aveva illustrato i costi sociali della precarietà: «Ci sono studi che dimostrano che chi è senza lavoro o subisce stress per l’insicurezza del posto si ammala il 30 per cento in più di chi è garantito. Per questo serve un sistema di protezione regionale che garantisca le fasce deboli».

continua la discussione sul caso Moro

Corriere della Sera 18.3.05
DIBATTITO
La discussione avviata da Sergio Luzzatto sugli sviluppi della politica italiana dopo l’assassinio del presidente dc
L’unità antifascista era finita. Il delitto Moro la seppellì
di LUCIANO CAFAGNA

L’assassinio di Aldo Moro è un evento storico ancora presente nella coscienza di coloro che, di qualsiasi età, l’abbiano vissuto. Si continuano a girare film su quell’episodio, a scrivere libri, a parlarne sui giornali. È rimasto presente, quel fatto orribile, come momento, forse attimo, di vita intensamente collettiva. In senso passivo, come scossa ricevuta, ad alta tensione. Ma anche in senso attivo. E mi spiego. Gli italiani, infatti, dopo quel terribile evento, non furono più gli stessi del giorno prima. Non lo furono i cittadini semplici, non lo furono i politici e i politicizzati, non lo furono gli stessi anti-cittadini, gli «antagonisti» di allora. Nei cittadini semplici si fece più nettamente strada la persuasione che la drammaticità della convivenza politica fosse giunta, in quei micidiali anni Settanta, a un punto di saturazione, di insopportabilità. Bisognava finirla con quella violenza insensata. E bisognava finirla pure con una politica troppo permissiva, con la tolleranza verso l’ostilità alle funzioni stesse dell’ordine pubblico, e a chi le assolveva. E forse anche con le idee di compromesso a ogni costo, con la prassi che era stata dello stesso Moro.
Non abbiamo molto di più del rapporto fra i dati elettorali del 20 giugno 1976 e quelli del 3 giugno 1979 (Moro fu ucciso il 9 maggio 1978) per documentare attendibilmente le reazioni d’opinione intervenute dopo il delitto Moro. Il primo effetto che salta agli occhi è l’incremento di quasi 3 punti nell’astensionismo elettorale, accompagnato da un paio di punti di aumento nella percentuale dei voti non validi (schede bianche o annullate). La seconda indicazione è la vistosa perdita di voti comunisti, il 4%, non compensata affatto dal molto lieve incremento della sinistra estremista. La terza indicazione è che l’elettorato si era spostato, ma non a destra: anzi il neofascismo perdeva addirittura. La quarta indicazione è la rimarchevole affermazione del partito radicale che tocca il 3,5%.
Si può tentare una interpretazione di questo che è forse - se si considera la brevità dell’intervallo temporale - uno dei più rimarchevoli mutamenti nell’orientamento degli elettori italiani prima degli incerti assestamenti degli anni Ottanta che sfoceranno alla fine nella rivoluzione elettorale del 1994. La consultazione elettorale successiva al delitto Moro avviò in Italia l’inesorabile deriva dell’astensionismo elettorale che ancora continua. Significò, in quel momento, paura o disgusto per la politica, e, chissà, rinuncia, per molti, a illusioni nutrite. Segnò anche un regresso della fiducia che si era andata formando, negli anni precedenti, nei confronti di un partito comunista che appariva serio, pragmatico, moderato, sempre meno filosovietico. Una parte non piccola di coloro che avevano pensato questo si ravvide, probabilmente pensando che, al di là del nuovo volto responsabile, si dovesse piuttosto tener conto di una istigazione originaria attivata dal comunismo, quella che aveva contribuito a diffondere i batteri che erano poi evoluti nel terrorismo. (Una importante ideologa della sinistra, la Rossanda, parlò di «album di famiglia» riconoscibile nella cultura del terrorismo). Dove andarono quei voti? In parte si dispersero, in parte, forse, andarono ai radicali che apparivano allora come un progressismo modernizzante pulito, deciso ma non violento, pragmatico, scevro di ideologie. I voti democristiani rimasero sostanzialmente allo stesso livello del 1976. Sarebbe stato terribile che venisse addirittura punito il partito della vittima: e gli italiani non lo fecero.
In sostanza, il delitto Moro, pose fine alla tremenda crisi degli anni Settanta, crisi politica «organica» avrebbe detto Gramsci, «prova d’orchestra», cioè, insubordinazione generalizzata nella società, secondo la parodia, di immensa amarezza, di un nostro grande regista. Da quel giorno cominciò a tornare il rispetto sociale reciproco e prese a scemare il tasso di violenza nei rapporti politici e sociali.
L’apprezzamento per la mediazione eroica ad ogni costo - che era stata propria del disperato genio politico di Aldo Moro - fece posto - nella cittadinanza politicizzata - all’attesa di un leader forte e decisionista: ma, importantissimo sottolinearlo, non «reazionario». Forse la Prima Repubblica finì con quella tragedia: perché questa aveva concluso il lento fallimento del mito del CLN, di una recuperabile unità antifascista «da dopoguerra»: il mito che aveva accompagnato ambiguamente e senza chiarezza la storia politica italiana dalla fine della egemonia democristiana di De Gasperi alla crisi del centrosinistra anni 60, fino a un abbozzo di «compromesso storico» - ancora il mito del resistenziale CLN - bersagliato da pallottole. Una delle quali raggiunse colui che resterà il più grande capro espiatorio della nostra storia.
Dopo Moro venne Craxi, con una idea, non per caso, di «grande riforma»: era l’idea di una «seconda repubblica». Quella «grande riforma», però, non ci fu. L’assassinio di Moro chiuse la prima repubblica. Ma non aprì la strada alla seconda.
Luciano Cafagna, storico, studioso di Cavour e Toqueville, autore di numerose pubblicazioni, è stato professore di Storia contemporanea all’Università di Pisa, presidente della Società italiana per lo studio della Storia contemporanea e commissario dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza Riformista, in passato vicino al Psi, oggi è presidente dell’associazione «Libertà eguale» che raccoglie l’area liberal dell’Ulivo

Il dibattito sul legame tra il caso Moro e la fine del patto resistenziale si è aperto con un intervento di Sergio Luzzatto sul «Corriere» di martedì 15 marzo. L’articolo prendeva spunto da un recente libro di Agostino Giovagnoli dedicato al rapimento dello statista dc In risposta a Luzzatto, sul «Corriere» del 17 marzo, Michele Salvati ha messo in discussione l’ipotesi che il delitto Moro abbia segnato la fine dell’unità nazionale scaturita dall’antifascismo