Yahoo! Notizie 13.10.04
Mobbing, il peggio deve ancora arrivare
Il Pensiero Scientifico Editore
Paola Mariano
Il mobbing striscia sommerso abbracciando un numero sempre crescente di lavoratori, che però continua ad essere la punta di un iceberg visto che gran parte dei casi di violenza psicologica in ufficio non vengono denunciati.
L’allarme arriva dalla due giorni di lavori dal titolo “Progetto antimobbing: monitoraggio, prevenzione, trattamento, risarcimento", tenutasi alla I Clinica Medica del Policlinico Umberto I ed è avvalorata dagli ultimi dati disponibili sul fenomeno: l'8 per cento dei lavoratori attivi in Europa, corrispondente a 12 milioni di casi, e il 18 per cento nella sola categoria delle istituzioni bancarie, è vittima del mobbing. In Italia il dato invece si aggira intorno al 19 per cento relativamente a quest’anno ed è in continua crescita.
Questi ed altri dati allarmanti, in parte frutto di una ricerca pubblicata nel 2000 dalla European foundation for the improvement of living and working conditions, sono stati resi noti da Emilia Costa, ordinaria della cattedra di Psichiatria dell'Università di Roma La Sapienza, organizzatrice del convegno. Ad essi si aggiungono i non meno inquietanti dati dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza nel lavoro (ISPESL): in Italia negli ultimi dieci anni i casi denunciati di mobbing sono stati 1500, però si stima che siano molti di più, avverte Costa, “perché raramente il fenomeno viene denunciato”. Sul fronte legislativo è attualmente in fase di discussione la legge-quadro sul mobbing, ha spiegato il professor Edoardo Monaco della cattedra di Medicina dell’ateneo romano, rivelando di essere stato convocato insieme ad altri studiosi del fenomeno a luglio scorso dalla Commissione Lavoro del Senato. L’intento attuale, ha precisato Monaco, è di riunire sotto la legge gli aspetti civile e penale delle precedenti leggi in materia di mobbing.
Il Tribunale di Roma, sezione Lavoro, nel 2004 ha emesso tre sentenze in materia di mobbing, due delle quali a favore del lavoratore e una a sfavore, ha detto l'avvocato Massimiliano Costa, a sua volta tra gli organizzatori del convegno. “Il progetto di legge”, ha aggiunto il legale, “prevede articoli che riguardano il risarcimento civile del lavoratore che denuncia di essere stato vittima del mobbing, ma tutto dal punto di vista della legislazione è ancora da decidere”.
Gli esperti riconoscono diverse tipologie di mobbing: mobbing strategico, quando il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori in modo deliberato; mobbing emozionale o relazionale, che si riconosce nelle alterate relazioni interpersonali; mobbing non intenzionale, quando non è evidente la volontà di isolare o estromettere un lavoratore. L’azione discriminatoria può essere messa in atto non solo da un superiore (mobbing verticale), ma anche da un gruppo di colleghi (mobbing orizzontale o trasversale), mentre i medici del lavoro definiscono mobbing dal basso quando viene messa in discussione l’autorità di un superiore.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 13 ottobre 2004
donne di Turchia
Corriere della Sera 13.10.04
L’ATTIVISTA
Le donne e i diritti
DAL NOSTRO INVIATO
Antonio Ferrari
ISTANBUL - Per molte donne turche, la scoperta di avere tanti diritti, oggi garantiti dalle leggi di uno Stato che deve rinnovarsi, è spesso esaltante, talvolta sconvolgente, talora pericolosa. Ma l'Unione Europea, che ha accettato di fidanzarsi con gli eredi della Sublime Porta, ha dato il via libera anche a domande che prima erano vietate o marcivano imputridite dal silenzio e dalla paura, soprattutto nelle immense campagne della Turchia asiatica. A troppi pare ancora sacrilego irrompere fra le regole e i tabù di un villaggio dell'Anatolia, di una casa popolare della sterminata periferia di Istanbul, o magari di un innocuo paesino che s'affaccia sul Mar Nero. Ancor più rivoluzionario è allestire corsi interattivi di educazione alla conoscenza dei propri diritti, e coinvolgere candidate disposte a rischiare angherie familiari (se non peggio), e alla fine ottenerne la piena collaborazione. Adesso, persino nei libri si racconta l'«impresa» di una giovane sposa, che dopo settimane di discussioni con amiche e volontarie, si è alzata in piedi in pubblico, ha dato un calcio alla vergogna e ha detto coraggiosamente quel che tutte le altre pensavano: «Per anni ci è stato insegnato che sesso e sessualità sono il diavolo che dobbiamo temere. Poi, in una notte, il diavolo è diventato un angelo da amare. Credetemi, è impossibile». Come dire: il piacere fisico è una colpa o un diritto? Quella dichiarazione, dura e rivelatrice, ha violato le resistenze del governo e del Parlamento, audaci quando affrontano sfide politiche ed economiche, ma timorosi se devono piantare la flebo del dubbio nelle millenarie tradizioni musulmane. Eppure, quando la Turchia entrerà in Europa, il merito del cambiamento non sarà dei leader o dei loro partiti ma della società civile, e soprattutto delle donne, che lottano da settant’anni, a viso aperto, per conquistarsi il diritto ad una piena uguaglianza. «Vorrei ricordare - dice Zeynep Oral, 58 anni, nota scrittrice e graffiante giornalista - che fu il grande Kemal Ataturk a lanciare la prima e convinta campagna a sostegno dell'altra metà del cielo. Fu, quella, una "positiva discriminazione". C'erano più donne in Parlamento allora di oggi». Ma se le radici della coscienza femminile collettiva affondano nella storia del secolo scorso, gli obiettivi più importanti del lungo cammino sono stati raggiunti negli ultimi cinque anni. Le battaglie (vinte) per modificare prima il codice civile (1999) poi quello penale (recentemente) non sono figlie della volontà del potere politico, ma delle pressioni instancabili di centinaia di associazioni non governative, che ormai raccolgono milioni di sostenitori. L'avvocato Nazan Moroglu, presidente dell'Unione delle donne di Istanbul, che comprende 38 gruppi e 20.000 iscritti, rifiuta le critiche di chi sostiene che il problema non è fare le leggi ma applicarle, perché «senza leggi non c'è un ombrello giuridico per diffondere e difendere i diritti umani di ciascuno». Nazan, donna rocciosa e sincera, descrive, con spietata lucidità, le conseguenze dell'abisso di ignoranza «che troviamo anche qui, perché la vera Anatolia è proprio a Istanbul, mèta di un'inarrestabile immigrazione interna. Dobbiamo combattere contro il 19 per cento di analfabetismo, e lottare per garantire un'istruzione superiore a quel 50 per cento di donne cui è stata negata. D'accordo, per ragioni economiche una famiglia può mandare a scuola uno o due figli, e ovviamente i maschi sono favoriti. Ma se dalla povertà ci si incammina verso la dignità, il problema si può contenere. Ora, subito, con l'Europa finalmente più vicina». Su il sipario, allora, sulla piaga delle violenze e degli abusi familiari. Per la legge turca, il matrimonio è valido solo se gli sposi sono maggiorenni. «Quindi la moglie-bambina, che viene spinta tra le braccia di un marito coatto prima del tempo, resta senza diritti per sempre, anche dopo aver raggiunto la maggiore età - denuncia Nazan -. Sono proprio le unioni religiose, non riconosciute dallo Stato, ad alimentare spaventosamente la crescita demografica. La moglie-bambina vive nella sottomissione più totale, ignora i propri diritti e pensa che il suo unico dovere sia di partorire tanti figli». In un villaggio del Sud-Est, abitato in prevalenza da turco-curdi, una ragazza è stata perseguitata dal consiglio delle famiglie soltanto perché aveva telefonato a una radio e chiesto al Dj una canzone d'amore (senza dedica). Certi che il destinatario del messaggio musicale fosse un uomo diverso da quello imposto dal padre o dai parenti, i capitribù hanno torturato con le accuse più infamanti la giovinetta, che ha rischiato il peggio. «Sarà un caso estremo, ma il solo sospetto d'aver trasgredito le leggi dell'onore può portare alla morte». Ha pochi dubbi Mujde Bilgutay, 38 anni, divorziata, battagliera paladina dei diritti delle donne: «L'ostacolo del delitto d'onore, qui come in tutto il mondo musulmano, è duro da abbattere, ma non ci arrendiamo. Prima o poi, chi resiste si dovrà piegare, nonostante la complessità del problema. Nelle regioni dove è forte l'etnia curda, se una ragazza rifiuta il marito che le è stato imposto e scappa con un altro, è condannata. Dalla morte non la salva neppure il matrimonio riparatore con l'uomo del suo cuore. Il consiglio delle famiglie, per eseguire il crimine, sceglie un giovane che possa sopportare quattro o cinque anni di carcere. Tanto, in prigione verrà trattato con rispetto e benevolenza e, quando uscirà, al villaggio lo accoglieranno come eroe. Sulla costa del Mar Nero, va un po' meglio: il matrimonio può salvare almeno la vita. Nelle città non è meno grave, è solo più discreto. Ecco perché chiediamo pene più severe per chi compie delitti d'onore». Fino a poco tempo fa chi violentava una vergine era punito più severamente di chi approfittava di una donna che non lo era più. «Oggi - dice Mujde - stiamo conquistando il diritto di non fare distinzioni. Pensi che, su 4.000 donne che hanno frequentato i nostri seminari, il 60 per cento è riuscito a ridurre le violenze domestiche, e il 30 per cento è stato capace di eliminarle». I lusinghieri risultati, a fronte di un'impresa davvero titanica, sono il motore del rinnovato entusiasmo. Armate di determinazione e pazienza, anche contro le diffidenze e le reticenze del governo, le ancelle di questa convinta battaglia si trovano a Bruxelles per chiedere sostegno alle colleghe europee. Certe che, se bastasse il loro impegno, la Turchia sarebbe già pronta a entrare nell'Ue.
(1-continua)
LE CIFRE La Turchia conta 70 milioni di abitanti. Per le donne la speranza di vita è 71 anni, 66 per gli uomini
LE BATTAGLIE Tra il ’99 e il 2004 i movimenti femministi sono riusciti a far modificare in parte i codici civile e penale
L’ADULTERIO L’ultima riforma lo scorso 28 settembre: il Parlamento ha approvato il nuovo codice penale nel quale l’adulterio non è più considerato reato
L’ATTIVISTA
Le donne e i diritti
DAL NOSTRO INVIATO
Antonio Ferrari
ISTANBUL - Per molte donne turche, la scoperta di avere tanti diritti, oggi garantiti dalle leggi di uno Stato che deve rinnovarsi, è spesso esaltante, talvolta sconvolgente, talora pericolosa. Ma l'Unione Europea, che ha accettato di fidanzarsi con gli eredi della Sublime Porta, ha dato il via libera anche a domande che prima erano vietate o marcivano imputridite dal silenzio e dalla paura, soprattutto nelle immense campagne della Turchia asiatica. A troppi pare ancora sacrilego irrompere fra le regole e i tabù di un villaggio dell'Anatolia, di una casa popolare della sterminata periferia di Istanbul, o magari di un innocuo paesino che s'affaccia sul Mar Nero. Ancor più rivoluzionario è allestire corsi interattivi di educazione alla conoscenza dei propri diritti, e coinvolgere candidate disposte a rischiare angherie familiari (se non peggio), e alla fine ottenerne la piena collaborazione. Adesso, persino nei libri si racconta l'«impresa» di una giovane sposa, che dopo settimane di discussioni con amiche e volontarie, si è alzata in piedi in pubblico, ha dato un calcio alla vergogna e ha detto coraggiosamente quel che tutte le altre pensavano: «Per anni ci è stato insegnato che sesso e sessualità sono il diavolo che dobbiamo temere. Poi, in una notte, il diavolo è diventato un angelo da amare. Credetemi, è impossibile». Come dire: il piacere fisico è una colpa o un diritto? Quella dichiarazione, dura e rivelatrice, ha violato le resistenze del governo e del Parlamento, audaci quando affrontano sfide politiche ed economiche, ma timorosi se devono piantare la flebo del dubbio nelle millenarie tradizioni musulmane. Eppure, quando la Turchia entrerà in Europa, il merito del cambiamento non sarà dei leader o dei loro partiti ma della società civile, e soprattutto delle donne, che lottano da settant’anni, a viso aperto, per conquistarsi il diritto ad una piena uguaglianza. «Vorrei ricordare - dice Zeynep Oral, 58 anni, nota scrittrice e graffiante giornalista - che fu il grande Kemal Ataturk a lanciare la prima e convinta campagna a sostegno dell'altra metà del cielo. Fu, quella, una "positiva discriminazione". C'erano più donne in Parlamento allora di oggi». Ma se le radici della coscienza femminile collettiva affondano nella storia del secolo scorso, gli obiettivi più importanti del lungo cammino sono stati raggiunti negli ultimi cinque anni. Le battaglie (vinte) per modificare prima il codice civile (1999) poi quello penale (recentemente) non sono figlie della volontà del potere politico, ma delle pressioni instancabili di centinaia di associazioni non governative, che ormai raccolgono milioni di sostenitori. L'avvocato Nazan Moroglu, presidente dell'Unione delle donne di Istanbul, che comprende 38 gruppi e 20.000 iscritti, rifiuta le critiche di chi sostiene che il problema non è fare le leggi ma applicarle, perché «senza leggi non c'è un ombrello giuridico per diffondere e difendere i diritti umani di ciascuno». Nazan, donna rocciosa e sincera, descrive, con spietata lucidità, le conseguenze dell'abisso di ignoranza «che troviamo anche qui, perché la vera Anatolia è proprio a Istanbul, mèta di un'inarrestabile immigrazione interna. Dobbiamo combattere contro il 19 per cento di analfabetismo, e lottare per garantire un'istruzione superiore a quel 50 per cento di donne cui è stata negata. D'accordo, per ragioni economiche una famiglia può mandare a scuola uno o due figli, e ovviamente i maschi sono favoriti. Ma se dalla povertà ci si incammina verso la dignità, il problema si può contenere. Ora, subito, con l'Europa finalmente più vicina». Su il sipario, allora, sulla piaga delle violenze e degli abusi familiari. Per la legge turca, il matrimonio è valido solo se gli sposi sono maggiorenni. «Quindi la moglie-bambina, che viene spinta tra le braccia di un marito coatto prima del tempo, resta senza diritti per sempre, anche dopo aver raggiunto la maggiore età - denuncia Nazan -. Sono proprio le unioni religiose, non riconosciute dallo Stato, ad alimentare spaventosamente la crescita demografica. La moglie-bambina vive nella sottomissione più totale, ignora i propri diritti e pensa che il suo unico dovere sia di partorire tanti figli». In un villaggio del Sud-Est, abitato in prevalenza da turco-curdi, una ragazza è stata perseguitata dal consiglio delle famiglie soltanto perché aveva telefonato a una radio e chiesto al Dj una canzone d'amore (senza dedica). Certi che il destinatario del messaggio musicale fosse un uomo diverso da quello imposto dal padre o dai parenti, i capitribù hanno torturato con le accuse più infamanti la giovinetta, che ha rischiato il peggio. «Sarà un caso estremo, ma il solo sospetto d'aver trasgredito le leggi dell'onore può portare alla morte». Ha pochi dubbi Mujde Bilgutay, 38 anni, divorziata, battagliera paladina dei diritti delle donne: «L'ostacolo del delitto d'onore, qui come in tutto il mondo musulmano, è duro da abbattere, ma non ci arrendiamo. Prima o poi, chi resiste si dovrà piegare, nonostante la complessità del problema. Nelle regioni dove è forte l'etnia curda, se una ragazza rifiuta il marito che le è stato imposto e scappa con un altro, è condannata. Dalla morte non la salva neppure il matrimonio riparatore con l'uomo del suo cuore. Il consiglio delle famiglie, per eseguire il crimine, sceglie un giovane che possa sopportare quattro o cinque anni di carcere. Tanto, in prigione verrà trattato con rispetto e benevolenza e, quando uscirà, al villaggio lo accoglieranno come eroe. Sulla costa del Mar Nero, va un po' meglio: il matrimonio può salvare almeno la vita. Nelle città non è meno grave, è solo più discreto. Ecco perché chiediamo pene più severe per chi compie delitti d'onore». Fino a poco tempo fa chi violentava una vergine era punito più severamente di chi approfittava di una donna che non lo era più. «Oggi - dice Mujde - stiamo conquistando il diritto di non fare distinzioni. Pensi che, su 4.000 donne che hanno frequentato i nostri seminari, il 60 per cento è riuscito a ridurre le violenze domestiche, e il 30 per cento è stato capace di eliminarle». I lusinghieri risultati, a fronte di un'impresa davvero titanica, sono il motore del rinnovato entusiasmo. Armate di determinazione e pazienza, anche contro le diffidenze e le reticenze del governo, le ancelle di questa convinta battaglia si trovano a Bruxelles per chiedere sostegno alle colleghe europee. Certe che, se bastasse il loro impegno, la Turchia sarebbe già pronta a entrare nell'Ue.
(1-continua)
LE CIFRE La Turchia conta 70 milioni di abitanti. Per le donne la speranza di vita è 71 anni, 66 per gli uomini
LE BATTAGLIE Tra il ’99 e il 2004 i movimenti femministi sono riusciti a far modificare in parte i codici civile e penale
L’ADULTERIO L’ultima riforma lo scorso 28 settembre: il Parlamento ha approvato il nuovo codice penale nel quale l’adulterio non è più considerato reato
cattolici U.S.A. con Bush
Corriere della Sera 13.10.04
I vescovi dal pulpito: votare John K. è peccato
E nascono le polizze scontate per i cattolici che si impegnano a non utilizzare le pratiche mediche proibite
DAL NOSTRO INVIATO
Massimo Gaggi
NEW YORK - Non è visibile come il bombardamento di spot elettorali in tv al quale da settimane sono sottoposti gli americani, soprattutto negli Stati in bilico tra democratici e repubblicani, ma lo scontro tra Bush e Kerry per conquistare il voto cattolico - un bacino potenziale di 60 milioni di cittadini, circa un quarto di quelli con diritto al voto - è ormai di un'asprezza senza precedenti.
Il partito del presidente ha addirittura istituito il sito Internet KerryWrongFor Catholics.com per convincere i seguaci della Chiesa di Roma che votare per il senatore del Massachusetts è sbagliato e dannoso. Alcuni vescovi sono andati molto più in là: non si sono limitati a condannare le posizioni del candidato democratico, ma hanno addirittura sostenuto che chi lo vota commette un peccato che va confessato prima di fare la Comunione. I democratici chiedono a Bush di arrestare quella che considerano un'aggressione e chiedono che vengano dichiarati illegali gli sforzi degli attivisti repubblicani per ottenere dalle parrocchie un elenco aggiornato dei loro fedeli, in modo da poterli contattare direttamente.
Nel 1960 John Kennedy, ultimo politico della costa atlantica ad essere eletto presidente degli Stati Uniti, la spuntò per un soffio su Richard Nixon anche grazie al voto dei cattolici che lo sostennero in larga maggioranza (il 78 per cento, secondo le stime più attendibili).
Per Kennedy il problema principale non fu catturare il voto cattolico ma convincere gli altri elettori che la sua politica non sarebbe stata condizionata dal Vaticano. Quarantaquattro anni dopo John Kerry ha tutt'altro problema: evitare che la posizione laica, tollerante, da lui assunta sull'aborto e i matrimoni tra gay («sono un cattolico e da ragazzo ho fatto anche il chierichetto, ma non posso pretendere di imporre agli altri per legge ciò che per me è un atto di fede», ha spiegato durante il dibattito televisivo di venerdì scorso) e la durissima campagna condotta dai repubblicani, facciano trasmigrare la maggioranza dei voti cattolici nel campo di un presidente di religione metodista. Un tema che probabilmente tornerà anche stasera nell'ultimo confronto tra Bush e Kerry, quello dedicato alle questioni interne dell'America.
In realtà molti sondaggisti negano addirittura che si possa parlare dei cattolici come di un gruppo con un contorno elettorale ben definito: storicamente hanno votato soprattutto per i democratici, ma valutando di volta in volte le piattaforme. E a volte hanno scelto i repubblicani: per esempio votarono per Bush-padre nel 1988. La loro articolazione interna rispecchia divisioni che si registrano anche al di fuori delle varie confessioni: i cattolici ispanici sono ad esempio in larga misura democratici, mentre i tradizionalisti si sentono più garantiti da un presidente che, soprattutto sulla bioetica, ha scelto posizioni molto rigide.
In realtà gli strateghi elettorali della Casa Bianca concentrano i loro sforzi su sette-otto milioni di cattolici tradizionalisti che sperano possano essere decisivi sia perché dovrebbero votare in modo abbastanza compatto per il presidente, sia perché sono abbastanza concentrati negli Stati - come l'Ohio e il Missouri - in cui la battaglia è più incerta.
Negli ultimi anni lo sforzo dell'Amministrazione è stato quello di creare un clima favorevole alla diffusione dei valori sostenuti da Bush: non solo il no ad aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso, ma anche i limiti alla ricerca basata sulle cellule staminali, all'inseminazione artificiale, la sterilizzazione, la contraccezione. Un'azione che ha portato perfino alla nascita di assicurazioni sanitarie con una polizza scontata per cattolici di stretta osservanza che si impegnano a non utilizzare le pratiche mediche proibite dalla loro religione. Ma anche un'azione che sta condizionando l'attività di molti laboratori nel campo della genetica.
Bush ha incassato le dure critiche degli scienziati ed anche dei repubblicani che non accettano condizionamenti religiosi alla ricerca medica. Il caso più clamoroso è quello di Nancy Reagan, impegnata da anni a sostenere la ricerca contro la malattia che dieci anni fa colpì l'ex presidente repubblicano, scomparso pochi mesi fa. Ma Bush pensa di aver fatto una buona «semina». Ed ora ha incaricato della raccolta l'esercito dei 52 mila team leader cattolici, volontari reclutati già da molti mesi e sparpagliati in tutto il Paese per convincere gli elettori di questa fede a registrarsi e a votarlo.
Un lavoro che in alcune realtà è stato oggettivamente agevolato da esponenti della Chiesa che hanno assunto posizioni di chiusura totale nei confronti di Kerry: «Se voti per lui cooperi con le forze del male. Non è questo un peccato da confessare?», ha dichiarato al New York Times l'arcivescovo Charles Chaput, la più alta autorità cattolica del Colorado. Affermazioni analoghe sono venute da prelati di altri Stati, dal Missouri all'Ohio al West Virginia.
Altre voci nel mondo cattolico si sono levate per contestare queste posizioni integraliste e per sostenere che se Kerry è criticabile sull'aborto, Bush lo è per la pena di morte e la guerra in Iraq.
Difficile dire chi la spunterà, anche perché la battaglia non si decide nelle grandi città dove forse prevalgono posizioni laiche anche tra i cattolici. I sondaggi di fine settembre vedevano favorito il presidente tra l'elettorato cattolico (il Pew Research Center gli attribuiva un margine di sette punti percentuali, più che raddoppiato rispetto ai dati di agosto), ma i dibattiti televisivi possono aver cambiato la situazione.
I vescovi dal pulpito: votare John K. è peccato
E nascono le polizze scontate per i cattolici che si impegnano a non utilizzare le pratiche mediche proibite
DAL NOSTRO INVIATO
Massimo Gaggi
NEW YORK - Non è visibile come il bombardamento di spot elettorali in tv al quale da settimane sono sottoposti gli americani, soprattutto negli Stati in bilico tra democratici e repubblicani, ma lo scontro tra Bush e Kerry per conquistare il voto cattolico - un bacino potenziale di 60 milioni di cittadini, circa un quarto di quelli con diritto al voto - è ormai di un'asprezza senza precedenti.
Il partito del presidente ha addirittura istituito il sito Internet KerryWrongFor Catholics.com per convincere i seguaci della Chiesa di Roma che votare per il senatore del Massachusetts è sbagliato e dannoso. Alcuni vescovi sono andati molto più in là: non si sono limitati a condannare le posizioni del candidato democratico, ma hanno addirittura sostenuto che chi lo vota commette un peccato che va confessato prima di fare la Comunione. I democratici chiedono a Bush di arrestare quella che considerano un'aggressione e chiedono che vengano dichiarati illegali gli sforzi degli attivisti repubblicani per ottenere dalle parrocchie un elenco aggiornato dei loro fedeli, in modo da poterli contattare direttamente.
Nel 1960 John Kennedy, ultimo politico della costa atlantica ad essere eletto presidente degli Stati Uniti, la spuntò per un soffio su Richard Nixon anche grazie al voto dei cattolici che lo sostennero in larga maggioranza (il 78 per cento, secondo le stime più attendibili).
Per Kennedy il problema principale non fu catturare il voto cattolico ma convincere gli altri elettori che la sua politica non sarebbe stata condizionata dal Vaticano. Quarantaquattro anni dopo John Kerry ha tutt'altro problema: evitare che la posizione laica, tollerante, da lui assunta sull'aborto e i matrimoni tra gay («sono un cattolico e da ragazzo ho fatto anche il chierichetto, ma non posso pretendere di imporre agli altri per legge ciò che per me è un atto di fede», ha spiegato durante il dibattito televisivo di venerdì scorso) e la durissima campagna condotta dai repubblicani, facciano trasmigrare la maggioranza dei voti cattolici nel campo di un presidente di religione metodista. Un tema che probabilmente tornerà anche stasera nell'ultimo confronto tra Bush e Kerry, quello dedicato alle questioni interne dell'America.
In realtà molti sondaggisti negano addirittura che si possa parlare dei cattolici come di un gruppo con un contorno elettorale ben definito: storicamente hanno votato soprattutto per i democratici, ma valutando di volta in volte le piattaforme. E a volte hanno scelto i repubblicani: per esempio votarono per Bush-padre nel 1988. La loro articolazione interna rispecchia divisioni che si registrano anche al di fuori delle varie confessioni: i cattolici ispanici sono ad esempio in larga misura democratici, mentre i tradizionalisti si sentono più garantiti da un presidente che, soprattutto sulla bioetica, ha scelto posizioni molto rigide.
In realtà gli strateghi elettorali della Casa Bianca concentrano i loro sforzi su sette-otto milioni di cattolici tradizionalisti che sperano possano essere decisivi sia perché dovrebbero votare in modo abbastanza compatto per il presidente, sia perché sono abbastanza concentrati negli Stati - come l'Ohio e il Missouri - in cui la battaglia è più incerta.
Negli ultimi anni lo sforzo dell'Amministrazione è stato quello di creare un clima favorevole alla diffusione dei valori sostenuti da Bush: non solo il no ad aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso, ma anche i limiti alla ricerca basata sulle cellule staminali, all'inseminazione artificiale, la sterilizzazione, la contraccezione. Un'azione che ha portato perfino alla nascita di assicurazioni sanitarie con una polizza scontata per cattolici di stretta osservanza che si impegnano a non utilizzare le pratiche mediche proibite dalla loro religione. Ma anche un'azione che sta condizionando l'attività di molti laboratori nel campo della genetica.
Bush ha incassato le dure critiche degli scienziati ed anche dei repubblicani che non accettano condizionamenti religiosi alla ricerca medica. Il caso più clamoroso è quello di Nancy Reagan, impegnata da anni a sostenere la ricerca contro la malattia che dieci anni fa colpì l'ex presidente repubblicano, scomparso pochi mesi fa. Ma Bush pensa di aver fatto una buona «semina». Ed ora ha incaricato della raccolta l'esercito dei 52 mila team leader cattolici, volontari reclutati già da molti mesi e sparpagliati in tutto il Paese per convincere gli elettori di questa fede a registrarsi e a votarlo.
Un lavoro che in alcune realtà è stato oggettivamente agevolato da esponenti della Chiesa che hanno assunto posizioni di chiusura totale nei confronti di Kerry: «Se voti per lui cooperi con le forze del male. Non è questo un peccato da confessare?», ha dichiarato al New York Times l'arcivescovo Charles Chaput, la più alta autorità cattolica del Colorado. Affermazioni analoghe sono venute da prelati di altri Stati, dal Missouri all'Ohio al West Virginia.
Altre voci nel mondo cattolico si sono levate per contestare queste posizioni integraliste e per sostenere che se Kerry è criticabile sull'aborto, Bush lo è per la pena di morte e la guerra in Iraq.
Difficile dire chi la spunterà, anche perché la battaglia non si decide nelle grandi città dove forse prevalgono posizioni laiche anche tra i cattolici. I sondaggi di fine settembre vedevano favorito il presidente tra l'elettorato cattolico (il Pew Research Center gli attribuiva un margine di sette punti percentuali, più che raddoppiato rispetto ai dati di agosto), ma i dibattiti televisivi possono aver cambiato la situazione.
le malattie mentali in Cina
clarence.com
Martedì 12 Ottobre 2004, 13:53
Salute: Cina, i disturbi mentali sono la prima 'piaga'
Colpa della modernizzazione
Pechino, 12 ott. (Adnkronos Salute) - I disturbi mentali rappresentano una vera e propria 'piaga' per la Cina, e rappresentano il ''maggiore problema di sanita' pubblica del Paese''. Circa 16 milioni di cinesi, infatti, soffrono di una qualche forma di disagio mentale, dunque circa l'1,34% della popolazione, ha riferito oggi lo stesso ministro della Sanita' di Pechino. ''Tutta colpa della modernizzazione - ha spiegato - che ha 'spazzato via' le tradizioni culturali del Paese e della famiglia''. I piu' vulnerabili sembrano essere gli appartenenti a quattro categorie di persone: giovani, donne, anziani e sopravvissuti a disastri. Per loro in agguato schizofrenia, depressione e Alzheimer, ''i tre grandi disturbi mentali 'made in China'''. ''Il Paese sta attraversando un periodo di profondi cambiamenti - ha spiegato il direttore del Dipartimento per il controllo delle malattie del ministero della Sanita' cinese - e sono aumentati esponenzialmente i conflitti e le pressioni. E la trasformazione della famiglia e della struttura della societa' ha contribuito ad aumentare l'incidenza dei disturbi mentali''. Una previsione suffragata dai dati dell'Organizzazione mondiale della sanita' secondo cui ''nel 2020 un quarto di tutte le patologie registrate nel Paese asiatico saranno di natura mentale''. E sembra che al governo di Pechino oltre ai risvolti sanitari interessino anche le conseguenti ''pesanti ripercussioni economiche che deriveranno da questo aumento incontrollato''. (Sch/Adnkronos Salute)
Repubblica 13.10.04
Tutto, dalla scuola alle cure mediche, è ormai a pagamento. La pressione scatena ondate di suicidi e massacri "stile Columbine"
Cina, la rabbia degli orfani del Welfare
Aumentano povertà e casi di violenza. Allarme dell'Accademia di scienze sociali
Ripudiate tutte le politiche egualitarie di cui il paese era simbolo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Xue Ronghua, 24 anni, si è costituito al commissariato di polizia della sua città, Nanchang, dopo aver pugnalato a morte due coetanei e averne feriti gravemente altri cinque. Gli mancava solo un mese per laurearsi in medicina all´università statale dello Jiangxi. Ma Jiajue, studente al college dello Yunnan, ha ucciso quattro compagni a martellate e ha nascosto i cadaveri nei loro armadi. Lo hanno catturato dopo un mese di fuga nell´isola di Hainan. La Cina è turbata dai suoi «massacri di Columbine»: episodi di violenza in stile americano nelle scuole dove abitualmente regnano l´ordine e la disciplina. Il ministero della Sanità ha promosso un´inchiesta e i suoi risultati indicano che «dal 16 al 25% degli studenti cinesi ha disturbi mentali che variano dalla paranoia alla depressione». La facoltà di medicina dello Jiangxi - quella dove Xue ha fatto la sua strage - dà una cifra un po´ più bassa (10% di studenti affetti da turbe psichiche) ma nel gergo asettico dei ricercatori aggiunge questa notazione: «Gli studenti provenienti da famiglie povere sono mentalmente meno sani». I genitori di Xue hanno un reddito annuo di 2.000 yuan, cioè 200 euro, che sono pochi anche per vivere nel loro villaggio dello Jianxi. Il padre è un´ex guardia forestale, disoccupato, l´unico patrimonio di famiglia è un televisore in bianco e nero. Per mandare il figlio all´università hanno fatto 17.000 yuan di debiti. A scatenare la furia di Xue sembra essere stata l´insistenza con cui i professori gli ricordavano gli arretrati delle tasse universitarie da pagare. In quanto a Ma Jijue, veniva deriso perché la sua magrezza patologica lo rendeva «effeminato». Ma la scelta per lui era fra i libri e i pasti. Nel secco rapporto di polizia si legge che «fra gli studenti ricchi è buona usanza invitarsi a pranzo, i poveri che non possono permetterselo vengono bollati come degli asociali». Oltre alle violenze in stile Columbine, i suicidi tra studenti hanno un aumento esponenziale e il detonatore è quasi sempre lo stesso: i genitori contadini non riescono più a pagare gli studi, devono ritirare il figlio dalla scuola.
E´ la faccia nascosta del miracolo economico cinese. Balzato dal comunismo al capitalismo alla velocità della luce, questo paese ha ripudiato in modo drastico tutte le politiche egualitarie di cui era il simbolo. E´ una Cina senza Welfare, una società più simile al modello americano che al nostro. Qui lo Stato-minimo non garantisce quasi nulla, tutti i servizi si pagano e si pagano cari. Compresi i più essenziali: l´istruzione, la salute, la pensione.
Perfino la scuola elementare e media, teoricamente gratuita per le nove classi dell´obbligo, in realtà costa fino a 800 yuan all´anno solo di libri e «partecipazione alle attività didattiche». E´ un prezzo che nelle campagne provoca milioni di abbandoni ogni anno. All´estremo opposto c´è la nuova middle class che a Pechino manda i figli solo nelle scuole private come lo Huijia College: 40.000 yuan di gettone d´ingresso iniziale, più 20.000 yuan di retta all´anno per avere un´istruzione bilingue, corsi extra di matematica e scienze, una corsia preferenziale verso le università di élite come la Tsinghua o i college americani. In due decenni di rivoluzione di mercato lo Stato si è ritirato dai suoi compiti. Il risultato è un divario ricchi-poveri e città-campagna che ora la stessa Accademia delle Scienze sociali giudica esplosivo, la premessa di un disastro sociale, in un rapporto intitolato «La società opulenta, un nuovo problema per la Cina».
E´ lontano anche il tempo dei famosi «dottori a piedi nudi» nelle campagne cinesi della Rivoluzione culturale: un mito di sanità povera alla portata di ogni villaggio, che dietro la sua facciata idealizzata fece molti danni. Ma quell´utopia tragica è stata sostituita con la privatizzazione di quasi tutto.
«La maggioranza dei contadini non può permettersi più neppure una visita medica» ammette Fu Jing sul quotidiano ufficiale China Daily. Nel 2003 l´epidemia della Sars ha messo a nudo le falle paurose del sistema di prevenzione e di cura, soprattutto nelle zone rurali. La spesa pubblica per fornire l´assistenza sanitaria nelle campagne è irrisoria: un euro a persona all´anno. Il 90% dei contadini devono pagarsi ogni cura di tasca propria.
Quasi a scimmiottare l´infausto esperimento dei «dottori a piedi nudi» degli anni 70, quest´estate il governo ha mandato in giro gli «ospedali sulle ruote», un migliaio di mini-ambulatori su autobus che attraversano le campagne: una goccia nel deserto di assistenza. Nelle grandi città si sta un po´ meglio. Qui a Pechino lo Stato interviene, in cambio di una tassa sanitaria obbligatoria per tutti i residenti, che è di 150 yuan al mese per una impiegata di trent´anni. Ma anche per il ceto urbano la generosità del sistema ha i suoi limiti. Fino a 2.000 yuan all´anno (200 euro) il paziente deve pagare tutto di tasca propria, visite medicinali o ambulatorio. Sopra i 2.000 yuan scatta l´intervento pubblico ma in modo stranamente decrescente: lo Stato rimborsa il 90% delle spese sanitarie fino a 5.000 yuan, l´85% fino a 10.000, l´80% fino a 30.000 yuan e così via. Più ti ammali, meno lo Stato ti assiste. E naturalmente la rete di protezione urbana non vale per il sottoproletariato delle grandi metropoli, gli immigrati che affluiscono dalle campagne senza un regolare permesso di lavoro e di soggiorno, quindi non esistono per lo Stato. Questo esercito di nuovi poveri - ufficialmente il ministro degli Interni Li Xueju riconosce «mezzo milione di vagabondi e medicanti» - se non ha paura della polizia può andare nei ricoveri dei senzatetto. Al Welfare che non c´è si sostituisce la carità: solo a Pechino quest´estate hanno inaugurato quattro rifugi per homeless.
In questa Cina comunista solo per il nome del partito unico, non c´è Stato sociale neanche per la vecchiaia. Gli 800 milioni di contadini - il 63% della popolazione - non hanno diritto a una pensione pubblica. Nelle campagne l´unico sussidio di anzianità sono i figli, ragion per cui si sta rimettendo in discussione il controllo delle nascite basato sulla regola del «figlio unico». Non hanno pensione o assegno di disoccupazione i 28 milioni di senza lavoro ufficiali, né gli altri tre milioni che ogni anno vengono licenziati dalle aziende di Stato in cura dimagrante. In quanto ai giovani trentenni in carriera, quelli che parlano l´inglese e lavorano per le multinazionali a Shanghai e Pechino, hanno capito in che mondo vivono: oggi la Cina è il mercato più in crescita per l´assicurazione vita, i fondi pensione privati e individuali.
Solo ogni tanto la vecchia ideologia rialza la testa, prova a reagire contro gli eccessi e le durezze di questa Cina a due velocità. La settimana scorsa all´università di Yangzhou - la stessa in cui si laureò l´ex leader Jiang Zemin - alcuni studenti si sono ribellati di fronte al nuovo progetto di campus in costruzione. Nei piani dell´università è previsto un apartheid sociale. Da una parte i dormitori-caserma dei poveri, quelli che possono pagare solo 500 yuan all´anno. Dall´altra il pensionato dei giovani ricchi: camere da quattro letti, docce individuali, computer e Internet in ogni stanza. Sul sito dell´università lo studente Li Ren ha denunciato «una macchia sugli ideali di libertà e di eguaglianza nell´istruzione». Il suo docente di filosofia, Han Donghui, parla di una «distanza tra ricchi e poveri che ormai crea un vero estraniamento tra gli studenti». Ma la tensione non si trasforma in barricate, e fuori dal campus la notizia è stata accolta con rassegnazione.
Sul giornale locale il lettore Zhu Shugu ha scritto: «il campus è un microcosmo della nostra società, abituatevi».
Martedì 12 Ottobre 2004, 13:53
Salute: Cina, i disturbi mentali sono la prima 'piaga'
Colpa della modernizzazione
Pechino, 12 ott. (Adnkronos Salute) - I disturbi mentali rappresentano una vera e propria 'piaga' per la Cina, e rappresentano il ''maggiore problema di sanita' pubblica del Paese''. Circa 16 milioni di cinesi, infatti, soffrono di una qualche forma di disagio mentale, dunque circa l'1,34% della popolazione, ha riferito oggi lo stesso ministro della Sanita' di Pechino. ''Tutta colpa della modernizzazione - ha spiegato - che ha 'spazzato via' le tradizioni culturali del Paese e della famiglia''. I piu' vulnerabili sembrano essere gli appartenenti a quattro categorie di persone: giovani, donne, anziani e sopravvissuti a disastri. Per loro in agguato schizofrenia, depressione e Alzheimer, ''i tre grandi disturbi mentali 'made in China'''. ''Il Paese sta attraversando un periodo di profondi cambiamenti - ha spiegato il direttore del Dipartimento per il controllo delle malattie del ministero della Sanita' cinese - e sono aumentati esponenzialmente i conflitti e le pressioni. E la trasformazione della famiglia e della struttura della societa' ha contribuito ad aumentare l'incidenza dei disturbi mentali''. Una previsione suffragata dai dati dell'Organizzazione mondiale della sanita' secondo cui ''nel 2020 un quarto di tutte le patologie registrate nel Paese asiatico saranno di natura mentale''. E sembra che al governo di Pechino oltre ai risvolti sanitari interessino anche le conseguenti ''pesanti ripercussioni economiche che deriveranno da questo aumento incontrollato''. (Sch/Adnkronos Salute)
Repubblica 13.10.04
Tutto, dalla scuola alle cure mediche, è ormai a pagamento. La pressione scatena ondate di suicidi e massacri "stile Columbine"
Cina, la rabbia degli orfani del Welfare
Aumentano povertà e casi di violenza. Allarme dell'Accademia di scienze sociali
Ripudiate tutte le politiche egualitarie di cui il paese era simbolo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Xue Ronghua, 24 anni, si è costituito al commissariato di polizia della sua città, Nanchang, dopo aver pugnalato a morte due coetanei e averne feriti gravemente altri cinque. Gli mancava solo un mese per laurearsi in medicina all´università statale dello Jiangxi. Ma Jiajue, studente al college dello Yunnan, ha ucciso quattro compagni a martellate e ha nascosto i cadaveri nei loro armadi. Lo hanno catturato dopo un mese di fuga nell´isola di Hainan. La Cina è turbata dai suoi «massacri di Columbine»: episodi di violenza in stile americano nelle scuole dove abitualmente regnano l´ordine e la disciplina. Il ministero della Sanità ha promosso un´inchiesta e i suoi risultati indicano che «dal 16 al 25% degli studenti cinesi ha disturbi mentali che variano dalla paranoia alla depressione». La facoltà di medicina dello Jiangxi - quella dove Xue ha fatto la sua strage - dà una cifra un po´ più bassa (10% di studenti affetti da turbe psichiche) ma nel gergo asettico dei ricercatori aggiunge questa notazione: «Gli studenti provenienti da famiglie povere sono mentalmente meno sani». I genitori di Xue hanno un reddito annuo di 2.000 yuan, cioè 200 euro, che sono pochi anche per vivere nel loro villaggio dello Jianxi. Il padre è un´ex guardia forestale, disoccupato, l´unico patrimonio di famiglia è un televisore in bianco e nero. Per mandare il figlio all´università hanno fatto 17.000 yuan di debiti. A scatenare la furia di Xue sembra essere stata l´insistenza con cui i professori gli ricordavano gli arretrati delle tasse universitarie da pagare. In quanto a Ma Jijue, veniva deriso perché la sua magrezza patologica lo rendeva «effeminato». Ma la scelta per lui era fra i libri e i pasti. Nel secco rapporto di polizia si legge che «fra gli studenti ricchi è buona usanza invitarsi a pranzo, i poveri che non possono permetterselo vengono bollati come degli asociali». Oltre alle violenze in stile Columbine, i suicidi tra studenti hanno un aumento esponenziale e il detonatore è quasi sempre lo stesso: i genitori contadini non riescono più a pagare gli studi, devono ritirare il figlio dalla scuola.
E´ la faccia nascosta del miracolo economico cinese. Balzato dal comunismo al capitalismo alla velocità della luce, questo paese ha ripudiato in modo drastico tutte le politiche egualitarie di cui era il simbolo. E´ una Cina senza Welfare, una società più simile al modello americano che al nostro. Qui lo Stato-minimo non garantisce quasi nulla, tutti i servizi si pagano e si pagano cari. Compresi i più essenziali: l´istruzione, la salute, la pensione.
Perfino la scuola elementare e media, teoricamente gratuita per le nove classi dell´obbligo, in realtà costa fino a 800 yuan all´anno solo di libri e «partecipazione alle attività didattiche». E´ un prezzo che nelle campagne provoca milioni di abbandoni ogni anno. All´estremo opposto c´è la nuova middle class che a Pechino manda i figli solo nelle scuole private come lo Huijia College: 40.000 yuan di gettone d´ingresso iniziale, più 20.000 yuan di retta all´anno per avere un´istruzione bilingue, corsi extra di matematica e scienze, una corsia preferenziale verso le università di élite come la Tsinghua o i college americani. In due decenni di rivoluzione di mercato lo Stato si è ritirato dai suoi compiti. Il risultato è un divario ricchi-poveri e città-campagna che ora la stessa Accademia delle Scienze sociali giudica esplosivo, la premessa di un disastro sociale, in un rapporto intitolato «La società opulenta, un nuovo problema per la Cina».
E´ lontano anche il tempo dei famosi «dottori a piedi nudi» nelle campagne cinesi della Rivoluzione culturale: un mito di sanità povera alla portata di ogni villaggio, che dietro la sua facciata idealizzata fece molti danni. Ma quell´utopia tragica è stata sostituita con la privatizzazione di quasi tutto.
«La maggioranza dei contadini non può permettersi più neppure una visita medica» ammette Fu Jing sul quotidiano ufficiale China Daily. Nel 2003 l´epidemia della Sars ha messo a nudo le falle paurose del sistema di prevenzione e di cura, soprattutto nelle zone rurali. La spesa pubblica per fornire l´assistenza sanitaria nelle campagne è irrisoria: un euro a persona all´anno. Il 90% dei contadini devono pagarsi ogni cura di tasca propria.
Quasi a scimmiottare l´infausto esperimento dei «dottori a piedi nudi» degli anni 70, quest´estate il governo ha mandato in giro gli «ospedali sulle ruote», un migliaio di mini-ambulatori su autobus che attraversano le campagne: una goccia nel deserto di assistenza. Nelle grandi città si sta un po´ meglio. Qui a Pechino lo Stato interviene, in cambio di una tassa sanitaria obbligatoria per tutti i residenti, che è di 150 yuan al mese per una impiegata di trent´anni. Ma anche per il ceto urbano la generosità del sistema ha i suoi limiti. Fino a 2.000 yuan all´anno (200 euro) il paziente deve pagare tutto di tasca propria, visite medicinali o ambulatorio. Sopra i 2.000 yuan scatta l´intervento pubblico ma in modo stranamente decrescente: lo Stato rimborsa il 90% delle spese sanitarie fino a 5.000 yuan, l´85% fino a 10.000, l´80% fino a 30.000 yuan e così via. Più ti ammali, meno lo Stato ti assiste. E naturalmente la rete di protezione urbana non vale per il sottoproletariato delle grandi metropoli, gli immigrati che affluiscono dalle campagne senza un regolare permesso di lavoro e di soggiorno, quindi non esistono per lo Stato. Questo esercito di nuovi poveri - ufficialmente il ministro degli Interni Li Xueju riconosce «mezzo milione di vagabondi e medicanti» - se non ha paura della polizia può andare nei ricoveri dei senzatetto. Al Welfare che non c´è si sostituisce la carità: solo a Pechino quest´estate hanno inaugurato quattro rifugi per homeless.
In questa Cina comunista solo per il nome del partito unico, non c´è Stato sociale neanche per la vecchiaia. Gli 800 milioni di contadini - il 63% della popolazione - non hanno diritto a una pensione pubblica. Nelle campagne l´unico sussidio di anzianità sono i figli, ragion per cui si sta rimettendo in discussione il controllo delle nascite basato sulla regola del «figlio unico». Non hanno pensione o assegno di disoccupazione i 28 milioni di senza lavoro ufficiali, né gli altri tre milioni che ogni anno vengono licenziati dalle aziende di Stato in cura dimagrante. In quanto ai giovani trentenni in carriera, quelli che parlano l´inglese e lavorano per le multinazionali a Shanghai e Pechino, hanno capito in che mondo vivono: oggi la Cina è il mercato più in crescita per l´assicurazione vita, i fondi pensione privati e individuali.
Solo ogni tanto la vecchia ideologia rialza la testa, prova a reagire contro gli eccessi e le durezze di questa Cina a due velocità. La settimana scorsa all´università di Yangzhou - la stessa in cui si laureò l´ex leader Jiang Zemin - alcuni studenti si sono ribellati di fronte al nuovo progetto di campus in costruzione. Nei piani dell´università è previsto un apartheid sociale. Da una parte i dormitori-caserma dei poveri, quelli che possono pagare solo 500 yuan all´anno. Dall´altra il pensionato dei giovani ricchi: camere da quattro letti, docce individuali, computer e Internet in ogni stanza. Sul sito dell´università lo studente Li Ren ha denunciato «una macchia sugli ideali di libertà e di eguaglianza nell´istruzione». Il suo docente di filosofia, Han Donghui, parla di una «distanza tra ricchi e poveri che ormai crea un vero estraniamento tra gli studenti». Ma la tensione non si trasforma in barricate, e fuori dal campus la notizia è stata accolta con rassegnazione.
Sul giornale locale il lettore Zhu Shugu ha scritto: «il campus è un microcosmo della nostra società, abituatevi».
Iscriviti a:
Post (Atom)