venerdì 15 ottobre 2004

Ramadan

Liberazione 15.10.04
Digiuno e astinenza dall'alba al tramonto
Da oggi al 13 novembre
Guido Caldiron


Il ramadan è il nono mese del calendario islamico lunare, che i credenti consacrano al digiuno dall'alba al tramonto e alla preghiera. In tutto il mondo il periodo di digiuno è iniziato oggi, tranne in LIbia e Nigeria dove le autorità religiose ne hanno fissato l'inizio con un giorno di anticipo. Il mese del digiuno diurno e dell'astinenza sessuale, si concluderà il 13 novembre. Il giorno seguente, domenica, si celebrerà l'Id al Fitr o Festa della Rottura del digiuno. Durante questo mese la vita nelle società arabo-musulmane si ferma quasi completamente durante il giorno per riprendere dopo il calare del sole. Il digiuno si interrompe con una piccola colazione prima e poi con un pasto vero e proprio dopo il tramonto, insieme alla lettura del Corano: un trentesimo o un sessantesimo dell'intero testo. Nel Corano la ventisettesima notte di ramadan è considerata "più preziosa di mille mesi", perché fu quella in cui Allah dettò, attraverso l'arcangelo Gabriele, il testo del libro sacro a Muhammad.

Si è aperto questa mattina all'alba per oltre un miliardo di fedeli musulmani di tutto il mondo, compresa la comunità italiana forte di circa un milione di presenze, il mese più importante dell'anno, quello del ramadan. A Renzo Guolo, docente di Sociologia della religione nelle Università di Padova e Trieste e tra i maggiori studiosi italiani della cultura islamica, abbiamo chiesto di illustrarci il significato di questa ricorrenza.
Professor Guolo, cominciamo con lo spiegare che cosa rappresenta per i musulmani il mese di ramadam e perché riveste un'importanza così particolare nel calendario dell'Islam?
Il ramadan è uno dei cinque grandi precetti della religione islamica. Durante questo mese i musulmani osservano il digiuno e l'astinenza sessuale dall'alba al tramonto. Si tratta di un periodo considerato di sacrificio che serve per purificare i fedeli, in questo è simile a quello che le altre grandi religioni monoteistiche celebrano in momenti diversi dell'anno e con una diversa durata. Ma, al di là del significato strettamente religioso, il mese di ramadan assume anche una dimensione comunitaria, perché con l'arrivo del tramonto e la rottura del digiuno, i musulmani si ritrovano tra loro e si moltiplicano, sia in famiglia che negli spazi pubblici, le occasioni di socialità. In questo senso il mese del digiuno rappresenta un'occasione per rinsaldare i legami all'interno della cosiddetta "umma", la comunità musulmana.
Durante il mese del digiuno le reti televisive dei paesi musulmani propongono programmi speciali, serie tv pensate proprio per questo periodo che vede le famiglie riunite ogni sera, dopo il tramonto. Si può dire che in queste realtà, durante il ramadan, la religione assume anche un aspetto culturale?
Sì, assolutamente. Dobbiamo tenere conto del fatto che tutte le religioni si adattano e si trasformano nel tempo in base al contesto circostante. Anche tra gli ebrei e i cristiani alcune festività religiose hanno assunto nel tempo un significato più comunitario e culturale, sono osservate da molti che non si considerano dei fedeli praticanti. Per molti, osservare il periodo del ramadan significa aderire più a una concezione dell'Islam come cultura che come religione. Un po' come molti di noi osservano le festività della Pasqua e del Natale, considerandole delle occasioni comunitarie più che religiose.
Le notti di ramadan dei paesi musulmani sono spesso descritte come momenti nei quali avviene una sorta di "liberazione della socialità". In questo periodo, all'interno della cornice dell'Islam, si intravede quasi il profilo di una società più libera?
Certamente. L'interruzione del digiuno è paragonabile a un momento di festa e come in tutte le feste la tolleranza è maggiore, si liberano energie altrimenti represse perché le regole abituali vengono in qualche modo sospese. La fine del digiuno si celebra dapprima in famiglia, quindi "per strada". E negli spazi pubblici vi può essere anche la presenza di donne, oltre che di uomini. In questo, in Tunisia, Marocco e Egitto l'apertura è maggiore, anche se a pesare di più sul grado di "liberazione" non è tanto la geografia, quanto la differenza tra le realtà urbane, più aperte, e la campagna.
Se questo è il contesto nel quale viene celebrato il ramadan nel mondo islamico, cosa avviene nella vasta comunità dei musulmani che vivono in Europa o negli Stati Uniti a contatto con altre abitudini e culture? Come si conciliano i tempi e gli orari dei fedeli impegnati nel digiuno con quelli della società che li circonda?
Intanto si deve sottolineare come nel contesto occidentale questa pratica diventi tanto più importante perché assume anche il significato di una sorta di "rinforzo identitario" in un contesto sociale che non è tutto permeato dalla dimensione islamica e che vede anzi l'Islam in una posizione di minoranza. Quanto alle forme che assume questa pratica, sono necessariamente plasmate dalle esigenze della realtà in cui si trova a vivere il singolo musulmano. Così, non è certo facile per chi lavora in fabbrica o ricopre mansioni molto dure, osservare il digiuno. Dati i ritmi di vita e i carichi di lavoro, la pratica del ramadan nelle realtà occidentali assume quasi il valore di un'esperienza ascetica, una dimensione ancora più dura di quanto accada nei paesi musulmani dove i tempi della società seguono il calendario della religione.
Da questo punto di vista, nei paesi occidentali vi è stata qualche forma di riconoscimento pubblico, per esempio negli orari di lavoro, del periodo di ramadan?
Ci sono paesi, come la Francia, che riconoscono tra le loro festività quella del giorno che segna la fine del mese di ramadan, l'Id al Fitr o Festa della Rottura del digiuno, anche se arrivare a questo risultato non è mai facile e passa sempre per la formalizzazione di un rapporto tra le istituzioni statali e la comunità musulmana che vive in un determinato paese. Più difficile resta veder riconosciuti ogni giorno, durante questo mese, i tempi di chi sta effettuando il digiuno: in Francia, Belgio, Olanda e Inghilterra si sono aperte trattative in alcune località perché i musulmani potessero osservare orari meno rigidi durante il ramadan. Nel nostro paese alcune imprese del nordest hanno anche sfruttato questa domanda religiosa introducendo dei turni di lavoro notturni, per produzioni stagionali, attraverso accordi diretti tra gli imprenditori e le stesse maestranze musulmane: i lavoratori potevano mangiare dopo il tramonto e poi andare in fabbrica. Certo, si tratta di un esempio non senza contraddizioni, visto che sembra introdurre elementi di contrattazione separata per i lavoratori migranti.
Il ramadan e la guerra. Per chi dice di combattere in nome dell'Islam o per i terroristi fondamentalisti, il mese di ramadan può rappresentare un ostacolo o un momento di stasi delle operazioni, in osservanza ai precetti del Corano?
Non è così, come abbiamo già visto tragicamente nel caso algerino dove gli attentati si intensificavano proprio nel mese del digiuno. Nei confronti dei movimenti fondamentalisti il ramadan non funziona in termini di interdizione simbolica, visto che per loro, più che l'interpretazione della tradizione religiosa, conta la pratica combattente. Anzi, il fatto che si tratti di un periodo che ha una particolare dimensione di sacralità a volte può far risaltare un atto di violenza in maniera ancora più intensa. Naturalmente la visione della religione e di questo particolare periodo del calendario musulmano che sostegono i fondamentalisti, non potrebbe essere più lontana da quella che esprime la grande maggioranza dei fedeli dell'Islam.

Cina

Corriere della Sera 15.10.06
Pechino in due anni raddoppia i suoi dottori
Tre milioni di neolaureati in mille università preparano la scalata all’economia globale
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Fabio Cavalera

PECHINO - Lo straordinario sviluppo della istruzione universitaria è uno dei capitoli più significativi della storia recente della Cina. Se le campagne continuano a regalare manodopera giovane a basso costo per le imprese edili o per le multinazionali e le corporation, se le scuole professionali delle grandi città sono impegnate a gonfiare i numeri delle occupazioni specialistiche (tecnici dell'informatica, tecnici delle telecomunicazioni, operatori del turismo) è negli atenei che si assiste a quella evoluzione che proietta la Cina in una dimensione davvero globale in competizione con le grandi potenze industriali. Si tratta di un processo inarrestabile di accelerazione che presenta luci e ombre.
Nel 1949 i laureati erano 117 mila all'anno. Nel 2004 saranno 2,8 milioni. I laureati, oggi, sono complessivamente undici milioni che è una percentuale assai piccola se raffrontata alla popolazione del Celeste Impero (un miliardo e 300 milioni) ma ciò che importa e che impressiona sono le ultime tendenze. La curva è salita in modo deciso a partire dal 1985, la vera impennata è però avvenuta dal 2000: all'inizio del millennio i laureati, sempre su base annua, erano poco sotto il milione, nel triennio successivo sono quasi triplicati. La linea di un grafico ipotetico è ormai in ascesa verticale.
L'attenzione che le autorità di Pechino rivolgono alla educazione universitaria è parallela alla crescita del Paese. L'integrazione fra centri di ricerca universitari e sistema produttivo-finanziario è sempre più rilevante. E se una volta chi optava per completare gli studi all'estero non era sponsorizzato dal regime, oggi è invece considerato come un vero e proprio tesoro al servizio dell'economia del Paese. Cosicché fra giovani laureati di ritorno dai corsi svolti in Europa (Italia esclusa perché nel nostro Paese le porte restano sbarrate) o negli Stati Uniti e soprattutto giovani laureati nella madre patria la Cina sta costruendo un esercito di futuri dirigenti della economia globalizzata e della ricerca scientifica mirata allo sviluppo. Ragazzi che non ragionano sintonizzandosi su stereotipi ideologici ma che pensano al profitto e al divertimento. Li trovi la sera nella capitale nei locali di Houhai, una zona di hutong (vecchi vicoli) trasformata con bar e ristoranti di design modernissimo, o al «distretto» 798, il distretto dell'arte. E senti che il loro presente è orientato a cercare piacevoli ore di svago dallo studio (le frequenze in università sono pressoché obbligatorie) mentre il loro futuro si indirizza verso carriere che essi desiderano con retribuzioni di altissima fascia.
I campus di Pechino o di Shanghai mettono a disposizione delle imprese e delle istituzioni fior di esperti in scienza bancaria - in previsione della esplosione del mercato dei capitali che avverrà nel 2006 quando sarà consentito di operare a tutti gli istituti di credito esteri - mettono a disposizione fior di esperti in ingegneria nucleare - perché in questa direzione va la scelta di diversificare le fonti energetiche dal carbone e dal petrolio e perché è programmata la costruzione di 32 reattori nucleari da qui al 2020 - mettono a disposizione fior di esperti in scienze agricole per lo sfruttamento razionale della natura e ingegneri informatici che vanno a coprire la domanda di tecnologie d'avanguardia.
E i campus non trascurano neppure la formazione di biologi o di esperti in scienze sociali. Le università alle quali si accede con esame (lo passa il 17 per cento dei diplomati) sono il supporto dei 152 accordi di cooperazione scientifica firmati dalla Cina con altri Paesi. Questo orientamento si è affermato a partire dal 1997 e si è consolidato. Nel marzo 2004 vi è stato un ulteriore passaggio con un corollario strategico. Il Consiglio di Stato ha infatti approvato un piano dell'istruzione superiore e universitaria che ha lo scopo «di coltivare centinaia di milioni di lavoratori di alta qualità, milioni di specialisti» oltre che «garantire la prosperità culturale e il progresso sociale». Un occhio di riguardo è rivolto alle zone rurali, «la priorità fra le priorità». La Cina ha insomma imboccato la strada che le deve garantire, attraverso l'istruzione sia di massa a livello primario sia qualificata e di elite a livello superiore e universitario, un trend consolidato da grande potenza dell'industria, dell'high-tech, della nuova e vecchia scienza.
Non che questa impetuosa crescita avanzi in modo lineare e senza sbandamenti. E qui siamo alle ombre di una realtà in movimento. La Cina sotto il profilo del mercato del lavoro presenta ancora falle enormi. Così, a causa del ritardo di alcune scelte, in certi cicli dell'economia la domanda di occupazione ultra qualificata e di fascia alta non riesce a incontrarsi con l'offerta che le università propongono. Secondo le ultime statistiche nel 2003 l'offerta di primo impiego per i laureati è andata vicina alla saturazione. Con la conseguenza che si sono intravisti segnali forti di sottoccupazione giovanile ( Il China News Weekly , giornale dello Stato, ha scritto di una riduzione del 40 per cento del salario di ingresso dei neolaureati nel lavoro).
Certamente la Cina sembra presentare prospettive forti per mansioni di medio e basso livello, meno (almeno in questi dodici mesi) per quelle alle quali aspirano i neolaureati. Il che rischia di aprire, a cascata, ulteriori questioni. Gli studi universitari non sono più a carico dello Stato. Si pagano rette che i ragazzi di famiglia povera non riescono a permettersi. Per aggirare l'ostacolo le autorità hanno sollecitato le banche a istituire linee di credito speciale a favore degli studenti. Prestiti da rimborsare alla fine dei corsi e una volta ottenuto l'impiego. Ebbene, nell'ultimo anno molti laureati, avendo trovato lavoro di retribuzione e profilo basso, non sono stati in grado di onorare i contratti. E le banche hanno cominciato a sollecitare il rientro delle somme prestate.
Gli studenti sono sempre stati protagonisti della storia cinese degli ultimi 55 anni: nella rivoluzione maoista conclusasi nel 1949, nella rivoluzione culturale degli anni Settanta, nella rivolta libertaria di piazza Tienanmen del 1989. Oggi ancora i giovani, gli studenti, diventano protagonisti di una nuova rivoluzione dei costumi, delle idee, degli stili di vita. Hanno voglia di confrontarsi con il mondo. Questi ragazzi sono orgogliosi del loro Paese, sono pieni di aspettative. Sono pronti a misurarsi con l'Occidente. E sia nella loro dimensione di alternativi, sia nella loro dimensione di avidi consumatori, sia nella loro dimensione di studenti, sia nella loro dimensione di lavoratori sono, al tempo stesso, una grande risorsa per la Cina futura e una minaccia per la Cina del presente. Una risorsa perché hanno l'entusiasmo di chi va a scoprire nuovi equilibri emotivi e sociali. Una minaccia perché se l'entusiasmo viene caricato di attese che la struttura politica e la struttura economica del Paese non sono in grado di garantire rischia di trasformare un popolo di ragazzi e di giovani uomini o di giovani donne in una massa pericolosamente traballante fra i resti della tradizione e l'abbaglio della innovazione. Non è dunque un caso che stia emergendo fra le professioni di maggiore prospettiva una richiesta fortissima di psicologi dell'età evolutiva.

(2-fine, la prima parte è stata pubblicata l’11 ottobre)

il neo-senatore Mario Luzi, benché credente...

Repubblica 15.10.04
LA SUA BATTAGLIA
L'intervento a Pisa al convegno sulle terapie palliative
"Sofferenza come espiazione una stortura dell'etica cattolica"
Ha regalato una poesia inedita ai medici e all´ospedale di Nottola in cui è stato operato
MICHELE BOCCI

«Il dolore dei malati deve essere evitato, le cure inutili vanno interrotte. E´ stata una stortura dell´etica cattolica a far considerare la sofferenza come forma di espiazione. E invece bisogna seguire il principio della carità e lenire le pene di chi sta male».
Mario Luzi ieri mattina, alcune ore prima di essere nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Ciampi ha aperto il convegno nazionale organizzato a Pisa dal Tribunale dei diritti del malato - Cittadinanza attiva dal titolo "Ai confini del dolore". Un incontro con tutti gli esperti e operatori italiani di cure palliative per chiedere ai medici di famiglia di utilizzare di più gli oppiacei con chi soffre e agli ospedali di inserire nella cartella clinica anche il livello di sofferenza del malato. E´ da tempo che il Tribunale si impegna in questa battaglia a livello nazionale. Una battaglia che vuole anche evitare, a detta dei suoi rappresentanti, "un federalismo della sofferenza. Ci sono Regioni, come la Toscana, che spingono i medici ad usare gli oppiacei, altre che su questi temi sono più indietro. A medici e operatori il poeta ha regalato una sua poesia inedita, che si intitola come l´ospedale in cui è stato operato di recente: "A Nottola".
Dopo il saluto, Luzi è tornato a casa sua a Firenze. E´ qui che si dedica ad una riflessione sul dolore. «Il dolorismo si è insinuato nella nostra tradizione cattolica, come una specie di premio a contrario per il fedele. L´espiazione è certamente un concetto sublime e affascinante, ma io, che sono cristiano convinto, credo in questo caso al principio della carità. Basta leggere il Vangelo, dove i miracoli sono miracoli di guarigione, e quindi cancellano il dolore».
Da tempo il poeta si interessa a questi temi, racconta di aver anche seguito altri convegni e incontri dedicati alla sofferenza dei malati. «Purtroppo ci sono ancora medici restii ad utilizzare certi rimedi contro il dolore - dice - Gli oppiacei, ad esempio, sono spesso visti come drogaggi. Invece si tratta di cure che non sempre finiscono nella morte e che servono ad aiutare persone destinate a soffrire per periodi di tempo non lunghi».
Molto spesso invece, è il caso delle cure palliative, questo tipo di medicine servono per i malati terminali. «In questo caso c´è un altro tema su cui riflettere. Quello dell´interruzione delle cure divenute ormai superflue. Ho pensato alla tremenda responsabilità del medico che deve decidere quando è arrivato il momento di sospendere la cura. In questo ruolo c´è qualcosa di sovrumano».

Dario Fo: la storia delle donne

Repubblica 15.10.04
Il Premio Nobel sta preparando lo spettacolo sulla figura femminile nella storia con un laboratorio-cantiere.
Debutto all'inizio del 2005

DAL NOSTRO INVIATO
RODOLFO DI GIAMMARCO

Santa Cristina di Gubbio (Perugia) - Parla di pie signore e di etère greche, della madre di Cristo e di Maddalena, di eroine e prostitute del Rinascimento in pittura, di operaie e suffragette, di badesse e attrici, di pulzelle e "medicone", e di streghe e universo femminile emancipato, di sante e scienziate, e dei ruoli oscillanti di cittadine di ieri e di oggi, il cantiere-laboratorio di Dario Fo che prelude a uno spettacolo della primavera 2005 sul tema del Vangelo e le donne. Un po' lezione, un po' work in progress, un po' prove aperte, un po' story-board con i suoi già visibili disegni-scenografia mostrati dal vivo e proiettati su schermo, gli appunti di Fo hanno preso forma nel corso di cinque giornate di inarrestabili racconti e apologhi a base di citazioni, studi e denunce che hanno avuto per pubblico un gruppo di appassionati della scena e della cultura, dando luogo a sedute mattiniere e pomeridiane nella Libera Università di Alcatraz diretta dal figlio Jacopo Fo, coautore di libri ispiratori come "Il libro nero del Cristianesimo" e "Gesù amava le donne".
Dario Fo, in un´epoca che avalla un´emancipazione politically correct della donna, lei lancia il sasso contro censure e omertà, soprattutto se la prende con una de-femminilizzazione del mondo religioso. Come mai si interessa di culto e clero?
«Non si può assistere alla crescita in presenza e in influenza di donne-manager, di registe, di professoresse universitarie, di giudici-donne o di intellettuali sia artiste che professioniste restando poi in silenzio di fronte al fatto che l´unico campo in cui una discriminazione è pesantemente in atto sia quello della religione. Vale ancora la regola invalicabile dettata dai padri della Chiesa, da S. Agostino e S. Tommaso d´Aquino. Per loro la donna non poteva e non può aspirare ad alcun accesso, neanche per fare il chierichetto o il sacrestano, e l´unico ingaggio resta quello di perpetua, a patto d´essere vecchie e bruttine. E pensare che all´inizio del secolo scorso, nel 1908, una tragedia segnò invece una conquista importante, e fu quando 129 lavoratrici morirono nel rogo di una fabbrica di Chicago, bloccate dall´esterno, cui seguì un corteo funebre dove la gente coprì i loro feretri di mimose, un fiore che è diventato il distintivo della festa della donna. Mi colpisce la discriminazione femminile nella comunità del clero perché paradossalmente sono proprio i vangeli canonici e apocrifi, e le iconografie religiose, a dimostrare quanto il ruolo della donna fosse in auge tanto tempo fa».
E lei se la prende con questo oscuramento, che a dire la verità fu anche politico, sociale, artistico?
«Sì, nello spettacolo cerco di riassumere a modo mio, epico e fabulatorio, tutto quest´orizzonte di concause. Il mistero della scomparsa delle oranti, sacerdotesse dei riti arcaici del Mediterraneo raffigurate in vari bassorilievi, si spiega anche con la nascita di un cristianesimo assurto a culto di stato nell´era di Costantino, ma c´è tra l´altro il concilio di Nicea ad accreditare una moralità maschilista. L´operazione censoria però non abolisce le allegorie e gli appuntamenti che ci sono, ben testimoniati, tra Cristo e le donne: l´affollarsi di figure femminili che lo seguirono in Galilea, di cui ci dà conto tra l´altro la "Deposizione" del Pontormo, l´imbattersi con l´indemoniata, con la sordomuta, il rapporto con la Maddalena spiato da tantissimi pittori come Caravaggio, il Correggio o il Parmigianino. Malgrado tutto, nel Medioevo la bambina neonata doveva aspettare 40 giorni per avere l´anima. E il potere aveva fatto quadrato, come l´arte. Non si videro donne recitare. Shakespeare scriveva per false donne, con attori in veste muliebre. Ma c´è ad esempio la badessa Rosvita che per educare le suore scrive commedie comico-grottesche. Il Ruzante butta giù dialoghi per donne, e lì per fortuna si fece largo, nel Veneto, il fenomeno delle prostitute teatranti che la sapevano più lunga delle signore per bene, "pute" che diventavano poetesse, che fecero le modelle per quadri di pregio talvolta acquistati da loro stesse. E a un certo punto, nel '600, il Papa invitava a pranzo queste meretrici d´alto loco. Poi ci sono casi limpidi come quello di Artemisia Gentileschi, e più tardi, in palcoscenico, quello della Andreini. Ma intanto s´è affermata la leggenda di un'Eva puttana e superficiale».
Sarà polemico?
«Beh, l´americano Dan Brown nel "Codice da Vinci" sostiene che Gesù aveva chiesto alla Maddalena e non a Pietro di mettere la prima pietra. Giuditta che mozza la testa a Oloferne è una fantasia che sa di contentino alle donne, come il culto della Madonna che è un po´ un patteggiamento col popolo. In un´indulgenza del 1517, come ricorda Jacopo in un suo libro, l´ecclesiastico che fosse incorso in peccato carnale con qualsiasi donna era assolto con il semplice pagamento di 67 libbre, 12 soldi. Una materia del genere va decantata (ci rivedremo qui ad Alcatraz fra un mese) e poi vorrei trattarla con Franca, che adesso è affaticata e in crisi per una distrazione di fondi ai danni della nostra associazione per i disabili. Chi meglio di lei accanto a me, per questo argomento?».

mostri dal Novecento
Foucault, nazismo, freudismo

Repubblica 15.10.04
Ma chi decide sulle nostre vite?
Esce Bíos di Roberto Esposito, lo abbiamo intervistato
Dal nazismo alla democrazia, ecco come è stata declinata
Una parola su cui Foucault aveva riflettuto oggi torna di attualità
ANTONIO GNOLI

Napoli. È da un po' che fra gli addetti ai lavori circola la parola "biopolitica". A dispiegarne la portata fu negli anni Sessanta Michel Foucault. Poi quella parola, che nel corso del Novecento ha avuto varie e drammatiche declinazioni, ha subito un lungo inabissamento, per riemergere in questi anni incerti, quando la politica, con i suoi costrutti teorici, con la sua storia, è sembrata aver perso il proprio baricentro. A Giorgio Agamben va il merito di aver riaperto la questione. Toni Negri ha fornito della biopolitica una lettura militante. Infine Roberto Esposito, con un importante libro che esce in questi giorni da Einaudi - Bíos, sottotitolo Biopolitica e filosofia, (pagg. 214, euro 18,50) - offre la prima importante sistemazione, sia in chiave storica che concettuale.
Allora professor Esposito perché dovremmo credere che la "biopolitica" è oggi un modo per entrare nelle questioni più pertinente di altri?
«Per la semplice ragione che, sempre più spesso, non si vive e non si muore in base a ciò che si fa, ma a ciò che si è biologicamente. Se si pensa a tutta la vicenda delle decapitazioni operate dai terroristi da un lato, e dall´altro alle torture, senza voler stabilire un parallelo fra le due cose, vediamo che oggi si fa politica iscrivendola sui corpi, attraverso il sangue».
Un ruolo non secondario svolgono i media.
«Indubbiamente, quando vediamo le immagini di una decapitazione circolare in internet dobbiamo concludere che sono saltate le tradizionali categorie politiche moderne».
Perché?
«Perché quello che ci si presenta è una combinazione di barbarie premoderna e di postmodernità, di spettacolo di sangue e di circolazione delle immagini sugli schermi di tutto il mondo».
Alcuni studiosi, fra cui lei, fanno coincidere l´esperienza biopolitica con i grandi totalitarismi del Novecento, in particolare con il nazismo.
«Il nazismo è il punto culminante della biopolitica. È l´idea che si tenta di realizzare nei laboratori scientifici, con esperimenti medici, per cui la vita è definibile solo in base a un criterio biologico: cioè con il richiamo al corpo, alla razza e al sangue».
Con quali conseguenze?
«Nel momento in cui il nazismo stabilisce una soglia tra una vita che va salvaguardata integralmente, perché essa riassume i valori massimi, e una vita che può invece essere sacrificata in nome d´una visione ariana, siamo dentro alla tanatopolitica. La conseguenza allora è che la vita si rovescia nel suo contrario, nella morte».
La biopolitica si colloca nel punto in cui le categorie moderne della politica - sovranità, ordine, diritto, libertà - entrano in crisi. È così?
«In un certo senso. Anche se è proprio con Hobbes, cioè con il filosofo che ha dispiegato la politica nei punti alti della modernità, che il problema biopolitico della conservazione della vita viene posto».
Ma non risolto.
«Diciamo che Hobbes risolve la questione in chiave politica, istituendo un grande dispositivo sovrano che implica categorie di diritto individuale, di libertà e rappresentanza. Fra vita e politica c´è ancora la mediazione delle istituzioni».
Ma le sembra davvero ridimensionata questa mediazione?
«Nel Novecento è venuta spesso meno».
A parte i totalitarismi, la politica ha continuato a rivendicare le sue mediazioni. In fondo si parla di diritti individuali, umani, eccetera...
«Ma l´effetto è sempre più ridotto. In realtà in tutto il mondo i punti caldi della politica stanno a ridosso immediato della vita. Non solo o semplicemente nel rapporto tanatopolitico di vita e morte, vita e guerra, ma anche alla base della questione sanitaria, della fame nel mondo, dello sviluppo della qualità della vita. Oggi ritengo che l´unica vera forma di legittimazione nella politica sia data proprio dalla vita».
L´impressione però è che la biopolitica serva più a spiegare le decisioni negative della politica che non quelle positive.
«È vero solo in parte. È vero, per esempio, se si valuta la posizione del migrante. Le grandi operazioni di polizia internazionale guardano al migrante come a una figura senza identità giuridica, fornita solo della sua nuda vita. Non è vero, se si pensa che larga parte dei discorsi politici hanno al centro la conservazione e la sicurezza biologica della vita».
Proverei a insistere su questo punto. Non sono tanto sicuro che le grandi questioni che la politica deve affrontare siano svolte senza l'ausilio e la mediazione delle grandi istituzioni.
«Riflettevo su ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Ora, a parte alcune notazioni che riguardano il rilevamento delle impronte, un provvedimento chiaramente biopolitico determinato anche da uno stato di necessità, pensi alle prossime presidenziali. Ebbene, è indubbio che i gruppi sociali ed etnici - ispano-americani, irlandesi, italiani - hanno sempre più peso rispetto alle istituzioni dello Stato. La politica in Occidente si fa sempre più in base a caratterizzazioni etnico-sociali. E sempre meno utilizzando il rapporto tra cittadini e Stato. La società e lo Stato si intrecciano, si accavallano, si confondono. Così come sotto un altro profilo, pace e guerra, polizia e apparato militare, lasciano cadere o ridimensionano quelle distinzioni che costituivano la spina dorsale della modernità».
Mentre lei accennava al rilievo che oggi rivestono i gruppi etnico-sociali, veniva in mente quella scena originaria, fra gli altri descritta da Freud in Totem e Tabù, nella quale il potere è visto nascere come una congiura dei figli contro il padre. Trova che lì ci sia un elemento biopolitico?
«Ritengo di sì. Le due categorie di fratellanza e di paternità cadono in un ambito biologico. Ora, quella scena originaria è interpretata da alcuni in chiave laica: finisce il regime sovrano dei padri e nasce la democrazia dei fratelli. Personalmente la vedrei in maniera più problematica».
In che senso?
«Quei fratelli oltre a uccidere il padre, lo divorano e con ciò lo incorporano. Questo vuol dire che la democrazia nasce introiettando un elemento bio e tanatopolitico. I valori morali che ne conseguono nascono dal complesso di colpa determinato da quella uccisione e da quel divoramento. Questo significa anche che tutta la scena democratica, della quale si parla come una fonte che si autolegittima, è qualcosa che ha in sé un fondo oscuro».
Qui si giunge a un punto essenziale: la biopolitica mostra l'elemento negativo insito nella democrazia.
«Più che mostrarci gli elementi negativi, ci fa vedere le faglie interne alla democrazia. Se la democrazia è usata in senso formalistico, la biopolitica decostruisce quel formalismo. E ci dice: guardate, quegli individui che rappresentano una testa e un voto sono una scena che nasconde un´altra scena più forte, attraversata dai conflitti e dai rapporti di forza. Da un lato, la biopolitica non nega la democrazia ma la decostruisce, dall´altro essa assegna alla democrazia il suo ruolo più importante: la legittimazione non delle forme ma della vita».
È una idea di democrazia che va ben oltre l´universo dei valori che conosciamo e pratichiamo.
«E perché? Non è detto che la democrazia debba essere necessariamente un metodo astratto di gestione o di distribuzione del potere. Anzi, la biopolitica ci dice che la democrazia funziona solo se si riferisce effettivamente ai contenuti di vita, al modo di essere di persone costituite da corpi e da carne, oltre che dalla possibilità astratta di votare per un partito o per un presidente».

festival di storia

Repubblica 15.10.04
Due rassegne sul '900
Se la storia diventa un festival
SIMONETTA FIORI

C'è un paradosso nel proliferare di festival di storia proprio nel momento di maggior inquietudine per lo storico della contemporaneità. Una difficoltà in cui versa la stessa disciplina, che vede polverizzarsi le sue antiche roccheforti accademiche. Messa ai margini anche da un immaginario giovanile appiattito sul presente, la storia riaffiora nei media, in una nutrita produzione saggistica e nel fervore dei convegni. Due gli appuntamenti ravvicinati. Il primo comincia oggi a Grottaferrata, su iniziativa di un comitato scientifico che annovera Giuliano Procacci, Giovanni Sabbatucci, Roberto Gualtieri, Agostino Giovagnoli e Federico Romero (Varchi. Festival della storia in-contemporanea). La seconda rassegna s´apre mercoledì a Roma, a cura di Mirella Serri, ed è dedicata a un tema tragicamente attuale come la guerra (Novant´anni di guerre dagli spari di Sarajevo alla guerra santa): se però nelle passate edizioni era un salone del libro storico, quest´anno si limiterà ai dibattiti, rinunciando alle caratteristiche di fiera dell´editoria.
Due festival che fatalmente vertono su temi analoghi, dai conflitti mondiali ai totalitarismi del Novecento, dalle guerre civili in Europa ai dilemmi contemporanei legati all´Islam. Argomenti in parte dettati dall´attualità, oppure nodi irrisolti del più recente passato (la strategia della tensione o l´affaire Moro), o temi più lontani ora alimentati da un più facile accesso alle fonti documentarie: è il caso ? nel festival romano ? dello spionaggio sotto il fascismo, studiato da Mauro Canali e da Mimmo Franzinelli, o dei campi di Stalin, su cui stanno per uscire nelle edizioni di Bruno Mondadori lo straordinario lavoro del fotografo polacco Tomasz Kinzy, Gulag, e il volume curato da Gabriele Nissim Storie di uomini giusti nel Gulag. Ma anche terreni su cui s´esercita un uso pubblico della storia sempre più spericolato, fino a tradursi in quella che Giovanni De Luna - nella nuova edizione di La passione e la ragione (Bruno Mondadori) - definisce "la liberalizzazione selvaggia del mercato della memoria". Tra i periodi storici più esposti è il ventennio nero. Sulle sue innumerevoli letture si sofferma Emilio Gentile nel recente libretto Il fascismo in tre capitoli (Laterza), che sarà presentato a Grottaferrata. La questione del fascismo, come quella del comunismo e del totalitarismo, non è solo argomento storiografico, come può esserlo il feudalesimo. «E quando l´interpretazione di un fenomeno storico coinvolge il significato dell´esistenza, i problemi sono più numerosi delle risposte degli storici».
Rimane il paradosso dell´esplosione mediatica d´una disciplina minacciata da più parti. I festival potrebbero servire proprio a questo: a mediare tra la complessità del discorso storico e il senso comune appiattito sugli stereotipi delle vulgate.

un "nuovo orientamento della sessualità":
nessuna sessualità!

Repubblica 15.10.04
In Gran Bretagna fa scalpore una ricerca pubblicata da "New Scientist". "È una nuova categoria sociale che rivendica i propri diritti"
Il Quarto Sesso: astinenti e felici
La carica degli "asexual". Gli scienziati: la libido cala per scelta
Su Internet le loro confessioni: "L'erotismo per me è come l'algebra, capisco che cos'è ma non mi interessa"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA - Cè una nuova categoria da aggiungere alla variegata fauna delle disposizioni sessuali: dopo gli eterosessuali, gli omosessuali, i transessuali, ora è il turno degli asessuali. Ovvero di quelli che non fanno sesso, non l´hanno mai fatto o come minimo preferirebbero non farne: non perché non trovano un partner di gradimento, non per convinzione religiosa o morale, e nemmeno per qualche difetto fisico, ma semplicemente perché non ne hanno voglia. Perché proprio il sesso non li eccita, non li attira, non desta in loro il minimo interesse. Mentre, viceversa, l´astinenza è la condizione che li rende, o renderebbe, felici.
«Gli asessuali ci sono sempre stati, ma adesso cominciano a venire allo scoperto», annuncia il settimanale britannico "New Scientist". Nel numero ieri in edicola, l´autorevole rivista scientifica intervista David Jay, 22enne ideatore di un sito sull´asessualità, www.asexuality.org, che in pochi mesi ha raccolto oltre 1200 adesioni. Il periodico pubblica anche uno studio effettuato su un campione di 18 mila adulti, uomini e donne, da cui risulta che almeno l´1 per cento si identifica con la seguente affermazione: «Non mi sono mai sentito sessualmente attratto da nessuno».
L´uno per cento può sembrare poco, ma gli autori della ricerca sostengono il contrario. «Innanzi tutto, in un mondo condizionato dal sesso come il nostro, è probabile che non tutti gli asessuali si siano sentiti pronti a dichiararsi», afferma il dottor Anthony Bogaert, lo psicologo della St. Brock University che ha preparato il rapporto.
«In secondo luogo la percentuale di coloro che si riconoscono omosessuali è del 3 per cento, per cui se gli asessuali di fatto arrivano all´1,5 o al 2 per cento significa che sono numerosi quasi quanto i gay, cioè quanto una minoranza considerevole e degna di attenzione. In terzo luogo ci sono adulti che hanno rapporti sessuali, ma solo perché si sentono obbligati a farlo dal proprio partner o dalle pressioni sociali, e ne farebbero volentieri a meno. Appartengono anch´essi, perlomeno potenzialmente, alla categoria degli asessuali».
Il sondaggio cita tre ragioni che spingono a scegliere una vita senza sesso:
1) traumi sofferti durante l´infanzia; 2) stress causato dal lavoro o dalla famiglia; 3) eccessivo bombardamento di sesso sui media, in tivù, nella pubblicità, che in alcuni soggetti può provocare rigetto anziché desiderio.
Una quarta possibile motivazione, genetica, la forniscono gli studi sugli animali: il 3 per cento dei montoni e il 12 per cento dei topi o di altri roditori rifiuta rapporti sessuali con partner di qualunque sesso. E si tratta di mammiferi, come l´uomo.
«Sento un´estraneità nei confronti del sesso analoga a quella che proverei se qualcuno mi proponesse di andare a vivere su Marte», confida un asessuale al "New Scientist". «È come l´algebra, capisco cos´è, ma non mi interessa», confessa un altro. L´obiettivo non è arrivare vergini al matrimonio, bensì restarlo per sempre. «Asessualità», proclama il sito fondato da David Jay. «Non è più soltanto per le amebe»

la destra cristiana

Repubblica 15.10.04
LA DESTRA CHE SCEGLIE LA STRADA CLERICALE
di EZIO MAURO

Andata in minoranza nel pigro appagamento del dopoguerra anche nel sentimento degli italiani (il popolo che per decenni veniva definito "naturalmente cristiano") la Chiesa cattolica in questi giorni non crederà ai suoi occhi, pur abituati a ben altre rivelazioni. Dal mondo che si definisce liberale, o addirittura laico, dalle tribune per lungo tempo indifferenti dei giornali borghesi, dagli ideologi di una destra che era nata nel mercato e nel secolo, arriva improvvisa e compatta una grande genuflessione pubblica ai precetti morali del cattolicesimo, una sorta di inedito Giubileo liberale in ritardo, ma certamente spettacolare. Per ora incompleto, dal punto di vista del rito, perché senza mea culpa. La colpa è come sempre degli altri, naturalmente. In questo caso dell´Europa e della sua vera anima nichilista, la sinistra socialdemocratica.
E´ bene non scambiare la causa con l´effetto, per capire cosa sta succedendo in questo Paese complicato, dove ancora una volta sta nascendo qualcosa di nuovo: il laico clericale, figura tutta italiana, moderno per rendita culturale, status e ruolo, tradizionale per il bozzolo di valori in cui sta scegliendo di rinchiudersi. Rocco Buttiglione, infatti, è il pretesto perfetto, la figura chiave che spalanca la porta di un fenomeno in incubazione da tempo, irrilevante politicamente, interessantissimo invece per ciò che rivela nel consolidarsi e trasformarsi della nuova mappa di egemonia culturale che circonda la destra italiana, e attraverso di essa la società e il Paese.
Il caso Buttiglione è presto definito. Il filosofo cattolico, imprestato alla politica ormai da molti anni ma non convertito ad un professionismo politico opportunistico ed incolore, ha testimoniato in un´intervista al Paìs e poi nell´audizione al Parlamento europeo come commissario Ue le sue personali convinzioni di cattolico sui gay, sulla famiglia e sulle donne: precisando che per lui vale la distinzione kantiana tra la sfera della morale e la sfera del diritto.
La commissione del Parlamento europeo ha badato meno a Kant che a Buttiglione, e lo ha bocciato due volte.
Il presidente Barroso lo ha riconfermato. Il filosofo ha taciuto. Ma aveva ormai agito come pietra dello scandalo, e lo scandalo è scoppiato.
Tutta la destra italiana ha infatti reagito come se l´Europa avesse dichiarato guerra al cattolicesimo, Silvio Berlusconi ha parlato di "oscurantismo", Ernesto Galli Della Loggia ha accusato Bruxelles ("grigia" e "triste", esattamente come Pym Fortuyn dipingeva l´Europa, e come spesso la definisce la "Padania") di aver messo al bando in un colpo solo i tratti fondamentali dell´antropologia "dell´intero monoteismo". Causa ed effetto qui sono davvero rovesciati: non conta nulla che un commissario in pectore giudichi l´omosessualità "immorale", usi dalla tribuna politica di Bruxelles la categoria di "peccato" per i gay, e aggiunga che la famiglia esiste "per permettere alla donna di avere figli e di essere protetta dal marito". Conta soltanto che i parlamentari siano rimasti colpiti da queste affermazioni, e abbiano ritenuto di non volere un commissario che dichiara in partenza di dover ogni volta mediare tra le sue nette convinzioni morali e una prassi politica a cui è pronto a subordinarsi, anche se pensa il contrario.
Eppure è il cardinal Ratzinger a parlare di "schizofrenia"e di "finzione difesa dallo Stato" quando discutendo il rapporto tra verità e libertà cita il caso del Pontefice Massimo romano C. Aurelio Cotta, che in pubblico rappresentava la religione pagana ed era addirittura garante dell´osservanza scrupolosa dei riti del culto statale e in privato, come rivela Cicerone, ammetteva di temere "che gli dei non esistano affatto".
Perché dunque parlare di Europa anticristiana, quando la stessa commissione in cui fatica ad entrare Buttiglione è stata guidata per cinque anni da un cattolico come Romano Prodi? Perché non ammettere che la distinzione tra privato e politico fatta da Buttiglione è senz´altro sincera (come io credo decisamente) ma è anche complicata, visto che se i convincimenti morali hanno diritto ad ogni rispetto, anche le leggi meritano altrettanto. Sappiamo tutti che è il cristianesimo che ha tolto allo Stato la sua sacralità, separando Dio da Cesare, ammettendo di poter pregare per l´imperatore, ma rifiutando di offrirgli sacrifici sacri. Ma d´altra parte il cristianesimo ha sempre sostenuto di non essere solo un sentimento soggettivo, piuttosto - cito ancora il cardinal Ratzinger - "una verità che è proclamata in ambito pubblico, che pone per la società delle norme e che, in una certa misura, è vincolante anche per lo Stato e per i potenti di questo mondo".
La realtà è dunque più complicata di quanto i toni da crociata gridino, e Buttiglione probabilmente lo sa perché è un cattolico convinto, così come lo sanno i cattolici liberali alla Cossiga e i cattolici democratici che hanno fatto per cinquant´anni la parte di Cesare in questo Paese, continuando a credere in Dio. C´è dunque da pensare che la reazione della destra italiana e dei liberali a lei contigui abbia un significato più ampio, che bisogna cercare di capire.
Io credo che quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi dimostri una forte difficoltà della destra politica italiana e un nuovo tentativo di riorganizzazione di quel campo da parte della destra culturale. E´ la terza fase. Nella prima, si è provveduto a destrutturare la cornice valoriale della Repubblica, con gli attacchi alla Costituzione, alle sue istituzioni, a quel tanto di Resistenza che è la fonte italiana di legittimazione del nuovo Stato democratico, e non lo rende octroyée, alle culture fondative, come l´azionismo. Nella seconda, la spada vittoriosa di Berlusconi, conquistato il potere, avrebbe dovuto fondare una moderna cultura di destra, in un Paese che non l´ha mai avuta nella sua lunga stagione democristiana: questa sarebbe stata l´operazione più ambiziosa del Cavaliere e l´unica davvero immortale, perché avrebbe creato qualcosa non ad personam, ma capace di succedergli. E avrebbe messo il sigillo perfetto e definitivo ad un´operazione politica tecnicamente rivoluzionaria, perché fondatrice insieme di nuove istituzioni, di una nuova Costituzione, di un potere prima sconosciuto, e di una cultura che dia unità e coerenza alle pulsioni sparse e alle passioni contraddittorie della destra italiana.
Il fatto è che la seconda fase è mancata. Il rivoluzionario governa come un doroteo ideologico, sia pure con velleità titaniche interrotte da squarci inediti di moderatismo guerriero. E´ chiaro che il Cavaliere degli ossimori (mezzo Letta, mezzo Ferrara) non può fondare nessuna nuova cultura, e fatica anche a balbettare le litanie democristiane che sta evidentemente imparando a memoria. Dunque ecco la terza fase, obbligata: per mantenere quell´egemonia culturale instaurata da Berlusconi attraverso la breccia aperta dal revisionismo, bisogna ancorare la destra ad un pensiero forte, che affondi nella tradizione italiana e agisca come elemento dell´identità nazionale.
Nel momento in cui i grandi temi dell´etica, della procreazione, della famiglia entrano al centro della discussione pubblica, le leggi morali della Chiesa sono il pensiero forte dietro cui si rifugia la destra. Non è, bisogna sottolinearlo, la ripetizione dello schema divisorio della Prima Repubblica, con la destra che si rinchiude nella tradizione, mentre la sinistra si accampa nella modernità. Anzi: come si teorizza apertamente in America (Neuhaus), la nuova cultura cattolica di destra può sfidare apertamente la laicità denunciandone il declino parallelo allo statalismo, può ridurre il cattolicesimo democratico a ceto politico, e può proporsi come interprete di un senso comune del moderno e del post-moderno.
In Italia, la "conversione senza Dio", tutta politica, dei liberali e della destra ai precetti morali della Chiesa rivela innanzitutto un´impotenza quasi dichiarata. Le loro culture di origine giungono con ogni evidenza all´appuntamento con questa fase spaventate e spodestate, direi estenuate. Il liberalismo di destra è stato sfidato per un decennio nei suoi valori dall´anomalia berlusconiana, ed è diventato un paradosso strumentale. La destra berlusconiana sta peggio, e proprio la guerra rivela come rischi ogni giorno più scopertamente di scambiare l´ideologia per una cultura, rimanendovi imprigionata.
La morale cristiana (mai la predicazione sociale dei Vescovi, mai la denuncia del Papa sulla guerra) diventa così un bene-rifugio da utilizzare in questi tempi di carestia culturale, ancorando la destra ad un baricentro di valori per Berlusconi eccentrico ma non contraddittorio, per il Paese riconoscibile. E´ una realpolitik strumentale, che senza dirlo assume le posizioni proprie della Cei radicalizzandole. Il Cardinal Ruini si limita a dire, con qualche ragione, che la qualità della vita cui oggi la gente aspira per molti aspetti coincide con la tradizionale posizione cristiana "non a caso a lungo avvertita come senso comune nella società europea". La destra clericale sostiene invece, da un lato, che il cattolicesimo è fuori corso in Europa perché è fuori dal senso comune dominante, sostituito dalla nuova religione del politicamente corretto e dall´adorazione pagana della sinistra per i diritti subentrati ai valori; ma dall´altro lato si muove e opera con un´idea del cristianesimo come seconda "natura" italiana, che può dunque essere trasgredito e rinnegato solo da leggi in qualche modo contro natura, quindi contestabili alla radice.
E´ un nuovo integralismo cristiano del tutto inedito, semplicemente perché è senza Dio. Si tratta infatti di una sorta di cristianesimo senza Cristo, di una conversione senza fede, della falsa adorazione di un tabernacolo che si pensa vuoto, e di cui per calcolo di fase si cavalcano i precetti. I veri cattolici integrali, quelli per i quali il cristianesimo è un "avvenimento" che si è compiuto nel tempo e nello spazio, concretamente, hanno sempre avversato la sua riduzione a filosofia, morale, cultura e galateo pratico di precetti senz´anima. I teologi, addirittura, definirebbero questo moderno paganesimo di una religione atea come una riedizione del pelagismo. Ma tant´è, l´ultimo miracolo del berlusconismo è in atto, ed è questo. Manca soltanto un nuovo Papa non pastore né nocchiero né profeta, bensì guerriero: il gregge è pronto.