mercoledì 31 agosto 2016

SULLA STAMPA DI  MERCOLEDI 31 AGOSTO

IN PRIMO PIANO

Corriere 31.8.16
Ieri alla Festa nazionale de l’Unità di Catania
D’Alema: «Ho perso le elezioni in modo meno catastrofico di Renzi» e il pubblico applaude:


La Stampa 31.8.16
Ovazione per D’Alema alla festa renziana
“Renzi brutale sulla Rai come Berlusconi”
E sul referendum: “Trovo sbagliato spaccare il Paese”. Lunedì prossimo una riunione organizzativa per il “no”
di Fabio Albanese
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Corriere 31.8.16
Referendum, primo derby alla Festa
Il popolo del No applaude D’Alema
Serrato confronto con Gentiloni a Catania alla manifestazione nazionale del Pd. Nessuno stand Anpi a Firenze: non accettano opinioni diverse. La replica: nessun veto
di Ernesto Menicucci
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Repubblica 31.8.16
D'Alema alla festa dell'Unità: "Con la riforma Renzi ha spaccato in due il Paese"
Bersani: "La gente non mangia pane e referendum"
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L'Huffington Post 31.8.16
Festa dell'Unità, al dibattito con Massimo D'Alema vince il no. "Renzi è ormai un politico come tutti gli altri"
di Angela Mauro
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Il Fatto 31.8.16
Referendum, D’Alema: “Riforma fatta da maggioranza di trasformisti. Rai occupata brutalmente come ai tempi di Berlusconi”
Alla Festa dell'Unità di Catania l'ex premier attacca Renzi, che ormai "sta diventando un politico tradizionale", e che ha "sbagliato a spaccare il Paese sulla Costituzione"
Il Pd? "Sta diventando un partito normale. Abbiamo tolto l'Imu ai ricchi che ci hanno premiato, mentre la povera gente e il mondo del lavoro non ci votano più"
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Fanpage 31.8.16
D’Alema: “Poco spazio in Rai per il no al referendum, nemmeno Berlusconi arrivò a tanto”
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Il Giornale 31.8.16
Controriforma di D'Alema: via il governo, poi ci penso io
L'ex premier: Renzi è diventato un politico come tutti gli altri con i peggiori difetti. Io mi dimisi per una sconfitta molto meno catastrofica
di Laura Cesaretti
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Il Foglio 31.8.16
Il Massimo della vita
D'Alema avrebbe uno strumento chiaro e lineare per capire se la propria idea è così radicata nel paese: candidarsi alla presidenza del Consiglio
Il Foglio ha lanciato una piccola campagna qualche mese fa. Perché sogniamo di vedere quanto pesa alle elezioni la sinistra dalemiana
di Claudio Cerasa
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il manifesto 31.8.16
D’Alema: riforma condivisa di tre articoli
Referendum. L’ex leader alla festa nazionale attacca Renzi, lancia la sua campagna e presenta un progetto alternativo. I partigiani dell’Anpi non vanno alla festa di Firenze: a differenza di Bologna non ci fanno fare campagna per il No
L’Anpi rompe con il Pd per la festa di Firenze
di Domenico Cirillo
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Corriere 31.8.16
Bersani intervistato da Berlinguer: questo voto non è una priorità
Firenze ( c.b. ) «Piove, governo»... «Strepitoso». Pier Luigi Bersani completa così la frase di un giornalista che lo stuzzica sul suo rapporto con Renzi. L’ex segretario del Pd, alla Festa dell’Unità di Firenze, scherza prima di sedersi a tavola per un’amatriciana, assieme a Bianca Berlinguer che poi lo intervista sul palco delle Cascine. «La gente non mangia pane e referendum, che è al quarto, quinto posto delle priorità degli italiani, che non arrivano a fine mese — dice Bersani —. Qua a Firenze non c’è l’Anpi? Beh, bisogna stare attenti a non personalizzare troppo le feste (“Basta un sì”, è il titolo, ndr ): ai tempi di Berlinguer mica si facevano le feste sul compromesso storico».
Corriere 31.8.16
Gli ostacoli all’unità cercata dal premier
di Massimo Franco
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Il Fatto 31.8.16
Referendum, Anpi diserta Festa Unità di Firenze: “Per Pd inconciliabile la nostra posizione con la campagna per il sì”
La tregua raggiunta a Bologna si è rotta nella città del premier. Il partito ha inviato il consueto invito ma dopo alcuni contatti ha precisato: "Partecipate ma nel rispetto delle posizioni politiche del Pd sulla consultazione”
Nuovo strappo, dunque, dopo che il sindaco Nardella aveva deciso di fare a meno delle testimonianze dei partigiani alle celebrazioni per la Liberazione del capoluogo
di Giulia Zaccariello
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Il Fatto 31.8.16
“La stampa voleva dividere l’Anpi: ma siamo uniti sul No”
Carlo Smuraglia Il presidente: “Farinetti stia tranquillo: ci schierammo contro legge truffa e governo Tambroni e non siamo diventati un partito”
intervista di Silvia Truzzi
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Il Fatto 31.8.16
Da oggi disponibile “La Costituzione spezzata” di Andrea Pertici
Poche storie, così il governo è strapotente
di Roberto Zaccaria
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Il Sole 31.8.16
I Dem. Dalla minoranza apprezzamento per la scelta di Errani commissario, ma nessuna retromarcia sulla richiesta di cambiare l’Italicum
Riforme, si riapre la partita nel Pd
Dopo la pausa estiva Bersani getta acqua sul fuoco: «Ora alla gente interessa il lavoro»
Roma
di Emilia Patta
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Il Sole 31.8.16
Dal terremoto all’economia, Renzi e la stagione del dialogo
di Paolo Pombeni
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ITALIA

La Stampa 31.8.16
I fondi spariti della ricostruzione
Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto
Inchiesta terremoto: spesi in “consulenze d’oro” il 40% dei soldi destinati alle case crollate
di Paolo Festuccia
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Corriere 31.8.16
Così il Comune di Amatrice mentì sui lavori nella scuola: «Ora è antisismica»
di Giovanni Bianconi
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Corriere 31.8.16
Il giallo dei 21 milioni destinati agli edifici privati
Nessuno sa come sono stati spesi i fondi, tra cui 21 milioni di euro destinati agli edifici privati. Saranno convocati sindaci e funzionari
di Fiorenza Sarzanini
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Corriere 31.8.16
Cento edifici sequestrati dalla Procura
L’indagine per disastro colposo aperta dalla procura di Rieti. I sigilli anche all’ospedale
di Francesco Di Frischia
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Repubblica 31.8.16
Lo spreco delle mappe
Cartine incomplete e fondi perduti così lo Stato ha gettato cento milioni
È la cifra spesa negli ultimi sei anni per monitorare il rischio sismico. Ma spesso il lavoro è risultato inutile
di Antonio Fraschilla
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Corriere 31.8.16
I «professionisti» della ricostruzione
Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano
di Sergio Rizzo
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La Stampa 31.8.16
Un sistema di illegalità diffusa
di Vladimiro Zagrebelsky
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Il Sole 31.8.16

Cassazione. È stalking anche se non si cambia vita
Non serve che lo stato di ansia porti la vittima a un mutamento nello stile di vita
Rientra nell’ambito della tutela anche lo sguardo insistente
di Patrizia Maciocchi
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Il Sole 31.8.16
Separazioni. Se l’obbligato ha difficoltà
Sequestro dei beni per garantire l’assegno all’ex
di Antonino Porracciolo
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Il Sole 31.8.16
Il Consiglio di Stato precisa i limiti del concetto di infiltrazione
Mafia, basta anche un solo dipendente
di Francesco Clemente
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La Stampa 31.8.16
“Noi in classe, i prof non si sa”. La riforma vista dagli studenti
Le preoccupazioni dei ragazzi: tra ritardi, ricorsi e record di bocciature al Concorsone l’anno rischia di partire con un terzo delle cattedre scoperte. E a rimetterci saremo noi
di Daniele Grassucci
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La Stampa 31.8.16
Curriculum e colloqui col superpreside
Ecco i problemi della chiamata diretta
Per il ministero dell’Istruzione la procedura premia i meritevoli, ma secondo i sindacati favorisce il clientelismo
di L. Ven.
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La Stampa 31.8.16
“Sì alle Olimpiadi, portano soldi per migliorare la vita dei romani”
Strappo di Berdini, assessore all’Urbanistica della giunta Raggi: “È un’opportunità Ma dico no al modello Expo e delle grandi opere. Servono interventi strutturali”
di Ilario Lombardo
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il manifesto 31.8.16
Berdini apre sulle Olimpiadi a Roma: «Difficile dire di no a certe condizioni»
Paralisi 5 Stelle. Movimento diviso sul da farsi nella Capitale. Mezzo sì anche sul nuovo stadio della Roma. E la Regione chiede chiarimenti. Mentre la sindaca Raggi tace
 di Matteo Bartocci
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Repubblica 31.8.16
Il Campidoglio
Staff e stipendi “Fissare un tetto a 76mila euro” Atac, altra bufera
di Lorenzo D’Albergo
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La Stampa 31.8.16
Bandarin, Unesco
“Su Venezia solo chiacchiere. Un gioco di potere la fa morire”
“Se nulla cambia, la includeremo tra i siti in pericolo”
intervista di Giuseppe Salvaggiulo
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MONDO



Repubblica 31.8.16
Madrid
L’anarchia spagnola che fa volare il Pil “Noi senza governo stiamo meglio”
Non c’è un esecutivo dallo scorso dicembre, ma l’economia cresce. Avvenne anche in Belgio
di Ettore Livini
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Repubblica 31.8.16
Rajoy cerca la fiducia ma gli mancano sei voti
Ieri il discorso alle Cortes: “O me o il caos. Io sono la sola possibilità di dare alla Spagna un governo”
di Alessandro Oppes
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Il Sole 31.8.16
In Germania boom di vendite per le casseforti
Nell’era dei tassi a zero molti risparmiatori tedeschi preferiscono tenere i soldi in casa
di Riccardo Barlaam
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La Stampa 31.8.16

Scoperte 72 fosse comuni tra la Siria e l’Iraq
Seppelliti fino a 15.000 corpi
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il manifesto 31.8.16
Siria. Turchia e Rojava, tregua «approssimativa»
Gli Stati uniti annunciano un cessate il fuoco di due giorni tra Ankara e le Ypg. Erdogan non commenta
di Chiara Cruciati
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il manifesto 31.8.16
Israele/Territori Occupati
Lieberman: giornalisti nemici dei soldati che combattono i terroristi
Il ministro della difesa israeliano sostiene che i media hanno già condannato i due soldati che hanno ucciso palestinesi che non presentavano alcuna minaccia. Per lui quei militari combattevano il terrorismo
di Michele Giorgio
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il manifesto 31.8.16
Burkini, si esprime l’Onu: «Il divieto discrimina i musulmani»
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il manifesto 31.8.16
Brasile. Dopo un un'ultima discussione, forse oggi il verdetto per Dilma
Scontri davanti al Senato contro il golpe istituzionale
di Geraldina Colotti
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CULTURA

















il manifesto 31.8.16
L’illusione tragica di una utopia
Narrativa. «L’Angelo rosso», un romanzo di Nedim Gürsel per Ponte alle Grazie
La vita del poeta turco Nazim Hikmet attraverso i documenti della Stasi
Fuggito dal suo paese perché comunista trascorse molti anni A Berlino.
di Anna Maria Merlo
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Repubblica 31.8.16

Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
di Silvia Ronchey
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Repubblica 31.8.16
Chi siamo? La scienza risponde su MicroMega
Esce oggi il nuovo Almanacco della scienza di MicroMega, curato come sempre da Telmo Pievani. Il tema è “Chi siamo?”.
Rispondono all’interrogativo scienziati di fama internazionale, dal linguista Daniel Dor al paleoantropologo Damiano Marchi, dalla genetista Eva Jablonka al biologo W. Tecumseh Fitch. Il volume indaga l’esistenza della natura umana e quella della morale, parla del rapporto fra scienza e verità e del metodo scientifico. Torna infine a occuparsi del batterio Xylella, con un articolo di Francesco Sylos Labini. Per festeggiare i trent’anni della rivista, a questo numero saranno allegate le ristampe di testi di Andrea Camilleri e Paolo Flores d’Arcais. In edicola, libreria, ebook e Ipad.

I CONTENUTI SU QUESTA PAGINA

Repubblica 31.8.16
Maddalena
Storia e leggenda dell’apostola degli apostoli
Fu Gregorio Magno a identificarla come una ex prostituta convertita. Ma i Vangeli non la descrivono così
di Vito Mancuso
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Corriere 31.8.16
I cento anni di Kirk Douglas: sogno come Don Chisciotte
«Ero nemico dei maccartisti, oggi lotto contro ogni razzismo»
intervista di Giovanna Grassi
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Il Fatto 31.8.16
Il medico che canta e le favole raccontate nel suo ambulatorio
Il nuovo libro di Andrea Satta, leader dei Têtes de Bois, raccoglie le storie delle mamme di tutto il mondo (per i bimbi di tutto il mondo)
di Furio Colombo
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Repubblica 31.8.16
Guerra e Pace
Il capolavoro di Tolstoj è una serie tv ma sembra un dipinto d’epoca
Ricchezze, costumi e palazzi, scene di assoluto splendore: arriva su laEffe dal 16 settembre quella che in molti giudicano la miglior fiction degli ultimi anni
di Natalia Aspesi
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La Stampa 31.8.16
Quel salvavita innominabile ideato dall’enigmatico dottor Condom
Tra fallimenti e successi, la grande guerra alle malattie veneree
di Eugenia Tognotti
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il manifesto 31.8.16

Cannabis, legalizzazione e preconcetti
In attesa che la camera riprenda l’esame della legalizzazione della marijuana, e che il governo pubblichi la relazione annuale al parlamento, sarebbe opportuno nutrire il dibattito pubblico con quanti più studi scientifici possibili – preferibilmente con analisi indipendenti – per evitare certi inutili spauracchi
di Marco Perduca
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il manifesto 31.8.16

Festival di Venezia
Rai, Mediaset e Sky in Laguna
Venezia 73. La copertura del festival sui canali digitali e satellitari con interviste e retrospettive. Blob propone un omaggio a Jean Paul Belmondo, Leone d'oro alla carriera
di Stefano Crippa
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martedì 30 agosto 2016

NEL MONDO:

Repubblica 30.8.16
Il ratto d’Europa
Il ruolo di Berlino
di Massimo Riva


«SE la Germania tenterà di essere il primus inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere efficacemente da questo tentativo di supremazia. Le probabili conseguenze di tale sviluppo sarebbero paralizzanti per l’Unione europea mentre la Germania cadrebbe nell’isolamento. E perciò abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi».

Non è ben chiaro con quale spirito e con quali obiettivi Angela Merkel, dopo l’incontro di Ventotene, abbia compiuto un ampio giro di consultazioni con i governi del Nord e dell’Est in vista del vertice Ue di metà settembre. Può essere che dal Manifesto di Spinelli e compagni abbia raccolto la lezione che l’unione politica del vecchio continente postula l’opera di un federatore e voglia ora occupare a suo modo questo ruolo. In tal caso sarebbe di grande utilità per lei (e per tutti) meditare a fondo sulle parole della citazione iniziale. Esse sono tratte da un discorso pronunciato al congresso della Spd nel 2011 — dunque, a cri- si economica conclamata — da un suo illustre predecessore.
Quell’Helmut Schmidt che fu l’unico statista di profonda convinzione europeista ad aver guidato la Germania negli ultimi decenni.
Già nelle opinioni pubbliche di molti Paesi si stanno consolidando giudizi negativi nei confronti della politica di Berlino verso il resto dell’Europa. Alcuni sono magari pregiudizi falsi come, per esempio, quelli in tema di migranti: se si fa la verifica delle cifre, si scopre che la Germania finora si è dimostrata più generosa nell’accoglienza di qualunque altro socio dell’Unione. Altri, però, si fondano su dati di fatto che sono non meno incontestabili. È Berlino che, dopo aver salvato le proprie banche inguaiate in Grecia con l’ingente concorso altrui, tiene oggi bloccata l’unione bancaria perché non vuole correre il rischio di pagare qualche costo di solidarietà con i problemi degli altri. Ed è ancora Berlino che insiste nel fare la faccia feroce sui guasti contabili dei Paesi in difficoltà, ma poi fa orecchie da mercante quando Bruxelles richiama la Germania a contenere le sue crescenti eccedenze commerciali. Surplus che sono in realtà — come solo Schmidt aveva l’onestà intellettuale e il coraggio politico di riconoscere — l’altra faccia dei deficit altrui.
In termini di potenza economica e (dopo la caduta del muro di Berlino) di peso politico la Germania ha tutte le prerogative per esercitare un ruolo cruciale nel processo di integrazione dei Paesi europei, tanto più dopo la Brexit. E Angela Merkel è consapevole della particolare posizione di forza che la storia assegna al suo Paese. Il problema è che del federatore la cancelliera sembra voler scimmiottare soltanto i panni di scena. Nella pratica la sua azione sta andando in direzione opposta, come dimostrano le sue consultazioni intergovernative. Un metodo sicuro per svuotare di potere e di funzione quel pallido embrione di istituzioni federali che hanno sede a Bruxelles e Strasburgo. Dunque, anche un passo indietro esiziale nel percorso comunitario che ripropone all’Europa un drammatico déjà vu: quello di una Germania — per dirla ancora con Schmidt — che non sa proteggersi da se stessa. Ed è la terza volta in cent’anni…

Il Sole 30.8.16
La questione tedesca
Se la Merkel perde il timone dell’Europa
di Adriana Cerretelli


Per un tedesco su due, allarmato dalla sua politica aperturista sui rifugiati, meglio che il prossimo autunno eviti di correre per la quarta volta consecutiva alla conquista della cancelleria. Nel Meclemburgo, il suo Stato natale, domenica la Cdu-Csu, il suo partito, rischia la sconfitta, lo schiaffo dell’AfD, la nuova formazione nazionalista e anti-immigrati.
L’altro ieri e per la prima volta ad alta voce Sigmar Gabriel, il suo vice socialdemocratico, ne ha contestato la politica su due temi sensibilissimi: invocando da un lato l’imposizione di un tetto al numero annuo di profughi da accogliere nel Paese e dall’altro dando per morto il Ttip, il patto transatlantico su commercio e investimenti (salvo poi essere smentito a Berlino come a Bruxelles).
Da Brexit all’economia, investimenti e lavoro, dalla politica migratoria, quote comprese, a sicurezza e commercio, il dissenso circa le sue scelte europee si è sentito del resto forte e chiaro a Sud come a Est e a Nord dell’Unione nell’ultima settimana che l’ha impegnata in contatti con ben 13 Paesi, subito dopo l’incontro di Ventotene con Italia e Francia. L’idea era di cercare di coagulare il consenso in vista del vertice di Bratislava a metà settembre, il primo senza la Gran Bretagna. In realtà non ha potuto che constatare le solite divergenze di interessi, culture, ambizioni anche a 27.
Fosse solo una questione tedesca, l’altalena delle magnifiche sorti e progressive di Angela Merkel in casa e fuori, se non beata indifferenza, potrebbe suscitare attenzione limitata. Non è così. Paradossalmente il destino del cancelliere oggi è un problema molto più europeo che tedesco. Tanto che non è esagerato chiedersi se il declino della sua stella a Berlino non finirebbe per travolgere l’Europa multi-crisi e malconcia che conosciamo, in eterno equilibrio e coesione precari.
In breve se l’uscita di scena di una mediatrice calma ma accanita non sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso del grande disordine esistenziale che da anni travaglia l’Unione.
Emersa tardi, la leadership travolgente di Helmut Kohl ha cambiato la storia: della Germania e dell’Europa. La sua pupilla ingrata non gli assomiglia: ma la sua capacità di vivisezionare problemi e tensioni alla ricerca di compromessi realistici (e per questo troppo spesso troppo provvisori) le ha permesso negli ultimi anni di governare con tranquilla ma efficace determinazione il perpetuo caos europeo. Facendo della Germania il leader solitario ma indiscusso dell’Unione.
Ha fatto anche tanti errori la Merkel ma ha sempre trovato il modo di metterci una pezza. Non è particolarmente amata dai partner ma di sicuro è rispettata. Non è poco. Visto che viene da un paese dogmatico, appagato dalle proprie certezze etico-ideologiche, si guarda bene dallo scuoterle però riesce a temperarle con pragmatismo concreto. All’inglese.
I tempi sono durissimi. Oggi l’Europa è un florilegio di debolezze politiche, economiche, finanziarie, culturali, tecnologico-digitali costrette a convivere non tanto con appuntamenti elettorali a getto continuo (quelli ci sono sempre stati) quanto con le fatiche della lunga transizione dalla democrazia rappresentantiva a quella diretta. Con tutta l’instabilità che ne deriva. Per tutti.
Come se non bastassero il vulnus di Brexit di cicatrizzazione incerta, lo sgoverno dell’immigrazione ostaggio di egoismi incrociati e duri a morire, la roulette di elezioni americane che questa volta rischiano di far saltare molte certezze del dopoguerra, l’Europa da troppo tempo si dibatte nella trappola della bassa crescita economica, che in realtà è occidentale e che erode il consenso dei suoi cittadini. La Bce prova a sostenerla ma da sola non può fare tutto. In compenso la politica dei tassi bassi stressa i bilanci delle banche. E irrita i risparmiatori tedeschi, non a caso divenuti a loro volta sensibili alle sirene dell’anti-europeismo, dimenticando di essere i maggiori beneficiari dell’euro.
Ce ne vorrebbero urgentemente ma in giro non si vedono leader capaci di guardare lontano e provare a reinventare il futuro collettivo. Non si vedono nemmeno sotto i tendoni elettorali a scaldarsi i muscoli. Si vedono invece piccoli e grandi nazionalisti, populisti, euroscettici quasi ovunque in ascesa. Per questo la perdita di Angela Merkel, l’unico grande leader europeo nel suo piccolo (almeno finora) potrebbe rivelarsi uno shock insostenibile. Perfino peggiore di Brexit.

Il Sole 30.8.16
Germania. Migranti, la Spd accusa Merkel
Il vice cancelliere Gabriel: sottostimato l’impatto, un tetto al numero di profughi
La presa di posizione in un momento delicato per la cancelliera: un tedesco su due non vuole che si ricandidi
di Alessandro Merli


Francoforte. Un occhio alle elezioni regionali del Meclemburgo-Pomerania di domenica prossima, un altro al vertice europeo del 16 settembre, il primo senza la Gran Bretagna.
Su entrambi i fronti l’orizzonte è denso di nuvole per il cancelliere tedesco Angela Merkel, sotto pressione in Germania e in Europa. Fino a prima dell’estate, il cancelliere contava che il suo partito, la Cdu, conquistasse il governo del Meclemburgo. Oggi, i democristiani sono lontani dai socialdemocratici della Spd, al potere nel Land nell’ultimo ventennio, e che contano secondo gli ultimi sondaggi su un 28% dei consensi, e addirittura sono minacciati per il secondo posto (22 a 21) dal partito anti-immigrati Alternative fuer Deutschland (AfD), che può ripetere il successo della vicina Sassonia-Anhalt, dove a marzo riportò quasi un quarto del voto totale.
L’immigrazione – l’anno scorso è arrivato in Germania oltre un milione di persone, per lo più rifugiati dalla Siria e dall’Afghanistan – è balzata al centro della campagna elettorale, per le elezioni locali e soprattutto per quelle nazionali che si terranno nell’autunno 2017, soprattutto dopo la sequela di episodi di violenza che a luglio ha visto come autori rifugiati o persone di origine mediorientale. E, sorprendentemente, nel fine settimana, è stato il vice di Angela Merkel nel Governo, il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel, a rompere per la prima volta con la linea aperturista del cancelliere, indicando che c’è un limite agli ingressi di rifugiati e questo è fissato dalla capacità della Germania di accoglierli. Un’uscita che è apparsa in sintonia con la richiesta di un tetto sostenuta dai critici più feroci del cancelliere all’interno della maggioranza, i cristiano-sociali bavaresi della Csu. La signora Merkel si trova così presa fra due fuochi, da destra e da sinistra, nella sua stessa coalizione. Se Gabriel è stato probabilmente ispirato dalla motivazione immediata di impedire che l’emorragia di voti a favore di AfD colpisca nel Meclemburgo anche la Spd, è chiaro però che si tratta anche di un modo di posizionarsi in vista del voto politico del 2017 e trovare una chiave per raggiungere l’elettorato su un tema diventato fondamentale, dato che i consensi dei socialdemocratici nei sondaggi nazionali continuano a languire a 13 punti dall’unione Cdu-Csu.
Anche se la sconfitta nelle regionali è quasi un’abitudine per il cancelliere (ne ha accumulate 13 prima della riconferma al Governo nel 2013), quello del Meclemburgo non è un voto come un altro per Angela Merkel: anzi tutto perché in questa regione, a Straslund, ha il suo collegio elettorale fin da quando è entrata in politica, ma soprattutto perché un insuccesso, a maggior ragione se alle spalle di AfD, accentuerebbe il montante senso di impopolarità del cancelliere a causa della sua politica sull’immigrazione. La ricorrenza in questi giorni dell’anniversario del discorso in cui la signora Merkel proclamò, a proposito dell’accoglienza ai rifugiati: “Wir schaffen das”, “Ce la possiamo fare”, non ha aiutato. Un sondaggio pubblicato domenica dal quotidiano popolare “Bild”, che finora ha sostenuto la linea del cancelliere, rivela che il 50% degli interpellati è contro un quarto mandato per Angela Merkel, mentre il 42% è a favore. Le percentuali erano 48 a 45 nei mesi scorsi. Sono addirittura emerse indiscrezioni secondo cui il cancelliere non si ripresenterebbe, il che appariva impensabile anche solo pochi mesi fa. In un’intervista televisiva di domenica sera, la signora Merkel ha evitato di rispondere. Secondo “Bild”, le attuali difficoltà potrebbero anzi indurla ad accelerare l’annuncio della ricandidatura. Il fatto che si cominci a parlare di tagli alle tasse, con l’avallo del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, dopo l’annuncio che il surplus di bilancio nei primi 6 mesi del 2016 ha toccato 18,5 miliardi di euro, è un indizio importante.
Intanto, il capo del Governo tedesco non può permettersi di perdere di vista lo scenario europeo dopo Brexit. Per prepararsi al vertice di Bratislava, il primo senza il Regno Unito, ha incontrato nei giorni scorsi 15 capi di Governo europei. Dagli ex alleati dell’Europa dell’Est ha avuto ancora una volta un risposta durissima sul tema dell’immigrazione. Per questo acquista ancor maggiore importanza l’incontro di domani a Maranello con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, dopo quello della settimana scorsa a Ventotene, cui ha partecipato anche il presidente francese François Hollande. Un’Angela Merkel in difficoltà ha bisogno di trovare un sostegno e una linea comune con gli altri due “grandi” rimasti nell’Unione europea dopo Brexit.

il manifesto 30.8.16
Tsipras chiede 269 miliardi di riparazioni di guerra alla Germania


Il primo ministro greco Alexis Tsipras mentre insiste per una ulteriore riduzione del debito e un alleggerimento delle misure di austerity imposte dalla Germania, in una intervista rilasciata domenica torna alla carica sulle riparazioni di guerra che la Germania deve alla Grecia per l’occupazione nazista. «Per il nostro paese è una questione di onore, non possiamo ritirare questa richiesta», dice Tsipras.
La scorsa settimana il viceministro degli Esteri greco Nikos Xydakis sulla questione delle riparazioni di guerra della Germania ha dichiarato: «Faremo tutto quanto ci verrà richiesto a livello diplomatico e, se necessario, a livello legale», in caso di fallimento di un accordo negoziale.
«Le ripercussioni della Seconda guerra mondiale sono state tremende e irreversibili per la Grecia e per i suoi cittadini perché il paese ha subito un attacco premeditato e una occupazione barbara», si legge in un rapporto che sarà discusso nei prossimi giorni dal parlamento di Atene e che individua il dovuto nella cifra di 269 miliardi di euro.

il manifesto 30.8.16
Francia
Il burkini in campagna elettorale
Nasce una Fondazione per l'islam di Francia, per favorire la conciliazione con i "valori della Repubblica"
Ma le questioni identitarie sono ormai nella campagna elettorale. La destra soffia sul fuoco (e si spacca), Valls isolato vuole ancora insistere sul burkini
di Anna Maria Merlo


PARIGI. Una Fondazione per strutturare un “islam di Francia”, nella speranza che sia sufficiente a calmare le reazioni contro alcuni epifenomeni dell’islam “in Francia”, fomentati da destra e estrema destra mentre il paese è già entrato in campagna elettorale per le presidenziali di primavera, con una prima offensiva attorno al “burkini”. Sono iniziate ieri le ultime “consultazioni” del ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, per la Fondazione per l’islam di Francia, che sarà operativa dal prossimo novembre, una doppia struttura, una a carattere culturale l’altra cultuale. Alla testa della prima Fondazione è stato confermato Jean-Pierre Chevènement, 77 anni, ex ministro degli Interni dei tempi di Mitterrand: una candidatura che sta già sollevando polemiche, perché Chevènement non è musulmano e la scorsa settimana, in pieno nervosismo sul burkini, ha invitato i musulmani alla “discrezione” nello spazio pubblico, perché il paese vive “un periodo difficile” dopo gli attentati. Comunque, l’obiettivo è inserire meglio l’islam nella società laica francese, con una seconda Fondazione che dovrà occuparsi di trovare i finanziamenti per la costruzione di nuove moschee, a livello nazionale (mecenatismo, tassa sui prodotti halal) evitando cosi’ soldi dall’estero. Lo stato parteciperà finanziariamente solo nella prima Fondazione, quella culturale (un milione di euro), che avrà nella direzione varie personalità, tra cui anche lo scrittore Tahar Ben Jelloun.
Intanto, il “burkini” è ormai diventato argomento di campagna elettorale. “Una questione derisoria trasformata in dibattito nazionale ossessivo”, come l’ha definita la ministra della Casa, Emmanuelle Cosse, sta spaccando a destra e a sinistra. Nicolas Sarkozy, che ha ufficializzato la candidatura per il 2017, si è buttato sul burkini, chiedendo una legge specifica per proibirlo, senza fermarsi neppure di fronte a un’eventuale modifica della Costituzione (dopo la decisione del Consiglio di stato del 26 agosto, che ha giudicato “illegali” le ordinanze dei sindaci anti-burkini, considerate “violazione grave delle libertà fondamentali, di andare e venire, di coscienza e di libertà personale”). Gli ha risposto Alain Juppé, suo principale rivale alle primarie della destra, che rifiuta “una legge di circostanza” e chiede di “smettere di gettare olio sul fuoco”. Nel governo, il primo ministro Manuel Valls ha preso una posizione isolata: la decisione del Consiglio di stato “non esaurisce il dibattito”, perché “denunciare il burkini non significa rimettere in causa una libertà individuale”, ma “denunciare un islamismo mortifero” che necessita di “un dibattito di fondo”. Cazeneuve vorrebbe chiudere la polemica e afferma che il governo “rifiuta di legiferare su questo argomento, perché una legge sarebbe anticostituzionale, inefficace e tale da suscitare antagonismi e irreparabili tensioni”. Il Consiglio di stato ha bocciato le ordinanze comunali anti-burkini perché non ha riscontrato turbative dell’ordine pubblico, nel caso di Villeneuve-Loubet, che era chiamato ad esaminare. Ma la configurazione potrebbe cambiare, a causa del nervosismo crescente che ora si sta cristallizzando sul burkini. In Corsica ci sono stati momenti di forte tensione identitaria, a Sisco poi a Bastia. Ieri, su una spiaggia della Gironda c’è stata una battaglia violenta tra un gruppo di nudisti e dei contestatori (considerati pro-burkini?). Nel week end in Bretagna delle persone sono andate in spiaggia vestite, per “solidarietà”. Vicino a Parigi, un ristoratore è stato denunciato per aver rifiutato di servire due donne con il foulard, dopo aver affermato che “tutti i musulmani sono terroristi”. Una trentina di comuni rifiuta di rispettare la decisione del Consiglio di stato sull’illegalità delle ordinanze anti-burkini. La polemica sui vestiti non finirà con l’autunno: è un’introduzione al prossimo scontro, che riguarderà la legittimità del velo nelle aule universitarie.

il manifesto 30.8.16
Spagna
Mariano Rajoy sarà bocciato, di nuovo
di Luca Tancredi Barone


Oggi Mariano Rajoy si presenterà a un parlamento che lo boccerà. È la prima volta in Spagna che un presidente uscente, per quanto en funciones (cioè ad interim), viene sfiduciato.
Nonostante tutta la posta in scena di queste lunghe settimane dal giorno delle seconde elezioni, il 26 giugno, il Pp si è mosso pochissimo dalle sue posizioni iniziali. E pertanto ha convertito solo i già credenti, e cioè Ciudadanos, che è sempre stato pronto a firmare accordi a destra e a sinistra (ma soprattutto a destra), per il “bene del paese”.
A febbraio era stato l’unico partito che aveva sottoscritto l’effimero accordo con il Psoe; stavolta ha invece trovato un facile accordo con il Pp, dopo aver messo in campo condizioni poco difficili da accettare per i popolari. La settimana scorsa è stata dedicata al teatrino dei negoziati fra i due partiti, ma chi ha dovuto ribassare le pretese è stato soprattutto C, dato che il Pp ha ceduto su pochissimi punti. E comunque anche le “150 misure” accordate sono vincolate alle decisioni di Bruxelles. In altre parole, le poche iniziative “sociali” pur presenti negli accordi, sarebbero destinate a essere congelate dalla finanziaria lacrime e sangue promessa a Junker.
Ieri Rajoy si è visto per la quarta volta con chi davvero gli interesserebbe che lo appoggiasse, e cioè il segretario del Psoe Pedro Sánchez. Il quale gli ha ripetuto per l’ennesima volta che sarà definitivamente un No. Il segretario socialista è arrivato a definire l’incontro di ieri come “prescindibile”. La responsabilità di trovare gli appoggi è del candidato Rajoy e non certo del partito socialista, dice Sánchez, nonostante sul partito dopo la firma dell’accordo Pp-Ciudadanos di domenica siano ricadute pressioni fortissime per responsabilizzarlo della mancata investitura.
Sánchez ha ragione, anche perché il Pp non ha messo in campo nessuna proposta forte per tentare i socialisti, benché il leader di C abbia sottolineato che “100 delle 150 misure firmate con il Pp le avevo sottoscritte anche con Sánchez” (dimenticando di dire che mancano quelle che più stanno a cuore al Psoe).
Secondo la narrativa socialista, la colpa della mancata investitura (di Sánchez) sei mesi fa ce l’aveva Podemos; oggi invece è colpa di Rajoy. Prima o poi però toccherà ai socialisti fare qualcosa. La linea del No a Rajoy, No a Podemos e No alle eventuali terze elezioni (che Rajoy diabolicamente ha fatto in modo che cadano il 25 dicembre) contiene almeno un no di troppo per essere coerente.
Al momento Rajoy, con Ciudadanos e un voto di Coalición Canaria, ha 170 voti. Cioè sei meno dei necessari per essere investito domani (in prima votazione bisogna passare con la maggioranza assoluta di 176 voti) o con 11 astensioni in meno per passare venerdì in seconda votazione (quando basta solo la maggioranza relativa). A oggi, il candidato popolare quindi è destinato a essere bruciato.
Lui sostiene che vuole comunque continuare a provarci: il 25 settembre si vota in Galizia e Paesi Baschi, e c’è tempo fino al 1 novembre per un accordo (dopo verrebbero sciolte automaticamente le camere). La sua idea sarebbe quella di ottenere i 5 voti dei nazionalisti baschi del Pnv nel caso che avessero bisogno dei popolari per tornare a guidare la comunità autonoma (uno scenario che sembra improbabile). Ma gli mancherebbe comunque almeno un’astensione.
Ma, a partire da sabato, tutti i riflettori saranno puntati su Sánchez. Sembra chiaro che sarà costretto a convocare un nuovo Comitato federale per decidere il da farsi. Podemos e Izquierda Unida spingono per cercare un accordo e un gioco di astensioni incrociate dei nazionalisti e di Ciudadanos. Ma, ammesso e non concesso Sánchez voglia andare in quella direzione, e che il suo partito glielo consenta, il governo che ne risulterebbe non sarebbe certo molto solido. L’unica decisione che ha preso il Psoe finora è quella di presentare una leggina per fare in modo che, in caso di scioglimento, si possa votare il 18 dicembre. Stando alle dichiarazioni, mancherebbe solo l’appoggio del Pp.

Il Fatto 30.8.16
Stati Uniti
Colin Kaepernick è rimasto seduto durante l’esecuzione musicale: “Questo Paese opprime i neri” Non in mio nome: in campo la protesta del quarterback contro l’inno “razzista”
di  Luca Pisapia

qui

La Stampa 30.8.16
Torture, bandiere nere e spie
Viaggio nella Sirte liberata
Gli orrori dell’occupazione islamista nella città natale di Gheddafi
Sui muri della prigione spuntano le minacce: “Conquisteremo Roma”
di Francesco Semprini


Sono libico, sono musulmano e sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché». Il grido di disperazione è inciso sul muro di una cella sotterranea nel palazzo che un tempo ospitava la polizia segreta di Muammar Gheddafi, nel cuore di Sirte. Sui tetti della città natale del Colonnello hanno sventolato per circa 14 mesi le bandiere nere dello Stato islamico, come quella appena ammainata nell’ex sede dell’intelligence del regime di cui gli jihadisti al soldo di Abu Bakr al Baghdadi hanno conservato destinazione d’uso. Il palazzo al centro di Abu Faraa era una specie di centrale antispionaggio in cui venivano portati i «nemici» del califfato. Sui muri del piano terra campeggiano scritte di propaganda, come quella strappata dalla grafica accattivante che inneggia alla jihad contro gli infedeli su un tripudio di vessilli neri, uomini mascherati e furgoncini con mitragliatori. Sul pavimento ci sono resti di telefonini e certificati di ogni genere appartenenti a sospetti spie e cospiratori rinchiusi nelle segrete del seminterrato.
Gli interrogatori
Celle di pochi metri quadrati con una finestrella sul livello della strada e un paio di materassi per terra. Qui venivano interrogati e torturati, come raccontano i combattenti delle «katibe», le brigate che hanno partecipato alla cacciata dell’Isis da questa parte di Sirte. Brigate come quelle di Misurata le cui effigi compaiono sui muri delle case liberate o la brigata «martiri di Sirte» guidata dal comandante Salem. «Alcuni morivano di stenti per percosse o torture», racconta il combattente, tra i primi a entrare nelle segrete. Evidenti le testimonianze dell’orrore in nome della sharia come spiega una manifesto: «Sette motivi per non essere un vero musulmano». Ci sono poi i messaggi lasciati sui muri, una sorta di testamento dei rinchiusi e dei condannati a morte, che parlano di «voglia di libertà» o di «tornare a pregare liberamente in moschea». In quelle segrete è stato rinchiuso forse qualche occidentale o qualcuno che in Europa ha vissuto e che spera di tornarci come suggerisce la scritta «German». Per comprendere il non senso di tanta brutalità il generale Salem legge una frase sul muro: «Sono libico, sono musulmano, sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché». Tracce di vita vissuta nella Sirte occupata, terza capitale del califfato, dopo Raqqa in Siria e Mosul in Iraq. Come le gigantesche bandiere nere, murales del terrore che segnano il distretto di Abu Faraa, quartiere liberato da poco. Lo stesso che ospita Hel Esba, una sorta di ufficio amministrativo dove un tempo si pagavano le multe e utilizzato dall’Isis come centro di propaganda e indottrinamento specie per le donne come suggerisce un cartello all’entrata con scritto «vieto l’accesso agli uomini». Buttati in terra ci sono tanti «niqab» gli abiti neri che coprono le donne da testa a piedi. In una delle sale c’è una lavagnetta con disegnata una sagoma femminile e le frecce che indicano come ogni parte del corpo deve essere oscurata con gli opportuni veli. Hel Esba conserva anche testimonianze inquietanti, come quella che segnala il comandante Salem, una scritta su un muro: «Lo Stato islamico è qui e si espanderà, con l’aiuto di Allah e nonostante gli infedeli, conquisteremo Roma».
Questi i piani su cui stava lavorando la cupola della centrale libica di Abu Bakr al Baghdadi, che emergono evidenti man mano che i combattenti libici fedeli al Governo di accordo nazionale guadagnano terreno battendosi quartiere dopo quartiere, casa per casa. E con una resistenza spinta al martirio da parte degli jihadisti pronti a scagliare come arieti kamikaze alla guida di autobomba. Come il furgoncino che per giorni è rimasto al centro di Abu Faraa, all’interno del quale il kamikaze giaceva riverso sul volante centrato da un cecchino libico. Sul pickup una quantità di esplosivo e bombole tale da far saltare un edificio.
L’appello all’Italia
Armi di distruzione dinanzi alle quali i combattenti libici rispondono con coraggio e forza ma talvolta con mezzi limitati e con la sensazione di essere lasciati a loro stessi dagli alleati occidentali, Italia compresa. «Ci hanno dato giubbetti ed elmetti, niente più», rivela un alto ufficiale delle katibe, chiedendosi perché l’Italia non tende una mano agli amici libici. Almeno con l’invio dei medici e dell’ospedale da campo promessi: «Le nostre strutture sono al collasso, abbiamo tantissimi feriti, la battaglia per la liberazione di Sirte deve essere vinta subito. Dovete aiutarci».

La Stampa 30.8.16
Perché gli Usa hanno ammonito Ankara?
Un patto per fermare i curdi
di Giordano Stabile


I ribelli filo-turchi continuano ad avanzare verso Manbij, nel Nord della Siria, appoggiati dall’esercito turco. Nella città, strappata all’Isis dopo una battaglia di 73 giorni, i guerriglieri curdi dello Ypg rinforzano le loro posizioni, nonostante le pressioni di Washington e gli ultimatum di Ankara perché si ritirino a Est dell’Eufrate. Lo scontro è vicino e il Pentagono ha espresso le sue «preoccupazioni» per lo spargimento di sangue fra due dei suoi alleati nella lotta allo Stato islamico: «Il nemico è l’Isis», ha ammonito. Dopo l’agguato a una colonna di tank turchi di sabato, e le stragi di guerriglieri e civili nei villaggi a Sud di Jarabulus domenica, la Turchia ieri ha accusato i curdi di «pulizia etnica» e lanciato un nuovo monito: «Lo Ypg deve ritirarsi oltre l’Eufrate, come ha promesso e gli Stati Uniti hanno garantito - ha detto il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu -, altrimenti saranno colpiti». La risposta curda è stata ambigua. «Ci sono rinforzi in arrivo a Manbij - ha ammesso il portavoce Ibrahim Ibrahim -. Ma non sono dello Ypg». I curdi si riferiscono a milizie arabe loro alleate, come quelle cristiano-siriache, ma poi protestano per i militanti fatti prigionieri dai ribelli filo-turchi: «La Turchia è responsabile». Segno però che lo Ypg è ancora a Ovest dell’Eufrate. I curdi devono far fronte alle incursioni turche anche più a Est. Lo Ypg denuncia anche un bombardamento vicino a Qamishlo. E punta il dito contro i ribelli usati da Ankara: «Hanno la stessa ideologia dell’Isis». Non è proprio così ma è anche vero che il grosso degli alleati dei turchi è costituito da Faylaq al-Sham, la Legione Siriana di ispirazione salafita, e dalla Brigata turkmena, già alleata di Al Qaeda sui fronti di Aleppo e Idlib. Sono gli stessi ribelli nemici del governo di Damasco ma finora la sua reazione «all’invasione» turca è stata tiepidissima. Per due motivi. Da una parte lo spostamento degli insorti verso la frontiera Nord facilita l’attacco ad Aleppo. Dall’altra c’è un tacito accordo Turchia-Siria-Iraq-Iran nel ridimensionare le ambizioni curde. Lo fa intuire il vicepremier turco Kurtulmus quando spiega: «Impedire che lo Ypg completi la striscia di influenza che dall’Iraq sta arrivando al Mediterraneo significa impedire che la Siria venga divisa».

il manifesto 30.8.16
Gli scheletri nascosti nella memoria dell’Iran
Iran. La voce dell'ayatollah Montazeri, ex braccio destro di Khomeini poi caduto in disgrazia e scomparso nel 2009, torna a farsi sentire con una registrazione audio di 28 anni fa in cui accusa i vertici del regime di aver commesso crimini imperdonabili. E riaccende il dibattito sul “massacro delle prigioni” del 1988, una delle pagine più nere della storia post-rivoluzionaria, che liquidò in poche settimane migliaia di oppositori di sinistra.
di Jamila Mascat


QOM Nella periferia di Qom, circondata dalle montagne e dal deserto, si nasconde il sito nucleare iraniano più contestato dalla comunità internazionale, ma in giro nessuno sa dove si trovi esattamente l’impianto della discordia. Costruito in gran segreto per contenere tremila centrifughe destinate all’arricchimento dell’uranio e ispezionato per la prima volta nel 2009 dall’Aiea, dai residenti è conosciuto solo per sentito dire. Sono altri i luoghi che appassionano e dividono gli abitanti della seconda città santa del paese (la prima è Mashhad), che fu la capitale storica della rivoluzione islamica e che oggi, nell’era del disgelo post-sanzioni, rimane un baluardo dell’ortodossia conservatrice del regime.
Già da prima della rivoluzione del 1979 Qom ospitava numerose scuole di teologia sciita, e da alcuni decenni contende a Najaf, in Iraq, il ruolo di primo centro dello sciismo mondiale. Accanto all’enorme santuario di Fatima Massoumeh, sorella dell’imam Reza morta avvelenata a Qom nel IX secolo d.C., si trova la madrasa di Feyziyeh, antico e prestigioso istituto di studi islamici. Qui Khomeini, che arrivò a Qom negli anni Venti al seguito del marja Haeri Yazdi per studiare la sharia e la giurisprudenza islamica , tenne le sue affollatissime lezioni di religione, filosofia e teosofia; e qui più tardi avrebbe insegnato anche Hossein Ali Montazeri, suo ex allievo e discepolo prediletto, diventato poi vice Guida suprema della Repubblica islamica.
Quando all’inizio degli anni Sessanta i sermoni e la popolarità di Khomeini cominciarono a essere manifestamente invisi alle autorità politiche, l’ayatollah fu costretto a ritirarsi a vita privata nella casa di Yakhchal Qazi, in un quartiere modesto non lontano dalla madrasa di Feyziyeh. Nelle stanze di questa abitazione, oggi diventata un centro di consulenza religiosa e meta di pellegrinaggio per fedeli e ammiratori, Khomeini continuò a impartire i suoi insegnamenti e criticare aspramente la reggenza dello scià e la sua “rivoluzione bianca” (il programma di riforme sottoposto a referendum nel gennaio 1963). In questa stessa casa poco prima dell’alba del 5 giugno del ’63, l’ayatollah fu arrestato dagli ufficiali della Savak, la polizia di stato. Il 3 giugno, infatti, in occasione delle celebrazioni per il martirio dell’imam Hossein, nella sede della scuola di Feyziyeh che solo due mesi prima era stata il bersaglio di un raid sanguinoso delle forze dell’ordine, Khomeini aveva pronunciato un discorso infuocato tacciando Reza Pahlavi di essere un despota corrotto e un “miserabile” al soldo degli Stati Uniti.
All’arresto dell’ayatollah la risposta della città, tutta schierata dalla sua parte, fu immediata e nei giorni successivi proteste e tumulti si propagarono anche a Teheran, Shiraz, Kashan e Mashhad. Così il movimento del 15 mordad (la data dell’arresto di Khomeini secondo il calendario iraniano) fu una sorta di prova generale dell’ondata di manifestazioni che avrebbero travolto il paese nel 1978. Da allora Qom si allenò a diventare uno degli epicentri della rivolta contro lo scià che sarebbe esplosa quindici anni dopo.
Contro il massacro delle prigioni
Il santuario di Fatima Massoumeh ospita anche la tomba dell’ayatollah Montazeri. Erede designato di Khomeini, caduto malamente in disgrazia alla fine degli anni Ottanta per aver contestato la repressione sanguinosa degli oppositori orchestrata da Teheran, Montazeri è stato sepolto a Qom nel 2009, accompagnato da un bagno di folla di oltre mezzo milione di persone. Qui aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, di cui cinque, tra il 1997 e il 2003, agli arresti domiciliari e sotto rigida sorveglianza, per aver contestato pubblicamente l’autorità della Guida suprema Ali Khamenei.
Due settimane fa la voce sepolta di Montazeri è tornata scuotere le fondamenta visibilmente incrinate della Repubblica islamica, con la diffusione di una registrazione audio di 40 minuti apparsa sul sito ufficiale dell’ayatollah. La registrazione, che risale al 5 agosto 1988, riporta la conversazione avvenuta durante una riunione tra Montazeri e i vertici dell’apparato giudiziario, tra cui l’attuale guardasigilli nominato dal presidente Hassan Rouhani, il ministro Mostafa Pourmohammadi, all’epoca incaricato degli interrogatori nella prigione di Evin, a Teheran, in qualità di capo dell’intelligence.
“Siete responsabili del più grosso delitto commesso dalla Repubblica islamica – tuona Montazeri nella registrazione. “La storia ci condannerà e si ricorderà dei vostri nomi per aver agito come dei criminali. Uccidere è il modo sbagliato di combattere un’idea”.
Così l’ayatollah si opponeva al massacro in corso di migliaia di prigionieri politici (4000-5000 secondo le stime di alcune organizzazioni per i diritti umani, 30mila secondo fonti militanti) processati una seconda volta con interrogatori sommari e ridicoli, poi condannati e immediatamente giustiziati dai comitati rivoluzionari.
Durante l’incontro Montazeri esprimeva preoccupazione (“non riesco a dormire, questa cosa mi affanna la mente per ore”), si dichiarava convinto che il piano di esecuzioni fosse stato architettato dall’alto molto tempo prima, e ribadiva con insistenza la propria contrarietà (“mi oppongo ad ogni singola condanna a morte”). A nulla purtroppo valsero le sue parole, e l’eccidio dei prigionieri politici cominciato il 27 luglio 1988 sarebbe andato avanti fino all’autunno.
A distanza di 28 anni, di quelle esecuzioni capitali, una della pagine più nere della storia post-rivoluzionaria, non si sa ancora quasi niente. Si sa, per esempio, che per morire bastava poco. Ai prigionieri venivano rivolta qualche domanda di rito – se erano musulmani praticanti, se credevano nei valori della Repubblica islamica, se fossero stati disposti a combattere in Iraq per difenderla – e in genere si chiedeva ai dissidenti di rinnegare la propria appartenenza politica. Era sufficiente rispondere negativamente per essere fucilati nel giro di pochi secondi.
La memoria selettiva
Mancano tuttora all’appello molti corpi giustiziati, reclamati dalle famiglie delle vittime, e una lista ufficiale dei nomi. Tra i prigionieri appartenenti all’opposizione di sinistra figurano diversi esponenti del Tudeh (il partito comunista iraniano), i Fedayn, e soprattutto i membri dei Mujahiddin del popolo, una formazione politica particolarmente invisa al regime per aver condotto operazioni militari contro l’Iran durante la guerra con l’Iraq.
Nel 1990 un rapporto di Amnesty International inchiodava la Repubblica islamica alle sue colpe, accusandola di aver premeditato strategicamente gli omicidi di massa. Una dichiarazione della stessa organizzazione, che risale al gennaio 2009, intimava invece al governo di Teheran di sospendere immediatamente la distruzione del cimitero di Kharavan, a sud della capitale, per salvaguardare le fosse comuni dove durante il “massacro delle prigioni” furono seppellite anonimamente centinaia di cadaveri e dove i familiari dei defunti continuano a recarsi in visita per commemorare la tragedia di quelle morti e strapparle all’anonimato. Secondo Amnesty, inoltre, il sito di Kharavan dovrebbe essere il punto di partenza per un’indagine “indipendente e imparziale” finora mai condotta sull’accaduto che porti a processare i responsabili dell’eccidio. Proprio la disintegrazione di quei luoghi, invece, dice della volontà dello stato iraniano di cancellare le prove di ciò che è avvenuto, negando alle famiglie il diritto alla verità.
Ad oggi le vittime del 1988 rappresentano un cospicuo esercito di martiri ufficiosi e rinnegati da parte di una società che del culto dei martiri ufficiali (le vittime della Savak, e poi i combattenti nella guerra contro l’Iraq) ha fatto il suo marchio di fabbrica, ricordandoli ad ogni angolo di strada. La memoria (selettiva) è uno dei pilastri della propaganda della Repubblica islamica, che non perde occasione per celebrare le gesta dei suoi eroi e dannare i trascorsi dei suoi avversari. Un esempio emblematico è la prigione di Al Qasr, dove nel 1963 per alcune settimane fu rinchiuso anche Khomeini dopo il suo arresto. In principio un palazzo reale costruito a fine Settecento dallo scià Fath Ali della dinastia Qajar, trasformato in prigione nel 1929, e poi in un museo inaugurato nel 2012, il complesso è un reperto importante della storia carceraria iraniana prima della rivoluzione e ricostruisce con dovizia di particolari la crudeltà del regime dei Pahlavi. Ex detenuti in carne e ossa si offrono di guidare i visitatori, tutti iraniani, tra le celle minuscole, le stanze di tortura, i corridoi angusti in cui vengono diffuse in loop dagli altoparlanti le lamentazioni registrate dei prigionieri, e i cortili grigi deputati allo svago o alle fucilazioni. Ma sebbene la struttura sia stata mantenuta attiva anche dopo il 1979, quando servì a stipare i prigionieri politici del regime di Khomeini, quello che è successo in questo luogo nei trent’anni successivi non è cosa di cui parlare.
Le due anime della rivoluzione
Nonostante le intimidazioni del ministero dell’intelligence all’indomani della pubblicazione del file, che hanno convinto Ahmad Montazeri a rimuoverlo dalla circolazione, l’impietoso j’accuse dell’ayatollah ha fatto il giro del web, suscitando le reazioni più disparate sui social network e nei commenti ai siti di informazione che hanno riportato la notizia: c’è chi accusa l’ex braccio destro di Khomeini di tradimento, chi gli rimprovera di essere stato complice di questi omicidi per non aver mai rotto risolutamente con il regime, chi gli imputa un eccesso di ingenuità per aver capito e reagito troppo tardi.
A causa delle proporzioni assunte dalla vicenda, neanche la stampa ufficiale ha potuto ignorarla.Nel ricostruire la questione, l’agenzia di stampa Fars News ha rivendicato la giustezza delle condanne e delle esecuzioni, contestando gli argomenti di Montazeri e criticando la decisione del figlio di diffondere la registrazione. Keyhan, storico giornale conservatore che riflette gli orientamenti della Guida suprema, ha attribuito allo zampino di Daesh e dei sunniti la paternità dell’operazione. L’editoriale del quotidiano filogovernativo Javan, invece, ha accusato il figlio di Montazeri di aver voluto vendicare il padre, diffamando Khomeini.
In un’intervista a Bbc Farsi, Ahmad Montazeri ha illustrato le ragioni della sua scelta di rendere pubblico l’audio incriminato. Il dato non è del tutto nuovo, visto che l’autobiografia dell’ayatollah presenta la stessa versione dei fatti, ma la registrazione costituisce una prova schiacciante a scapito dei suoi interlocutori, la cosiddetta “commissione della morte”. Per il giovane Montazeri la conversazione “riesumata” servirebbe a riaffermare, contro le smentite dei vertici della Repubblica islamica, fino a che punto il numero due di Khomeini sia stato critico nei confronti degli apparati di stato.
Dalla fine degli anni Ottanta, che sancirono la rottura definitiva tra i due numi tutelari della rivoluzione, Montazeri e Khomeini hanno cominciato a incarnare due distinti possibili risvolti del percorso rivoluzionario. Vittime della repressione di Reza Palhavi – esiliato dal 1964 per 14 anni Khomeini, imprigionato tra il 1974 e il 1978 Montazeri – e convinti sostenitori della velayt e faqih, la dottrina che affida ai giurisperiti musulmani la guida del paese e che entrambi hanno contribuito a teorizzare, i due ayatollah iniziarono a divergere rapidamente quando lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq spinse Teheran ad adottare una strategia sempre più repressiva e letale nei confronti dei gruppi dissidenti.
Dopo due lettere private indirizzate a Khomeini per manifestare il proprio disaccordo in merito all’operato del regime, l’ultimo affronto di Montazeri alla Guida Suprema risale al 1989. In quell’anno l’ayatollah rilasciò un’intervista a Keyhan in cui imputava a Khomeini la colpa di aver liquidato “i veri valori della rivoluzione”, tradendo le aspirazioni del popolo iraniano.
Khomeini rispose con durezza alle accuse di Montazeri, che pochi giorni dopo finì per rinunciare pubblicamente al proprio incarico di erede. Da quel momento perse il titolo di Grande ayatollah e la sua figura venne definitivamente oscurata, mentre i suoi sostenitori e collaboratori divennero personae non gratae, suscettibili di essere perseguitate e uccise. Assurto a paladino dei diritti umani calpestati da Teheran, negli anni successivi, Montazeri ha accompagnato il movimento riformatore che nel 1997 ha portato alla presidenza di Mohamed Khatami, e nel 2009 ha appoggiato “l’onda verde” dei sostenitori di Mir Hossein Moussavi contro la rielezione truccata di Mahmoud Ahmadinejad. Ed è stato Montazeri a proporre tre giorni di lutto nazionale per rendere omaggio alla morte di Neda Agha Sultan, la studentessa uccisa a fuoco durante una manifestazione di protesta da un membro del basij, la forza paramilitare fedelissima al regime.
A distanza di sette anni dalla sua scomparsa lo spettro di Montazeri continua a tormentare la Repubblica islamica, riscattando vecchi delitti e paventando nuovi castighi: “Non saremo al potere per sempre, e la storia un giorno ci giudicherà”.
Per le fazioni moderate del regime, che premono per una progressiva trasformazione dell’apparato onde evitare che la crescente perdita di legittimità delle istituzioni clericali finisca per portare al tracollo l’intero sistema, il caso Montazeri ha offerto l’opportunità di cominciare a fare autocritica, cosa che i vertici conservatori, Khamenei in primis, non sono apparentemente disposti ad accettare. Le elezioni presidenziali del 2017 saranno un’occasione per testare se e quanto le fratture interne al ceto politico, già emerse in occasione delle negoziazioni sul nucleare nella contrapposizione tra il presidente Rohani e la Guida suprema, e il nuovo corso inaugurato nell’era del dopo sanzioni avranno prodotto contraccolpi sostanziali sugli equilibri del paese.

Corriere 30.8.16
Brasile, l’ultima difesa di Dilma «Questo è un golpe, votate contro»
Scontato l’impeachment della (quasi) ex presidente. Che attacca gli «usurpatori»
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Se avesse potuto, per un’ultima volta, usare un puntatore e proiettare una foto, avrebbe scelto quella del 1970, sulla quale in questi anni ha tentato inutilmente di costruire un mito, e quel posto nella Storia che forse non avrà. Dilma Rousseff ventenne davanti a un tribunale della dittatura militare, lei con sguardo di sfida, i suoi accusatori con il volto nascosto da una mano. «Oggi mi presento qui come quel giorno, e guardo dritto negli occhi chi mi accusa ingiustamente. Come in passato resisto contro chi attenta allo stato di diritto. Contro chi ha messo in piedi in Brasile un altro colpo di Stato, senza armi e carrarmati, un golpe parlamentare. Voi risponderete alla vostra coscienza, per questa morte politica della democrazia che state mettendo in piedi!». È l’ultima, estrema e probabilmente inutile difesa davanti al plotone dell’impeachment, il Senato federale di Brasilia. Entro oggi e domani l’aula voterà a chiamata nominale per l’addio definitivo della Rousseff dalla presidenza, dalla quale è già stata allontanata a giugno. Le previsioni non sono a suo favore. Per questa la tecnocrate accusata di vivere a «slides» e «powerpoint», e non capire nulla di politica, ha dovuto tirare fuori tutta l’emotività nella messa in scena dell’atto estremo. Sacrificio personale e requiem di un pezzo di storia del Brasile che si chiude in queste ore. Dilma coraggiosa, testarda e irriducibile: in politica spesso sono difetti, lei li paga tutti, ma oggi fanno teatro.
Dalla galleria del Senato, che sembra un auditorium, Lula guarda in basso e si tortura i baffi: nella sua epopea politica mai ha fatto errore più grande che scegliere Dilma a sostituirlo. È spaesato dietro gli occhiali scuri il più famoso supporter dei 13 anni del Partito dei lavoratori, il cantautore e scrittore Chico Buarque de Hollanda, seduto a fianco di Lula. I fotografi bombardano di flash, tutti filmano le ore finali con il cellulare. Ex ministri e compagni di strada. Tutti a casa, a quanto pare. Il presidente (ex) operaio, la generazione che ha lottato contro i militari, la sinistra intellettuale e i preti della Teologia della liberazione, gli economisti dello sviluppo senza rigore, i fan dell’unica sinistra latino-americana che funzionava: «non come Chávez e i Kirchner» osannava anche Wall Street. Al loro posto tornano i «soliti noti», quelli che nella narrativa degli sconfitti di oggi sono gli stessi da cinque secoli. I bianchi, gli oligarchi, i padroni della terra, i signori dei media. Quelli che non volevano i sussidi ai poveri, le case popolari, le fogne nelle favelas, i diritti delle «empregadas» (le colf semischiave).
È un mosaico di tesi discutibili e la maggioranza dell’opinione pubblica non le condivide, ma a Dilma non resta alternativa per uscire di scena a testa alta. Ha davanti 80 senatori che in buona parte hanno cambiato bandiera negli ultimi mesi, e molti sono inquisiti. Lei ha mezzo partito dietro le sbarre o sotto processo nella «Lava Jato», la Mani pulite brasiliana, Lula compreso. Ma i partiti del ribaltone non stanno meglio.
Usa parole come codardia, tradimento, slealtà. Descrive così il governo Temer che l’ha sfrattata: «Un esecutivo di usurpatori, non c’è una donna, un nero. Proprio nella legislatura dove i brasiliani per la prima volta nella storia avevano scelto una presidenta». Tenta timidamente di chiedere nuove elezioni (che la Costituzione tra l’altro non prevede) e qui e là entra nel merito delle accuse che tra poche ore la spediranno a casa, cioè il maquillage del bilancio pubblico per far quadrare i conti. Dilma ne ha azzeccate poche nei sei anni di governo, le sue scelte economiche (illecite o meno), hanno portato il Brasile a due anni di dura recessione. Svaniti tutti i sogni degli anni di Lula, l’ingresso nelle grandi potenze, il bioetanolo per far andare le auto pulite, il petrolio in alto mare, la salvezza dell’Amazzonia a braccetto con l’agricoltura più efficiente del mondo. E soprattutto: i trenta milioni di poveri che diventano classe media, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi...
Ed è proprio quando cita i Giochi di Rio appena conclusi che Dilma ha l’unico groppo in gola e le lacrime agli occhi: «In gioco oggi c’è l’autostima di tutto il popolo brasiliano, dopo i successi dei grandi eventi che abbiamo ospitato...». Poi regge per ore rispondendo a decine di domande, senza stancarsi. Le previsioni per il voto finale dicono che i 54 senatori su 80 necessari per l’impeachment già ci sono. Fuori dal Senato, gli epici movimenti popolari che avrebbero dovuto fermare il golpe sono ridotti ad un centinaio di irriducibili sotto il sole. Dilma non li va nemmeno a salutare, sennò la Tv sarebbe costretta a riprendere quell’enorme vuoto voluto dai padri modernisti di Brasilia davanti ai palazzi del potere. Vuoto, appunto.

La Stampa 30.8.16
C’è il G20, la Cina vuole il cielo blu
Fabbriche chiuse e ferie per tutti
Nuovi quartieri e abitanti sfollati per il summit di Hangzhou
La Repubblica Popolare si rifà il look, ma scoppiano le proteste
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Nel 2016 c’è un altro «grande evento»: si terrà il primo G20 a essere ospitato dalla Repubblica popolare cinese. Appuntamento il 4 e 5 settembre. Per l’occasione Hangzhou è stata tirata a lucido. Ci saranno almeno un milione di volontari nelle strade, circa 20 volte il numero di quelli impiegati per Rio 2016. Agli alberghi della vicina Guangzhou è stato ordinato di rifiutare ospiti di cinque nazioni: Afghanistan, Turchia, Iraq, Siria e Pakistan. Questioni di sicurezza, ma non solo.

Come ha insegnato Pechino durante l’Apec, il cielo blu sarà garantito dalla chiusura di oltre cento fabbriche nel raggio di quattrocento chilometri, mentre moltissime aziende lavoreranno a orario ridotto. Molti dei venditori di cibo ambulanti hanno già chiuso. Da giovedì, inoltre, tutti gli studenti e i funzionari pubblici saranno costretti a una settimana di vacanza forzata. Ai residenti sono stati offerti ingressi omaggio per le attrazioni turistiche della regione.
Eppure la metropoli da 9 milioni di abitanti ad appena 40 minuti di treno veloce da Shanghai, è sempre stata una bellezza. Per i cinesi racchiude la quintessenza della loro millenaria cultura. È sofisticata, armoniosa e ricca. Per secoli il suo lago e le sue colline dedicate alla coltivazione di tè hanno ispirato poeti e letterati. «In cielo c’è il paradiso, in terra ci sono Hangzhou e Suzhou», recita un antico detto. Persino Marco Polo nel suo Milione l’aveva definita «la più nobile città del mondo e la migliore». È stata il fiore all’occhiello della carriera politica di Xi Jinping prima che divenisse presidente. Oggi ospita 50 delle più importanti aziende private del Paese, fra le quali, il gigante dell’e-commerce Alibaba. È, in sintesi, la faccia che la nuova Cina vuole mostrare al mondo. Il 60 per cento del suo pil proviene dal privato (circa 67 milioni di euro) e ha un settore dei servizi che, senza soluzione di continuità dal 2012, conta per oltre la metà sulla crescita economica della città.
Ma per buona parte del 2016 la città è stata un cantiere a cielo aperto. Nuove strade, nuova illuminazione, quartieri distrutti, abitanti trasferiti e alberghi ristrutturati. Non ci sono cifre ufficiali, ma si parla di oltre 21 miliardi di euro spesi per rinnovare la città (contro gli scarsi 4,5 investiti per Rio 2016, per farsi un’idea). Ma gli abitanti sono scontenti. Le chiese protestanti lamentano maggiori e immotivati controlli su tutti i fedeli e le scuole si sono riempite di telecamere. Vietato, come sempre in Cina, lamentarsi. A luglio il funzionario Guo Enming aveva scritto sul suo account di WeChat, il social media più utilizzato in Cina, un post intitolato «Hangzhou, mi vergogno di te». Chiedeva conto dei soldi spesi per organizzare l’evento, visto che equivalgono più o meno al 70 per cento delle entrate annuali del governo cittadino. E concludeva: «Senza ragione, una vibrante metropoli è stata trasformata in una città fantasma». Il suo post è diventato virale. Dopo 60 mila condivisioni è scomparso dalla rete. Guo è stato detenuto dieci giorni per «violazione dell’ordine pubblico».
CULTURA:

La Stampa 30.8.16
Dimentica l’antilingua e parla come mangi
Nel nuovo libro di Beccaria l’invito alla chiarezza un dovere sociale dai padri Costituenti a Calvino
di Gian Luigi Beccaria


Il turbinio caotico di parole ambigue fa crescere sempre più in noi il desiderio delle più semplici e chiare. Desiderio da fanciulli, perché anche le parole più semplici possono essere vaghe e ambigue, fino a significare il contrario di se stesse. Ogni vocabolario ci insegna che pauroso è chi ha paura e chi fa paura, storia è un racconto veritiero ma anche una frottola, consumato significa logoro e finito, ma anche esperto, abile, distrazione è una parola meravigliosa, può evocare meriggi assolati in cui ci si può lasciare distrarre da una farfalla che evoca sogni leggeri, ma la distrazione è anche parola che designa un’attività criminosa, ci rimanda a imprenditori senza scrupoli che distraggono fondi dalle casse pubbliche per costruirsi ville e comprare vascelli da diporto… [...]
Per essere chiari non basta usare parole trasparenti, o parole comuni. Anche il facile nasconde le sue insidie, le insidie del finto facile. Le parole più chiare possono cambiare veste, diventare carcasse vuote. Il valore autentico di parole importanti può mutarsi in inautentico. Lo slogan, pur formulato con parole chiarissime, non avvicina realmente alla realtà delle cose. Così come nega il dialogo la frase fatta, o il codice ristretto, il parlare marcato per codici ridotti, che funziona all’interno di un gruppo ma che in un contesto più ampio si fa oscuro.
La prosa spesso pretenziosa di alcuni tecnocrati suona oscura ai più perché parla da specialista a specialista. Il che è lecito e spesso doveroso. Ma nei momenti invece in cui si intende mordere più da vicino la realtà o comunicarla al maggior numero di persone, la limpidezza diventa un obbligo. La limpidezza si raggiunge quando c’è la volontà non di nascondere o di salire sui trampoli di parole rare e poco usate, ma l’intento di comunicare è guidato da una propensione fraterna verso gli altri. «Scrivendo in italiano o in altra qualunque lingua - già annotava Alessandro Verri nel Caffè - non farassi una vana pompa di termini rari e prelibati, facendo in tal modo che la lingua nazionale diventi forestiera e che abbisogni di traduzione; ma bensì rinunciando a questa misera superbia, scriverassi per essere inteso da tutto il mondo, giacché non si deve scrivere o stampare che per far sapere a quanti più si può quello che sappiamo noi».
Parlare o scrivere come dovere sociale. Possiamo riandare ai padri Costituenti quando cercarono insieme di dare alla nascente democrazia italiana un testo della maggiore comprensibilità possibile. De Mauro l’ha mostrato bene quando ci ha fatto notare in quella Carta fondativa l’intenzionale scelta per esempio dei periodi brevi, con una lunghezza di frasi inferiori alle venti parole, e poi la rarità di tecnicismi giuridici, la scelta di un vocabolario di base nei suoi valori più comuni (ha anche contato le parole: ci ha detto che delle 1357 adoperate dai Costituenti, 1002, cioè il 74 per cento, appartengono al vocabolario di base).
Se si parla o si scrive per un pubblico più ampio, occorre dunque abbandonare lo specialismo, spogliarsi del lessico criptico della propria professione, e porsi dal punto di vista di chi sa poco o nulla delle cose di cui si parla. In particolare, per riuscire chiari, non basta avere una buona competenza grammaticale, sintattica, lessicale, ma occorre possedere una competenza pragmatica, cioè quella capacità di usare la lingua in modo appropriato alla situazione comunicativa. Invece la pigrizia lascia troppo spesso scivolare dalla bocca stampi prefabbricati e formulari: pigro adattamento a un codice. Pensiamo ai linguaggi ufficiali, burocratici, all’«antilingua» di burocrati, politicanti, tecnocrati, dominati da tormentoni che talvolta confinano con il nulla, come delle fucilate sparate nel vuoto. Il cosiddetto «burocratese», a chi non è uomo di scrivania, sembra difatti un linguaggio finto, sembra comunicare in astratto, tende a un fittizio e spesso non necessario registro alto, non evita le inutili ridondanze.
È rimasta celebre la parodia calviniana, quando nel saggio su L’antilingua ricostruisce la deposizione di un derubato che racconta senza troppe parole al brigadiere i fatti accaduti. Calvino spiega che questa antilingua appartiene anche ad altri ambiti come il giornalismo o la politica, regna tra funzionari, nei consigli di amministrazione e nei gabinetti ministeriali. Chi si rifugia nell’antilingua, colto da una sorta di terrore per il concreto, sfugge da ogni vocabolo che abbia un significato di per se stesso, «come se “fiasco”, “stufa”, “carbone” fossero parole oscene, come se “andare”, “trovare”, “sapere” indicassero azioni turpi». In fondo chi parla o scrive in antilingua «ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla», e si pone di fronte a esse in una posizione di distacco. Sfugge dal vero rapporto con la vita. Chi non sa dire, scrive Calvino, ho fatto, ma preferisce ho effettuato, uccide la lingua viva. Non si tratta di scelte in nome di una precisione reale, ma di precisione fittizia, che asseconda la propensione ad avere un rapporto passivo con le parole. Si è imprigionati da esse, si diventa vittime inconsapevoli.

Corriere 30.8.16
Lucy è caduta da un albero
Svelato il «cold case» più antico della storia: così morì la nostra antenata (3 milioni di anni fa)
di Anna Meldolesi


Un volo fatale di almeno 12 metri. Forse Lucy si era arrampicata in cerca di frutti. Oppure era in cima a un albero per dormire e sfuggire ai predatori. Oltre 3 milioni di anni fa, nella boscaglia di Afar in Etiopia, in agguato potevano esserci molti animali pericolosi. Ma qualcosa deve essere andato storto. Forse ha mancato una presa, forse un ramo ha ceduto, fatto sta che Lucy sarebbe caduta giù dal cielo. Impossibile non pensare a Lucy in the sky with diamonds , la canzone dei Beatles a cui questo esemplare di Australopithecus afarensis deve il nome, la stessa che risuonava nell’accampamento del gruppo di Donald Johanson ai tempi della scoperta, nel 1974.
Da allora ci siamo affezionati a questo fossile con il nome da ragazza e, nonostante le complicazioni del quadro evolutivo, ci siamo abituati a considerarla come la grande madre dell’umanità. Fa impressione dunque rivivere la sequenza di eventi che l’avrebbe uccisa. A svelarne i dettagli, come in una serie tv dedicata ai «cold case», è un lavoro pubblicato su Nature da John Kappelman dell’Università di Austin e colleghi. I ricercatori hanno studiato le fratture ossee con la tomografia computerizzata ad alta risoluzione, ricomponendo un complicato puzzle di paleo-traumatologia. Hanno eseguito ben 35 mila scansioni e le hanno confrontate con i segni riportati dagli esseri umani precipitati da postazioni elevate. Johanson, il «padre» di Lucy, e altri scettici non sono convinti che sia stato fatto tutto il necessario per distinguere le fratture post-mortem da quelle peri-mortem, avvenute subito prima del decesso, ma altri antropologi lo ritengono invece uno scenario plausibile.
Sembra di vederlo il corpo ricoperto di pelliccia, un metro di altezza per meno di 30 chili di peso, mentre cade dallo stesso livello di un palazzo di 4 piani, schiantandosi al suolo alla velocità di più di 50 km l’ora. Gli psicologi sostengono che quando viviamo situazioni di grave pericolo il tempo rallenta, chissà cosa potrebbe aver pensato lei durante il volo. Giovane adulta simile a noi perché bipede, ma con un cervello paragonabile a quello di uno scimpanzé. Ciò che possiamo immaginare è che il colpo sia stato violento. Prima la botta ai piedi, poi una leggera rotazione del corpo e il tentativo di attutire l’impatto con le braccia.
La posizione di Lucy suggerisce che fosse cosciente. Le fratture sono tante, all’omero, al ginocchio, al bacino, a una costola. Gli organi interni devono essere stati sospinti verso l’alto e danneggiati dalle schegge ossee. La morte sarebbe sopraggiunta rapidamente. Non c’è da stupirsi che Kappelman abbia provato un’intensa empatia, capace di attraversare lo spazio e il tempo. All’improvviso non aveva più davanti solo il fossile completo al 40% che ha cambiato la storia dell’antropologia, ma anche una «persona» ferita e indifesa. Lo scienziato ipotizza che gli stessi adattamenti che hanno consentito a Lucy di camminare eretta l’abbiano resa meno abile nell’arrampicata. Ma secondo Giorgio Manzi, della Sapienza d Roma, queste australopitecine dovevano cavarsela bene con entrambe i tipi di locomozione: «Se i dati saranno confermati da altre analisi indipendenti, si può pensare che sia successo per la paura di un predatore o per una rissa interna al gruppo. Lucy potrebbe essersi spinta troppo in alto, su un ramo sottile che si è rotto».

Repubblica 30.8.16
Troppo forte la traccia dell’uomo Benvenuti nell’era dell’antropocene
Il Congresso internazionale di geologia dichiara ufficialmente la fine dell’olocene. Un passaggio già enunciato da diversi ricercatori
di Elena Dusi


Sarà per quei frammenti di plastica incorporati nelle rocce scoperti alle Hawaii. Per le polveri di carbone risalenti all’800 e sepolte negli strati profondi dei ghiacci al Polo nord. Sarà soprattutto per gli elementi radioattivi dispersi nell’atmosfera all’epoca dei test nucleari. Fatto sta che gli esperti ora vogliono mettere il timbro su una realtà che è sotto agli occhi di tutti: l’impronta dell’uomo sul pianeta ha raggiunto una profondità che la rende irreversibile. È necessario decretare la fine dell’olocene e l’inizio dell’antropocene: l’era geologica dell’uomo.
La proposta è stata presentata al Congresso internazionale di geologia a Città del Capo. A farsene carico è stato un gruppo di 35 scienziati riuniti nell’Anthropocene Working Group, una costola dell’International Union of Geological Sciences. Ma il termine antropocene è entrato da tempo nel vocabolario della scienza. A popolarizzarlo è stato nel 2000 il Nobel per la chimica Paul Crutzen, che ha scritto Benvenuti nell’antropocene riprendendo la parola coniata dal biologo Eugene Stoermer negli anni ‘80.
Per corroborare la sua richiesta, a gennaio il Working Group aveva scritto su Science che le tracce dell’attività umana erano ormai inglobate nella stratigrafia del pianeta e che un ipotetico geologo vissuto fra un milione di anni avrebbe guardato ad alluminio, cemento e plastica come alle tracce inconfondibili di questa era, insieme alle fuliggini della combustione degli idrocarburi, alle tracce dell’innalzamento dei mari e, appunto, alle radiazioni delle esplosioni atomiche.
Proprio quest’ultima impronta — forse la più duratura — dovrebbe fissare l’inizio dell’antropocene al 1950. Altri suggerimenti riguardavano la scoperta dell’America (esempio senza precedenti di globalizzazione di alcune specie viventi) o l’inizio della rivoluzione industriale, che grazie alla sua produzione massiccia di fumi si pone come primo capitolo della storia del riscaldamento globale.
Per 12mila anni, dopo la fine dell’ultima era glaciale, l’olocene ci ha garantito un clima stabile e gradevole, facendo da culla alla specie umana. Il rapido aumento delle temperature degli ultimi 100-150 anni (un battito d’occhio in termini geologici) fa ora presagire l’inizio di una corsa sulle montagne russe. Sempre quest’anno, in primavera, nell’atmosfera è stato misurato un livello di anidride carbonica mai registrato negli ultimi 66 milioni di anni. A quell’epoca risale anche l’ultima estinzione di massa (quella dei dinosauri), prima dell’attuale che sarebbe in atto per mano dell’uomo, l’unica specie che è stata capace di cambiare la forma, la chimica e la biologia della Terra.
Non tutte le previsioni sono però pessimiste. Sir Martin Rees, astronomo reale in Gran Bretagna, ha scritto sul Guardian che la nuova era, grazie alla rivoluzione dell’elettronica, potrebbe portarci verso la conquista di altri pianeti. Speriamo solo che a spingerci verso nuovi mondi non sia la distruzione di quello vecchio.

Repubblica 30.8.16
“Emily Brontë aveva la sindrome di Asperger”

Edinburgo. Emily Brontë potrebbe aver sofferto della sindrome di Asperger. È quanto ha sostenuto Claire Harman durante l’Edinburgh international book festival. Secondo Harman, autrice di una recente biografia su Charlotte Brontë, la tesi sarebbe supportata da alcuni tratti del carattere di Emily, tra cui la sua genialità, il suo disagio per le situazioni sociali ed alcune improvvise esplosioni di rabbia: «Proteggerla, non allarmarla, ha costituto un grande impegno per tutta la famiglia. Era una persona affascinante ma poteva essere una presenza molto difficile».

il manifesto 30.8.16
Una spia sotto rete
Da campionessa di tennis ad agente segreto
Le avventure estreme di Alice Marble (1913-1990), la prima che accantonò il gonnellino e praticò il serve-and-volley, sfidando i pregiudizi nell’America maschilista degli anni Trenta e Quaranta. Solo la guerra riuscì a frenarne lo slancio. Attaccante insuperabile e caparbia in campo come nella vita, le toccò superare ben altre difficoltà da quelle sportive
Alice Marble fu la prima tennista a rifiutare il gonnellino
di Paolo Bruschi


Novant’anni fa, anche negli Stati Uniti, le ragazze desideravano diventare come le protagoniste dei romanzi che leggevano, dei film che vedevano o delle riviste che sfogliavano. Niente di più e niente di meno di quello che una società sottilmente ma pervicacemente maschilista voleva per loro. Nello stesso periodo, tuttavia, molte cominciarono a pensare allo sport, incuranti degli abiti da sera o della carnagione di seta. Poiché non si preoccupavano di apparire graziose e rassicuranti, destavano sospetti.
Il pattinaggio sul ghiaccio era ammissibile, perché aggraziato e leggiadro; al nuoto, i perbenisti si erano abituati e avevano appena ingoiato la messa al bando delle calze di cotone e dei costumi ingombranti che fino a poco tempo prima le donne dovevano indossare anche in acqua.
E poi c’era il tennis, lo sport per eccellenza delle pudiche signore della high society. Solo che, proprio allora, emersero campionesse che sfidavano gli stereotipi femminili: Helen Jacobs, Molla Mallory, Helen Wills Moody erano troppo fisicamente prestanti e determinate per riuscire accettabili al sistema dei media, che le descriveva come dei maschiacci impenitenti in odore di omosessualità.
Se una donna non poteva competere duramente come un uomo, cosa dire allora di Alice Marble?
Bionda e attraente, vagamente rassomigliante a Jean Harlow, la coeva stella del cinema, la californiana fu la prima donna a praticare con successo il serve-and-volley, fino ad allora esclusiva degli uomini. Secondo il New York Post, le sportive potevano essere belle come attrici, ma non si era ancora vista una donna che facesse una figura migliore brandendo una racchetta invece di una padella. Marble non si scoraggiò: per emergere, aveva dovuto superare ben altre avversità.
Nata nel 1913 in una cittadina della Sierra Nevada, a cinque anni si trasferì con la famiglia a San Francisco. Lo sradicamento fu peggiorato dalla subitanea morte del padre, un boscaiolo, le cui magre entrate la madre fu costretta a surrogare per sfamare i cinque orfani. Alice giocava con i fratelli, imparò persino a boxare, a giocare a basket e soprattutto a baseball, e come lanciatrice svettava al punto da meritarsi l’appellativo di «piccola regina della sventola». La lasciò, la mazza, a quindici anni, quando il fratello Dan le regalò una racchetta, imponendole uno sport più signorile. Cresciuta fino a 170 cm, vi trasferì il suo prorompente atletismo, l’addestrato colpo d’occhio e il vigore del braccio forgiato dai lanci del baseball. Benché acerba tecnicamente e tatticamente, si fece strada fra le coetanee e attirò l’attenzione di Eleanor Tennant, l’allenatrice dei divi del cinema, che l’accolse nella sua scuderia.
Un’attaccante insuperabile
Lavorando nella villa della sua guida, Alice si pagava gli allenamenti, ai quali incrociava spesso Charlie Chaplin, Carole Lombard o Bing Crosby. Si trasformò in un’attaccante insuperabile e impose lo stile offensivo che avrebbe in seguito improntato il gioco di Billie Jean King, Martina Navratilova e oggi di Serena Williams. L’accantonamento dei tradizionali gonnellini bianchi per più comodi shorts e l’aggressività del suo gioco scioccarono il mondo del tennis, strabiliato dalla non meno sensazionale solidità nervosa. Secondo Marble, alla sua saldezza psicologica aveva paradossalmente contribuito uno stupro subito da teen-ager: resistette al crollo nervoso e si dedicò con ancor maggior ferocia al tennis, come fonte di recupero e di autostima.
Nel 1933, al torneo di East Hampton, per convincere la federazione a includerla nella selezione nazionale, disputò singolare e doppio, finendo per accumulare ben 11 set e 108 game in sole nove ore, fino a che non fu tramortita da un colpo di calore e dall’anemia. L’anno successivo, al Roland Garros, cadde vittima di un altro collasso. I medici le diagnosticarono pleurite e tubercolosi, pronosticandole un futuro lontano dai court. Per un anno fu costretta in sanatorio, circondata da medici che cercavano di curare il suo corpo senza occuparsi della sua mente. I giorni si susseguivano senza significato uno dopo l’altro e Marble precipitò in una profonda depressione. Tennant pagò per la sua degenza, ma poi l’aiutò a lasciare l’ospedale dove stava avvizzendo come un fiore senza nutrimento. Dimagrì, la muscolatura riprese tono ed elasticità, i livelli di emoglobina risalirono e tornò all’amata racchetta.
Il primo di tre Slam
Fu la panacea: la salute migliorava non meno velocemente del livello di gioco. Contro il parere della federazione, si iscrisse ai campionati nazionali di Forest Hills, gli odierni Us Open, e giunse alla finale. Il 12 settembre 1936, affrontò Jacobs, la campionessa in carica: con sua stessa sorpresa, rimontò e al terzo set, più fresca dell’avversaria, la sommerse con il suo stile d’attacco, trasformando il match-point con un potente smash. Fu il suo primo Slam. Ne avrebbe aggiunti altri tre a New York, uno a Wimbledon e altri tredici nel doppio, fino a che la guerra raffrenò il suo slancio.
Sposò il pilota Joe Crowley e rimase vedova quando il marito fu abbattuto sopra la Germania nel 1944. Solo pochi giorni prima, aveva perso il bambino che portava in grembo per un incidente d’auto. Dopo aver tentato il suicidio, accettò un incarico dai servizi segreti. Sfruttando il vecchio legame d’amore con un banchiere svizzero, doveva avvicinarlo e impossessarsi di alcuni dati finanziari del Terzo Reich. Per questo, si beccò una pallottola nella schiena quando fu scoperta da una spia tedesca, ma fu salvata dagli agenti con cui teneva i contatti durante la missione.
Dopo la guerra, Marble decise di schierarsi per la desegregazione nel tennis, sostenendo il diritto della nera Althea Gibson di essere ammessa allo Slam americano. Scrisse una dura lettera di critica alla federazione, spendendo tutto il suo peso di ex numero uno del mondo, e nel 1950 Gibson fu la prima atleta nera a giocare a Forest Hills – li avrebbe poi vinti, insieme al Roland Garros e a Wimbledon.
Marble se ne andò nel 1990, infine sopraffatta dagli effetti della mai debellata anemia, e un quarto di secolo dopo non si può fare a meno di domandarsi perché una vita così avventurosa non sia ancora finita in un film hollywoodiano.

IN ITALIA:

Corriere 30.8.16
D’Alema alza il tiro su Renzi E prepara la squadra del No
«Gente viene cacciata dai tg se non è d’accordo con il governo»
di Alessandro Trocino


VICENZA Massimo D’Alema torna, lancia stilettate contro il premier, «questo ragazzo che qualche volta sembra che ci prenda per i fondelli». E poi estrae quello che chiama «l’uovo di Colombo»: «Una riforma di mezza paginetta, a cui stanno lavorando tre costituzionalisti. La presenterò presto». Ritorno in grande stile, in una festa della sinistra a Vicenza, che preannuncia un tour tra le città per il No al referendum. Con la tappa fondamentale del 5 settembre, quando ha organizzato una riunione a Roma per lanciare i comitati del no a livello territoriale: «Troppi cincischiavano, è ora di fermarli».
Il prologo è sul terremoto. D’Alema ringrazia Renzi per aver citato la ricostruzione in Umbria e Emilia, quando era premier. E apprezza la scelta di Vasco Errani come commissario: «Non c’entra con le dinamiche interne, prenderà la tessera del Pd e la metterà nel cassetto. E poi — scherza — lui era l’unico esponente della Fgci che conosceva Baudelaire». Ma la sintonia con il premier finisce qui. Anzi, comincia un lungo attacco: «La crescita del Paese, che era stata annunciata come strabiliante, è zero. Siamo ultimi. Diceva il premier: adesso non ce n’è per nessuno. Beh, ce n’è invece. Mi pare evidente che la politica economica del governo non è efficace».
Poi si concentra sul referendum. Il no è senza condizioni: «Orfini ha detto che c’è libertà di coscienza. Bene, vi ricordo che Concetto Marchesi votò no alla Costituzione. Nessuno battè ciglio allora. E c’era lo stalinismo, eh». Sempre al presidente del partito, che aveva spiegato come D’Alema sia ora appoggiato «dai girotondini», replica ridendo: «Certo, girotondini come Casavola, Onida, De Siervo. Sarà un girotondo un po’ difficoltoso, vista l’età». E ancora: «Già bocciammo la riforma fatta da Berlusconi, pressoché identica a questa. Loro hanno cambiato idea. Io no. Una vecchia barzelletta sovietica, diceva, cos’è il deviazionismo? È andare dritti quando la linea va a zig zag. Ecco, io sono un deviazionista». Il confronto con l’ex Cavaliere è ripetuto: «Perché Renzi non ha riproposto la legge uninominale? Perché anche a lui fa comodo nominarsi i deputati. La stessa filosofia di Berlusconi. Il paradosso è che mentre lui esce di scena, il berlusconismo vince. Il centrosinistra si è fatto erede della cultura politica di Berlusconi». «Abbiamo — prosegue — anche forme di persecuzione: gente viene cacciata dalla direzione dei tg se non è d’accordo con il governo».
Il suo no al referendum non ha le subordinate della minoranza: «Non polemizzo con Bersani. Ma, certo, nessuno cambierà la legge elettorale prima del referendum». Nessuno scontro, però, come testimonia la presenza qui di Davide Zoggia, che spiega: «Ci sarà sicuramente una convergenza». D’Alema anticipa il suo uovo di Colombo: deputati ridotti di 250, Senato dimezzato, voto di fiducia solo alla Camera e «un comitato di conciliazione per evitare la navetta, come accade negli Usa, dove c’è il bicameralismo perfetto».
Ma se vincesse il no, sarà la fine di Renzi? «Non lo so. Certo è che sta accumulando sconfitte su sconfitte. Io però non ho chiesto le sue dimissioni. Ha fatto tutto lui, dice e disdice. Renzi contro Renzi. Noto però con piacere che ora ha sconvocato le urne anticipate». D’Alema accusa il premier per il clima che si è creato: «Era necessario spaccare il Paese e drammatizzare i toni?». Comunque sia, il Pd di Renzi certo non gli piace: «Perdiamo i palmiri e guadagniamo i verdini e i cicchitto». Dal pubblico c’è chi lo contesta: «Se vince il no arriva la destra». No, risponde: «Perché non ci saranno le elezioni anticipate. Invece se andremo avanti così, finiremo come Wile Coyote e i 5 Stelle andranno al governo».
Per sventare questo scenario, tutto è pronto, o quasi, per il lancio della campagna per il no, il 5 settembre. Sono attese 150 persone: «Anche troppe, sto cercando di dissuadere la gente», spiega ironico. Pochi i nomi noti. Sicuramente ci sarà Paolo Corsini, battagliero ex sindaco di Brescia: «È una riforma persino illeggibile. Credo che i bersaniani alla fine stiano con noi». La sinistra pd diserterà l’appuntamento dalemiano: assenti Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo e Roberto Speranza. Potrebbe invece palesarsi Miguel Gotor: «Dipende dai miei impegni. Però auguro il successo a questa bella iniziativa».
Tra gli altri a Roma ci saranno due eurodeputati, il napoletano e bassoliniano Massimo Paolucci e Antonio Panzeri. Tra i pugliesi, i consiglieri Ernesto Abaterusso, Enzo Lavarra, Mario Loizzo e Pino Romano. Tra i calabresi, il capogruppo della Sinistra in Calabria Giovanni Nucera. Subito dopo, D’Alema partirà per una vera e propria tournée del no: dopo la festa dell’Unità di Catania di stasera (si confronterà con il ministro Gentiloni), è atteso a Lecce, Ravenna, Ferrara, Pavia, Napoli, Caserta e Bari.

Repubblica 30.8.16
“A D’Alema dirò che vuol solo abbattere Renzi”
“Lui rappresenta la conservazione, la riforma ottiene ciò che tanti governi, tra cui il suo, hanno invano inseguito”
Parla Roberto Giachetti, che il 16 settembre duellerà con l’ex premier sul palco della festa dell’unità di Roma
intervista di G. C.


ROMA. «Per tre mesi D’Alema ha detto che ero inadeguato a correre come sindaco di Roma, poi ventiquattr’ore prima ha detto che avrebbe votato secondo le indicazioni del partito, alla fine chissà…». A Roberto Giachetti, il candidato primo cittadino del Pd sconfitto alle ultime amministrative da Virginia Raggi, vice presidente della Camera, renziano di ferro, resta il dubbio. Tuttavia i due dem, Giachetti e D’Alema, si confronteranno sul referendum costituzionale alla Festa dell’Unità di Roma il 16 settembre.
Giachetti, già su Twitter circola la battuta su dove comprare il biglietto per assistere al suo match con D’Alema. Lei ha un certo coraggio.
«Ma no! Penso che siano utili i dibattiti liberi e franchi soprattutto sui temi di cui parliamo da decenni come le riforme. E il fatto che ci siano posizioni contrastanti è un ottimo modo per portare ad affrontare la discussione nel merito delle questioni”.
In campagna elettorale i toni tra di voi erano aspri.
«Dopo che lui aveva fatto un endorsement al contrario, io ho twittato che “tanto dove c’è D’Alema si perde…”, ma era una battuta. Comunque mentre mi battevo con le unghie e con i denti per fare vincere il centrosinistra al Campidoglio, D’Alema tra le tre opzioni che aveva – appoggiarmi, stare zitto o esprimere il suo dissenso – ha scelto la terza. Se quando era segretario, un candidato del partito fosse stato impallinato dalle sue stesse file, non avrebbe gradito».
Se pensa davvero che dove c’è D’Alema si perde, ora che l’ex premier sta con il No, dovrebbe essere ottimista...
«Il problema vero è che D’Alema rappresenta un posizione di conservazione. Io penso che la riforma costituzionale sia perfettibile ma gli elettori andranno a votare con la consapevolezza che dopo 30 anni di discussioni a vuoto – compreso il periodo in cui D’Alema ha avuto un ruolo come presidente della Bicamerale – finalmente siamo arrivati a mettere in campo una riforma strutturale della Costituzione».
Confrontarsi è anche il modo per allontanare il fantasma della scissione che circola dentro il Pd?
«Sono convinto che la scissione venga minacciata e mai praticata, perché coloro che agitano questo spauracchio sanno perfettamente che gli conviene molto di più lucrare bombardando dalla mattina alla sera il Pd stando dentro piuttosto che uscendone. Come si vede dalla sorte di coloro che sono usciti dal partito».
E D’Alema è capofila di quella parte?
«Più che un capofila, è uno che dichiaratamente vuole abbattere Renzi, il governo Renzi e il Pd che democraticamente è a guida Renzi».

Repubblica 30.8.16
Da Pisapia a Zedda ecco gli arancioni tentati dal Sì “Ma via l’Italicum”
Presto un incontro per fissare una posizione comune in dissenso con la linea degli ex Sel
Massimo D’Alema: “Non è vero che se vince il no non si possono fare altre riforme, presto farò una proposta”

di Giovanna Casadio e Francesco Furlan

ROMA. «Aspetto la decisione della Consulta sull’Italicum prima di esprimermi sul referendum costituzionale». Giuliano Pisapia dosa le parole. Ma apre una breccia pro Sì. Quello che l’ex sindaco di Milano e leader della sinistra non dice infatti dal palco della Festa dell’Unità è che c’è un appuntamento importante a settembre a Roma. Una riunione in cui lui con Massimo Zedda, il sindaco di Cagliari, Dario Stefàno, il presidente della giunta per le immunità del Senato, Luciano Uras e un’altra quindicina di personalità della sinistra porranno la questione: «Se cambia l’Italicum, la legge elettorale, potrebbe essere archiviato il nostro No». In pratica una posizione uguale e contraria rispetto a quella della sinistra del Pd - bersaniani in testa che si sta attrezzando a votare No al referendum se l’Italicum resta com’è.
Fatto perno sulla legge elettorale, si muovono i fronti del Sì e del No. Nel caso di Pisapia e Zedda nascerebbe una sinistra per il Sì. In nome del senso di responsabilità verso il paese e tenuto conto che le riforme sono la carta da spendere con l’Europa. Quindici persone sembrano poche ma «sono punto di riferimento per tutta Italia», spiegano i promotori della fronda a sinistra, gli “arancioni” tentati dal Sì. Comunque il cambiamento dell’Italicum ingrosserebbe in un modo o nell’altro il Sì al referendum, sia convincendo i “non allineati” del Pd sempre più convinti dal No, sia la sinistra che vuole riallacciare i rapporti con il Pd o che non li ha mai perduti di vista. Stefàno ad esempio, nei prossimi giorni riunirà il suo movimento “La Puglia in più” per discutere proprio del referendum e alla vigilia del raduno romano. Zedda con Uras e un centinaio di dirigenti politici sardi era stato promotore un mese fa di un documento polemico sulla linea attuale di Sinistra Italiana chiedendo la ricostituzione del centrosinistra. Su questa scia, la presa di posizione «responsabile» sul referendum.
Il No salda D’Alema e il centrista Gaetano Quagliariello, ex ministro delle Riforme. Insieme dovrebbero scrivere le ragioni contro. Con una precisazione che fa già ieri sera l’ex premier partecipando a Vicenza alla festa “Fornaci rosse”: «Non è vero che se vince il No non si faranno riforme. Sono convinto che è possibile fare una limitata, efficace, buona e condivisa riforma e nei prossimi giorni avanzeremo una proposta concreta». Poi lo sfogo: «Io faccio quello che mi pare, la mia forza è che non voglio nulla e che non ho nulla da chiedere. Sono già in campo perché nessuno mi ha tolto dal campo». E a proposito della sfida a Renzi: «È tutta una sfida tra Renzi e Renzi io non ho mai chiesto le dimissioni del premier. Non è che D’Alema è contro Renzi. I miei rapporti sono diventati come sono dopo che ero andato a fare un comizio con lui quand’era sindaco di Firenze e mi sono ritrovato sui giornali che ero da rottamare». Preferisce attenersi al merito: «È una cattiva riforma, ed è un grave errore portare il Paese ad una drammatica spaccatura. La responsabilità è del premier». All’accusa di Matteo Orfini, presidente dem, di essersi allineato con i girotondi, risponde: «Onida, De Siervo, Casavola, sarà un girotondo curioso, sono anche persone di una certa età». Il 5 settembre conferma il raduno del centrosinistra per il No a Roma e il boom di iscrizioni: 150,200. «Sarà una riunione organizzativa. Il No nel Pd non è una rottura perché è stato detto che c’è libertà di coscienza». Cambiare l’Italicum?»Nessuno lo farà prima del referendum».

Il Fatto 30.8.16
Di Maio su Errani: “Non può fare il commissario. Renzi sfrutta la tragedia per ricucire il Pd”
Il vicepresidente della Camera e membro del direttorio M5s all'attacco del presidente del Consiglio: "Fa ridere il suo appello all'unità. L'unità dovrebbe esserci sulle scelte. Fa sorridere se non incazzare"
Contro l'ex governatore anche Fi e Lega. I democratici: "E' persona onesta e competente". Anche Maroni ribadisce il suo apprezzamento

qui

La Stampa 30.8.16
Il sisma minaccia i manoscritti di Leopardi

I manoscritti originali di Giacomo Leopardi (tra cui quello dell’Infinito) conservati nel Palazzo dei Governatori di Visso (Macerata) sono a rischio: lo dice Luca Cristini, direttore
dell’Ufficio beni culturali dell’Arcidiocesi di Camerino e San Severino Marche, che lancia un appello affinché siano messi in sicurezza.
Il Palazzo dei Governatori è sovrastato dalla chiesa di Sant’Agostino (XIV secolo), dove risulta gravemente danneggiato dal sisma il campanile e dissesti si notano anche nei due pinnacoli della facciata.


La Stampa 30.8.16
La rinascita alla prova della giustizia
di Marcello Sorgi


Il clima di umana e attiva solidarietà e di civile convergenza politica che s’è stabilito (con qualche inevitabile eccezione) dopo il terremoto ad Amatrice e nel Centro Italia non dovrebbe impedire qualche più approfondita riflessione su questo genere di calamità naturali, che in Italia purtroppo si verificano assai spesso, dando luogo a conseguenze che non sono affatto inevitabili, ed anzi potrebbero essere previste e arginate per tempo. La storia di quasi mezzo secolo, dal Belice (1968) in poi, ma anche di più di un secolo, da Messina (1908), ci ha impartito severe lezioni che vengono sistematicamente dimenticate o contraddette di volta in volta, aggravando le sofferenze delle vittime dirette di crolli e distruzioni.
Lasciamo pure stare, se vogliamo, per restare ad esempi più recenti, l’esperienza del Belice, in cui uno Stato assolutamente impreparato, che non conosceva neppure il significato della parola «protezione civile», impiegò alcuni giorni prima di raggiungere i paesi colpiti, e alcuni anni per montare baracche e alloggi prefabbricati in cui almeno un paio di generazioni di superstiti fecero in tempo a nascere e a crescere prima della ricostruzione, rimasta incompleta per oltre trent’anni.
E tralasciamo anche, sempre per evitare forzature di ragionamento, l’esempio del Friuli, dove all’opposto una popolazione preventivamente sfiduciata dalla sorte subita dai compagni di sventura siciliani, non indugiò a rimboccarsi le maniche dall’indomani del sisma, e animata da un sentimento che oggi si definirebbe antipolitico, preferì far da sé, coadiuvata da un irregolare democristiano d’altri tempi come il ministro Zamberletti e dalla sua task-force di generali in pensione che agivano di propria iniziativa, a dispetto di qualsiasi direttiva romana, ma riuscendo così a rimettere su case e palazzi distrutti nel tempo sorprendente di un paio d’anni.
Quattro anni dopo in Irpinia (1980), nella notte che sollevò l’indignazione del presidente-cittadino Pertini e in cui i soccorritori scoprirono che non esistevano carte geografiche della zona colpita, tanto da dover usare quelle per escursionisti del Touring Club, sulla pelle degli oltre duemila morti, sepolti dalle macerie di paesi-presepio di impianto medioevale, si apriva uno dei più duri scontri tra una classe dirigente politica - il fior fiore dell’allora gruppo dirigente Dc, da De Mita a Gava - decisa a capovolgere gli esempi negativi del passato, riversando un flusso enorme di denaro pubblico nelle zone colpite e magari allargando i confini dell’intervento, e una magistratura che vedeva in tutto ciò una formidabile occasione per le organizzazioni criminali che volevano approfittarne. Tra i magistrati che con maggiore sforzo si impegnarono in quest’opera di bonifica, preventiva e successiva al contempo, c’era l’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, allora giovane giudice istruttore a Sant’Angelo dei Lombardi, uno dei centri rasi al suolo dalle scosse, ed oggi, non a caso in prima fila nell’esprimere timori che anche il terremoto di Amatrice possa fornire tentazioni all’affarismo mafioso. Di qui appunto il suo attuale e formale avvertimento all’altro importante magistrato, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, incaricato dal governo di sorvegliare la distribuzione dei primi aiuti e l’avvio delle iniziative più urgenti, con il conseguente impiego di danaro pubblico e privato.
Ora, che un lavoro del genere sia necessario oltre che benemerito, viste le esperienze del passato più recente, basti pensare anche all’Umbria (1997) e a L’Aquila (2009), non ci sono dubbi. Ma è un fatto che l’urgenza dei soccorsi e la necessità di passare subito dalle parole ai fatti imponga procedure semplificate e corsie preferenziali, come del resto è avvenuto in passato con l’approvazione di leggi speciali e iniziative specifiche, che richiedono scadenze abbreviate approcci commisurati ai problemi delle realtà colpite. Attrezzarsi per evitare che da queste congiunture possano generare episodi di malversazione è giustissimo. Ma mettere le mani avanti, prima ancora che si mettano all’opera le persone scelte dal governo per il compito difficile di evitare un autunno e un inverno all’addiaccio ai terremotati d’agosto, potrebbe rivelarsi eccessivo, rallentando un lavoro che richiede necessariamente tempi stretti e creando le premesse per un ennesimo, quanto improvvido, al momento, scontro tra politica e magistratura. Che se invece dovesse verificarsi, renderebbe impossibile da mantenere la promessa di Renzi - già di suo un po’ avventata - di smontare le tende e dare ai senza casa un tetto, ancorché provvisorio, entro un mese.

Corriere 30.8.16
I certificati falsi su caserme e chiese
Dossier riservato sul caso dei collaudi antisismici. Funerali ad Amatrice per le proteste dei familiari
di Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini


Le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice ed Accumoli sono contenute in un documento riservato. Il dossier elenca interventi per una spesa ingente che non erano stati svolti adeguatamente. Avvalorando il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati.

RIETI C’è un documento riservato che dimostra le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice e Accumoli dopo il sisma del 1997 dell’Umbria. È la relazione dell’ente attuatore su 21 appalti assegnati per la messa a norma degli stabili. E svela nei dettagli anche alcuni casi clamorosi, come quello della Torre Civica di Accumoli, dove il geometra dei lavori è il vicesindaco di Amatrice Gianluca Carloni, che ha curato decine di interventi e su cui ha già aperto un fascicolo anche l’Anac di Raffaele Cantone. E quello della caserma dei carabinieri, crollata per il terremoto. Ma anche le procedure seguite per numerose chiese e complessi parrocchiali.
Il rapporto sui 2 milioni di euro
Si tratta di 2 milioni e 300 mila euro, soldi pubblici che si aggiungono agli altri 4 milioni spesi dopo il 2009. Il dossier elenca i soldi stanziati, gli interventi effettuati, il nome dei progettisti, le ditte incaricate. Indica anche l’effettuazione dei collaudi per la convalida di quanto era stato fatto. Interventi per una spesa ingente, che evidentemente non erano stati svolti adeguatamente, visto che alcuni edifici sono stati distrutti dal sisma di sei giorni fa e altri risultano gravemente lesionati. E questo avvalora il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati. Atti che riguardano le strutture pubbliche, ma pure le abitazioni private. Ai Vigili del fuoco sono già arrivate numerose segnalazioni di cittadini che raccontano di aver acquistato la casa con la certificazione dell’avvenuto «ancoraggio» proprio per scongiurare il pericolo di crolli. E invece, dopo la scossa che ha devastato interi paesi, si è scoperto che nulla del genere era mai stato fatto. Controlli saranno effettuati anche dai magistrati di Ascoli che indagano sui crolli avvenuti ad Arquata e Pescara del Tronto. In particolare bisognerà verificare come mai alcuni edifici di Arquata — l’ufficio postale, la scuola, il Comune e la caserma dei carabinieri — dovranno essere demoliti perché dichiarati inagibili nonostante dovessero essere perfettamente a norma.
La Torre Civica e la caserma
Caso esemplare è quello della Torre Civica di Accumoli, edificio storico conosciuto anche a livello internazionale. Lo stanziamento iniziale di 100 mila euro viene ridotto a poco più di 90 mila. L’impresa individuata è la «Giuseppe Franceschini». Responsabile del procedimento è l’architetto Cappelloni. È l’esperto che segue altri progetti, compreso quello del complesso parrocchiale in cui è inserita la chiesa di San Francesco, dove il campanile è crollato e ha travolto un’intera famiglia. Vengono effettuati due collaudi: uno l’11 ottobre del 2012, l’altro il 28 maggio 2013. Non vengono evidenziati problemi e la verifica concede il via libera. Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato: le scosse di sei giorni fa non hanno lasciato scampo e la Torre risulta gravemente lesionata. L’edificio è venuto giù. Storia analoga è quella della caserma dei carabinieri di Accumoli. Dopo il terremoto dell’Umbria si decide di effettuare lavori di ristrutturazione e vengono stanziati 150 mila euro. La ditta prescelta è la «Impretekna». Responsabile del provvedimento è il geometra Granato che risulta aver seguito ben nove progetti. Anche in questo caso i lavori sono classificati come «ultimati e collaudati». Sembra che sia tutto regolare, almeno a leggere le carte. E invece la sede dei carabinieri ha subito danni gravissimi.
Il campanile crollato e la chiesa di San Michele
Sono i documenti ufficiali a dimostrare che la chiesa di Accumoli e il campanile erano stati inseriti in un «sistema» ben più ampio che prevedeva la ristrutturazione dell’intero complesso parrocchiale. Spesa prevista: 125 mila euro che scendono a 116 mila. L’appalto se lo aggiudica la «Ste.Pa» che evidentemente poi concede alcuni subappalti. Alla fine arriva il collaudo e la pratica si chiude. Nessuno immagina che in realtà i soldi stanziati per il campanile siano stati utilizzati per la chiesa. E soprattutto che non sia stato effettuato alcun adeguamento antisismico, ma semplici migliorie che nulla garantiscono.
La notte del 24, dopo la prima scossa, il campanile si sbriciola e uccide quattro persone. Viene giù anche la chiesa di San Michele Arcangelo di Bagnolo, frazione di Amatrice. A disposizione erano stati messi 100 mila euro. Ente attuatore era la Curia vescovile di Rieti che aveva indicato anche gli esperti responsabili dei lavori. E adesso saranno proprio gli ingegneri e gli architetti incaricati di occuparsi del controllo delle attività a dover chiarire ai magistrati che cosa sia accaduto tra il 2004, quando si decide di mettere a norma gli edifici, e il 2013 quando risultano effettuati gli ultimi collaudi.
I certificati dei collaudatori
Nei prossimi giorni i magistrati coordinati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva — i pubblici ministeri Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Marvotti — acquisiranno la documentazione su tutti gli stabili crollati.
La decisione è quella di aprire un fascicolo su ogni edificio in modo da poterne ricostruire la storia ed effettuare le eventuali contestazioni a chi ha seguito le ristrutturazioni. Per questo verranno interrogati gli architetti e gli ingegneri indicati nella relazione sui lavori decisi dopo il sisma dell’Umbria.
Saranno loro a dover chiarire come mai si decise di effettuare — nella maggior parte dei casi — soltanto delle «migliorie», chi diede le indicazioni sugli interventi e soprattutto che cosa fu scritto nelle relazioni finali per ottenere il via libera dei collaudatori. Questi ultimi dovranno invece chiarire che tipo di controlli furono svolti, consegnando anche la documentazione relativa a ogni progetto seguito.
Gli «ancoraggi» mai eseguiti
L’attività dei pubblici ministeri in questa prima fase dell’inchiesta si muove su un doppio binario: da una parte gli edifici pubblici e dall’altra le abitazioni private. In questo secondo caso l’attenzione si concentra soprattutto sui cosidetti «ancoraggi». Nei giorni successivi al terremoto sono arrivate numerose segnalazioni di persone che hanno raccontato di aver comprato il proprio immobile e di aver ricevuto — al momento dell’acquisto — la certificazione sulla messa in sicurezza rispetto al rischio sismico.
Quando i palazzi sono crollati è apparso evidente come non fosse stato effettuato alcun intervento mirato. Per questo bisognerà confrontare gli atti di compravendita con quelli registrati nei Comuni. Partendo naturalmente dagli edifici crollati che hanno provocato morti e feriti.

Repubblica 30.9.16
Lo scandalo dei fondi antisisma
A Rieti finanziamenti per 84 milioni ma per la chiesa spesi solo 509 euro
di Dario Del Porto e Fabio Tonacci


RIETI. Due terremoti, quello dell’Umbria nel 1997 e quello dell’Aquila nel 2009, hanno fatto piovere sul territorio della provincia di Rieti 84 milioni di euro di fondi per la ricostruzione. Negli anni se ne sono aggiunti altri, di milioni. Della Regione, dello Stato, della Chiesa. Sette giorni fa, però, un altro sisma ha sollevato una verità che era sotto gli occhi di tutti: parte di quel denaro non è stato ancora speso, o è stato speso male, o, ancora, non è stato utilizzato per rendere gli edifici sicuri. E le rovine di Amatrice e Accumoli sono lì a testimoniarlo.
SEI PONTI IN CERCA DI AUTORE
Prendiamo i ponti. Due fondamentali vie di accesso ad Amatrice, la strada provinciale 20 e la statale 260, sono interrotte dal 24 agosto perché si sono danneggiati i ponti “Rosa” e quello di “Tre Occhi”. Che ne è dei 611.000 euro che la Regione ha erogato nel 2014 “per interventi di mitigazione del rischio sismico” di sei ponti tra cui il “Rosa”? Rimasti nel cassetto. La provincia di Rieti non ha più un soldo in bilancio, e non riesce a trovare i 175mila euro della sua quota parte dell’intervento progettato. Dunque non può utilizzare i 611mila della Regione perché non ha i suoi 175mila da spendere. Il presidente della giunta Giuseppe Rinaldi, temendo di perdere i fondi, è stato costretto a inviare una lettera alla direzione regionale, nella quale spiega che «l’amministrazione intende confermare il proprio impegno al cofinanziamento», ma che per farlo dovrà «alienare immobili». Insomma, per aggiustare un ponte coi fondi del terremoto la provincia di Rieti si deve vendere un palazzo.
IL CAMPANILE KILLER
Dopo il sisma del 1997, il Genio civile individuò sul territorio reatino 300 interventi di ricostruzione e miglioramento sismico per un totale di 79 milioni di euro messi a disposizione dallo Stato. Tra Accumoli e Amatrice c’erano 11 immobili e 10 chiese da sistemare. Prendiamone una diventata tragicamente famosa: il complesso parrocchiale San Pietro e Lorenzo ad Accumoli. È la chiesa con accanto un campanile costruito sopra il tetto di una casa: la notte del 24 agosto, quella torre campanaria di sassi, crollando, ha ucciso la famiglia Tuccio che abitava lì sotto, padre, madre e due bambini.
Una grossa fetta dei fondi per gli edifici religiosi è stata gestita direttamente dalla Curia di Rieti, attraverso un ufficio tecnico creato ad hoc presso la diocesi, che ha predisposto le gare di affidamento. Il geometra che ha seguito tutte le pratiche si chiama Mario Buzzi, e adesso è in pensione. «Per il campanile non c’è stato mai alcun finanziamento specifico né alcun lavoro di ristrutturazione», spiega a Repubblica. Aggiungendo: «Non è vero che sono stati dirottati soldi per il miglioramento sismico dal campanile alla chiesa».
LA CHIESA DI ACCUMOLI
E però nella lista delle opere finanziate del post-sisma 97 il nome della chiesa di San Pietro e Lorenzo, c’è. «Intervento sul complesso parrocchiale da 116mila euro». Si tratta del rifacimento del tetto di 200 mq della chiesa accanto al campanile, la cui gara d’appalto è stata vinta nel 2008 dalla Steta di Stefano Cricchi, uno dei figli di Carlo Cricchi, l’imprenditore reatino che si è aggiudicato commesse anche a L’Aquila. Per i lavori in Abruzzo, l’altro figlio, architetto, è sotto inchiesta per tangenti. «Chiariremo tutto, la nostra azienda non c’entra». Oggi Cricchi senior, cavaliere del lavoro, ha di che lamentarsi: «Noi non abbiamo fatto niente su quel campanile». Seduto al tavolo nel salotto della sua ditta, mostra disegni e capitolati. «Ci arrivano minacce di morte su Facebook e via mail perché tutti ormai credono che siamo stati noi a ristrutturarlo, ma non è vero». L’appalto per “riparazione e miglioramento sismico” della chiesa valeva 75mila euro (il resto, 41 mila euro, era per la progettazione). Steta lo vince con un ribasso del 16 per cento, dunque 59mila euro. Nel capitolato si scopre una cifra sorprendente: «Per il miglioramento antisismico c’erano appena 509 euro», spiega Cricchi. «Il progetto imponeva di inserire nella muratura 33 euro di ferro, praticamente una sola barra, e di fare alcuni fori da riempire non con il cemento, ma con
la calce».
IL GRANDE EQUIVOCO
Eccolo il grande equivoco della ricostruzione dopo ogni disastro. La confusione tra il “miglioramento sismico” (piccoli interventi che non modificano sostanzialmente la stabilità dell’immobile) e l’“adeguamento”, molto più costoso. Quasi tutto ciò che è stato fatto coi fondi dei terremoti, per forza maggiore scarsi e non sufficienti a coprire ogni spe- sa possibile, è miglioramento: i 200mila euro investiti nella scuola Capranica, in parte crollata; i 250mila euro messi nella Chiesa Santa Maria Liberatrice, inagibile; i 400mila del Teatro all’inizio del corso principale di Amatrice, distrutto; i 90mila della Torre Civica di Accumoli, lesionata; i 260mila euro della Chiesa di Sant’Angelo, venuta giù due settimane dopo l’inaugurazione.
Fabio Melilli, deputato del Pd, è stato dal 2006 al 2010 il sub-commissario di Rieti per il terremoto dell’Umbria: «Quando mi sono insediato, era stato ultimato appena il 20 per cento dei lavori, nonostante fossero passati quasi dieci anni dal sisma». La normativa era fatta male: lo stesso progetto doveva superare due volte lo stesso esame. «Per dare il via alla gara di appalto — ricorda Melilli — servivano le autorizzazioni del Genio civile, del comune, della Soprintendenza. Una volta avute, il progetto andava in commissione dove c’erano gli stessi rappresentanti del Genio civile, del Comune, della Soprintendenza. Si perdeva un sacco di tempo». Tant’è che dei 5 milioni arrivati dopo L’Aquila, ne sono stati spesi appena tre.
IL DENARO IMMAGINARIO
Una coperta quasi sempre corta. Si tira da una parte, ci si scopre dall’altra. Per il consolidamento del municipio di Amatrice c’erano 800mila euro, ma l’amministrazione guidata da Sergio Pirozzi ha deciso di spostarli sull’istituto alberghiero. Questo è rimasto in piedi, il municipio è franato. Coperta corta, che a volte si sfalda nelle mani di chi la vorrebbe usare. L’ospedale “Francesco Grifoni” da sette anni attendeva un intervento “urgente” di messa in sicurezza. I soldi, 2,2 milioni di euro, vengono pescati dal fondo per l’edilizia scolastica. Si è fatta anche la gara di appalto, vinta dal Consorzio cooperative costruzioni. Ma quel denaro, hanno scoperto i dirigenti della Asl di Rieti quando tutta la procedura era ormai avviata, esisteva solo sulla carta. Il fondo statale, per il Lazio, si era prosciugato.

Il Sole 30.8.16
Quel vicesindaco-geometra che ha costruito mezza Amatrice
di Mariano Maugeri

qui

Repubblica 30.8.16
Riavere i nostri borghi per permettere un futuro
di Tomaso Montanari


IN ITALIA i cittadini e i loro monumenti non hanno destini separati: vivono, o muoiono, insieme. Per questo appaiono non solo condivisibili, ma davvero importanti, le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi e del ministro Graziano Delrio sulla necessità di ricostruire i centri devastati dal sisma dov’erano e com’erano, salvo che per le misure antisismiche.
L’espressione «dov’era e com’era» ha una lunga storia italiana. Alle 9.52 del 14 luglio del 1902 il campanile di San Marco a Venezia rovinò al suolo, lasciando un cumulo di macerie alto venti metri. In un dibattito parlamentare, incalzato dal deputato Pompeo Molmenti, il ministro per l’Istruzione Nunzio Nasi (allora responsabile delle Belle Arti) pronunciò parole simili a quelle oggi dette da Renzi: «Il governo non potrà far altro che rispettare la volontà dei veneziani». E il 19 luglio l’inviato del governo dichiarò che il Campanile sarebbe stato ricostruito «com’era e dov’era»: non era pensabile che Venezia perdesse il suo profilo. Venne stampato un francobollo con quel motto, e nel 1908 il ‘nuovo’ Campanile fu inaugurato.
È di fronte alla dimensione apocalittica delle distruzioni della Seconda guerra mondiale che quel motto torna attuale. Nell’aprile del 1945, nel primo numero del Ponte di Piero Calamandrei, lo storico dell’arte Bernard Berenson scrive: «Se noi amiamo Firenze come un organismo storico che si è tramandato attraverso i secoli, come una configurazione di forme e di profili che è rimasta singolarmente intatta nonostante le trasformazioni a cui sono soggette le dimore degli uomini, allora essi vanno ricostruiti al modo che fu detto del Campanile di San Marco, “dove erano e come erano”». È da quello spirito, che intrecciava ricostruzione delle città e ricostruzione della democrazia, che nasce l’articolo 9 della Costituzione: «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Gli italiani di oggi non lo sanno (il che non fa che dimostrare l’eccezionale bravura delle maestranze di allora), ma le chiese, le piazze, i palazzi che formano i nostri centri storici sono in parte assai notevole frutto di una estesa opera di ricostruzione postbellica. In altri termini: se nel 1945 non fosse stata presa quella decisione, oggi l’Italia come tutti la conosciamo, e celebriamo, semplicemente non esisterebbe.
Questa linea attraversa la nostra storia, annoverando successi (si pensi a Venzone, in Friuli) e insuccessi, fino ad arrestarsi drammaticamente all’Aquila, nel 2009. Qui il governo Berlusconi decise di sacrificare il futuro di una città sull’altare della propria immagine mediatica, dando vita ad una sorta di deportazione di massa, che ha spezzato forse per sempre ogni rapporto sociale, recidendo alla radice il rapporto tra un popolo e le sue pietre. Con il risultato che oggi il vero rischio è che forse finiremo (tra vent’anni) per avere un’Aquila ricostruita, ma vuota: perché il suo corpo sociale non esiste più. I diciannove insediamenti di cemento voluti da Berlusconi e Bertolaso intorno all’Aquila sono stati chiamati, abusivamente new town, ma il risultato è un’unica no town: una generazione di aquilani che non sa cosa sia una città, e dunque cosa sia la cittadinanza. Perché questo è il cuore della tradizione culturale italiana: il nesso strettissimo tra la bellezza della città e la dignità della vita civile.
Anche la gestione del dopo terremoto in Emilia non è stata esente da ombre: tra le quali il frettoloso abbattimento, a colpi di dinamite, di troppi campanili e municipi danneggiati, ma salvabili. Ora Vasco Errani ha l’occasione di mostrare che si è fatto tesoro di quegli errori, coinvolgendo sistematicamente la comunità scientifica nelle decisioni da prendere. Per ricostruire i borghi appenninici com’erano e dov’erano occorrerà, infatti, abbandonare improvvisazioni mediatiche come quella dei cosiddetti ‘caschi blu della cultura’, e invece tornare ad avvalersi delle solide competenze del personale delle soprintendenze, troppo spesso umiliato e privato di ogni mezzo. Grazie al lavoro esemplare di una funzionaria dei Beni Culturali (Alia Englen, coadiuvata tra gli altri dalla storica dell’arte, e direttrice del museo civico di Amatrice, Floriana Svizzeretto, uccisa dal crollo della sua abitazione) abbiamo una catalogazione capillare del patrimonio artistico di Amatrice, corredata da una capillare documentazione fotografica: ed è da questa conoscenza che bisogna ripartire per impedire saccheggi, salvare ogni pietra che si possa consolidare, ricostruire il resto e trattenere in loco il patrimonio mobile.
È una sfida vitale, perché riavere i nostri borghi com’erano e dov’erano non serve a difendere il passato: ma a permettere che esista un futuro.

La Stampa 30.8.16
La metà delle nostre case va messa in sicurezza
Secondo i dati del Consiglio Nazionale degli Ingegneri 12 milioni di immobili e 22 milioni di cittadini sono a rischio
di Mattia Feltri

Uno studio del Consiglio nazionale degli ingegneri, pubblicato poche settimane prima del terremoto di Amatrice, ha calcolato che per mettere in sicurezza i ventuno milioni e mezzo di italiani che vivono in aree a rischio «molto o abbastanza elevato» (zone 1 e 2) costerebbe circa trentasei miliardi di euro, in parte a carico dello Stato e delle amministrazioni, in parte dei privati. Ma il conto è parziale, e vedremo perché, e mettere in sicurezza, naturalmente, non significa cancellare il rischio ma ridurlo, sebbene di molto. «Gli immobili da recuperare», spiega il documento, sono circa il quaranta per cento di tutti gli immobili del paese. Un lavoro infinito, infinitamente oneroso, che non contempla i costi per le indagini geologiche necessarie palmo a palmo - come spiegano i tecnici - perché «ogni metro quadrato ha una sua peculiarità», soprattutto sull’Appennino. Questi numeri spaventosi non dicono che dobbiamo arrenderci, dicono che siamo in ritardo, che è indispensabile cominciare domattina (con il contributo dell’Ue), che occorreranno decenni e che per i prossimi anni dobbiamo aspettarci altri terremoti con conseguenze simili a quelle della scorsa settimana.
Lo studio degli ingegneri («Nota sul rischio sismico in Italia») segnala che «ogni anno si verificano in media circa un centinaio di terremoti che la popolazione è in grado di percepire», si tratta di terremoti che scuotono le case ma non le danneggiano gravemente né provocano morti; quelli con «carattere distruttivo» - L’Aquila e Amatrice, il Friuli e l’Irpinia - nei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia si ripetono in media ogni cinque anni. Dunque, trenta in un secolo e mezzo. Fra questi anche il terremoto emiliano del maggio 2012, sebbene quella sia una «zona 3», cioè una zona a medio rischio. Nella zona 3 vivono altri diciannove milioni di abitanti, e qui servono lavori per altri ventisette miliardi abbondanti di euro. Roma, per dire, è zona sismica 3 in nove municipi e zona sismica 2 in sette municipi. Poi c’è la «zona sismica 4» a rischio più contenuto, ma è meglio intendersi: sono zone in cui è necessario «almeno tutelare la sicurezza di edifici strategici e di elevato affollamento» secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Se volessimo - e sarebbe meglio - mettere in sicurezza anche la zona 4, i preventivi salgono a 93 miliardi di euro. Non siamo messi bene.
Anche perché il documento del Consiglio degli ingegneri ammette che le stime sono fatte sulla fiducia, diciamo così. Per esempio si presuppone, «sulla carta», che tutte le abitazioni costruite dopo il 2008 siano già a norma, e che, più in generale, alle abitazioni costruite dopo il 2001 (il 5 per cento del totale) basterebbe un ritocchino. E si presuppone che ville e palazzi siano stati sempre costruiti secondo le norme del tempo, e che non ci siano stati abusi edilizi. Ma questo è il paese degli abusi e dei condoni. Si calcola che poco più della metà delle abitazioni italiane (quindici milioni su trenta) è stata costruita prima del 1974, «in completa assenza di qualsivoglia normativa antisismica», e dunque ogni nostra città quasi per intero. Non si calcolano, invece, le situazioni assurde all’italiana, tipo la città cresciuta sul Vesuvio, ad alto rischio sismico, che non andrebbe messa a norma ma rasa al suolo.
Forse vi sarete accorti che fin qui abbiamo parlato di «abitazioni residenziali». Poi ci sono gli uffici pubblici (ministeri, scuole, ospedali), quelli collettivi (alberghi, teatri, stadi), e l’immenso patrimonio artistico e culturale, da San Pietro al Maschio Angioino, e fino all’ultima chiesetta medievale sul cocuzzolo della montagna.

Il Fatto 30.8.16
La figura retorica della prevenzione
di Luca Mercalli
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Il Fatto 30.8.16
Piano Case, mancano i soldi
Sisma, zero flessibilità Ue per Casa Italia. Renzi a secco
Dopo giorni di voci su progetti miliardari per le zone del sisma, il premier deve ammettere che per trovarli dovrà violare le regole. E già servivano 10 miliardi per la manovra
Si aggira intorno ai 3-4 miliardi l’anno la cifra da trovare per mettere in sicurezza il patrimonio a rischio in Italia. Ma la “flessi- bilità” nei vincoli di bilancio europei è già esaurita
di Carlo Di Foggia

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Corriere 30.8.16
Renzi alla Ue: prendiamo ciò che serve
Bruxelles vuole scorporare per il sisma solo spese a breve termine, Roma non intende sottostare a vincoli
Il leader pronto a chiedere una mano alle opposizioni. La minoranza dem pensa di ritardare le uscite per il No
di Maria Teresa Meli


ROMA È un Matteo Renzi determinato a coltivare il più possibile uno spirito unitario nel Paese quello che in questi giorni sta affrontando l’emergenza del dopo-terremoto. Ed è un premier altrettanto determinato a ottenere dalla Ue la flessibilità necessaria per «Casa Italia» quello che dice al Tg1 : «All’Europa diciamo che quello che ci serve lo prendiamo. Punto».
Già perché la Commissione Ue è disponibile a scorporare dal patto solo le spese a breve termine. Ma il governo italiano è pronto al braccio di ferro, pur senza andare allo scontro: «Troveremo i soldi per la ricostruzione», assicura Renzi.
Il fronte europeo, però, non è stato ancora aperto. Ora l’attenzione del premier è volta al fronte interno: «Lavoriamo tutti insieme, senza proclami, annunci o effetti speciali», scrive Renzi nella sua e-news . E, in questo quadro, il premier invita a «superare le divisioni» e propone a «tutte le forze di collaborare»: «Chiederò una mano anche alle opposizioni», perché la politica deve dimostrare di essere in grado di offrire al Paese «una strategia» e «non solo una rissa dopo l’altra».
Renzi si concede un’unica stoccata polemica. È indirizzata a quanti (Luigi Di Maio in testa) sostengono che sia possibile avere un’Italia a «rischio zero»: «È una pretesa ideologica miope e inattuabile», dice il premier, che però non specifica a chi rivolga questa sua critica.
Ma quella del presidente del Consiglio più che una mossa politica è innanzitutto un’esortazione «alla responsabilità e all’unità come Paese», perché il premier è convinto che solo così l’Italia saprà risollevarsi. Il che non vuol dire che non stia meditando sull’opportunità di tenere degli incontri con i capigruppo parlamentari di tutti i partiti, come ha già fatto dopo gli attentati terroristici in Francia.
D’altra parte le forze politiche (Movimento 5 Stelle escluso) non sembrano voler turbare il clima unitario (anche se Berlusconi precisa di non volere inaugurare un Nazareno bis): persino Salvini si dice «pronto a collaborare». E la minoranza del Pd si trova spiazzata. I bersaniani stavano preparando una grande uscita pubblica a favore del No, però ora alcuni di loro pensano di ritardarla per paura che questa iniziativa possa essere vista come divisiva, trasformandosi in un boomerang.
Del resto, anche la decisione del premier di affidare a Vasco Errani, molto legato a Bersani, il ruolo di commissario per la ricostruzione ha colto impreparata la minoranza del Pd. La scelta di Renzi non ha motivazioni politiche, ma nasce piuttosto dalla profonda stima che il premier nutre nei confronti dell’ex governatore dell’Emilia Romagna, però è indubbiamente un ulteriore segnale unitario che la minoranza non può lasciar cadere.
Al di là delle inevitabili implicazioni politiche del post-terremoto, Renzi sa che comunque si trova di fronte a un passaggio impegnativo. «Non dobbiamo fare passi falsi e non dobbiamo lasciare niente al caso», è l’esortazione che il premier ha fatto ai collaboratori. E poteva essere un passo falso quello dei funerali spostati da Amatrice a Rieti. Perciò il presidente del Consiglio ha ottenuto che si facessero lì dove c’è stato il terremoto: «Sarebbe assurdo costringere la gente ad andare lontano dalla loro città».
Questo Renzi più riflessivo evita anche gli annunci: «Non li faremo, come è stato fatto invece altre volte in passato e non daremo date, faremo un lavoro rapido e serio». Con un occhio di riguardo alla questione della trasparenza: «Ci sarà la collaborazione dell’Autorità anticorruzione, che abbiamo fortemente voluto e ogni centesimo dato per la ricostruzione sarà verificabile online».

Corriere 30.8.16
Un premier intenzionato a ricalibrare il suo profilo
di Massimo Franco


C’è una doppia ricostruzione che sta avvenendo sulle macerie del terremoto in Lazio, Marche e Umbria. Quella materiale farà il suo corso, e le premesse sembrano promettenti, nonostante i timori e le difficoltà. L’altra, tutta politica, sta prendendo corpo in questi giorni. È il tentativo del governo di ridisegnare un profilo sgualcito dalla crisi economica e dalle polemiche sul referendum istituzionale; di renderlo più disponibile verso le altre forze politiche; e di accreditare Matteo Renzi come un premier intento a ricucire i rapporti: a cominciare da quelli dentro il Pd e con Forza Italia.
Si tratta di un’operazione inevitabile, condotta con abilità, vista la prontezza di Silvio Berlusconi e della Lega ad aiutare Palazzo Chigi nell’emergenza post-terremoto: un gesto che però ha fatto riemergere i sospetti su un nuovo «patto del Nazareno». FI è stata costretta a smentire: Berlusconi sa che nel suo partito qualunque ipotesi del genere può provocare una frattura interna. Quanto alla scelta di Vasco Errani, ex presidente della Regione Emilia-Romagna, come commissario alla ricostruzione, offre una doppia opportunità.
Errani garantisce la sua esperienza nella gestione del dopoterremoto in Emilia del 2012. E politicamente rappresenta il punto di raccordo più vistoso con la minoranza dem, che non nasconde di volere il secco ridimensionamento di Renzi e la sua sconfitta referendaria. Ridisegnare l’immagine del governo è necessaria a un Pd che da tempo vede il referendum come un’incognita; ed è intrappolato nella narrativa secondo la quale una vittoria dei No significherebbe instabilità e voto anticipato. Durante l’estate al capo del governo è stato suggerito di cambiare registro: ora usa parole più caute.
E il terremoto accelera il cambio di strategia, mostrando Renzi fattivo, disponibile e proiettato nel futuro. Il nome «Casa Italia» per rimettere in sesto i Comuni colpiti e il coinvolgimento dell’architetto Renzo Piano vanno in questa direzione. È una politica che tra qualche mese potrebbe rivelarsi arrischiata, se le popolazioni colpite vedessero che le promesse non sono state mantenute. Ma Renzi ha bisogno di tregua. Per questo propone a tutti di «dare una mano, perché la politica italiana non sia solo una rissa dopo l’altra. Abbiamo altro su cui dividerci e litigare...».
Ma già si scorgono le prime crepe. Il M5S cita i dati dell’Istat sulla fiducia di imprese e consumatori, in ribasso. «La cattiva salute del Pil non sarà passeggera», avverte Beppe Grillo, attaccando anche l’Europa. Non solo. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, accusa il governo di «sfruttare la tragedia per ricucire il Pd», scegliendo Errani. «Renzi gestisce l’emergenza con logiche da congresso». Era prevedibile: la coesione nazionale fatica a spuntare. C’è solo da sperare che i veleni non frenino la vera ricostruzione.

il manifesto 30.8.16
Il premier che cambia linea confonde anche i suoi autori
di Andrea Fabozzi


«Come si fa a immaginare che un governo, una maggioranza e un presidente del Consiglio che hanno fatto delle riforme il loro programma possano sopravvivere alla clamorosa sconfessione che sarebbe la vittoria del “no” sulla “madre di tutte le riforme”?». Anche gli ammiratori hanno i loro rischi del mestiere. Può succedere che l’oggetto del loro amore, amore politico in questo caso, sterzi bruscamente e improvvisamente, mandandoli fuori strada. Sul referendum costituzionale Matteo Renzi ha sterzato, altroché.
Se prima annunciava dimissioni immediate in caso di sconfitta – «il giorno dopo la vittoria del No vado via e smetto con la politica» – adesso spiega che non cambierebbe praticamente nulla: «Comunque vada il referendum, si vota nel 2018». Nel frattempo è andato in stampa, in libreria e persino nelle caselle di posta di tutti i deputati Pd prima delle vacanze – regalo del capogruppo «come strumento di lavoro» – il libro dal quale è tratta la nostra citazione iniziale: Aggiornare la Costituzione. Storia e ragioni di una riforma (Donzelli, 197 pagine, 16 euro); contiene un saggio dello storico Guido Crainz e un’appassionata illustrazione del contenuto della legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi firmata da Carlo Fusaro. Professore di diritto pubblico comparato a… Firenze, Fusaro è consigliere ascoltato dalla ministra delle riforme e gli è stata affidata una rubrica sull’Unità dove va a caccia delle bugie dei «Pinocchi del No», e non trovandole qualche volta le inventa.
Prima di essere consigliere di questo governo e prima che i suoi testi venissero distribuiti in omaggio ai deputati democratici, Fusaro era stato tra i suggeritori in tema di riforme costituzionali del governo Berlusconi e in particolare del ministro delle riforme Bossi. Tra il 2002 e il 2003 fece parte di una ristretta commissione di saggi, autorevolmente guidata dall’avvocato penalista di Bossi, che elaborò il progetto di quella che è passata alla storia come la «Costituzione di Lorenzago». Chi ricorda solo la baita del Cadore, Calderoli e Tremonti padri costituenti in maglioncino di filo, rischia di trascurare il ruolo del professor Fusaro. Il quale fu conseguentemente impegnato nella campagna per il Sì anche in quell’altro referendum costituzionale, quello che il centrosinistra – e nel centrosinistra anche Matteo Renzi – vinse votando No alla «devolution» di Berlusconi e Bossi. Eppure in quella riforma non mancavano tratti di somiglianza con l’attuale, dunque potremmo concludere che tra Renzi e Fusaro il più coerente è il professore.
Dall’altra parte della barricata, è cioè schierato per il No al referendum sulla riforma Renzi-Boschi, c’è un libro simile nell’approccio di «vademecum» sul contenuto della riforma, ma ovviamente opposto nel contenuto. Loro diranno, noi diciamo (Laterza, 147 pagine, 10 euro) è firmato da uno dei principali costituzionalisti italiani, Gustavo Zagrebelsky, con Francesco Pallante, docente di diritto costituzionale a Torino e autore noto ai lettori del manifesto. Avversari sin dal principio del disegno di legge di revisione costituzionale e dell’iniziativa riformatrice di Renzi (il libro ne ricostruisce con chiarezza la genesi e l’evoluzione), e dunque al riparo dalla propaganda, Zagrebelsky e Pallante finiscono paradossalmente per cogliere le reali intenzioni del presidente del Consiglio meglio dei consiglieri di palazzo Chigi.
Scrivono infatti gli autori, a proposito della Costituzione trattata come materia di stretta appartenenza del governo, che si è raggiunto «il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, per l’approvazione referendaria della riforma (“o me o la riforma”, sempre che si voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza)». In effetti non andava preso sul serio, come dimostra la conversione a U dalla quale siamo partiti.
Entrambi i libri sono comunque utili, anche quello dei «professori per il Sì» dove si legge con interesse il saggio di Crainz, che pure è evidentemente favorevole all’impresa renziana. Nel ricostruire la lunga storia dei tentativi di cambiare la Costituzione, lo storico scrive che «anche il Pci di Berlinguer nel 1981 parla di monocameralismo, ed esso è presente nelle riflessioni di Ingrao: fermi restando però il sistema elettorale proporzionale e la “centralità del parlamento”. È assolutamente improprio dunque indicarli come padri della riforma attuale». Giustissimo, ed è il caso di ricordare che a presentare Berlinguer come ispiratore della riforma Boschi è stato proprio Renzi con un «colpo a sorpresa» sparato nel giorno dell’apertura della campagna per il Sì a Bergamo (con tanto di riferimento sbagliato a un vecchio articolo dell’Unità).
Crainz ha ragione anche quando scrive che «è altrettanto improprio ignorare che i leader più autorevoli del partito comunista ritenevano necessario già allora modificare la seconda parte della Costituzione», il punto è però: dove e come modificarla. E soprattutto in che rapporto con la legge elettorale, quella attuale essendo l’iper maggioritario Italicum. Ancora Crainz nelle ultime righe del suo saggio riconosce «È giusto considerarla (la riforma costituzionale, ndr) assieme alla legge elettorale, come sostengono gli oppositori». La tendenza renziana è al momento opposta: «Il referendum non è sull’Italicum», ripete il presidente del Consiglio, che pure non troppo tempo fa firmava note congiunte con Berlusconi per spiegare come la legge elettorale e la riforma costituzionale fossero due facce della stessa medaglia. «L’accoppiata Italicum-revisione costituzionale rende evidente come il vero obiettivo delle riforme sia lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo», è la sintesi di Zagrebelsky e Pallante.
Entrambi i libri contengono in appendice il testo della Costituzione vigente affiancato a quello, assai più lungo e complicato, di quella che diventerà la nuova Costituzione in caso di approvazione della riforma con il referendum. Nel libro schierato per il No ai due testi giustapposti non è aggiunto alcun commento. Nel libro schierato per il Sì ci sono delle note di spiegazione e commento, di Fusaro.

il manifesto 30.8.16
Marchionne vota Sì e ci aiuta a capire
di Michele Prospero


Non poteva mancare la voce grossa del padrone che getta il suo pesante pullover blu sulla bilancia del referendum. «Marchionne è per il sì, personalmente» dice, parlando di sé, il manager di Detroit. Le truppe schierate per il governo sono molteplici, e impressionano per la loro potenza di fuoco: influenti giornali economici internazionali, grandi banchieri, spericolati finanzieri, Confindustria, cooperative arcobaleno. I poteri forti sono tutti in riga al presentat arm, altro che rottamazione strappata da un manipolo di ragazzi incontaminati.
Per garantire il controllo totale dell’informazione, già da un pezzo omologata alla narrazione del governo, è stata rimossa Berlinguer dalla tv pubblica e persino il battitore libero Belpietro è stato detronizzato dalla carta stampata privata. Oltre alle parabole immateriali dell’immaginario che si sintonizzano sulle frequenze dei media amici, il governo si avvale anche delle truppe di terra. La Coldiretti è stata arruolata per aggiungere un tocco di Vandea bianca, proprio della vecchia bonomiana, in una competizione che altrimenti avrebbe consegnato la difesa del governo soltanto ai signori della finanza e alle sentinelle del rigore.
Quando il conflitto si fa aspro, i poteri forti entrano in scena, senza troppi infingimenti. E le antiche cariche istituzionali, che negli ultimi anni si sono mosse in maniera creativa, fuori le righe dello stanco diritto formale, sono richiamate in servizio effettivo e offrono munizioni di guerra per l’ultimo sacrificio alla nobil causa: non turbare la sovranità dei mercati legibus solutus. Chi vota no è dipinto come un pericoloso destabilizzatore, che lascia precipitare il bel paese nel caos più cupo.
Si fa sempre più trasparente così il quadro della contesa, la fisionomia dei suoi protagonisti principali, la portata effettiva dello scontro. Il teatro di guerra, che ospita il fronte d’autunno, è sin troppo nitido: tutti i santi poteri del denaro sono intenti a scagliarsi contro il popolo irrazionale che rischia, con il suo ostinato no, di travolgere la sacra stabilità. Il merito delle riforme non conta nulla. La guerra è dichiarata per proteggere i simboli minacciati. E tutti i rappresentanti di accanite agenzie mondiali del denaro accorrono a difesa del simbolo diventato per loro più sacro di tutti: il potere in ultima istanza di sua maestà il mercato.
La portata della battaglia è, dal loro punto di vista, palese nella sua drammaticità: il pericoloso risveglio di una sovranità dei cittadini contro la bella dittatura del denaro che neanche la grande contrazione economica è riuscita a scalfire imputandole i suoi disastri. Nel tramonto dei ceti politici europei, ridotti a maschere che giocano battaglie surreali (il costume da bagno sulle spiagge) e non osano ribellarsi agli ordini impartiti dal capitale per la potatura dei diritti di cittadinanza, il referendum è una delle ultime eccentricità, una dismisura, un intoppo che allarma non poco.
La volontà di sorveglianza e di normalizzazione sprigionata da un ceto economico dominante che ha ottenuto a tempo record la disintermediazione (che miopia politica, e che sordità sociale, quella del sindacato che non si schiera in una contesa cruciale, di cittadinanza ma anche di classe!), il jobs act, le decontribuzioni, lo sblocca Italia, la buona scuola, oggi fa da guardiano al governo, perché il padronato sente che quello col marchio gigliato è davvero il suo governo.
La velocità non è in politica una grandezza indifferente e il tempo non è una misura neutra. Per tamponare i guasti che hanno rovinato la vita degli esodati, ancora si devono prendere le misure finanziarie necessarie e chiudere così, in percorsi dalla biblica durata, la vergogna di aver lasciato lavoratori privi di ogni reddito. Per varare una legge sulla tortura occorrono tempi illimitati, come per riaprire i contratti pubblici e privati. Per chi non ha tutele, o è privo di rappresentanza, o vive ai margini, guadagnare tempo, rispetto all’arbitrio del potere, non è un male. La velocità è un vero incubo se a dettare l’agenda della legislazione è il governo-azienda che impone le sue metafore in tutto ciò che è pubblico (scuola, dirigenti, sanità) e trasferisce le misure della sovranità in tutto ciò che è privato (comando assoluto nell’impresa, abolizione del diritto del lavoro).
Qualcuno, per incutere timore agli elettori, dice che il referendum di novembre è ancora più importante di quello inglese per le sue implicazioni su scala continentale. Può essere, ma non perché il voto a sostegno della Carta evochi un salto nel buio. I cittadini, rigettando la negazione del principio della sovranità popolare nella designazione di un organo di rappresentanza, hanno la possibilità di rimediare al fallimento dei ceti politici europei che hanno strappato ogni apertura sociale e quindi lanciano il populismo delle destre come risorsa plausibile per i marginali, i perdenti, gli esclusi.
A destabilizzare l’Europa sono i poteri forti e i ceti politici deboli che, con il loro ottuso credo mercatista recitato anche su una portaerei a Ventotene, rendono lo Stato una residuale zona piegata all’interesse privato. Il no è una risposta democratica alla sciagura delle élite politiche europee che non organizzano il conflitto sociale della spenta postmodernità e rischiano di essere spazzate tutte via dal disagio che trova rifugio nei miti irrazionali. Più i signori della finanza alzano la voce, per orientare il voto di novembre a favore del loro governo dei sogni, e più cresce la rilevanza liberatoria del no, come riscoperta con movimenti dal basso dell’autonomia della politica dal denaro, dal nichilismo del capitale vestito di blu.

Corriere 30.8.16
Essenziale modificare l’italicum per il futuro delle riforme
di Stefano Passigli


In qualsivoglia sistema politico governabilità e rappresentatività sono il prodotto di un mix di norme costituzionali e leggi elettorali. L’attenzione al «combinato disposto» delle due non è dunque un’invenzione polemica dei detrattori della riforma, ma una necessità di cui tener conto in sede di referendum perché è proprio sulla base della legge elettorale che va giudicata la bontà complessiva del disegno riformatore: i cittadini voteranno nel referendum solo sulla riforma costituzionale, ma il loro voto dovrà esprimere anche il loro giudizio sulla legge elettorale.
Ciò premesso, è tuttavia utile analizzare separatamente le due riforme. La riforma costituzionale ha molti difetti: promette quello che non potrà mantenere (la semplificazione del processo legislativo; il taglio dei costi della politica); compromette l’equilibrio tra poteri e il ruolo delle magistrature di garanzia (in particolare del capo dello Stato); dimentica alcune essenziali innovazioni (la «sfiducia costruttiva» e l’attribuzione al premier della nomina e revoca dei ministri); non supera l’anacronistico regime delle regioni a statuto speciale (giustificato solo per l’Alto Adige); e così via. Ma la riforma ha anche un fondamentale pregio: attribuisce la concessione della fiducia alla sola Camera, evitando possibili maggioranze diverse tra Camera e Senato, e soprattutto sottopone al vaglio preventivo della Corte costituzionale le leggi elettorali, evitando il rischio di Parlamenti politicamente delegittimati come avvenuto con il Porcellum.
A ben guardare, i principali obiettivi della riforma costituzionale avrebbero potuto essere assolti da una buona modifica della legge elettorale. Sono infatti in primo luogo le leggi elettorali ad assicurare stabilità ed efficacia dei governi. Ma il problema è che l’Italicum mantiene invece tutti o quasi i difetti del Porcellum: una metà del Parlamento nominata dalle segreterie di partito (in violazione di una pronuncia della Corte), nonché la possibilità di capolisture plurime a garanzia dell’attuale classe politica (che introducendo una diversità di status tra candidati è anch’essa a palese rischio di incostituzionalità); ma soprattutto un abnorme premio di maggioranza che — nell’attuale situazione multipolare, e con una partecipazione al voto limitata al 60-65% — consegnerà il governo del Paese a un partito rappresentativo di non più del 18-22% degli elettori. Anche su questa evidente disproporzionalità che altera il rapporto tra eletti ed elettori si pronuncerà la Corte. L’Italicum va insomma radicalmente cambiato, e poiché una sua modifica aiuterebbe non poco la causa del «Sì» non si comprende la difesa ad oltranza che ne fanno alcuni membri del governo più realisti del Re.
Più disponibile appare infatti il premier, che si limita a chiedere che vengano indicate le modifiche necessarie e la maggioranza disposta a votarle. Modificare l’Italicum è insomma possibile, e lo si potrebbe fare addirittura con un referendum parzialmente abrogativo, abolendo liste bloccate e candidature plurime, e reintroducendo il collegio uninominale (i tempi sono stretti, ma nel 2012, quando per abolire il Porcellum si confrontarono la mia proposta di referendum e quella di Parisi, in un mese furono raccolte più di un milione di firme). Se ai 475 collegi del Mattarellum — che grazie al premio implicito nei sistemi maggioritari rafforzerebbero ulteriormente i grandi partiti — si aggiungesse un premio di 90 seggi (14%) per i migliori perdenti del partito che avesse vinto più collegi otterremmo governabilità e diritto di tribuna per i partiti minori. Occorrerebbe naturalmente che la Legge sui partiti ora all’es ame del Parlamento disciplinasse adeguat amente la selezione dei candidati per evitare che le liste bloccate cacciate dalla porta rientrassero dalla finestra. E occorrerebbe completare l’opera con una riforma dei regolamenti parlamentari che ponesse un limite al crescente trasformismo della nostra classe politica.
Una simile riforma elettorale renderebbe possibile al partito vincitore conseguire non solo una maggioranza alla Camera ma tendenzialmente anche al Senato, facilitando così la stabilità dei governi anche in caso di mancata riforma costituzionale. Non si deve infatti dimenticare che nel 1996, in una situazione come oggi multipolare, il collegio uninominale — grazie a un’attenta strategia di desistenze operata da D’Alema e Prodi — permise al centrosinistra ancorché inferiore in voti di battere il centrodestra. Aver rottamato una classe politica non deve far dimenticare che essa ebbe grandi meriti: l’ingresso nell’euro, la gestione della crisi libanese, il forte abbattimento del rapporto debito/Pil, e appunto un uso sapiente del collegio uninominale, del sistema elettorale cioè che più di ogni altro garantisce la qualità della classe politica e quel diretto rapporto eletto/elettore che è il più sicuro fondamento della democrazia rappresentativa. Una ragione di più per tornare ad affermare che una modifica dell’Italicum è oggi essenziale, e che senza di essa la riforma costituzionale è a rischio di approvazione, e se approvata può porre a rischio il Paese.

Il Sole 30.8.16
Centrodestra
Berlusconi: nessun patto-bis con Renzi
In una lettera l’ex premier smentisce l’ipotesi di un nuovo Nazareno: «fantasiosa ricostruzione degli organi di stampa»
Parisi lancia la convention del 17 e 18 settembre - Ma Fi resta divisa: Toti andrà a Pontida
di Emilia Patta


ROMA Non ci sarà alcun Nazareno bis. Silvio Berlusconi, ancora in vacanza-convalescenza a villa Certosa, prende carta e penna per il secondo giorno consecutivo e precisa i confini della sua offerta di collaborazione al governo per il post sisma: «Leggendo i quotidiani odierni, ancora una volta si assiste a una fantasiosa ricostruzione degli organi di stampa circa le intenzioni politiche del presidente Berlusconi, in particolare per quanto attiene a un rinnovato accordo con il governo che vada al di là della doverosa disponibilità di Forza Italia a votare in Parlamento eventuali provvedimenti a favore delle popolazioni gravemente colpite dal terremoto». Una precisazione tutta politica, evidentemente, fatta anche per depotenziare sul nascere le polemiche interne al centrodestra in vista dell’attesa convention milanese con cui l’ex manager Stefano Parisi - di fatto investito a futuro candidato premier dallo stesso Berlusconi - dovrebbe presentare il suo progetto per il rilancio di Forza Italia e del centrodestra. L’accusa di inciucio con Matteo Renzi, infatti, è la più gettonata tra i big azzurri ostili alla scalata di Parisi. Non a caso sia il capogruppo alla Camera Renato Brunetta sia l’ex ministro e senatore azzurro Maurizio Gasparri precisano la precisazione di Berlusconi notando come «collaborazione sull’emergenza terremoto non vuol dire apertura a Renzi» né tantomeno «rinuncia alla campagna per il?No al referendum costituzionale».
Intanto lui, Parisi, lancia la campagna di pre-iscrizione alla convention in via di organizzazione a Milano per il 17 e 18 settembre. «Iscriviti alla nostra convention», è la raccomandazione che campeggia sulla home page dell’ex city manager che ha perso di un soffio le elezioni a sindaco di Milano contro Giuseppe Sala. «Possiamo rigenerare il centrodestra con un programma politico liberale e popolare, Ripartiamo dai temi, dai contenuti, dalla risoluzione reale die problemi e dalla formulazione delle proposte». La parola chiave è sburocratizzazione, ovvero regole più semplici per promuovere ed agevolare lavoro e imprese. E in effetti della campagna per il No al referendum in tutto questo non c’è traccia. Per la sua due giorni Parisi sta stilando una lista con esponenti della società civile e del mondo delle professioni, big dell’industria, economisti, politologi. Nessun politico interverrà sul palco, quelli che vorranno esserci staranno in platea a seguire i lavori. Negli stessi giorni Matteo?Salvini celebrerà la sua Pontida con la giovane Le Pen e con Giovanni Toti, governatore azzurro della Liguria che ha uno stretto rapporto con il leader della Lega e che non a caso tutta la vecchia guardia (da Gasparri a Brunetta e Paolo Romani) indica come futuro candidato premier del centrodestra rigettando la leadership di Parisi.
Naturalmente non è una contrapposizione solo politica, ossia centrodestra moderato e centrodestra “populista”, ma per la vecchia classe dirigente azzurra è anche questione di sopravvivenza politica.?Per questo Parisi fa sapere che punta a ricostruire il centrodestra senza rottamare nessuno: Parisi immagina una Fi 2.0, un partito leggero sul fronte dei costi, basato sulla rete e senza tesseramento, sul modello della piattaforma digitale elaborata a suo tempo da Gianroberto Casaleggio per il Movimento 5 stelle. In questa cornice spazio per poltrone “pesanti” ce n’è poco. E proprio per questo la classe dirigente azzurra si fa sentire, indipendentemente dalla linea politica che Parisi sta elaborando. Gasparri - che con la sua convention dei giovani di Forza Italia a Giovinazzo in Puglia il 2, 3 e 4 settembre riapre per il quarto anno consecutivo il dibattito post estivo nel centrodestra - la vede così: «Andrà fatta una selezione all’interno di Forza Italia per individuare il nostro candidato, e poi una forma di partecipazione popolare assieme alla Lega a cui potrà partecipare anche Parisi per scegliere insieme il candidato premier della coalizione». Gasparri evita di pronunciare la parola primarie, ma si sa che è una di quelle parole alle quali Berlusconi è del tutto allergico.

Il Sole 30.8.16
Istat
Famiglie e imprese, cala la fiducia
Ad agosto indice dei consumatori scende ai livelli del 2015: l’indice sulle scelte delle famiglie scende a quota 109,2 e quello delle aziende a 99,4
Crollo per le attese di acquisti di case e beni durevoli
di Luca Orlando


Peggiora ad agosto la fiducia dei consumatori e delle imprese: lo rivela l’Istat, secondo cui gli indici sono scesi rispettivamente a 109,2 (dal 111,2 di luglio) e a 99,4 (da 103 ). Sul fronte consumatori si torna a luglio 2015. In riduzione tutte le singole componenti dell’indice: clima economico, personale, corrente e futuro; l’incertezza si traduce in una minore propensione ad acquisti impegnativi, come case e beni durevoli. Anche dal lato delle imprese la frenata è collettiva; e nel manifatturiero peggiorano i giudizi su ordini (in particolare sui beni intermedi) e produzione.

Milano Meno ottimismo tra i consumatori, buonumore in calo anche tra le imprese. Ad agosto entrambi gli indicatori del clima di fiducia rilevati dall’Istat risultano in riduzione, con una frenata corale che riguarda più componenti.
Per le famiglie l’indice scende di due punti a quota 109,2: per trovare un risultato peggiore occorre tornare a luglio del 2015. In riduzione risultano tutte le singole componenti dell’indice: clima economico, personale, corrente e futuro.
Per il quarto mese consecutivo, in particolare, peggiorano le opinioni dei soggetti intervistati in relazione alla situazione economica del paese (per le attese future il saldo è tornato in rosso dallo scorso giugno) e in peggioramento sono anche le aspettative sulla disoccupazione. L’incertezza si traduce anche in una minore propensione ad acquisti impegnativi, come accade ad esempio per i beni durevoli: la quota di chi esclude in modo netto possibilità di shopping nei prossimi mesi sale di cinque punti al 31,3%.
Dal lato delle imprese la frenata è analoga, con l’indice globale di settore che per la prima volta da febbraio 2015 si posiziona al di sotto di quota 100 (99,4, da 103 del mese di luglio).
Anche in questo caso si tratta di un arretramento collettivo, che riguarda in modo più marcato servizi e commercio al dettaglio ma che si concretizza anche per manifattura e imprese di costruzioni.
Per le imprese manifatturiere (il cui indice si riduce da 102,9 a 101,1) peggiorano sia i giudizi sugli ordini, in particolare per il comparto dei beni intermedi, che le attese sulla produzione, il cui saldo tuttavia si mantiene positivo.
L’arretramento degli indici si aggiunge alla serie di notizie non brillanti sull’economia italiana che ha caratterizzato le ultime settimane ma va ricordato che i livelli assoluti raggiunti da questi indicatori si sono posizionati negli ultimi mesi su valori particolarmente elevati.
Per i consumatori, ad esempio, il dato di inizio anno della fiducia (non troppo distante dal valore attuale) rappresentava il massimo dall’avvio delle serie storiche, il top da 21 anni, mentre per le imprese si è arrivati nello stesso periodo ai massimi dall’inizio della crisi.
Il contesto esterno, in ogni caso, non aiuta e lo stesso indicatore rilevato dalla Commissione europea per la zona euro ad agosto risulta in calo.
La rilevazione di agosto arriva a pochi giorni di distanza dagli attentati in Francia e in Germania, che certo più di un’inquietudine hanno provocato anche nel nostro paese. Alle prese, inoltre, con una fase congiunturale non particolarmente brillante, come testimoniato dalle ultime rilevazioni statistiche diffuse.
La crescita zero del prodotto interno lordo del secondo trimestre lascia all’Italia un magro progresso dello 0,7% in termini tendenziali, mentre il bilancio del primo semestre per export e produzione industriale è particolarmente deludente: crescita zero per le vendite oltreconfine tra gennaio e giugno, un risicato +0,8% nello stesso periodo per l’output. Brexit, instabilità geo-politica internazionale e rallentamento dei Bric’s aggiungono altra sabbia negli ingranaggi della crescita, rendendo sempre meno agevole la visibilità sulle prospettive future.
Anche dal lato del credito sembra essersi esaurita la spinta che aveva caratterizzato le nuove operazioni di finanziamento lo scorso anno. Tra gennaio e giugno i nuovi prestiti erogati alle imprese in Italia sono risultati mediamente in calo del 6,5%, 14 miliardi di euro in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Repubblica 30.8.16
Gli economisti.
Crescita zero per tutto il 2016 cala la fiducia, l’Italia non riparte
Per Confindustria, Ref, Nomisma e Confesercenti ci saranno tre trimestri di stagnazione
Il 27 settembre il governo presenterà gli aggiornamenti del Def con le nuove previsioni di crescita per il 2016 e 2017. L’attuale stima prevede un +1,2% per fine anno quando molti economisti non vanno oltre lo 0,6%
di Valentina Conte


ROMA. Un’Italia a crescita zero fino alla fine dell’anno? Possibile. Il rotondo dato del Pil nel secondo trimestre potrebbe rivelarsi non del tutto isolato. Rallentamento della domanda internazionale, ribasso delle materie prime allo sgocciolo, investimenti fermi, incertezza dilagante tra banche, Brexit, terrorismo e ora anche terremoto rischiano di tenere l’Italia in stagnazione. E soprattutto di creare quello che gli economisti chiamano “trascinamento statistico” sfavorevole sul 2017. In altri termini, quest’anno chiude male e parte male pure il prossimo.
Un indizio in questo senso viene dal dato Istat diffuso ieri sulla fiducia declinante di imprese (per la prima volta sotto i 100 punti da febbraio 2015) e consumatori in agosto, la prima indagine dopo gli attentati di luglio in Francia e Germania. La disoccupazione torna ad agitare i sonni delle famiglie. E non a caso Eurostat segnala l’Italia come il paese europeo con il più alto numero di senza lavoro scoraggiati, con il 37% che nei primi tre mesi dell’anno ha rinunciato a cercare un posto ed è finito negli inattivi, il doppio del livello medio europeo.
Confesercenti comincia a chiamarla «non fiducia quasi strutturale» e teme per un nuovo rallentamento nella spesa degli italiani. D’altro canto, i saldi estivi non sono andati benissimo («a macchia di leopardo, ma giù di quasi un punto», conferma Renato Borghi, presidente di Federmoda), specie dopo una primavera disastrosa a meno 5%. L’effetto turismo sarà tutto da misurare. Il collasso delle mete asiatiche e nordafricane ha favorito Grecia e Spagna, bisognerà capire quanta parte dei flussi è stata agganciata dall’Italia. I pedaggi in autostrada farebbero ben sperare (+5-6%). I balneari paiono ottimisti.
In ogni caso, «il turismo non sembra in grado di garantire un’inversione di tendenza significativa», spiega l’economista Fedele De Novellis. Il suo centro di ricerca, Ref, uscirà oggi con una nota congiunturale molto netta: «La crescita nulla del secondo trimestre non appare un caso isolato. Le tendenze della seconda parte dell’anno dovrebbero confermare la stagnazione della nostra economia». Con uno zero anche nel terzo e quarto trimestre il dato del Pil sull’anno planerebbe ad uno striminzito +0,6%, quanto in effetti l’Istat aveva acquisito ad inizio agosto. La metà esatta delle previsioni del governo (+1,2%). E con un trascinamento sotto l’1% anche nel 2017 (laddove il governo si aspetta +1,4%). Vedremo come cambierà questo quadro, con l’aggiornamento al Def del 27 settembre. Ma se la revisione fosse così importante, il rischio maggiore sarebbe sul debito che schizzerebbe oltre il 133% (sopra il 132,4% programmato per il 2016 e il 132,7% dell’anno scorso).
Uno scenario spiazzante che anche Confindustria si appresta a incorporare nella sua prossima nota congiunturale. E condiviso pure da Nomisma, laddove il suo managing director Andrea Goldstein, ricorda che il «pessimismo e nervosismo attuale crescerà all’avvicinarsi dei sondaggi sul referendum», con i mercati finanziari ago della bilancia degli umori di un Paese in affanno. E con una manovra finanziaria che si promette espansiva, ma che ad oggi sembra in salita.

il manifesto 30.8.16
Le tre ancore dell’economia globale
Capitalismo. Dalla crisi degli anni ’70 a oggi, in tre mosse il potere economico-politico si è fatto coeso, esteso, pervasivo. Come individuare punti deboli e contraddizioni
di Ignazio Masulli


La crisi economica e politica dei paesi del capitalismo storico, dalla quale sembra sempre più difficile uscire, è una crisi di sistema, come è stato sottolineato da molti e come appare tanto più evidente quanto più se ne analizzi il processo storico con il punto di svolta nei primi anni Settanta. La società dei consumi esaurisce la sua spinta propulsiva senza che appaia possibile la sua esportazione in paesi del Sud del mondo.
Il segno più evidente e significativo è consistito in un netto calo dei tassi di profitto protrattosi per tutti gli anni ’70 nei paesi più industrializzati. Sia negli Stati uniti che nella media riguardante Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito è stata di circa 5,5 punti percentuali tra il 1970 e il 1980: una discesa pesante difficile da arrestare con misure congiunturali e interventi tradizionali.
A quel punto, i maggiori gruppi imprenditoriali, di qua e di là dall’Atlantico si sono trovati di fronte ad un bivio. Da un lato, era possibile riguadagnare i margini di profitto perduti innovando metodi di produzione, tipi di prodotti e organizzazione del lavoro. Ma ciò implicava maggiori e più coraggiosi investimenti, nonché mutamenti nei sistemi di vita (abitazioni, trasporti, comunicazioni, beni d’uso personale, domestico, ecc.) che avevano caratterizzato la società dei consumi nei decenni precedenti. Dall’altro lato, si poteva ricorrere a scorciatoie e soluzioni più facili senza cambiare scenari e rapporti sociali. Si è imboccata la seconda strada, e le risposte alla crisi sono state di tre ordini.
La prima ha dato luogo ad una massiccia delocalizzazione delle attività produttive in paesi in via di sviluppo dove era possibile lo sfruttamento di manodopera a basso o bassissimo costo, nonché sfuggire ad obblighi fiscali e vincoli ambientali. L’entità del fenomeno è stata e continua ad essere molto maggiore di quanto si lasci trapelare. Nel 2015 in Italia gli investimenti diretti all’estero, fatti da imprese non finanziarie, sono stati pari al 25% del Pil, in Francia hanno raggiunto il 51%, in Germania il 42%. In Gran Bretagna gli investimenti all’estero hanno rappresentato il 54% del Pil. Perfino negli Usa, paese che si suppone centripeto più che centrifugo, sempre nel 2015, gli investimenti diretti all’estero sono equivalsi al 33% del Pil. E’ chiaro che una delocalizzazione produttiva di queste proporzioni ha comportato milioni di posti di lavoro in meno nei paesi d’origine.
La seconda risposta ha riguardato un’automazione senza precedenti della produzione di beni e servizi, resa possibile dalla rivoluzione microelettronica. Com’è ben noto, i portati di quella rivoluzione sono stati straordinariamente innovativi nei settori dell’informazione e della comunicazione. Mentre le applicazioni introdotte nelle tecnologie produttive hanno obbedito alla stessa logica che ha caratterizzato tutta l’età industriale fin dall’introduzione del telaio meccanico. Una logica volta a ridurre la manodopera occorrente ad una stessa quantità produttiva, a favorire l’impiego di quella meno qualificata e, perciò, più facilmente intercambiabile e precaria, nonché meno remunerata. Automazione spinta e delocalizzazione si sono poi intrecciate nel facilitare l’impiego di forza lavoro non qualificata e sottoposta al massimo sfruttamento nei paesi meno sviluppati.
La terza risposta ha visto un progressivo e rapido spostamento degli investimenti dalla produzione alla speculazione finanziaria.
Contemporaneamente si è assistito anche ad una progressiva finanziarizzazione delle imprese dei più diversi settori. Ben presto lo scopo principale delle aziende è diventato quello di soddisfare le esigenze e aspettative degli azionisti. Il che ha condotto ad una valutazione dei risultati delle aziende in base all’apprezzamento maggiore o minore dei loro titoli finanziari, invece che sulla base dei risultati raggiunti in termini propriamente produttivi e di mercato. D’altro canto la rincorsa alla concentrazione tecnico-produttiva in rapporti di scala sempre più ampi ha ulteriormente rafforzato il ruolo del capitale finanziario in tutti i settori.
Queste tre risposte alla crisi degli anni ’70 si sono andate ben presto affermando fino a diventare le strategie principali della ristrutturazione capitalista nell’ultimo trentennio.
Tutto ciò è stato reso non solo possibile, ma apertamente favorito dalle politiche neoliberiste inaugurate nei primi anni ’80 dai governi conservatori della Thatcher e di Reagan. Politiche che hanno trovato sostanziale continuità nell’azione di governo dei vari Blair, Schröder e degli altri becchini della socialdemocrazia europea, in tandem con l’amministrazione Clinton, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 fino agli epigoni e alle nanocrazie attuali. Questi ultimi rappresentano il terzo gradino del crescente asservimento della politica agli interessi dei maggiori gruppi economici, sotto il segno dei governi di larghe intese o di falsa alternanza succedutisi in Italia come in altri paesi europei.
Né c’è bisogno di sottolineare il peso esercitato dalle istituzioni economiche e politiche internazionali, dall’Unione europea al Fondo monetario internazionale, fino alla Nato, nel tenere ben saldo il controllo sul blocco di potere che domina lo scenario internazionale.
Va invece ricordato che, proprio grazie ai tre assi portanti della ristrutturazione tardocapitalista prima indicati, i paesi di più antico sviluppo hanno stabilito solide alleanze con i gruppi dominanti tradizionali e i nuovi ceti in ascesa in grandi paesi dell’Asia, Africa e America Latina inducendoli a perseguire modelli di sviluppo e processi di modernizzazione affatto simili. E là dove tali allineamenti hanno incontrato resistenze, si è ricorso ad ogni tipo di pressione, economica, politica e, all’occorrenza, militare.
Il risultato è un sistema di potere economico, finanziario, tecno-militare, politico e mediatico, tanto concentrato, quanto esteso e pervasivo. Tuttavia anch’esso presenta instabilità critiche, squilibri, contraddizioni e perfino spinte autodistruttive sulle quali occorre far leva per la costruzione di alternative necessarie e possibili. Ma è proprio questa la non facile analisi da compiere e di cui non siamo che all’inizio come anche nella individuazione di nuove forze e forme di lotta.

La Stampa 30.8.16
Scuola, i sindacati ricorrono al Tar per la chiamata diretta
“Il reclutamento dei docenti è lesivo della loro dignità”
di Maria Teresa Martinengo


I sindacati della scuola hanno posto la questione di legittimità costituzionale e ieri hanno presentato ricorso al Tar contro le procedure della cosiddetta «chiamata diretta» dei docenti. Il ricorso, spiegano i segretari di Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola e Snals Confsal, mette in evidenza le «illegittimità» nella gestione amministrativa e nei rapporti contrattuali del personale.
Per i sindacati della scuola «le procedure attuative del provvedimento stanno generando effetti negativi sia in termini di lesione dei diritti che della dignità professionale del personale». Nel ricorso, oltre a impugnare le «linee di orientamento» diffuse dal Miur, è stata posta ai giudici amministrativi la questione di legittimità costituzionale del provvedimento e delle norme di legge da cui trae origine. Per le organizzazioni dei lavoratori «legge e provvedimenti attuativi consentono di fatto un’assoluta discrezionalità del dirigente, ledono profondamente principi cardine del nostro ordinamento, tra cui l’imparzialità della pubblica amministrazione, la libertà di insegnamento, il diritto all’apprendimento degli alunni nell’ambito del sistema nazionale di istruzione».
Secondo i sindacati, la portata delle questioni è tale da richiedere la discussione d’urgenza e la sospensiva in via cautelativa. Un altro passo questo, sottolineano Flc Cgil, Cisl, Uil e Snals, «per ottenere le necessarie modifiche di una riforma che - anche sul piano pratico - sta evidenziando tutti i suoi limiti: non uno degli obiettivi sembra significativamente e compiutamente utile all’intero sistema scolastico».
Intanto in Sicilia e Sardegna sindacati e direzioni scolastiche regionali hanno realizzato un accordo - per altro già attuato in altre regioni - per consentire a un gran numero di docenti immessi in ruolo lontano da casa con la fase C della Buona Scuola, di evitare i trasferimenti in altre regioni. «Siccome i posti di sostegno sono molto numerosi - spiega Rodolfo Aschiero, segretario Flc Cgil del Piemonte, regione dove questo accordo esiste da tempo - e gli insegnanti con titolo di specializzazione insufficienti, dopo aver assicurato la cattedra a tutti gli specializzati, compresi i supplenti, per garantire agli alunni disabili il massimo di qualità, si assegnano i posti rimanenti ai docenti di ruolo soprannumerari non specializzati». Per Elena Centemero, responsabile Scuola di Forza Italia, «si tratta di una scelta molto discutibile e grave che penalizza le studentesse e gli studenti con disabilità per scongiurare il cosiddetto esodo dei docenti».

La Stampa 30.8.16
Ughi al ministro Giannini: salvi i Conservatori in pericolo
“La musica si studia da bambini. L’Italia si adegui al resto del mondo”
di Giacomo Galeazzi


Sono leggi scritte da chi non è esperto di musica. Non si possono equiparare Conservatori e università», scandisce Uto Ughi. Uno dei piú grandi talenti musicali del nostro tempo chiede al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini di salvaguardare una «eccellenza in pericolo».
Maestro, la Stampa ha documentato il grave stato di crisi dell’insegnamento della musica in Italia. Cosa ha detto al ministro Stefania Giannini ?
«Un ragazzo deve cominciare a studiare uno strumento a 7-8 anni. La scelta dell’Università avviene dopo la maturità. Prendere in mano per la prima volta uno strumento a 19 anni è tempo perso. La legge è stata fatta evidentemente da persone non esperte di musica. Il ministro si è interessata a risolvere la questione e a modificare le norme rapidamente».
Quale deve essere il modello da seguire nei Conservatori?
«In tutto il mondo i programmi di insegnamento della musica partono da un dato di fatto incontrovertibile: uno strumento va coltivato dai primissimi anni di vita. Come per i disegni e le poesie, la musica deve entrare il prima possibile nei percorsi di apprendimento dei bambini. Con il metodo Suzuki in Giappone si insegna a suonare uno strumento fin dai 2-3 anni. Ho visto bimbi di 5 anni eseguire concerti di Bach senza commettere il minimo errore. Il ministro Giannini mi è sembrata animata dalle migliori intenzioni. Attendiamo i risultati».
Cosa domanda al governo?
«I Conservatori vanno tutelati in ogni regione. Ho ascoltato studenti di istituti di provincia suonare in maniera straordinaria. Non è vero che occorra tagliare il numero dei Conservatori per tenerne aperti solo alcuni nelle grandi città. Senza la loro storica presenza ramificata sul territorio si perderebbe un potenziale immenso».
Quale è il suo timore,quindi?
«Si rischia di ripetere con i Conservatori il colossale errore che è stato commesso alcuni anni fa con le orchestre sinfoniche della Rai: eliminarne tre su quattro fu una follia poi pagata a carissimo prezzo. All’epoca si disse che bisognava far convergere le risorse su poche realtà di alto livello, ma ciò ha depauperato la cultura italiana».
Su quali punti specifici ha chiesto al ministro di intervenire?
«Neanche la Giannini è sicura che ridurre il numero dei Conservatori sia la soluzione giusta. Io le ho detto che più istituzioni musicali ci sono in ogni regione maggiore è il beneficio complessivo per il Paese. Per dare qualità uniforme all’insegnamento serve maggior rigore nell’assegnare le cattedre».
In che modo si deve agire ora?
«Poco prima di morire il direttore d’orchestra Claudio Abbado mi descrisse ammirato il sistema di insegnamento della musica in Venezuela. Persino in una nazione così povera, i bambini cominciano prestissimo a studiare uno strumento. Dovrebbero tenerne conto i tecnici ministeriali : i Conservatori non devono essere equiparati alle università né tagliati».