Corriere della Sera, edizione di Roma 16.3.05
«No al farmaco per i bimbi iperattivi» Un comitato etico anti-Ritalin, l’anfetamina per la «tranquillità» dei minori
Ilaria Sacchettoni
Genitori e medici. Educatori e volontari. Intellettuali e sacerdoti. È una molecola che li riunisce e li mobilita. Le associazioni Giù le mani dai bambini, Genitori in rete, Libera di Don Ciotti, Psichiatria democratica, la Federazione italiana pedagogisti, l’Osservatorio sulla salute mentale e l’Associazione pedagogisti volontari , sono solo una parte dei gruppi romani impegnati nella battaglia contro il Metilfenidato, anfetamina utilizzata per la cura dell’iperattività dei minori, diffusa in altri paesi europei e negli Stati Uniti con il nome di «Ritalin». La molecola dovrebbe servire come terapia nella cosiddetta ADHD, patologia catalogata negli Stati Uniti come Attention Deficit Hyperactivity Disorder , tradotta in Italia come «Sindrome da deficit di attenzione e iperattività dei minori». A giorni il prodotto sarà in farmacia, mentre un questionario diffuso dal Ministero della Sanità (il progetto «Prisma») sta raccogliendo informazioni nelle scuole, per la rilevazione e la catalogazione del problema iperattività.
Le associazioni hanno deciso di costituirsi in «comitato etico», con una prima urgente finalità: la divulgazione di un’informazione corretta sulle proprietà della molecola discussa (e sugli effetti collaterali) ma anche per chiedere criteri trasparenti nell’individuazione e descrizione della patologia per la quale il Ritalin è indicato. Oggi la presentazione del comitato a Palazzo Valentini. Dice Tiziana Biolghini, consigliere provinciale dei Ds: «Non intendiamo demonizzare un farmaco ma evitare che i bambini vengano curati a forza di psicofarmaci. Non vorremmo che passasse quest’idea per cui con un figlio vivace, l’unica terapia possibile è quella farmaceutica. Siamo convinti che prima di dare anfetamine a un bambino a causa della sua iperattività, valga la pena di tentare altre strade». Il comitato ha già preso contatti con pediatri, insegnanti e medici di base: «Metteremo a punto del materiale informativo per rappresentare la questione e i rischi del farmaco» aggiunge la Biolghini.
Il Ritalin sarà in farmacia a breve. L’approvazione del decreto ministeriale che lo introduce è prevista per la fine di marzo. E le associazioni hanno indetto una manifestazione di protesta al Colosseo, domenica 20. Con loro si schiera anche il presidente della Provincia Enrico Gasbarra: «Sono rimasto profondamente colpito - dice - dalla decisione del Ministero della Salute e in particolare dell’AIFA, solitamente tra le Agenzie per il farmaco più restrittive d’Europa, che ha dato il via libera per l’adozione di questo medicinale, invece di investire in progetti terapeutici adeguati, basati sul sostegno diretto alle famiglie». «Negli Usa - dice Luca Poma dell’associazione Giù le mani dai bambini - l’elenco di Stati che limita l’utilizzo del Ritalin è fittissimo. Di recente, è stata approvata perfino una normativa federale contro queste sostanze».
Il farmaco è della Novartis, azienda farmaceutica svizzera, leader nel settore oncologico e cardio-vascolare. È stato in farmacia fino agli anni Ottanta, ritirato dal commercio poi e riproposto ora. «La fornitura - precisa la Novartis - risponde a una richiesta formalmente espressa dal vostro Ministero della Salute. Nel 2000, un gruppo di esperti richiese il farmaco da impiegare nella cura contro l’ADHD». Al momento è l’Istituto superiore di sanità ad occuparsi della disciplina che riguarda l’impiego del Ritalin. Diagnosi e terapia dell’ADHD, saranno compito dei centri regionali. La prima prescrizione del farmaco potrà avvenire solo attraverso ospedali, ambulatori e servizi pubblici. Mentre per la ripetizione della cura e per una nuova ricetta di Ritalin, basterà il pediatra.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 16 marzo 2005
"psichiatria" e milioni
Pancheri: l'aripiprazolo funziona anche contro la disoccupazione...
Agi.it 16.3.06
SCHIZOFRENIA:
500 MILA MALATI, IN ITALIA NUOVA MOLECOLA
Roma. Con il film "Beautiful mind", la schizofrenia ha cominciato a farsi conoscere tra le persone. Così il prof. Paolo Pancheri, psichiatra alla Sapienza di Roma intervenendo a Roma alla presentazione di una nuova molecola, l'aripiprazolo (Bristol-Myers Squibb) arrivata in Italia. Nel nostro paese sono 500 mila i malati di schizofrenia, una patologia della quale si può guarire e che interferisce con la capacità di riconoscere ciò che è reale, di gestire le emozioni, di dare giudizi e comunicare e che può provocare allucinazioni visive e uditive, deliri dovuti ad un'alterazione della dopamina nel cervello. "Spesso lo schizofrenico è considerato semplicemente un matto", ha aggiunto Pancheri sottolineando che l'1% della popolazione in generale rischia di ammalarsi e il 30% è disoccupato a causa della malattia che se non curata già al secondo episodio, può provocare il distacco dal lavoro nel 65% dei casi". La nuova molecola, testata già su 8 mila pazienti nel mondo, offre - hanno spiegato gli esperti a Roma - alcune capacità funzionali, con effetti collaterali minori. "Aripiprazolo riduce i tempi di latenza, migliora la memoria e nel 30% dei casi si ottiene una remissione completa".
SCHIZOFRENIA:
500 MILA MALATI, IN ITALIA NUOVA MOLECOLA
Roma. Con il film "Beautiful mind", la schizofrenia ha cominciato a farsi conoscere tra le persone. Così il prof. Paolo Pancheri, psichiatra alla Sapienza di Roma intervenendo a Roma alla presentazione di una nuova molecola, l'aripiprazolo (Bristol-Myers Squibb) arrivata in Italia. Nel nostro paese sono 500 mila i malati di schizofrenia, una patologia della quale si può guarire e che interferisce con la capacità di riconoscere ciò che è reale, di gestire le emozioni, di dare giudizi e comunicare e che può provocare allucinazioni visive e uditive, deliri dovuti ad un'alterazione della dopamina nel cervello. "Spesso lo schizofrenico è considerato semplicemente un matto", ha aggiunto Pancheri sottolineando che l'1% della popolazione in generale rischia di ammalarsi e il 30% è disoccupato a causa della malattia che se non curata già al secondo episodio, può provocare il distacco dal lavoro nel 65% dei casi". La nuova molecola, testata già su 8 mila pazienti nel mondo, offre - hanno spiegato gli esperti a Roma - alcune capacità funzionali, con effetti collaterali minori. "Aripiprazolo riduce i tempi di latenza, migliora la memoria e nel 30% dei casi si ottiene una remissione completa".
il disturbo post-traumatico da stress
Yahoo Salute 16.3.05
Disturbo post-traumatico, non conosce confini
Antonella Sagone
Due studi riportati sull’American Journal of Psychiatry mostrano come il disturbo post-traumatico da stress (PTDS) trascenda le diversità culturali; inoltre gli eventi traumatici sembra colpiscano più spesso gli uomini, ma più profondamente le donne.
Gli uomini subiscono eventi traumatici e stressanti con maggiore frequenza delle donne; tuttavia queste ultime ne subiscono gli effetti più profondamente. Inoltre i giovani sono affetti dal conseguente disturbo postraumatico da stress in misura simile anche in paesi culturalmente molto diversi fra loro, mostrando come questa patologia non abbia confini. I risultati sono forniti da due studi riportati sull’American Journal of Psychiatry.
Il disturbo post-traumatico da stress (PTDS) è conseguente all’aver vissuto eventi traumatici, che possono andare da calamità naturali, a episodi legati a situazioni di guerra o di attentati, fino a traumi personali come violenze, abusi o incidenti. Questo disturbo è identificato da una serie di sintomi, fra cui spicca la difficoltà di controllare il ritorno alla memoria dell’evento, per cui il suo ricordo può emergere alla coscienza ripetutamente e all’improvviso in tutta la sua drammaticità. Tipico è dunque l’evitamento di tutti gli stimoli e situazioni che possono rievocare il trauma, a volte con una condizione di ottundimento della reattività, disturbi del sonno (risvegli frequenti e improvvisi) e a volte con la dissociazione peritraumatica, cioè fenomeni di distacco dalle proprie emozioni, depersonalizzazione e lacune della memoria. All’evento traumatico segue in genere una reazione acuta, in cui prevalgono i fenomeni di dissociazione, e poi una condizione cronica in cui il soggetto si costruisce delle strategie, come quella di evitare situazioni e stimoli che possano rievocare il trauma, che in un certo senso “incapsulano” l’evento, lasciando però la persona fragile e comunque sofferente.
Uno studio di Punamäki e collaboratori ha indagato le reazioni di 274 uomini e 311 donne, di età compresa fra i 16 e i 60 anni, a una situazione di traumi ripetuti, quella del conflitto bellico nella striscia di Gaza. Dai risultati di diversi test diagnostici relativi al PTDS, l’ansia, gli sbalzi di umore, la depressione e i disturbi psicosomatici, è risultato che nonostante gli uomini fossero maggiormente esposti ad eventi traumatici, la reazione dissociativa peritraumatica e lo sviluppo di PTDS avveniva nella stessa proporzione in entrambe i generi. In più, le donne sviluppavano anche altre patologie psichiche come ansia, sbalzi di umore e disturbi psicosomatici. A seguito di traumi ripetuti erano gli uomini a sviluppare più frequentemente sintomi depressivi, mentre le donne erano più soggette a sentimenti di ostilità.
I risultati di questo studio mostrano come le conseguenze psichiche degli eventi traumatici siano più gravi nelle donne, anche se in entrambi i generi si equivale il rischio di dissociazione peritraumatica in conseguenza al trauma. Questi dati vanno presi seriamente in considerazione anche tenendo conto del fatto che risposte simili al trauma si riscontrano anche in situazioni molto differenti dal punto di vista sociale e culturale, come mostra un’altra ricerca svolta in Russia e negli Stati Uniti.
Fonti: Punamäki RL, Komproe IH, Qouta S et al. The Role of Peritraumatic Dissociation and Gender in the Association Between Trauma and Mental Health in a Palestinian Community Sample. Am J Psychiatry 2005;162:545-51.
Ruchkin V, Schwab-Stone M, Jones S et al. Is Posttraumatic Stress in Youth a Culture-Bound Phenomenon? A Comparison of Symptom Trends in Selected U.S and Russian Communities. Am J Psychiatry 2005;162:538-44.
Disturbo post-traumatico, non conosce confini
Antonella Sagone
Due studi riportati sull’American Journal of Psychiatry mostrano come il disturbo post-traumatico da stress (PTDS) trascenda le diversità culturali; inoltre gli eventi traumatici sembra colpiscano più spesso gli uomini, ma più profondamente le donne.
Gli uomini subiscono eventi traumatici e stressanti con maggiore frequenza delle donne; tuttavia queste ultime ne subiscono gli effetti più profondamente. Inoltre i giovani sono affetti dal conseguente disturbo postraumatico da stress in misura simile anche in paesi culturalmente molto diversi fra loro, mostrando come questa patologia non abbia confini. I risultati sono forniti da due studi riportati sull’American Journal of Psychiatry.
Il disturbo post-traumatico da stress (PTDS) è conseguente all’aver vissuto eventi traumatici, che possono andare da calamità naturali, a episodi legati a situazioni di guerra o di attentati, fino a traumi personali come violenze, abusi o incidenti. Questo disturbo è identificato da una serie di sintomi, fra cui spicca la difficoltà di controllare il ritorno alla memoria dell’evento, per cui il suo ricordo può emergere alla coscienza ripetutamente e all’improvviso in tutta la sua drammaticità. Tipico è dunque l’evitamento di tutti gli stimoli e situazioni che possono rievocare il trauma, a volte con una condizione di ottundimento della reattività, disturbi del sonno (risvegli frequenti e improvvisi) e a volte con la dissociazione peritraumatica, cioè fenomeni di distacco dalle proprie emozioni, depersonalizzazione e lacune della memoria. All’evento traumatico segue in genere una reazione acuta, in cui prevalgono i fenomeni di dissociazione, e poi una condizione cronica in cui il soggetto si costruisce delle strategie, come quella di evitare situazioni e stimoli che possano rievocare il trauma, che in un certo senso “incapsulano” l’evento, lasciando però la persona fragile e comunque sofferente.
Uno studio di Punamäki e collaboratori ha indagato le reazioni di 274 uomini e 311 donne, di età compresa fra i 16 e i 60 anni, a una situazione di traumi ripetuti, quella del conflitto bellico nella striscia di Gaza. Dai risultati di diversi test diagnostici relativi al PTDS, l’ansia, gli sbalzi di umore, la depressione e i disturbi psicosomatici, è risultato che nonostante gli uomini fossero maggiormente esposti ad eventi traumatici, la reazione dissociativa peritraumatica e lo sviluppo di PTDS avveniva nella stessa proporzione in entrambe i generi. In più, le donne sviluppavano anche altre patologie psichiche come ansia, sbalzi di umore e disturbi psicosomatici. A seguito di traumi ripetuti erano gli uomini a sviluppare più frequentemente sintomi depressivi, mentre le donne erano più soggette a sentimenti di ostilità.
I risultati di questo studio mostrano come le conseguenze psichiche degli eventi traumatici siano più gravi nelle donne, anche se in entrambi i generi si equivale il rischio di dissociazione peritraumatica in conseguenza al trauma. Questi dati vanno presi seriamente in considerazione anche tenendo conto del fatto che risposte simili al trauma si riscontrano anche in situazioni molto differenti dal punto di vista sociale e culturale, come mostra un’altra ricerca svolta in Russia e negli Stati Uniti.
Fonti: Punamäki RL, Komproe IH, Qouta S et al. The Role of Peritraumatic Dissociation and Gender in the Association Between Trauma and Mental Health in a Palestinian Community Sample. Am J Psychiatry 2005;162:545-51.
Ruchkin V, Schwab-Stone M, Jones S et al. Is Posttraumatic Stress in Youth a Culture-Bound Phenomenon? A Comparison of Symptom Trends in Selected U.S and Russian Communities. Am J Psychiatry 2005;162:538-44.
Edgar Allan Poe
il manifesto 16.3.05
Nostro zio Edgar Allan Poe
Una raccolta di interventi sullo scrittore americano curati da Roberto Cagliero
CARLO MARTINEZA
Aquasi duecento anni dalla nascita, Edgar Allan Poe non soltanto continua ad attrarre magneticamente lettori, autori, registi cinematografici e interpreti vari della sua opera, ma torna alla ribalta con una sorprendente attualità. La tradizione ci ha fatto pervenire un Poe incapsulato fra una serie di polarità: inventore del genere horror, che mette in scena gli stati allucinatori del pensiero, ma anche raziocinante orditore di misteri ed enigmi, dai quali trae origine il genere della detective fiction; poeta maledetto tardo-romantico e geniale anticipatore del postmoderno; prodotto della e per la massa e raffinato esteta; autore sublime e kitsch, dotato di splendido acume critico, o farsesco giullare delle lettere americane. A differenza di quanto fanno le figure di investigatore da lui inventate, troppo spesso i critici hanno risolto quello che Vernon Louis Parrington negli anni `20 del `900 chiama «il problema Poe» schivandolo, ignorandone quasi l'esistenza, come avviene nel celebre Rinascimento americano di Matthiessen, per il quale Poe non avrebbe alcun sostanziale contributo da offrire; oppure attraverso lo scherno con cui, ancora in anni recenti, tenta di liquidarlo uno fra i più illustri critici americani contemporanei quale è Harold Bloom. Ben diverso è stato il successo che l'autore ha riscosso su questa sponda dell'Atlantico. I francesi, soprattutto, hanno dato vita a un Poe leggendario, quasi mitico, creazione in larga parte - da Baudelaire fino a Lacan - di un'immaginazione poetica e critica, che ben poco collima con l'autore. Eppure, a differenza dei critici americani, i francesi hanno intuito come la scrittura di Poe richieda di farsi usare, imperniata com'è su un'estetica e su un'etica del consumo e del riutilizzo. Il racconto «L'uomo che fu consumato» - in cui il personaggio di un imponente generale si rivela alla fine nulla più di un fagotto di protesi montate su un'eterea voce - anticipa sotto forma di folgorazione il legame fra consumo, corpo e scrittura, che Poe lavora in maniera da prefigurare la via di fuga verso processi di virtualizzazione.
Cade in questo contesto la collettanea di interventi titolata Fantastico Poe, appena usciti per la cura di Roberto Cagliero (Ombre Corte, 2004, Euro 18,00), che costituisce il segno di un nuovo interesse attorno allo scrittore. Nello splendido saggio che apre il volume, Gerald J. Kennedy spiega l'attualità di Poe alla luce della crisi del nazionalismo. Allergico alle spinte scioviniste della sua epoca, l'autore americano disgrega il preteso monologismo di quella fase della storia del suo paese e rappresenta oggi un crocevia obbligato per gli studi transatlantici, e gli studi transnazionali, impegnati a rileggere i rapporti fra cultura e stati-nazione. Gli «Incubi nazionali di Poe», come recita il titolo, hanno a lungo turbato schiere di critici per il loro ostinato rifiuto di servire in guisa di collante ideologico dell'entità nazione.
In un momento in cui i problemi relativi al sistema dell'informazione e del discorso mediatico stanno al cuore tanto della vita sociale quanto del dibattito culturale, sembra opportuno rileggere il Poe teorico della nozione di effetto del testo: l'avere sostituito alla mitologia dell'origine la retorica dell'effetto ha di fatto schiuso le porte della modernità assai prima di quanto non sia avvenuto, poi, con le varie correnti filosofiche impegnate nella decostruzione. Ecco allora l'enfasi sulla forma breve, sulla stretta relazione che intercorre tra mezzo e messaggio, e infine, soprattutto, sull'ambiguo rapporto che sussiste fra cronaca e fiction, finzione/narrazione. Anche in questo caso, la riflessione di Poe è un passaggio obbligato per qualunque discorso relativo ai media studies, come illustra il saggio di Oliviero Bergamini, che inquadra il tentativo di Poe di «diventare un critico professionista di livello assoluto» nel contesto storico del giornalismo del tempo.
A rileggere poi le figure un po' consunte dei suoi vampiri e morti viventi, ci sorprendiamo a scoprire la straordinaria attualità con cui Poe narra - attraverso l'orrore - l'abuso, connettendo il piano psicopatologico con quello politico-ideologico. Giovanni Bottiroli propone un'originale rilettura della figura del doppio, in accordo alla quale Poe, alle soglie della modernità, avrebbe «messo in scena l'ambivalenza, l'odio verso di sé, verso la propria incapacità a coincidere con il proprio Io.
Identificando nel paradosso la chiave retorico-stilistica del racconto, «La logica del diviso in William Wilson» richiama il titolo di un interessante libro in cui Remo Bodei indaga altri apparenti paradossi, quelle che chiama Le logiche del delirio: perché, se esiste un autore che ben prima di Freud ha intuito il nesso fra logica, delirio e sfera politica, questi è senza dubbio Poe. Certo, bisogna riconoscerlo: era un indisciplinato. Non soltanto nel senso comune del termine, testimoniato dalla sua tragica e prematura fine da alcolizzato, ma nel senso che la sua scrittura provoca e sfida continuamente il discorso disciplinare.
Se dalla nostra posizione sempre più periferica non possiamo rivolgerci a Poe con l'appellativo di «nostro cugino», come lo chiamò nel 1949 il grande critico americano Allen Tate, possiamo però ricorrere al linguaggio delle parentele per pensarlo come uno zio, certamente perturbante, da contrapporre al celebre Uncle Sam che proprio negli stessi anni stava assurgendo a «logo» della nazione intera.
Nostro zio Edgar Allan Poe
Una raccolta di interventi sullo scrittore americano curati da Roberto Cagliero
CARLO MARTINEZA
Aquasi duecento anni dalla nascita, Edgar Allan Poe non soltanto continua ad attrarre magneticamente lettori, autori, registi cinematografici e interpreti vari della sua opera, ma torna alla ribalta con una sorprendente attualità. La tradizione ci ha fatto pervenire un Poe incapsulato fra una serie di polarità: inventore del genere horror, che mette in scena gli stati allucinatori del pensiero, ma anche raziocinante orditore di misteri ed enigmi, dai quali trae origine il genere della detective fiction; poeta maledetto tardo-romantico e geniale anticipatore del postmoderno; prodotto della e per la massa e raffinato esteta; autore sublime e kitsch, dotato di splendido acume critico, o farsesco giullare delle lettere americane. A differenza di quanto fanno le figure di investigatore da lui inventate, troppo spesso i critici hanno risolto quello che Vernon Louis Parrington negli anni `20 del `900 chiama «il problema Poe» schivandolo, ignorandone quasi l'esistenza, come avviene nel celebre Rinascimento americano di Matthiessen, per il quale Poe non avrebbe alcun sostanziale contributo da offrire; oppure attraverso lo scherno con cui, ancora in anni recenti, tenta di liquidarlo uno fra i più illustri critici americani contemporanei quale è Harold Bloom. Ben diverso è stato il successo che l'autore ha riscosso su questa sponda dell'Atlantico. I francesi, soprattutto, hanno dato vita a un Poe leggendario, quasi mitico, creazione in larga parte - da Baudelaire fino a Lacan - di un'immaginazione poetica e critica, che ben poco collima con l'autore. Eppure, a differenza dei critici americani, i francesi hanno intuito come la scrittura di Poe richieda di farsi usare, imperniata com'è su un'estetica e su un'etica del consumo e del riutilizzo. Il racconto «L'uomo che fu consumato» - in cui il personaggio di un imponente generale si rivela alla fine nulla più di un fagotto di protesi montate su un'eterea voce - anticipa sotto forma di folgorazione il legame fra consumo, corpo e scrittura, che Poe lavora in maniera da prefigurare la via di fuga verso processi di virtualizzazione.
Cade in questo contesto la collettanea di interventi titolata Fantastico Poe, appena usciti per la cura di Roberto Cagliero (Ombre Corte, 2004, Euro 18,00), che costituisce il segno di un nuovo interesse attorno allo scrittore. Nello splendido saggio che apre il volume, Gerald J. Kennedy spiega l'attualità di Poe alla luce della crisi del nazionalismo. Allergico alle spinte scioviniste della sua epoca, l'autore americano disgrega il preteso monologismo di quella fase della storia del suo paese e rappresenta oggi un crocevia obbligato per gli studi transatlantici, e gli studi transnazionali, impegnati a rileggere i rapporti fra cultura e stati-nazione. Gli «Incubi nazionali di Poe», come recita il titolo, hanno a lungo turbato schiere di critici per il loro ostinato rifiuto di servire in guisa di collante ideologico dell'entità nazione.
In un momento in cui i problemi relativi al sistema dell'informazione e del discorso mediatico stanno al cuore tanto della vita sociale quanto del dibattito culturale, sembra opportuno rileggere il Poe teorico della nozione di effetto del testo: l'avere sostituito alla mitologia dell'origine la retorica dell'effetto ha di fatto schiuso le porte della modernità assai prima di quanto non sia avvenuto, poi, con le varie correnti filosofiche impegnate nella decostruzione. Ecco allora l'enfasi sulla forma breve, sulla stretta relazione che intercorre tra mezzo e messaggio, e infine, soprattutto, sull'ambiguo rapporto che sussiste fra cronaca e fiction, finzione/narrazione. Anche in questo caso, la riflessione di Poe è un passaggio obbligato per qualunque discorso relativo ai media studies, come illustra il saggio di Oliviero Bergamini, che inquadra il tentativo di Poe di «diventare un critico professionista di livello assoluto» nel contesto storico del giornalismo del tempo.
A rileggere poi le figure un po' consunte dei suoi vampiri e morti viventi, ci sorprendiamo a scoprire la straordinaria attualità con cui Poe narra - attraverso l'orrore - l'abuso, connettendo il piano psicopatologico con quello politico-ideologico. Giovanni Bottiroli propone un'originale rilettura della figura del doppio, in accordo alla quale Poe, alle soglie della modernità, avrebbe «messo in scena l'ambivalenza, l'odio verso di sé, verso la propria incapacità a coincidere con il proprio Io.
Identificando nel paradosso la chiave retorico-stilistica del racconto, «La logica del diviso in William Wilson» richiama il titolo di un interessante libro in cui Remo Bodei indaga altri apparenti paradossi, quelle che chiama Le logiche del delirio: perché, se esiste un autore che ben prima di Freud ha intuito il nesso fra logica, delirio e sfera politica, questi è senza dubbio Poe. Certo, bisogna riconoscerlo: era un indisciplinato. Non soltanto nel senso comune del termine, testimoniato dalla sua tragica e prematura fine da alcolizzato, ma nel senso che la sua scrittura provoca e sfida continuamente il discorso disciplinare.
Se dalla nostra posizione sempre più periferica non possiamo rivolgerci a Poe con l'appellativo di «nostro cugino», come lo chiamò nel 1949 il grande critico americano Allen Tate, possiamo però ricorrere al linguaggio delle parentele per pensarlo come uno zio, certamente perturbante, da contrapporre al celebre Uncle Sam che proprio negli stessi anni stava assurgendo a «logo» della nazione intera.
un progetto
studenti dei licei come spettatori delle cure psichiatriche
La Stampa 16 Marzo 2005
PROGETTO-PILOTA DEL SAN LUIGI. VENTI STUDENTI SEGUIRANNO I MEDICI NELLE VISITE E NELLE TERAPIE DI GRUPPO
Disturbi psichici, quattro scuole contro i pregiudizi
Combattere i pregiudizi e l’esclusione, anzi lo «stigma» che ancora oggi discrimina e «segna» i malati di mente come un marchio. Un pregiudizio duro a morire, se il 58% della gente è contraria a lavorare con chi ha avuto disturbi psichiatrici e il 56% non ci passerebbe il tempo libero, e se il 56% dei malati è preoccupato del giudizio altrui, con il 46% che dice d’aver subito discriminazioni dopo aver dichiarato la propria malattia. Se n’è parlato ieri nella giornata «Nessun pregiudizio, nessuna esclusione» organizzata nell’ambito della Campagna regionale per la Salute mentale. Qui è stato presentato un progetto pilota, «La scuola contro lo stigma», che porterà gli studenti del 4° anno delle superiori a vivere con i malati di mente e i medici che li curano. Un modo per toccare con mano la sofferenza psichica e liberarsi dei pregiudizi che l’accompagnano.
Ne ha parlato il direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Università presso il San Luigi, Pier Maria Furlan. Il progetto-pilota parte nell’autunno da 4 scuole (D’Azeglio, Galileo Ferraris, Santorre di Santarosa e Pininfarina) e s’allargherà più avanti ad altri istituti. «Ogni istituto sceglierà 5 ragazzi molto motivati, ciascuno dei quali vivrà con noi per 5 giorni, tra ambulatori e sedute di gruppo, visite nelle comunità e pranzi cucinati dai malati. Tornati in classe racconteranno la loro esperienza». «Si tratta di un progetto di educazione contro il pregiudizio - ha detto Cristina Forchino, vicepreside del D’Azeglio - che insegnerà l’approccio giusto alla malattia e fungerà anche da orientamento professionale per le professioni sanitarie».
Ieri è stato anche presentato un progetto di formazione per i medici di base. Carmine Munizza, presidente della Società italiana di psichiatria e presidente del congresso con Enrico Zanalda, ne ha illustrato lo scopo: «Sensibilizzare medici e pazienti perché combattano i pregiudizi e riconoscano i disturbi psichici ai primi sintomi. Tra l’insorgere della malattia e la prima visita specialistica passano, in media, 4-5 anni».
PROGETTO-PILOTA DEL SAN LUIGI. VENTI STUDENTI SEGUIRANNO I MEDICI NELLE VISITE E NELLE TERAPIE DI GRUPPO
Disturbi psichici, quattro scuole contro i pregiudizi
Combattere i pregiudizi e l’esclusione, anzi lo «stigma» che ancora oggi discrimina e «segna» i malati di mente come un marchio. Un pregiudizio duro a morire, se il 58% della gente è contraria a lavorare con chi ha avuto disturbi psichiatrici e il 56% non ci passerebbe il tempo libero, e se il 56% dei malati è preoccupato del giudizio altrui, con il 46% che dice d’aver subito discriminazioni dopo aver dichiarato la propria malattia. Se n’è parlato ieri nella giornata «Nessun pregiudizio, nessuna esclusione» organizzata nell’ambito della Campagna regionale per la Salute mentale. Qui è stato presentato un progetto pilota, «La scuola contro lo stigma», che porterà gli studenti del 4° anno delle superiori a vivere con i malati di mente e i medici che li curano. Un modo per toccare con mano la sofferenza psichica e liberarsi dei pregiudizi che l’accompagnano.
Ne ha parlato il direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Università presso il San Luigi, Pier Maria Furlan. Il progetto-pilota parte nell’autunno da 4 scuole (D’Azeglio, Galileo Ferraris, Santorre di Santarosa e Pininfarina) e s’allargherà più avanti ad altri istituti. «Ogni istituto sceglierà 5 ragazzi molto motivati, ciascuno dei quali vivrà con noi per 5 giorni, tra ambulatori e sedute di gruppo, visite nelle comunità e pranzi cucinati dai malati. Tornati in classe racconteranno la loro esperienza». «Si tratta di un progetto di educazione contro il pregiudizio - ha detto Cristina Forchino, vicepreside del D’Azeglio - che insegnerà l’approccio giusto alla malattia e fungerà anche da orientamento professionale per le professioni sanitarie».
Ieri è stato anche presentato un progetto di formazione per i medici di base. Carmine Munizza, presidente della Società italiana di psichiatria e presidente del congresso con Enrico Zanalda, ne ha illustrato lo scopo: «Sensibilizzare medici e pazienti perché combattano i pregiudizi e riconoscano i disturbi psichici ai primi sintomi. Tra l’insorgere della malattia e la prima visita specialistica passano, in media, 4-5 anni».
Vattimo è il diavolo?
La Stampa 16 Marzo 2005
A SAN GIOVANNI IN FIORE OMELIE CONTRO IL FILOSOFO. E LUI: «SONO L’ANTICRISTO DI GIOACCHINO?»
E il prete disse «Vattimo è un diavolo»
Jacopo Iacoboni
C’È di mezzo: Gioacchino da Fiore, il millenarismo, un filosofo e il diavolo. È ovvio, siamo nel 2005.
A San Giovanni in Fiore, paese della Calabria in cui nacque il grande mistico cistercense, si candida come sindaco il filosofo Gianni Vattimo, e questo è stranoto. La sua candidatura, esterna ai poli che hanno puntato su altri nomi, è stata invocata da un gruppo di simpaticissimi ventenni, ragazzi col mito di Peppino Impastato che vorrebbero far qualcosa per smuovere le acque abbastanza stagnanti del paesino meridionale. Quello che non tutti sanno è che in quell’amabile locus amoenus piazzato nel mezzo della Sila, un po’ di preti locali stanno montando da qualche tempo una discreta campagna contro l’aspirante-sindaco, troppo «debolista», troppo colto, blasé, sospetto oltretutto di intenti perditori. E si respira l’aria di un’Inquisizione blanda e anche un po’ arruffona, non per questo meno singolare e per certi versi pure preoccupante, se la campagna è condita di accuse dal sapore medievale, per di più predicate dal pulpito ecclesiale: «Giovani, non seguite il diavolo che viene da Torino!».
Il diavolo sarebbe lui, Gianni Vattimo, e a pronunciare la frase è stato, durante affollata messa domenicale, don Emilio Salatino, giusto appunto nell’abbazia che fu il cuore delle esaltate visioni di Gioacchino. Correva il secolo XII, si vede che non tanto è cambiato, da allora. Tanto più se le accuse demoniache non sono affatto isolate. È da un mese che alcuni sacerdoti hanno cominciato ad attaccare Vattimo nelle omelie. Il clou l’ha forse toccato padre Marcellino Vilella: ha definito il filosofo torinese pericoloso per i giovani, indegno e nemico della Chiesa. Il riferimento è stato indiretto, raccontano i ragazzi che sostengono la candidatura del filosofo, cionondimeno inequivocabile. «L’ho ascoltato con mia madre, ero in chiesa», narra Emiliano Morrone, il capofila dei Vattimo boys che hanno anche fondato un giornale on line tutt’altro che ingenuo (www.lavocedifiore.org). «Padre Vilella, partendo dal Vangelo, ha detto che la cultura va bene fino a un certo punto, oltre il quale rappresenta un male sociale. Ha detto che i filosofi promuovono l’ateismo e attaccano Dio». Secondo Morrone, ha anche alluso all’omosessualità, o tempora!, quando ha detto che i suddetti pensatori, «negli ambienti accademici, portano gli studenti alla perdizione». Il sacerdote, fervente giaochimita, ha concluso che Morrone e il suo gruppo sono «giovani formati in buona università ma si sono smarriti frequentando illustri pensatori».
«Libera nos a diabolo!», avrebbe sospirato Gioacchino: ai suoi tardi emuli non è servito però alcun ricorso al latinorum, hanno parlato chiaro, in italiano. I Vattimo boys sono indignati e testimoniano almanaccano citano. Per difendersi contro questo «dogmatismo autoritario», sul loro giornale tirano in ballo il Concilio Vaticano II, Heidegger, e un’«etica in politica» dal sapore weberiano. E in una lettera aperta al vescovo di Cosenza denunciano: «È gravissimo che si faccia campagna elettorale nelle chiese».
Lui, il «diavolo venuto da Torino», ovviamente se la ride. «In fondo anche Gioacchino non è che fosse un progressista fanatico...». È appena stato laggiù, Vattimo, per una tre giorni in cui ha ascoltato commercianti cittadini e studenti, e tutti o quasi l’hanno circondato di attenzioni, «narcisisticamente questo non può che farmi piacere». Sa di essere stato paragonato alla Bestia ma anche i preti, dice, in fondo non sono stati così crudi faccia a faccia con lui. «Un tal padre Eugenio, monaco francescano dell’Abbazia grande, in chiesa ha detto quelle cose ma la sera prima, al ristorante, era con un altro paio di preti e due suore, e tutti hanno ammesso di aver letto con grande interesse i miei libri».
I libri dell’Anticristo: ma anche Gioacchino prefigurando l’avvento dell’Età dello Spirito bollò come tale Federico II, e si sa poi che carriera fece.
A SAN GIOVANNI IN FIORE OMELIE CONTRO IL FILOSOFO. E LUI: «SONO L’ANTICRISTO DI GIOACCHINO?»
E il prete disse «Vattimo è un diavolo»
Jacopo Iacoboni
C’È di mezzo: Gioacchino da Fiore, il millenarismo, un filosofo e il diavolo. È ovvio, siamo nel 2005.
A San Giovanni in Fiore, paese della Calabria in cui nacque il grande mistico cistercense, si candida come sindaco il filosofo Gianni Vattimo, e questo è stranoto. La sua candidatura, esterna ai poli che hanno puntato su altri nomi, è stata invocata da un gruppo di simpaticissimi ventenni, ragazzi col mito di Peppino Impastato che vorrebbero far qualcosa per smuovere le acque abbastanza stagnanti del paesino meridionale. Quello che non tutti sanno è che in quell’amabile locus amoenus piazzato nel mezzo della Sila, un po’ di preti locali stanno montando da qualche tempo una discreta campagna contro l’aspirante-sindaco, troppo «debolista», troppo colto, blasé, sospetto oltretutto di intenti perditori. E si respira l’aria di un’Inquisizione blanda e anche un po’ arruffona, non per questo meno singolare e per certi versi pure preoccupante, se la campagna è condita di accuse dal sapore medievale, per di più predicate dal pulpito ecclesiale: «Giovani, non seguite il diavolo che viene da Torino!».
Il diavolo sarebbe lui, Gianni Vattimo, e a pronunciare la frase è stato, durante affollata messa domenicale, don Emilio Salatino, giusto appunto nell’abbazia che fu il cuore delle esaltate visioni di Gioacchino. Correva il secolo XII, si vede che non tanto è cambiato, da allora. Tanto più se le accuse demoniache non sono affatto isolate. È da un mese che alcuni sacerdoti hanno cominciato ad attaccare Vattimo nelle omelie. Il clou l’ha forse toccato padre Marcellino Vilella: ha definito il filosofo torinese pericoloso per i giovani, indegno e nemico della Chiesa. Il riferimento è stato indiretto, raccontano i ragazzi che sostengono la candidatura del filosofo, cionondimeno inequivocabile. «L’ho ascoltato con mia madre, ero in chiesa», narra Emiliano Morrone, il capofila dei Vattimo boys che hanno anche fondato un giornale on line tutt’altro che ingenuo (www.lavocedifiore.org). «Padre Vilella, partendo dal Vangelo, ha detto che la cultura va bene fino a un certo punto, oltre il quale rappresenta un male sociale. Ha detto che i filosofi promuovono l’ateismo e attaccano Dio». Secondo Morrone, ha anche alluso all’omosessualità, o tempora!, quando ha detto che i suddetti pensatori, «negli ambienti accademici, portano gli studenti alla perdizione». Il sacerdote, fervente giaochimita, ha concluso che Morrone e il suo gruppo sono «giovani formati in buona università ma si sono smarriti frequentando illustri pensatori».
«Libera nos a diabolo!», avrebbe sospirato Gioacchino: ai suoi tardi emuli non è servito però alcun ricorso al latinorum, hanno parlato chiaro, in italiano. I Vattimo boys sono indignati e testimoniano almanaccano citano. Per difendersi contro questo «dogmatismo autoritario», sul loro giornale tirano in ballo il Concilio Vaticano II, Heidegger, e un’«etica in politica» dal sapore weberiano. E in una lettera aperta al vescovo di Cosenza denunciano: «È gravissimo che si faccia campagna elettorale nelle chiese».
Lui, il «diavolo venuto da Torino», ovviamente se la ride. «In fondo anche Gioacchino non è che fosse un progressista fanatico...». È appena stato laggiù, Vattimo, per una tre giorni in cui ha ascoltato commercianti cittadini e studenti, e tutti o quasi l’hanno circondato di attenzioni, «narcisisticamente questo non può che farmi piacere». Sa di essere stato paragonato alla Bestia ma anche i preti, dice, in fondo non sono stati così crudi faccia a faccia con lui. «Un tal padre Eugenio, monaco francescano dell’Abbazia grande, in chiesa ha detto quelle cose ma la sera prima, al ristorante, era con un altro paio di preti e due suore, e tutti hanno ammesso di aver letto con grande interesse i miei libri».
I libri dell’Anticristo: ma anche Gioacchino prefigurando l’avvento dell’Età dello Spirito bollò come tale Federico II, e si sa poi che carriera fece.
ancora su Munch
L'Eco di Bergamo 16.3.05
Munch, l'onda anomala dei sentimenti del '900
Il suo quadro più famoso, «L'Urlo», considerato l'icona del '900, non c'è, neanche nelle versioni successive a quella rubata lo scorso agosto, ma la mostra che riporta Munch a Roma dopo vent'anni e che si apre domani al Vittoriano è una delle più attese della stagione.
Oltre cento opere tra dipinti e grafiche, che raccontano i decenni cruciali del padre dell'espressionismo moderno. La mostra, presentata nei giorni scorsi a Roma, tra gli altri, dall'ambasciatore di Norvegia Eva Bugge e dai curatori Oivind Storm Bjerke e Achille Bonito Oliva e promossa dal Comune e dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, vanta i numerosi prestiti del Munch-Museet e della Nasjonalgalleriet di Oslo.
Nel 1940, ha detto il sindaco della capitale norvegese Per Ditlev-Simonsen, Munch donò la maggior parte delle sue opere alla città dove visse per moltissimi anni. All'estero, infatti i musei che possono esporre i suoi lavori sono pochi, ha aggiunto Bjerke, basti pensare che a New York ce n'è uno solo.
È stato quindi molto difficile organizzare la mostra romana, dal momento che in allestimento in tutto il mondo ce ne sono numerose altre (fra cui quella a Chicago del 2006), ma i curatori sono riusciti a portare opere importanti realizzate tra il 1890 e il 1908, una sessantina di dipinti e cinquanta grafiche, nonché un nucleo di immagini fotografiche dello stesso Munch, una serie di autoscatti che lo ritraggono in diversi momenti della sua vita travagliata.
La rassegna del Vittoriano, ha detto Bjerke alla presentazione la scorsa settimana, non riguarda un periodo specifico della produzione dell'artista norvegese, bensì ha l'obiettivo di mostrare l'ampiezza della sua arte. Arte che – ha aggiunto Achille Bonito Oliva – anticipa l'espressionismo e si trascina dietro l'Art Nouveau, ma anche Van Gogh e Gauguin.
«È un coagulo, una sintesi linguistica che si fa forma», ha spiegato il critico riferendosi alla molte affinità con tutto il pensiero nordico, da Kierkegaard a Bergman, a lui precedente e successivo. Un Munch che quindi non sarebbe solo l'artista nazionale della Norvegia, ma di tutta la Scandinavia, che, prima di Freud, ha saputo scandagliare i labirinti dell'inconscio.
Sofferenza e angoscia trasudano da tele come «Disperazione» o «Melanconia» e persino nei bellissimi paesaggi al chiaro di luna, dove sempre la sensazione è di una chiusura su se stesso.
Per le opere di Munch, ha detto Bonito Oliva, si può parlare di «tsunami dell'anima, di onda anomala dei sentimenti, della proiezione di una dissociazione irreversibile», che si traduce in volti trasformati in maschere silenziose e nei colori di fuoco che ritraggono «l'immenso grido della natura».
Natura matrigna (e non quella solare degli impressionisti), a cui Munch sottoponeva persino le sue tele, quando, una volta terminate, le lasciava fuori casa, nella notte e nel gelo.
I quadri di Munch hanno sempre appassionato la cultura contemporanea non soltanto per la capacità di dare voce all'interiorità travaglia dell'animo umano ma anche per quella sorta di universailità del dolore e del disagio che è un tratto tipo dell'arte contemporanea. A Munch è spesso debitrice.
Munch, l'onda anomala dei sentimenti del '900
Il suo quadro più famoso, «L'Urlo», considerato l'icona del '900, non c'è, neanche nelle versioni successive a quella rubata lo scorso agosto, ma la mostra che riporta Munch a Roma dopo vent'anni e che si apre domani al Vittoriano è una delle più attese della stagione.
Oltre cento opere tra dipinti e grafiche, che raccontano i decenni cruciali del padre dell'espressionismo moderno. La mostra, presentata nei giorni scorsi a Roma, tra gli altri, dall'ambasciatore di Norvegia Eva Bugge e dai curatori Oivind Storm Bjerke e Achille Bonito Oliva e promossa dal Comune e dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, vanta i numerosi prestiti del Munch-Museet e della Nasjonalgalleriet di Oslo.
Nel 1940, ha detto il sindaco della capitale norvegese Per Ditlev-Simonsen, Munch donò la maggior parte delle sue opere alla città dove visse per moltissimi anni. All'estero, infatti i musei che possono esporre i suoi lavori sono pochi, ha aggiunto Bjerke, basti pensare che a New York ce n'è uno solo.
È stato quindi molto difficile organizzare la mostra romana, dal momento che in allestimento in tutto il mondo ce ne sono numerose altre (fra cui quella a Chicago del 2006), ma i curatori sono riusciti a portare opere importanti realizzate tra il 1890 e il 1908, una sessantina di dipinti e cinquanta grafiche, nonché un nucleo di immagini fotografiche dello stesso Munch, una serie di autoscatti che lo ritraggono in diversi momenti della sua vita travagliata.
La rassegna del Vittoriano, ha detto Bjerke alla presentazione la scorsa settimana, non riguarda un periodo specifico della produzione dell'artista norvegese, bensì ha l'obiettivo di mostrare l'ampiezza della sua arte. Arte che – ha aggiunto Achille Bonito Oliva – anticipa l'espressionismo e si trascina dietro l'Art Nouveau, ma anche Van Gogh e Gauguin.
«È un coagulo, una sintesi linguistica che si fa forma», ha spiegato il critico riferendosi alla molte affinità con tutto il pensiero nordico, da Kierkegaard a Bergman, a lui precedente e successivo. Un Munch che quindi non sarebbe solo l'artista nazionale della Norvegia, ma di tutta la Scandinavia, che, prima di Freud, ha saputo scandagliare i labirinti dell'inconscio.
Sofferenza e angoscia trasudano da tele come «Disperazione» o «Melanconia» e persino nei bellissimi paesaggi al chiaro di luna, dove sempre la sensazione è di una chiusura su se stesso.
Per le opere di Munch, ha detto Bonito Oliva, si può parlare di «tsunami dell'anima, di onda anomala dei sentimenti, della proiezione di una dissociazione irreversibile», che si traduce in volti trasformati in maschere silenziose e nei colori di fuoco che ritraggono «l'immenso grido della natura».
Natura matrigna (e non quella solare degli impressionisti), a cui Munch sottoponeva persino le sue tele, quando, una volta terminate, le lasciava fuori casa, nella notte e nel gelo.
I quadri di Munch hanno sempre appassionato la cultura contemporanea non soltanto per la capacità di dare voce all'interiorità travaglia dell'animo umano ma anche per quella sorta di universailità del dolore e del disagio che è un tratto tipo dell'arte contemporanea. A Munch è spesso debitrice.
il rapimento e l'omicidio Moro
Repubblica 16.3.05
Le trattative segrete per salvare lo statista
emergono nuovi documenti
Fondato su un´ampia mole di materiali anche inediti - fonti giudiziarie e parlamentari, le carte della Democrazia Cristiana, i verbali del Pci, gli archivi personali di protagonisti quali Giulio Andreotti e Amintore Fanfani - il libro ha il merito di fornire spessore documentale a una vicenda rimasta per certi versi indefinita, ridimensionando la distanza comunemente accreditata tra fautori della fermezza e sostenitori della trattativa. Un tema, questo della diplomazia clandestina con i terroristi, oggi drammaticamente riproposto dalla guerra in Iraq. Pur nella diversità delle posizioni, sostiene Giovagnoli, le differenze tra i due «partiti» si fecero nel tempo meno marcate. «Le ragioni dell´etica influirono sulle dinamiche della politica. Nella Democrazia Cristiana si cominciò a riflettere su come aprire trattative che non sembrassero tali o compiere gesti umanitari che risultassero però politicamente accettabili alla Brigate Rosse. E anche nel Pci si affacciò l´esigenza di tenere conto dell´appello democristiano a una maggiore flessibilità».
In sostanza - è la tesi di Giovagnoli - se Moro non fu salvato è perché le Bierre non vollero o non furono in grado di percepire tutti i segnali di apertura che venivano dalle file scudocrociate. La logica della violenza finì per prevalere sulle ragioni della politica. In questo senso la ricostruzione degli eventi contrasta con una memoria diffusa che attribuisce al Biancofiore un ruolo ambiguo o quanto meno confuso. «Le conoscenze acquisite finora», sostiene lo studioso, «indicano che Moro è morto perché le Brigate Rosse avevano deciso di ucciderlo».
Figura emblematica della posizione espressa dalla formula «fermezza flessibile» (tipico stilema democristiano fondato su un ossimoro) fu quella di Benigno Zaccagnini, fin da principio lacerato tra la difesa della vita di Moro e la necessità di non piegare lo Stato democratico alle richieste delle Brigate Rosse. I documenti consultati da Giovagnoli mostrano il segretario della Dc privatamente proteso alla salvezza dell´amico e disponibile a tutte le iniziative possibili, pubblicamente fermo nella linea dell´intransigenza. Un atteggiamento simile, pur con qualche significativa differenza, è presente anche in altri protagonisti, da Forlani a Cossiga, da Zamberletti a Donat-Cattin, da Fanfani - il più trattativista in casa democristiana - allo stesso Flaminio Piccoli, il quale, pur contrapponendosi al fervore fanfaniano, nell´ultima fase non ostacola il tentativo di dialogo con le Bierre.
Già nella Direzione del 16 e 17 marzo, all´indomani del sequestro, si comincia a discutere un´ipotesi ritenuta probabile: la richiesta di scambiare Moro con qualche brigatista detenuto. Giovagnoli valorizza «il sorprendente intervento» di Taviani, il quale nei giorni del rapimento del giudice Sossi s´era distinto per la più assoluta intransigenza. Questa volta, invece, sostiene apertamente che «non si può avere eguale atteggiamento per un uomo insostituibile come Moro». Ma è alla fine di marzo che nelle sedi riservate s´infittisce la discussione sulla possibilità dello scambio tra prigionieri. Annota Giovagnoli: «Le prime reazioni furono possibiliste, specie intorno a Zaccagnini. Tra i favorevoli figura Riccardo Misasi. In seguito il segretario avrebbe accettato il rifiuto dello scambio. Fu probabilmente Piccoli a far rimandare ogni pronunciamento immediato».
Interessante la discussione che parallelamente si svolge a Botteghe Oscure. Seppure uniti nel segno della fermezza, al giudizio assai severo di Cossutta (che critica «la debolezza umana di Moro») reagisce Natta: «È bene non dirle queste cose, perché proprio nel nostro movimento uomini illustri sono stati costretti a terribili confessioni». Controcorrente la posizione di Umberto Terracini, favorevole al dialogo con i brigatisti. Un orientamento divenuto pubblico nel cosiddetto «appello dei vescovi» pubblicato da Lotta Continua.
Nel doppio binario di «tattica possibilista» e «strategia della fermezza» prosegue intanto la linea della Dc, che in un incontro al vertice il 30 marzo rinsalda il patto con il Pci, ma senza mai escludere «qualche contatto» con i terroristi. Passano quattro giorni e in una nuova riunione tra i segretari dei partiti di maggioranza, cui partecipano anche Andreotti e Cossiga, Zaccagnini dice di condividere la linea della fermezza, «ma non su tutto»: il cuore del segretario batte decisamente per la salvezza del prigioniero. Sempre in questa sede, il premier non esclude uno scambio in denaro: nessuno si oppone. Scrive Giovagnoli: «Tutti i leader dei partiti di governo erano dunque favorevoli al pagamento di un riscatto, anche se era evidente che i brigattisti lo avrebbero utilizzato per finanziare ulteriori atti di terrorismo».
Seguiranno di lì a poco i tentativi di mediazione esercitati da Amnesty International - appoggiata segretamente da Fanfani - e soprattutto dal Vaticano, con il sostegno di Andreotti. Più tardi l´appello della Caritas Internationalis, dietro cui si celano Fanfani e il premier. Tutti rimasti senza esito.
La diplomazia sotterranea è destinata a infittirsi ai primi di maggio, dopo la condanna a morte del prigioniero. L´intensa attività di tessitura tra i partiti di maggioranza e soprattutto Bettino Craxi, assurto a paladino della trattativa, ha lo scopo di verificare se vi siano margini per un «atto umanitario»: sempre però evitando il cedimento al terrorismo. Se Craxi invita spavaldamente a rompere con le regole e la legalità - anticipando così un costume che caratterizzerà la «seconda Repubblica», formula usata dallo stesso segretario socialista - i leader dc sembrano più cauti, pur non lesinando ripetuti segnali di apertura: prende corpo il progetto della grazia che il Quirinale è invitato a concedere a un detenuto brigatista. È proprio la mattina del 9 maggio che dalla direzione democristiana sarebbe dovuta arrivare la parola definitiva. Troppo tardi: Moro è già stato ucciso. La tragedia repubblicana ormai compiuta.
Le trattative segrete per salvare lo statista
emergono nuovi documenti
Lo storico Agostino Giovagnoli ha consultato le carte di molti notabili dc: si teorizzò addirittura una fermezza flessibile«Mi domando se stiamo facendo veramente tutto per uscire da questa tragica situazione». Il dubbio lacerante espresso a porte chiuse da Zaccagnini il 13 aprile del 1978, al termine d´una riunione di direzione, sintetizza i sentimenti contrastanti che animarono il vertice democristiano lungo i cinquantacinque giorni del sequestro Moro. Una vicenda che ha segnato la storia della Repubblica, ma che finora non era stata raccontata con gli strumenti propri della storiografia. Si è accinto all´opera, in un volume che uscirà a fine marzo dal Mulino (Il Caso Moro. Una tragedia repubblicana, pagg. 382, euro 22), lo storico Agostino Giovagnoli, studioso di ispirazione cattolica, allievo di Pietro Scoppola e autore di originali interventi sugli anni Settanta.
Il giudizio severo di Cossutta e le aperture di Terracini criticate da Berlinguer
Benigno Zaccagnini in privato si diceva pronto a tentare qualcosa per l´amico
Se non fu liberato è perché le Br non vollero cogliere i segnali di apertura
Fondato su un´ampia mole di materiali anche inediti - fonti giudiziarie e parlamentari, le carte della Democrazia Cristiana, i verbali del Pci, gli archivi personali di protagonisti quali Giulio Andreotti e Amintore Fanfani - il libro ha il merito di fornire spessore documentale a una vicenda rimasta per certi versi indefinita, ridimensionando la distanza comunemente accreditata tra fautori della fermezza e sostenitori della trattativa. Un tema, questo della diplomazia clandestina con i terroristi, oggi drammaticamente riproposto dalla guerra in Iraq. Pur nella diversità delle posizioni, sostiene Giovagnoli, le differenze tra i due «partiti» si fecero nel tempo meno marcate. «Le ragioni dell´etica influirono sulle dinamiche della politica. Nella Democrazia Cristiana si cominciò a riflettere su come aprire trattative che non sembrassero tali o compiere gesti umanitari che risultassero però politicamente accettabili alla Brigate Rosse. E anche nel Pci si affacciò l´esigenza di tenere conto dell´appello democristiano a una maggiore flessibilità».
In sostanza - è la tesi di Giovagnoli - se Moro non fu salvato è perché le Bierre non vollero o non furono in grado di percepire tutti i segnali di apertura che venivano dalle file scudocrociate. La logica della violenza finì per prevalere sulle ragioni della politica. In questo senso la ricostruzione degli eventi contrasta con una memoria diffusa che attribuisce al Biancofiore un ruolo ambiguo o quanto meno confuso. «Le conoscenze acquisite finora», sostiene lo studioso, «indicano che Moro è morto perché le Brigate Rosse avevano deciso di ucciderlo».
Figura emblematica della posizione espressa dalla formula «fermezza flessibile» (tipico stilema democristiano fondato su un ossimoro) fu quella di Benigno Zaccagnini, fin da principio lacerato tra la difesa della vita di Moro e la necessità di non piegare lo Stato democratico alle richieste delle Brigate Rosse. I documenti consultati da Giovagnoli mostrano il segretario della Dc privatamente proteso alla salvezza dell´amico e disponibile a tutte le iniziative possibili, pubblicamente fermo nella linea dell´intransigenza. Un atteggiamento simile, pur con qualche significativa differenza, è presente anche in altri protagonisti, da Forlani a Cossiga, da Zamberletti a Donat-Cattin, da Fanfani - il più trattativista in casa democristiana - allo stesso Flaminio Piccoli, il quale, pur contrapponendosi al fervore fanfaniano, nell´ultima fase non ostacola il tentativo di dialogo con le Bierre.
Già nella Direzione del 16 e 17 marzo, all´indomani del sequestro, si comincia a discutere un´ipotesi ritenuta probabile: la richiesta di scambiare Moro con qualche brigatista detenuto. Giovagnoli valorizza «il sorprendente intervento» di Taviani, il quale nei giorni del rapimento del giudice Sossi s´era distinto per la più assoluta intransigenza. Questa volta, invece, sostiene apertamente che «non si può avere eguale atteggiamento per un uomo insostituibile come Moro». Ma è alla fine di marzo che nelle sedi riservate s´infittisce la discussione sulla possibilità dello scambio tra prigionieri. Annota Giovagnoli: «Le prime reazioni furono possibiliste, specie intorno a Zaccagnini. Tra i favorevoli figura Riccardo Misasi. In seguito il segretario avrebbe accettato il rifiuto dello scambio. Fu probabilmente Piccoli a far rimandare ogni pronunciamento immediato».
Interessante la discussione che parallelamente si svolge a Botteghe Oscure. Seppure uniti nel segno della fermezza, al giudizio assai severo di Cossutta (che critica «la debolezza umana di Moro») reagisce Natta: «È bene non dirle queste cose, perché proprio nel nostro movimento uomini illustri sono stati costretti a terribili confessioni». Controcorrente la posizione di Umberto Terracini, favorevole al dialogo con i brigatisti. Un orientamento divenuto pubblico nel cosiddetto «appello dei vescovi» pubblicato da Lotta Continua.
Nel doppio binario di «tattica possibilista» e «strategia della fermezza» prosegue intanto la linea della Dc, che in un incontro al vertice il 30 marzo rinsalda il patto con il Pci, ma senza mai escludere «qualche contatto» con i terroristi. Passano quattro giorni e in una nuova riunione tra i segretari dei partiti di maggioranza, cui partecipano anche Andreotti e Cossiga, Zaccagnini dice di condividere la linea della fermezza, «ma non su tutto»: il cuore del segretario batte decisamente per la salvezza del prigioniero. Sempre in questa sede, il premier non esclude uno scambio in denaro: nessuno si oppone. Scrive Giovagnoli: «Tutti i leader dei partiti di governo erano dunque favorevoli al pagamento di un riscatto, anche se era evidente che i brigattisti lo avrebbero utilizzato per finanziare ulteriori atti di terrorismo».
Seguiranno di lì a poco i tentativi di mediazione esercitati da Amnesty International - appoggiata segretamente da Fanfani - e soprattutto dal Vaticano, con il sostegno di Andreotti. Più tardi l´appello della Caritas Internationalis, dietro cui si celano Fanfani e il premier. Tutti rimasti senza esito.
La diplomazia sotterranea è destinata a infittirsi ai primi di maggio, dopo la condanna a morte del prigioniero. L´intensa attività di tessitura tra i partiti di maggioranza e soprattutto Bettino Craxi, assurto a paladino della trattativa, ha lo scopo di verificare se vi siano margini per un «atto umanitario»: sempre però evitando il cedimento al terrorismo. Se Craxi invita spavaldamente a rompere con le regole e la legalità - anticipando così un costume che caratterizzerà la «seconda Repubblica», formula usata dallo stesso segretario socialista - i leader dc sembrano più cauti, pur non lesinando ripetuti segnali di apertura: prende corpo il progetto della grazia che il Quirinale è invitato a concedere a un detenuto brigatista. È proprio la mattina del 9 maggio che dalla direzione democristiana sarebbe dovuta arrivare la parola definitiva. Troppo tardi: Moro è già stato ucciso. La tragedia repubblicana ormai compiuta.
Iscriviti a:
Post (Atom)