lunedì 5 gennaio 2004

cultura anglosassone:
dunque la psicoanalisi ha ancora un domani...

Corriere della Sera 5.1.03
LONDRA: UCCISE IL «CORGI» DELLA REGINA
In psicanalisi il cane della principessa Anna


Andrà «in terapia», ma non verrà soppressa, Florence - la zampa assassina di casa Windsor - colpevole di aver ucciso il più amato dei corgi della regina Elisabetta e di aver morsicato una cameriera. La principessa Anna ha così deciso di salvare la vita del suo bull terrier. Non è la prima volta che la secondogenita della regina manda uno dei suoi cani «sul lettino dello psicanalista», per il loro comportamento aggressivo: era accaduto due anni fa, dopo che Dotty, l'altra sua bull terrier, aveva attaccato due bambini nel parco di Windsor riempiendoli di morsi e graffi. La principessa se l'era cavata con una multa da 700 euro e con l'imbarazzo di doversi presentare in tribunale.

Eugenio Borgna:
la psichiatria contro la dittatura delle neuroscienze

La Gazzetta del Mezzogiorno 5.1.04
La psichiatria? Non ha più il sentimento
intervista di GINO DATO


Gli orizzonti di conoscenza e di senso della psichiatria. È questo l'itinerario affascinante nel quale ci conduce Eugenio Borgna nel suo ultimo saggio, Le intermittenze del cuore (Feltrinelli ed.), scritto «nel momento in cui la vertiginosa ascesa e il dilagare delle neuroscienze - esordisce lo psichiatra e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali all'Università di Milano - sembrano svuotare la psichiatria della sua autonoma tematica e della sua ragione d'essere psicologica e umana». Un viaggio nell'anima, che è un ritorno all'umanesimo e alla ricerca dei sentimenti e delle emozioni spesso smarrita nella relazione con il «paziente». Un viaggio che apre una vista sulle ferite ma che schiude il territorio, mai abbastanza esplorato, delle interrogazioni sul mistero della vita. Prima che avanzi il deserto delle emozioni.
Lei sostiene che il discorso delle neuroscienze sta dilagando fino a divorare il senso della psichiatria. Che cosa vuol dire «divorare»?
«Significa annullarla, cancellarla, togliere alla psichiatria il suo oggetto, che è sempre stato un soggetto, cioè la vita psichica, la soggettività dell'altro. Il discorso delle neuroscienze tende a oggettivare, a rendere oggetto, cosa, disturbo neuronale quello che abbiamo sempre considerato come qualcosa di diverso, autonomo, rispetto alla funzione cerebrale».
Che cosa diventa allora la psichiatria?
«Nel discorso delle neuroscienze diventa encefaloiatria: non più psiche, emozioni, anima, ma solo il cervello come espressione unica».
Quali cose le cause di questa deriva, di questo fagocitare la psichiatria da parte delle neuroscienze?
«Dobbiamo premettere che il discorso filosofico delle neuroscienze risale all'800, quando la psichiatria è stata fondata e basata sull'assioma di alcuni grandi psichiatri del tempo, secondo cui le malattie psichiche sono malattie cerebrali. Ne consegue che i disturbi psichici non si confrontano ma sono ontologicamente qualcosa di neuronale».
Le conseguenze?
«Scompare la psichiatria come veniva considerata un tempo. Le neuroscienze hanno portato il discorso su un piano apparentemente fondato su dati empirici dimostrabili. Dall'altro si sono basate sulla scoperta degli psicofarmaci».
Sono molto affascinanti le pagine del suo libro in cui lei rimarca le ragioni del cuore e quelle di una psichiatria che definisce «etica e gentile». Quali sono gli strumenti di questa psichiatria?
«Innanzitutto diciamo che la psichiatria non rifiuta l'approccio neurologico quando i farmaci servono, poiché anche i farmaci servono. Solo che questa psichiatria è la psichiatria della relazione, mentre quella neuroscientifica è quella dell'oggettivazione, individualistica, perché considera che solo all'interno del soggetto nascono i disturbi che chiamiamo mentali-psichici».
Che significa essere in relazione?
«Accogliere quello che gli altri, gli psichiatri, dicono e ci fanno conoscere. Noi cambiamo continuamente solo nella misura in cui siamo in una relazione permanente, continua con gli altri».
Significa dialogare, instaurare il dialogo tra paziente e curante?
«Sì, significa tentare di muoversi sul piano di una asimmetria che tende, come meta ideale, ad essere sempre più una relazione simmetrica. Due persone entrano in gioco senza che la malattia crei squilibri ontologici come quelli che sono invece legati alle opzioni neuroscientifiche, secondo le quali tutto nasce all'interno di una funzionalità malata».
Prima ancora dei farmaci, allora, c'è l'ascolto, l'attenzione. Oso sperare che gli strumenti di questa psichiatria sono anche gli strumenti che aiutano a vivere le persone normali.
«Questa è la sostanza, il nocciolo profondo, di quello che ho cercato di dire. La psichiatria ha cessato di essere soltanto una disciplina manicomiale, si è invece trasformata in maestra di vita».
Perché noi oggi oscilliamo così facilmente tra banalizzazione delle emozioni e deserto dei significati?
«Le emozioni, come ogni esperienza della vita, hanno un aspetto esteriore, di superficie, e uno profondo, relazionale. La prima connotazione, insostenibile, è quella che si pone oggi al centro di infinite trasmissioni televisive».
Dall'altra impera il deserto dei significati. Perché manca quella che lei, con un termine filosofico, chiama la disposizione ermeneutica, la voglia cioè di capire il senso delle cose…
«Cogliere il nocciolo profondo della vita significa interpretare le azioni, i comportamenti, non basarsi solo, non lasciarsi suggestionare dagli aspetti esterni. E cogliere il senso profondo del nostro essere costa molta fatica».
Gli uomini del terzo millennio devono chiedersi se la farmacologia riuscirà ad annullare le emozioni?
«Se impazzisce, se diventa solo interessata a cancellare, a spegnere ogni sentimento, si estenderà il deserto delle emozioni, che, tuttavia, nonostante questo, si ribelleranno».
Perché?
«Perché si nasconderanno nei cuori delle persone creando ulteriori motivi di angoscia e di sofferenza. Il fine che si propongono le neuroscienze, magari involontariamente, è di sterminare i significati dei comportamenti, sterminare le emozioni, per condurre dentro paradigmi di indifferenza comportamentale anche gli aspetti apparentemente psicopatologici, ma invece essenziali, alla vita quali sono i sentimenti, tristezza, inquietudine, solitudine, malinconia. La posta in gioco è grande e tutti - come diceva Pascal - siamo imbarcati».

continua il rilancio dell'Illuminismo:
la biblioteca di Voltaire a San Pietroburgo 1

Corriere della Sera 5.1.04
Alla morte del filosofo francese, nel 1778, i volumi furono acquistati dalla zarina Caterina II di Russia. Finalmente saranno a disposizione del grande pubblico
Voltaire, il tesoro ritrovato
dal nostro inviato ARMANDO TORNO


SAN PIETROBURGO - La piazza Ostrovskij sembra tolta da un manuale di architettura. In mezzo ad essa domina una statua di Caterina II e, alle spalle della sovrana, sorge il Teatro Alessandro: un incanto neoclassico. Si deve al napoletano Carlo Rossi, che nella capitale degli zar passò la seconda parte della sua vita e vi morì nel 1849. A lui è intitolata la via che corre dietro l’edificio, nota per le sue misure perfette: è lunga 220 metri, larga 22 e le costruzioni che la delimitano sono alte tutte 22. L’occhio non sa reggere tanta perfezione e, quasi per rifugiarsi, cerca requie sul palazzo a destra della piazza. Anch’esso di Rossi, ospita la Biblioteca Nazionale della Russia, una delle più grandi al mondo con i suoi 30 milioni di volumi. Vi hanno studiato quasi tutti gli scrittori russi del XIX secolo. Immaginatevi soltanto Gogol o Dostoevskij; pensate che là passò molte giornate anche Lenin. Ma c’è una storia conservata in questa biblioteca che quasi nessuno conosce. Qui sono finiti molti libri appartenuti agli zar, qui sono raccolti quelli che furono di Diderot (Caterina li comperò a suo tempo). E qui, in una sala blindata del seminterrato, è custodita tutta la biblioteca di Voltaire. Ogni volume reca una traccia del filosofo: note, correzioni, ironie così sottili che la lettura trasforma ancora in eleganti insulti (per Rousseau ci mise un particolare impegno). Aprendone anche uno è come mettersi in contatto con l’antico proprietario. Si ha la sensazione che la sua anima sia ancora qui, tra i fogli chiosati con quel sorriso tagliente. Come hanno fatto ad arrivare tra queste mura?
Diremo innanzitutto che la biblioteca di Voltaire fu acquistata da Caterina II e che da pochissimo è stata sistemata nel luogo ricordato. Quando Chirac volle visitarla il 26 settembre 1997, potè soltanto inchinarsi dinanzi a due immensi armadi in cui i 6814 volumi erano ammassati. Ma da quel giorno molte cose sono cambiate. La storia che possiamo raccontarvi per sommi capi non può cominciare nella stanza blindata, ma dovremo recarci a Parigi. Anzi, per prenderci il giusto tempo, nella Parigi del 10 febbraio 1778. Un giorno qualunque, è vero, ma in esso François-Marie Arouet, il filosofo che dal 1718 il mondo conosce con l’anagramma Voltaire, ormai noto come il «Patriarca», giungeva nella capitale francese. Vi mancava da 28 anni e da una ventina risiedeva nel castello di Ferney, in territorio francese, a pochi chilometri da Ginevra.
Ha ormai 84 anni. Le sue lettere sono piene di lamentele per la salute, ma Parigi esulta. Il giorno dopo il suo arrivo riceve 300 visitatori e passa di ovazione in ovazione. Prega il suo fedelissimo segretario, Jean-Louis Wagnière, di inviargli dei libri per la bisogna. Accanto a lui c’è Mme Marie-Louise Denis, sua nipote, ma non solo (Theodore Besterman nel suo fondamentale Voltaire , uscito a Londra nel 1969, dimostra al capitolo XXI che fu anche sua amante). Dopo tanto successo, però, il tempo della sua vita è giunto al termine. Il 30 maggio di quel 1778, un sabato, il filosofo muore.
Forse è errato affermare che morì. La notte successiva, quella del 31 maggio, probabilmente tra le 23 e le 24, una carrozza con sei cavalli abbandonò al galoppo il palazzo che ora sorge tra quai Voltaire 27 e rue de Beaune. Su di essa c’era, appunto, il Patriarca: indossava la sua celebre vestaglia e sul capo aveva la non meno famosa berretta da notte. Un servitore gli stava accanto. Se in quella notte illune qualcuno avesse messo una lanterna davanti al vecchio volto, avrebbe fatto una macabra scoperta: quell’uomo era morto, e per giunta imbalsamato in fretta. Il suo corpo cominciava a emanare fetore. L’autorità religiosa vigilava perché non avesse sepoltura in terra consacrata. Per questo Voltaire era ancora ufficialmente vivo, ma il suo cadavere correva su un tiro a sei in cerca di una tomba. Andare a Ferney non era il caso: il veto stava precedendo il morto ed era naturale che lo colpisse nella sua residenza. Ma ora dobbiamo lasciar correre quella carrozza e occuparci d’altro; ne finiremo il racconto un’altra volta.
Dicevamo di Mme Denis. Aveva assistito gli ultimi mesi dello zio amante con una crudeltà speciale, controllando tutti i fogli che scriveva. Era stata nominata erede universale e voleva impedire che il Patriarca cambiasse idea. Ora c’erano da spolpare quei beni e trasformarli in sicurezza per il resto della vita. In questo inventario la biblioteca non rappresentava la risorsa più forte, ma ad essa era particolarmente interessata la zarina di tutte le Russie. Anche se Mme Denis non era un’aquila, anzi aveva un cervello da gallina, sapeva che per l’affare c’era soltanto da attendere. Si fece vivo, infatti, il barone boemo von Grimm su incarico di Caterina II: l’imperatrice desiderava acquistare i libri e le carte di Voltaire. Chiedeva ogni cosa, comprese le lettere scambiate con il filosofo, i documenti che gli inviò per scrivere la storia di Pietro il Grande, le cifre della sua corrispondenza segreta. Il Patriarca aveva dato in più occasioni consigli politici rilevanti, sino - maggio 1769 - ai tipi di carri da usare per la guerra contro i turchi. Mme Denis intuiva di poter alzare il prezzo.
Ma la notizia del singolare acquisto cominciava a circolare e l’Europa colta chiacchierava. Altri nipoti di Voltaire desideravano non rimanere a becco asciutto e, come usa in questi casi, cominciarono a invocare l’orgoglio nazionale. Il fratello della Denis, un abate, fece comunella con un certo Corberon, il quale mise in piedi una specie di comitato che potè ben poco contro l’intelligente Caterina. L’imperatrice passò per vie diplomatiche e non mollò la presa, ricordando a chi di dovere che un Paese capace di rifiutare una tomba al filosofo non era degno di conservarne l’anima, o meglio la biblioteca. La nipote, dal canto suo, pensò che sarebbe stato meglio escludere una vendita vera e propria. Fece perciò sapere a Grimm che quei libri li avrebbe «regalati» a sua maestà, ma per la stima che le portava avrebbe gradito ricevere un cofanetto prezioso con un ritratto dell’imperatrice e poi, quale ricordo della Russia, diamanti e pellicce.
Caterina finse di ricevere in regalo i tomi di Voltaire che in realtà bramava, stanziò il denaro per i «ricordi» e incaricò Grimm di chiudere la faccenda. Tutto questo possiamo saperlo perché la Denis firmò il 15 dicembre 1778 una ricevuta al barone boemo in cui, dopo aver accettato diamanti e altro, ebbe il pudore di scrivere: «... mi sono assunta il coraggio di offrirgliela in dono (la biblioteca, n.d.r.)». Il più era fatto, ma ora occorreva recuperare i libri rimasti a Parigi e un altro abbondante centinaio di argomento inglese che Voltaire aveva ceduto in vita a un suo sodale, Henri Rieu. Il Patriarca lo chiamava «cher Corsaire»: gli procurava volumi e altro, quindi si trattò quasi certamente di un gesto d’affetto. Caterina non perse tempo e in meno che non si dica sguinzagliò i suoi e trovò quel che mancava a Ferney.
In particolare, incaricò Grimm di sovrintendere e quindi il segretario Wagnière, che con Voltaire aveva stilato un catalogo manoscritto dei libri, di accudire all’imballaggio e di seguirne il trasporto. Ci vollero 12 cassoni. L’itinerario fu stabilito dalla stessa Caterina: dovevano raggiungere Lubecca via Francoforte (qui arrivarono il 16 maggio 1779, indirizzati alla casa commerciale della vedova Ellenschleger); nel porto tedesco avrebbero trovato una nave veloce comandata dal tenente Nicolaj Schubin. Dopo una sosta all’isolotto di Cronstadt, sito nel golfo di Finlandia, la biblioteca giunse a Pietroburgo. Wagnière, intanto, aveva contratto una epatite. Occorrerà ancora qualche mese per rimettere i volumi in ordine. Tra la fine di ottobre e quella dell’anno, il segretario disfece le casse. I libri furono sistemati all’Ermitage, accanto allo studio privato di Caterina. Ella volle che fossero collocati esattamente nelle medesime posizioni che avevano sugli scaffali di Ferney.
Lì rimasero prima onorati e poi tollerati. Durante gli anni del reazionario Nicola I (1825-55), che odiava Voltaire e lo chiamava «vecchio scimmiotto», ci fu anche la minaccia di venderli. Poi, nel 1861, durante il regno di Alessandro II, si decise di trasferire i libri alla biblioteca Saltykov-Scedrin (dopo l’era sovietica diventerà l’attuale Biblioteca Nazionale della Russia), dove furono sistemati in una sala ovale. E qui rimasero sino al 1948, quando si utilizzò lo spazio per altre rarità. Finirono nei due grossi armadi che, come abbiamo ricordato, ebbero l’inchino del presidente francese Chirac. Qualche mese fa ricevettero un altro omaggio: la visita dei primi ministri Raffarin e Kassianov. Ma - correva il 20 giugno 2003 - i volumi erano stati tolti dai vecchi contenitori e si stavano sistemando nella sala blindata di cui abbiamo parlato. Ora questa è diventata il cuore del nuovissimo «Centro studi del Secolo dei Lumi», intitolato «Biblioteca di Voltaire». Rifatti gli armadi dell’Ermitage, ricollocati i libri così come furono a Ferney e come li volle Caterina, tra qualche settimana si comincerà a metterli a disposizione con le preziose chiose su Internet. I primi saranno De l’esprit di Helvetius e la Lettera di Rousseau a Christophe de Beaumont. Ma cosa c’è in quella sala blindata? Innanzitutto l’unica biblioteca integra di un illuminista a noi giunta. E poi storie, idee. Tantissime. Ve la racconteremo la prossima volta.
(1-continua)

Adorno vs Heidegger

La Repubblica 5.1.04
FILOSOFIA
LA MODERNITÀ DI ADORNO BIOGRAFIA INTELLETTUALE DEL NOVECENTO TEDESCO
di FRANCO VOLPI


«Nel giro di cinque anni ridurrò Heidegger a un nulla». Così annunciò Adorno poco dopo il suo ritorno in Germania a una serata in casa di Wilhelm Szilasi, pensatore ungherese amico di Heidegger e suo supplente sulla cattedra di Friburgo dopo la condanna per i trascorsi nazionalsocialisti. Venuto a saperlo, il maestro della Selva Nera tolse il saluto a Szilasi e non lesse più una riga di Adorno. «Non è un filosofo, ma un sociologo», replicava a chi lo punzecchiava in proposito.
Questa dura contrapposizione personale, alimentata da appartenenze culturali e ideologiche incompatibili, ha profondamente segnato la filosofia tedesca del secondo Novecento e le sue due scuole principali: la teoria critica e l'ermeneutica. La cosa singolare è che, scavando dietro le apparenze, si scoprono tra i due affinità sorprendenti. Per esempio la critica dell'idea metafisica di soggetto o la messa in questione della razionalità strumentale e calcolante. Perfino il linguaggio complicato - quello che Adorno denunciava come "gergo dell'autenticità" - li unisce in un'oscurità gemellare.
La biografia intellettuale di Adorno che il sociologo Müller-Doohm ha scritto per il centenario della nascita - tradotta con encomiabile tempestività da Carocci - non fornisce soltanto un'accurata ricostruzione della vita e del pensiero dell´influente maestro francofortese, ma apre al tempo stesso un invitante spaccato sulla storia intellettuale tedesca del Novecento, con la fitta trama di relazioni in cui Adorno operò ed esercitò la sua influenza: dalle amicizie con Alban Berg, Horkheimer, Benjamin e il giovane Lukács, attraverso rischiose aperture a sociologi di destra come Gehlen, fino alle inimicizie fatali non solo con Heidegger, ma anche con Hannah Arendt e Günther Anders. Ne risulta l'affascinante immagine di un Adorno principe del radicalismo intellettuale, ma anche raffinato interprete della modernità e delle sue contraddizioni, capace di inanellare con pazienza gli ardui paragrafi della Dialettica negativa, ma anche di appassionarsi - in Dalle stelle alla terra - per le rubriche astrologiche del "Los Angeles Times". Un testo che si legge d'un fiato.