Italia Sera 20.3.04
Incontro con il musicista Tony Carnevale tra dischi, scuola di musica e un laboratorio per giovani
"Sono solo un compositore che cerca
di regalare emozioni ed esperienze"
Un bellissimo live dal titolo "Live Rock Symphonic Concert", un laboratorio di musica dove imparare il mestiere della musica, una scuola per capire come "maneggiare" ed usare il rock, e tante altre cose. Tony Carnevale musicista romano da tanti anni "on the road" si racconta in questa intervista esclusiva per il nostro giornale.
- Tony per chi non ti conosce vuoi in modo succinto presentarti ai nostri lettori ?
" Mi piace far iniziare la mia attività nel '75 - avevo 15 anni - in un cinema della capitale quando presentai per la prima volta dei pezzi miei con il mio gruppo d'allora . Poi ho fatto tutta un'altra serie di cose fino ad arrivare a quell'occasione veramente importante che è stata la Biennale di Venezia con una colonna sonora per un film sul barocco. Da lì ho iniziato a lavorare per la televisione, realizzando tantissime cose tra le quali la sigla di "Appuntamento al cinema" a cura dell'Anicagis (oggi ancora in onda) poi l'esperienza discografica con Patty Pravo, che ha interpretato due miei brani. Dal 1991 di certo molti mi considerano e mi conoscono per aver pubblicato lavori definiti "progressive", cosa che se da una parte mi fa piacere dall'altra mi sta stretta".
-Difatti la tua recente uscita live tu l'hai definita come "Rock Sinfonico" piuttosto che progressive...
"Esatto, anche se avrei preferito a questa definizione quella di "sinfonismo moderno", ma forse era meno chiara. Cosa vuol dire? Vuol dire che scrivo la mia musica in stile sinfonico, utilizzando strumenti moderni, come la chitarra, la batteria etc. Questi eseguono "parti" precise, con una scrittura polifonica fortemente contrappuntistica, in funzione di un sound generale dove sono tutti protagonisti. Il termine rock sinfonico avvicina gli amanti del rock spesso restii a sentire parlare di musica sinfonica.."
-E comunque il tuo primo lavoro "Risonanze" del '91 è finito in una enciclopedia del progressive brasiliana...
"E' vero, anche se, a mio parere, non c'è una nota "prog" in tutto il disco! Peccato che non ci si poteva permettere un'orchestra vera. Pensa che è stato realizzato interamente con i campionatori"
-Forse qualcuno ti ha sempre definito in questo genere perché hai collaborato con musicisti dell'area prog italiana come ad esempio Francesco Di Giacomo...
"Forse. Del resto,n anche l'ultimo cd - edito lo scorso anno e riguardante un concerto live del '96 - è stato realizzato con alcuni musicisti/amici, ma ti posso assicurare che l'etichetta di musicista prog mi va molto stretta, poiché spesso è usata per indicare solo un determinato periodo storico piuttosto che un genere. E poi io mi sento un compositore che "vive" di musica a 360 gradi" e che a volte fa anche il prog".
-Tony come è nata l'idea di questo disco dal vivo?
"Durante una lezione con i ragazzi del mio "laboratorio di applicazioni industriali della musica" al Conservatorio di Frosinone, portai per una lezione sul recupero delle vecchie registrazioni con le attuali tecnologie un brano dal vivo di un concerto tenuto a Roma. Un allievo esclamò "finalmente ti sento suonare!". Rimasi perplesso anche perché, pur passando diverse ore insieme, mai mi era capitato di suonare davanti a loro. Forse- pensai- ha proprio ragione, pur suonando da tanti anni non avevo mai pubblicato qualcosa dal vivo. Così tirai fuori dal cassetto questa registrazione live datata 1996 ed iniziai a lavorarci sopra...".
-Dunque, un album nato senza nessuna urgenza discografica...
"Sicuramente, ma non solo. La registrazione riguardava un concerto al "Frontiera" di Roma eseguitocon qualcosa come dodici musicisti ! Un super-gruppo nato dopo un concerto per una manifestazione chiamata "Progressivamente" tenutasi quattro anni prima ".
-Perché non l'avevi pubblicata prima?
"Perché in un primo momento dal punto di vista sonoro non mi sembrava un gran che. Così l'avevo messa in un cassetto. Poi, come ti ho detto, tornò nelle mie mani sette anni dopo. Un ricordo particolare che ho di quel concerto è lo stupore dei presenti nel vedere tutti questi musicisti salire e scendere dal palco".
-Già: circa 80 minuti di gran musica dove suoni alcuni brani dei tuoi primi due album e dove proponi anche "Quadri di una esposizione" di Mussorgsky, conosciuta suite messa su disco negli anni '70 anche da Emerson con Lake e Palmer. Come è nata l'idea di rivisitarla?
"E' stata una mia scelta per far capire al pubblico che la musica può essere lo stile che vuoi ma, quando è bella, è bella e basta, anche se scritta cento anni prima. Questa mia versione poi, è stata riconosciuta dalla Siae come semi-originale per cui posso firmare il brano insieme al compositore russo. Questo perché ho tenuto la partitura originale per pianoforte costruendoci attorno una nuova situazione ritmico-sinfonica. Differente poi da quella realizzata da Emerson che ne fece un brano rock eliminando la parte pianistica..."
Un laboratorio
per i giovani
-Passiamo all'esperienza del tuo laboratorio di musica...
"Un laboratorio iniziato nel 2001 presso il Conservatorio "L. Refice di Frosinone": un'esperienza unica e di cui vado fiero. Un progetto dove insieme ai ragazzi, si attraversano tutte le fasi della produzione musicale, dall'idea iniziale al missaggio definitivo. Il tutto si sviluppa sulla base del rapporto con i partecipanti, senza un programma didattico preciso e con la caratteristica dell'imprevedibilità su quello che si andrà a fare, dato che ogni discorso di carattere teorico scaturisce da un problema di carattere pratico/realizzativo. Tutti lavorano sul proprio progetto originale e sui progetti degli altri con uno scambio di reciproche stimolazioni enormi sulle quali mi riservo di intervenire come provocatore e coordinatore. Non bisogna dimenticare che non facciamo libera espressione artistica. Quella la lascio all'individualità, fuori da questo contesto. Al laboratorio si viene per confrontarsi e sviluppare le capacità creative all'interno di un progetto originale: questa è la nostra unicità. Si impara ad essere autonomi, sfruttando le proprie capacità anche nella musica su commissione, per avere i mezzi per produrre i propri progetti senza il ricatto delle case discografiche...."
-Un progetto che poi si è sviluppato con il passare del tempo...
"Esatto. Il laboratorio si è sviluppato poi al di fuori grazie all'Imaie (Istituto per la tutela dei diritti degli artisti interpreti esecutori) che dal 2002 ci sostiene con delle borse di studio che hanno permesso ai ragazzi di realizzare i propri progetti musicali , lavorando in un vero e proprio studio di registrazione. Attualmente il Laboratorio, che intanto ha cambiato nome e si chiama "Centro di produzione di musica originale", ha sede presso il Music Village Institute di Roma dove abbiamo aperto anche una sezione dedicata ad un altro grande esperimento..."
-Beh, a questo punto, un "segreto" che devi rivelarci...
"Ma tanto non è più un segreto in quanto, ad oggi, è una situazione già avviata. E' una sezione nata specificatamente per la realizzazione di un progetto originale da parte di una band o di un gruppo, partendo da quella particolare situazione che è il fare musica originale "a più mani" seguendo un iter che possa comprendere sia la parte creativa/strutturale che quella successiva, cioè quella strettamente pratica con gli "strumenti in mano". Insomma, l'esperimento o la novità, chiamala come vuoi, consiste nel guidare un gruppo rock a fare un disco dall'idea al master definitivo..."
-Ed è forse per questo che, per poter agire liberamente nel tuo lavoro hai fondato anche una etichetta tutta tua?
"Certo. L' "Artonica", questo è il nome, prima era una società, poi ha continuato l'attività grazie a diversi collaboratori che mi aiutano a portarla avanti. Sotto l'egida di questa etichetta, oltre ai miei lavori, ultimamente abbiamo pubblicato il cd di uno dei partecipanti al laboratorio, Paolo Bianchi. Un lavoro nel quale ho riversato tutta la mia esperienza e la mia struttura operativa".
- Un'etichetta per sentirti svincolato da certi meccanismi discografici...
"Esatto. Io mi sono sempre autoprodotto per avere la libertà di fare quello che più mi piace, senza forzature dovute al mercato. Anche quello di dare "voce" ai giovani rientra in questo discorso. Pochi arrivano al successo o semplicemente a fare un disco, e quei pochi devono sempre accettare dei compromessi; non ultimo, quello di snaturare la propria sensibilità musicale".
-Considerazioni che hai tratto su base di esperienze personali?
"Ovviamente: dopo tanti anni e diverse esperienze, ho capito che la più grossa difficoltà per un musicista è quella di riuscire a vivere "materialmente" della propria produzione originale; attenzione: ho detto musicista e non canzonettaro!! Credo che l'Arte raramente riesca a paga re... Del resto, basta guardarsi intorno per capire ciò che dico: mi riferisco a quei musicisti - e ribadisco il termine "musicisti" - bravi e preparati che, per ovvie ragioni, troviamo sì in televisione ma al seguito di orchestre o, in realtà molto modeste, come luoghi o locali di musica live. Di contro invece, sono un'infintà i cosiddetti "personaggi" che (grazie alla politica delle major discografiche), ci vengono quotidianamente propinati da giornali, radio e tv, alla radio e nei dischi; nella maggior parte dei casi parliamo appunto di personaggi ma certamente, non di musicisti. Non tutto quello che suona è musica. A tal proposito, il mio scopo è di preparare i ragazzi ad essere "musicisti" a 360 gradi e, soprattutto, li alleno e a non lasciarsi catturare da facili illusioni. Spiego loro quanto sia difficile campare di musica in senso tecnico, artistico; credo sia fondamentale che smettano di poter pensare di riuscire a vivere facendo soltanto i turnisti. Debbono imparare a sfruttare anche i numerosi "interessi industriali" che ruotano intorno alla musica (dischi a parte), che siano spot pubblicitari, sigle televisive, ecc. Attività collaterali che possono però confluire nelle esigenze personali finanziando le proprie cose: sembra assurdo ma, per ciò che riguarda le mie produzioni potrei scrivere: "realizzato grazie ai canzonettari, a Mediaset, alla RAI" etc.."
-Certo, stando alle tue esperienze, non c'è proprio nulla che permette a chi studia musica di esprimersi completamente senza pressioni esterne?
"Mah, forse il cinema: l'unica oasi felice di tutto il panorama artistico. Ma il problema è arrivarci... La maggior parte degli spazi sono già occupati e, anche qui, se non sei il figlio di quello o di quell'altro, per chi conta è come se non esisti.. Io ho fatto recentemente due colonne sonore, in ordine di uscita "Una bellezza che non lascia scampo" di Francesca Pirani e "A un millimetro dal cuore" di Iole Natoli, due esperienze particolarissime sia per l'importanza che ha avuto in tutti e due i film la musica, sia perché mi sono trovato a lavorare con due donne, e non bisogna mai dimenticare che ogni rapporto artistico è, o dovrebbe essere, anche e soprattutto un rapporto umano, per cui confrontarsi creativamente. In questo caso, lavorare con due donne è stata un'esperienza diversa e importante. Il cinema, quando lo riesci a fare, ti permette di essere un po' più libero di fare musica e, soprattutto, di cambiare: si entra in una storia, si lavora, si conclude e si passa ad un'altra magari di un genere diverso ".
-Sentimenti provati anche realizzando la colonna sonora di uno dei tre episodi del film di Luciano Emmer "L'acqua e il fuoco", con Giancarlo Giannini e Sabrina Ferilli, film presentato alla Mostra di Venezia.
"No. L'esperienza con Emmer è da dimenticare: non voleva un musicista, ma un juke box; non una colonna sonora ma una sonorizzazione più o meno discutibile... ho sofferto le pene dell'inferno ma avevo un impegno contrattuale..."
- Alla fine di questa bella chiacchierata e dopo aver parlato in pratica di tutte le forme di arte musicale che hai toccato, come ti definiresti oggi e come definiresti la tua bella carriera nel mondo della musica?
"Professionalmente mi definirei un compositore; artisticamente cerco di dare emozioni utilizzando i suoni per comunicare un mondo interiore invisibile...anche se spesso costretto ad usare la stessa arte per vivere...speriamo che il futuro porti i cambiamenti necessari alla società umana per poter valorizzare questi "inutili" mestieri che il mondo attuale sta lentamente facendo sparire ...spero tanto che dal mio laboratorio esca una nuova generazione di musicisti.. "
Per quanti volessero avvicinarsi al mondo di Tony Carnevale, consigliamo i seguenti indirizzi: tonycarnevale@libero.it
http://digilander.libero.it/artonica
Edizione n. 334 del 20/03/2004
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 23 marzo 2004
Food and Drug Administration
(se lo dicono loro...)
Adnkronos Lunedì 22 Marzo 2004, 18:09
Depressione: farmaci nel mirino Fda per rischio suicidi
Washington, 22 mar. (Adnkronos Salute) - I medici, ma anche i familiari devono tenere sotto controllo i pazienti che assumono antidepressivi. E' la raccomandazione della statunitense Food and Drug Administration, che sta verificando se questi farmaci aumentano il rischio di comportamenti suicidi. Vanno 'marcati' stretti anche bambini e adolescenti, fra cui il consumo di antidepressivi e' notevolmente aumentato. L'agenzia Usa ha chiesto alle aziende produttrici di modificare le etichette di 10 specialita' medicinali, con avvertenze chiare sulla necessita' di monitorare i pazienti che prendono questi farmaci. (Dam/Adnkronos Salute)
Ansa 22.3.04
PSICHIATRIA: USA, PROZAC PUO' SPINGERE A SUICIDIO SECONDO FDA
(ANSA) - WASHINGTON, 22 MAR - Gli antidepressivi come il Prozac e il Paxil possono spingere al suicidio: lo sospetta la Food and Drug Administration (Fda), l'ente americano per il controllo sui farmaci, che ha chiesto ai produttori di una decina di questi medicinali di pubblicare avvertenze sulle confezioni.
La Fda, che ha indagato soprattutto sugli effetti che gli antidepressivi possono avere sui bambini, chiede che l'avvertenza riguardi anche gli adulti.
L'agenzia americana insiste pero' sul fatto che le conclusioni non sono definitive ma, in attesa dei risultati finali delle inchieste, ha voluto avvertire dei potenziali rischi sia i medici sia i pazienti, hanno indicato oggi a Washington fonti della Fda.
Oltre al Prozac e il Paxil, i medicinali in questione sono Soloft, Effexor, Celexa, Remeron, Lexapro, Luvox, Serzone e Wellbutrin.(ANSA).
Depressione: farmaci nel mirino Fda per rischio suicidi
Washington, 22 mar. (Adnkronos Salute) - I medici, ma anche i familiari devono tenere sotto controllo i pazienti che assumono antidepressivi. E' la raccomandazione della statunitense Food and Drug Administration, che sta verificando se questi farmaci aumentano il rischio di comportamenti suicidi. Vanno 'marcati' stretti anche bambini e adolescenti, fra cui il consumo di antidepressivi e' notevolmente aumentato. L'agenzia Usa ha chiesto alle aziende produttrici di modificare le etichette di 10 specialita' medicinali, con avvertenze chiare sulla necessita' di monitorare i pazienti che prendono questi farmaci. (Dam/Adnkronos Salute)
Ansa 22.3.04
PSICHIATRIA: USA, PROZAC PUO' SPINGERE A SUICIDIO SECONDO FDA
(ANSA) - WASHINGTON, 22 MAR - Gli antidepressivi come il Prozac e il Paxil possono spingere al suicidio: lo sospetta la Food and Drug Administration (Fda), l'ente americano per il controllo sui farmaci, che ha chiesto ai produttori di una decina di questi medicinali di pubblicare avvertenze sulle confezioni.
La Fda, che ha indagato soprattutto sugli effetti che gli antidepressivi possono avere sui bambini, chiede che l'avvertenza riguardi anche gli adulti.
L'agenzia americana insiste pero' sul fatto che le conclusioni non sono definitive ma, in attesa dei risultati finali delle inchieste, ha voluto avvertire dei potenziali rischi sia i medici sia i pazienti, hanno indicato oggi a Washington fonti della Fda.
Oltre al Prozac e il Paxil, i medicinali in questione sono Soloft, Effexor, Celexa, Remeron, Lexapro, Luvox, Serzone e Wellbutrin.(ANSA).
Amartya Sen, premio Nobel:
culture non cristiane
Gazzetta del Sud, martedì 23 marzo 2004
Amartya Sen: «La democrazia degli altri» Non è brevetto occidentale ma un concetto universale
edizioni Mondadori: La democrazia degli altri pagine 88 - euro 10,00
di Carlo De Biase
La democrazia non è un'invenzione occidentale, è un concetto universale. Se l'Occidente se ne appropria commette l'errore di fare dell'imperialismo culturale. È la riflessione del premio Nobel per l'economia Amartya Sen contenuta in «La democrazia degli altri», nel critico momento che sta vivendo la coalizione anglo-americana in Irak, che si è data il compito di «esportare la democrazia». In realtà la riflessione non è inedita perché il libro è costituito da un breve saggio e dal testo di un lungo discorso scritti rispettivamente nel 2003 e nel 1999. Sebbene non recentissima, la riflessione è ugualmente molto attuale. Sen elenca una serie di episodi, innovazioni storiche, emancipazioni culturali e politiche avvenute nel corso dei secoli in paesi come India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni dell'Africa che hanno contribuito alla formazione di coscienze e di un movimento di opinione e pensiero prodromico alla democrazia. Questa, ricorda il premio Nobel, è un concetto dell'antica Grecia, al quale si era giunti grazie anche al contributo di idee che l'ellenismo assorbì dai popoli egizi, iranici e indiani. D'altronde, numerosi sono gli esempi di importanti città asiatiche che nei loro governi incorporarono elementi di democrazia, non nel senso di libere elezioni ma come diversità di dottrine, tolleranza, pluralismo e libera discussione. Gli occidentali non possono arrogarsi il primato della democrazia: Amartya Sen segnala la grande cultura democratica presente nella cultura di molti paesi dell'Africa, anche se poi distorsioni, follie ed equilibri di politica internazionale hanno causato l'affermarsi di orribili dittature militari. Gli imperatori indiani Ashoka (III sec. a.C.) e Akbar (XVI sec.) sono due fari nelle pagine della storia asiatica in quanto a democrazia. Akbar era sul trono mentre in Europa l'Inquisizione dava la caccia alle streghe. La protezione che tantissimi ebrei trovarono nei principi musulmani di Spagna e Arabia contro le persecuzioni fatte dagli occidentali, sono altri elementi a sostegno della tesi di Sen. La democrazia è universale perché sono universali i fattori che la compongono: «l'importanza della partecipazione politica e della libertà nella vita umana, l'importanza strumentale degli stimoli politici per assicurare che i governi siano responsabili e giudicabili di fronte al popolo»; «la formazione di valori e nella definizione di bisogni, diritti e doveri». Ma allora perché questo grande equivoco? «La pratica della democrazia che si è imposta nell'Occidente moderno è in larga misura il risultato di un consenso coagulatosi a partire dall'Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e in particolare nel corso dell'ultimo secolo o poco più – sostiene Amartya Sen –. Vedere in ciò un impegno storico – attraverso i millenni – dell'Occidente verso la democrazia, e contrapporlo alle tradizioni non occidentali sarebbe un grave errore» scrive Sen. Dunque la libertà e la democrazia non sono un'invenzione dell'Occidente e non sono una peculiarità di questi ultimi secoli. «Il sostegno alla causa del pluralismo, della diversità e delle libertà – si legge in un passaggio del libro – si può ritrovare nella storia di molte civiltà. Questa eredità globale è una ragione sufficiente per mettere in dubbio la tesi che la democrazia sia un'idea esclusivamente occidentale». Citando il filosofo John Rawls, Sen rigetta l'idea, che definisce «troppo ristretta e limitata», che il nocciolo della democrazia sia l'esercizio del voto e definisce, in termini più ampi, la democrazia come «l'esercizio della ragione pubblica», o meglio ancora «l'esercizio della liberazione». La libertà e la democrazia, scrive, si realizzano «quando i cittadini deliberano, si scambiano le proprie opinioni e discutono le loro rispettive idee sulle principali questioni politiche e pubbliche». Una specie di moderno agorà globale al cui interno le elezioni «sono solo un modo – benché sicuramente uno dei più importanti – per dare un'efficacia concreta ai dibattiti pubblici». Questa «discussione pubblica», ossia la partecipazione popolare ai problemi di governo, costituisce da sempre, per Sen, il cuore della democrazia ed è un valore che si può ritrovare, non solo nell'Atene di Pericle o nella costituzione americana del 1776, ma anche nella costituzione introdotta in Giappone del 604 d.C., così come nell'India del III secolo a.C. e dell'imperatore buddista Ashoka. A partire da questa premessa, che nel libro diventa il pretesto per un lungo excursus, nel tempo e nello spazio, attraverso i tanti luoghi della «discussione pubblica», Sen riconosce che «è stato nel XX secolo che la democrazia si è imposta come forma normale di governo, alla quale ha diritto ogni Nazione». Ma, al tempo stesso, rifiuta le interpretazioni «monolitiche» di democrazia, le Crociate in nome dell'esportazione di un'unico modello di democrazia. «La pratica della democrazia – scrive in una delle ultime pagine del suo sintetico saggio – che si è imposta nell'Occidente moderno è in larga misura il risultato di un consenso coagulatosi a partire dall'Illuminismo e dalla rivoluzione industriale... Vedere in ciò un impegno storico – attraverso i millenni – dell'Occidente verso la democrazia e contrapporlo alle tradizioni non occidentali (considerate in maniera monolitica) sarebbe un grave errore».
Amartya Sen: «La democrazia degli altri» Non è brevetto occidentale ma un concetto universale
edizioni Mondadori: La democrazia degli altri pagine 88 - euro 10,00
di Carlo De Biase
La democrazia non è un'invenzione occidentale, è un concetto universale. Se l'Occidente se ne appropria commette l'errore di fare dell'imperialismo culturale. È la riflessione del premio Nobel per l'economia Amartya Sen contenuta in «La democrazia degli altri», nel critico momento che sta vivendo la coalizione anglo-americana in Irak, che si è data il compito di «esportare la democrazia». In realtà la riflessione non è inedita perché il libro è costituito da un breve saggio e dal testo di un lungo discorso scritti rispettivamente nel 2003 e nel 1999. Sebbene non recentissima, la riflessione è ugualmente molto attuale. Sen elenca una serie di episodi, innovazioni storiche, emancipazioni culturali e politiche avvenute nel corso dei secoli in paesi come India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni dell'Africa che hanno contribuito alla formazione di coscienze e di un movimento di opinione e pensiero prodromico alla democrazia. Questa, ricorda il premio Nobel, è un concetto dell'antica Grecia, al quale si era giunti grazie anche al contributo di idee che l'ellenismo assorbì dai popoli egizi, iranici e indiani. D'altronde, numerosi sono gli esempi di importanti città asiatiche che nei loro governi incorporarono elementi di democrazia, non nel senso di libere elezioni ma come diversità di dottrine, tolleranza, pluralismo e libera discussione. Gli occidentali non possono arrogarsi il primato della democrazia: Amartya Sen segnala la grande cultura democratica presente nella cultura di molti paesi dell'Africa, anche se poi distorsioni, follie ed equilibri di politica internazionale hanno causato l'affermarsi di orribili dittature militari. Gli imperatori indiani Ashoka (III sec. a.C.) e Akbar (XVI sec.) sono due fari nelle pagine della storia asiatica in quanto a democrazia. Akbar era sul trono mentre in Europa l'Inquisizione dava la caccia alle streghe. La protezione che tantissimi ebrei trovarono nei principi musulmani di Spagna e Arabia contro le persecuzioni fatte dagli occidentali, sono altri elementi a sostegno della tesi di Sen. La democrazia è universale perché sono universali i fattori che la compongono: «l'importanza della partecipazione politica e della libertà nella vita umana, l'importanza strumentale degli stimoli politici per assicurare che i governi siano responsabili e giudicabili di fronte al popolo»; «la formazione di valori e nella definizione di bisogni, diritti e doveri». Ma allora perché questo grande equivoco? «La pratica della democrazia che si è imposta nell'Occidente moderno è in larga misura il risultato di un consenso coagulatosi a partire dall'Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e in particolare nel corso dell'ultimo secolo o poco più – sostiene Amartya Sen –. Vedere in ciò un impegno storico – attraverso i millenni – dell'Occidente verso la democrazia, e contrapporlo alle tradizioni non occidentali sarebbe un grave errore» scrive Sen. Dunque la libertà e la democrazia non sono un'invenzione dell'Occidente e non sono una peculiarità di questi ultimi secoli. «Il sostegno alla causa del pluralismo, della diversità e delle libertà – si legge in un passaggio del libro – si può ritrovare nella storia di molte civiltà. Questa eredità globale è una ragione sufficiente per mettere in dubbio la tesi che la democrazia sia un'idea esclusivamente occidentale». Citando il filosofo John Rawls, Sen rigetta l'idea, che definisce «troppo ristretta e limitata», che il nocciolo della democrazia sia l'esercizio del voto e definisce, in termini più ampi, la democrazia come «l'esercizio della ragione pubblica», o meglio ancora «l'esercizio della liberazione». La libertà e la democrazia, scrive, si realizzano «quando i cittadini deliberano, si scambiano le proprie opinioni e discutono le loro rispettive idee sulle principali questioni politiche e pubbliche». Una specie di moderno agorà globale al cui interno le elezioni «sono solo un modo – benché sicuramente uno dei più importanti – per dare un'efficacia concreta ai dibattiti pubblici». Questa «discussione pubblica», ossia la partecipazione popolare ai problemi di governo, costituisce da sempre, per Sen, il cuore della democrazia ed è un valore che si può ritrovare, non solo nell'Atene di Pericle o nella costituzione americana del 1776, ma anche nella costituzione introdotta in Giappone del 604 d.C., così come nell'India del III secolo a.C. e dell'imperatore buddista Ashoka. A partire da questa premessa, che nel libro diventa il pretesto per un lungo excursus, nel tempo e nello spazio, attraverso i tanti luoghi della «discussione pubblica», Sen riconosce che «è stato nel XX secolo che la democrazia si è imposta come forma normale di governo, alla quale ha diritto ogni Nazione». Ma, al tempo stesso, rifiuta le interpretazioni «monolitiche» di democrazia, le Crociate in nome dell'esportazione di un'unico modello di democrazia. «La pratica della democrazia – scrive in una delle ultime pagine del suo sintetico saggio – che si è imposta nell'Occidente moderno è in larga misura il risultato di un consenso coagulatosi a partire dall'Illuminismo e dalla rivoluzione industriale... Vedere in ciò un impegno storico – attraverso i millenni – dell'Occidente verso la democrazia e contrapporlo alle tradizioni non occidentali (considerate in maniera monolitica) sarebbe un grave errore».
Edoardo Sanguineti
Repubblica ed. di Genova 23.3.04
IL J'ACCUSE
Sanguineti: "Qui si parla e il mondo sta affondando"
«Sembra di essere sul Titanic, a questo convegno, l'orchestrina continua a suonare mentre la nave affonda spaventosamente»: Edoardo Sanguineti lancia il suo "j'accuse" contro "Biologia moderna & visioni dell'umanità". Ieri era seduto nelle ultime file, a Palazzo Ducale, serissimo completo grigio, ironici calzini a righe rosse e gialle. Oggi sarà al tavolo dei relatori, alle 15.15, a discutere di "Fantascienza: prodotto culturale delle scienze della vita". Ma non ci sta, ad assistere a quella che definisce «un'atmosfera da Arcadia», tra filosofi che passano da Cartesio a Habermas. Sul fondo, il basso continuo del tema del convegno: come possono incontrarsi etica, scienza e società? «Qui non si parla di politica - sbotta Sanguineti - mentre tutto ha una radice politica. Anche l'algebra è politica. Nessuno si è posto una domanda cruciale: in quali direzioni politiche si muovono gli scienziati? Siamo nel pieno di conflitti spaventosi e qui ci si trastulla su certi temi, ciascuno chiuso nella propria gabbia disciplinare, mentre il mondo sta affondando».
IL J'ACCUSE
Sanguineti: "Qui si parla e il mondo sta affondando"
«Sembra di essere sul Titanic, a questo convegno, l'orchestrina continua a suonare mentre la nave affonda spaventosamente»: Edoardo Sanguineti lancia il suo "j'accuse" contro "Biologia moderna & visioni dell'umanità". Ieri era seduto nelle ultime file, a Palazzo Ducale, serissimo completo grigio, ironici calzini a righe rosse e gialle. Oggi sarà al tavolo dei relatori, alle 15.15, a discutere di "Fantascienza: prodotto culturale delle scienze della vita". Ma non ci sta, ad assistere a quella che definisce «un'atmosfera da Arcadia», tra filosofi che passano da Cartesio a Habermas. Sul fondo, il basso continuo del tema del convegno: come possono incontrarsi etica, scienza e società? «Qui non si parla di politica - sbotta Sanguineti - mentre tutto ha una radice politica. Anche l'algebra è politica. Nessuno si è posto una domanda cruciale: in quali direzioni politiche si muovono gli scienziati? Siamo nel pieno di conflitti spaventosi e qui ci si trastulla su certi temi, ciascuno chiuso nella propria gabbia disciplinare, mentre il mondo sta affondando».
Grieco: un pezzo di storia del partito comunista in Italia
Gazzetta del Sud 23.3.04
Bruno Grieco: «Un partito non stalinista» Quando il Pci nel 1936 chiamò i fascisti fratelli
edizioni Marsilio pagine 343 - euro 17,00
di Maria Gabriella Giannice
La storia del Partito comunista italiano nel periodo in cui fu responsabile della segreteria Ruggero Grieco, cioè dalla seconda metà del 1934 alla primavera del 1938, è ancora in parte incompleta, infatti per lungo tempo il partito lasciò trapelare poco o nulla (solo nel '66 venne rivelato da Giorgio Amendola che Grieco era stato segretario). A fare un po' di luce interviene oggi il libro di Bruno Grieco che, ricordando la figura politica del padre, dà rilievo ad anni cruciali nei quali il Pci pose le premesse dell'unità nazionale realizzata poi nella Resistenza. La politica della «riconciliazione nazionale», perseguita da Grieco con spirito indipendente nei confronti di Mosca, produrrà alcuni atti significativi: il rinnovo del patto di unità di azione Pci-Psi, i ripetuti contatti con Giustizia e Libertà, gli appelli rivolti ai Cattolici. Fra questi, quello che a molti sembrò il più scabroso, fu l'appello dell'agosto del '36 «Ai fratelli in camicia nera», e ai lavoratori fascisti delusi dal regime di Mussolini. Appello in cui il Pci affermava di far proprio il programma fascista del 1919 e che venne firmato da tutti i dirigenti comunisti, compreso Togliatti, e da numerosi militanti. «Noi comunisti – si legge in quell'appello – facciamo nostro il programma fascista del 1919 che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori». Di seguito si analizzavano i diversi punti del programma: dal salario minimo per gli operai alla nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di munizioni, al suffragio universale che doveva assicurare la partecipazione delle donne alla vita politica, sia come elettrici sia come eleggibili. Il mese dopo, nel settembre del '36, il Comitato centrale del Pci ribadì e mise ulteriormente a punto l'appello. Nella relazione, approvava all'unanimità, la linea della riconciliazione nazionale già indicata da Gramsci, fu ripresa e sviluppata. Il compito, sottolinea l'autore, era di stabilire un giusto rapporto tra l'esigenza di lottare per l'obiettivo di una repubblica democratica e la necessità di operare fraternamente con i vecchi e i giovani fascisti per realizzare il programma del 1919. La relazione affermava che i comunisti erano «disposti a sostenere una qualsiasi riforma politica democratica anche parziale, anche nel quadro del regime attuale – come il programma del 1919 – purché sia voluta dal popolo italiano e corrisponda, nella situazione attuale, ai più vitali e urgenti interessi del popolo italiano». Naturalmente non mancarono le critiche a questa presa di posizione, sia da parte dei socialisti, sia da altri antifascisti. A quelle critiche Grieco rispose: «Attualmente, in Italia, la rivoluzione proletaria non è all'ordine del giorno, lo è la lotta per la libertà e la democrazia (...). Oggi il programma fascista del 1919 è un programma democratico». Nel quadro della politica della «riconciliazione nazionale» il Pci rinnovò nel 1937 il patto di Unità d'azione fra comunisti e socialisti che sconfessava la tesi staliniana del «socialfascismo». E nell'ottobre del '36 il Comitato centrale del Pci rivolse una dichiarazione ai Cattolici, verso i quali – si legge nell'appello – «è animato dalla più grande fraternità e dal più assoluto rispetto». Grieco – come scriveva Amendola – dirigeva il partito con criteri molto aperti, di appello alla collaborazione a tutti e per questo si espose alla critica dell'Internazionale comunista e del Partito comunista sovietico, di scarsa vigilanza. Con l'inizio della guerra Grieco tornò in Russia. Il fatto più grave – ricorda il figlio Bruno – fu che al momento dell'avanzata tedesca fin sotto le porte di Mosca, Grieco fu il solo degli italiani cui venne imposto di rimanere. Tutti i quadri del Comintern, Togliatti compreso, furono trasferiti al riparo dai bombardamenti. «Evidentemente – scrive l'autore – l'idea del Comintern (e quindi di Togliatti) era che l'eventuale morte di Grieco sarebbe stata la logica espiazione per la sua politica "fuori della linea"». Ma anche in questa situazione Grieco si comportò coraggiosamente tanto da ricevere, sciolto il Comintern nel '43, i massimi riconoscimenti del Presidium del Soviet supremo dell'Urss «per la partecipazione eroica alla difesa di Mosca».
Bruno Grieco: «Un partito non stalinista» Quando il Pci nel 1936 chiamò i fascisti fratelli
edizioni Marsilio pagine 343 - euro 17,00
di Maria Gabriella Giannice
La storia del Partito comunista italiano nel periodo in cui fu responsabile della segreteria Ruggero Grieco, cioè dalla seconda metà del 1934 alla primavera del 1938, è ancora in parte incompleta, infatti per lungo tempo il partito lasciò trapelare poco o nulla (solo nel '66 venne rivelato da Giorgio Amendola che Grieco era stato segretario). A fare un po' di luce interviene oggi il libro di Bruno Grieco che, ricordando la figura politica del padre, dà rilievo ad anni cruciali nei quali il Pci pose le premesse dell'unità nazionale realizzata poi nella Resistenza. La politica della «riconciliazione nazionale», perseguita da Grieco con spirito indipendente nei confronti di Mosca, produrrà alcuni atti significativi: il rinnovo del patto di unità di azione Pci-Psi, i ripetuti contatti con Giustizia e Libertà, gli appelli rivolti ai Cattolici. Fra questi, quello che a molti sembrò il più scabroso, fu l'appello dell'agosto del '36 «Ai fratelli in camicia nera», e ai lavoratori fascisti delusi dal regime di Mussolini. Appello in cui il Pci affermava di far proprio il programma fascista del 1919 e che venne firmato da tutti i dirigenti comunisti, compreso Togliatti, e da numerosi militanti. «Noi comunisti – si legge in quell'appello – facciamo nostro il programma fascista del 1919 che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori». Di seguito si analizzavano i diversi punti del programma: dal salario minimo per gli operai alla nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di munizioni, al suffragio universale che doveva assicurare la partecipazione delle donne alla vita politica, sia come elettrici sia come eleggibili. Il mese dopo, nel settembre del '36, il Comitato centrale del Pci ribadì e mise ulteriormente a punto l'appello. Nella relazione, approvava all'unanimità, la linea della riconciliazione nazionale già indicata da Gramsci, fu ripresa e sviluppata. Il compito, sottolinea l'autore, era di stabilire un giusto rapporto tra l'esigenza di lottare per l'obiettivo di una repubblica democratica e la necessità di operare fraternamente con i vecchi e i giovani fascisti per realizzare il programma del 1919. La relazione affermava che i comunisti erano «disposti a sostenere una qualsiasi riforma politica democratica anche parziale, anche nel quadro del regime attuale – come il programma del 1919 – purché sia voluta dal popolo italiano e corrisponda, nella situazione attuale, ai più vitali e urgenti interessi del popolo italiano». Naturalmente non mancarono le critiche a questa presa di posizione, sia da parte dei socialisti, sia da altri antifascisti. A quelle critiche Grieco rispose: «Attualmente, in Italia, la rivoluzione proletaria non è all'ordine del giorno, lo è la lotta per la libertà e la democrazia (...). Oggi il programma fascista del 1919 è un programma democratico». Nel quadro della politica della «riconciliazione nazionale» il Pci rinnovò nel 1937 il patto di Unità d'azione fra comunisti e socialisti che sconfessava la tesi staliniana del «socialfascismo». E nell'ottobre del '36 il Comitato centrale del Pci rivolse una dichiarazione ai Cattolici, verso i quali – si legge nell'appello – «è animato dalla più grande fraternità e dal più assoluto rispetto». Grieco – come scriveva Amendola – dirigeva il partito con criteri molto aperti, di appello alla collaborazione a tutti e per questo si espose alla critica dell'Internazionale comunista e del Partito comunista sovietico, di scarsa vigilanza. Con l'inizio della guerra Grieco tornò in Russia. Il fatto più grave – ricorda il figlio Bruno – fu che al momento dell'avanzata tedesca fin sotto le porte di Mosca, Grieco fu il solo degli italiani cui venne imposto di rimanere. Tutti i quadri del Comintern, Togliatti compreso, furono trasferiti al riparo dai bombardamenti. «Evidentemente – scrive l'autore – l'idea del Comintern (e quindi di Togliatti) era che l'eventuale morte di Grieco sarebbe stata la logica espiazione per la sua politica "fuori della linea"». Ma anche in questa situazione Grieco si comportò coraggiosamente tanto da ricevere, sciolto il Comintern nel '43, i massimi riconoscimenti del Presidium del Soviet supremo dell'Urss «per la partecipazione eroica alla difesa di Mosca».
Chagall a Torino
Repubblica ed. di Torino
Chagall alla Gam un ebreo in rosso
Fiabesco I suoi dipinti accolgono i suoi sogni
La maggior parte dei pezzi esposti proviene dai fondi privati della famiglia, sparsa fra gli Stati Uniti e la Svizzera
Si apre domani al pubblico una mostra con 130 opere, a mezzo secolo da quella a Palazzo Madama inaugurata da lui stesso
di PAOLO LEVI
Dopo mezzo secolo ritorna a Torino un´esposizione dedicata a Marc Chagall (Vitebsk 1887, Saint Paul de Vence 1985). Si era svolta nel 1953 in Palazzo Madama, presente il Maestro coi suoi capelli bianchi, ormai vicino ai settant´anni. Sono circa centotrenta le opere, con datazioni dal 1907 al 1976 presenti alla Gam di Torino (via Magenta n. 31, dal 24 marzo al 4 luglio). L´evento nasce grazie alla collaborazione tra Artificio-Skira, Città di Torino, le fondazioni Crt e Torino Musei. I curatori sono Jean-Michel Foray, di Meret Meyer, nipote di Chagall e Alan Crump, mentre Claudia Beltramo Ceppi Zevi è il direttore di questa mostra di «improvvisi» cromatici eccezionali, di un maestro dalla scrittura tonale fiabesca ed incantevole, dedicata a un mondo ebraico tragicamente scomparso. Opere dove pare sorridere la malinconia di un quotidiano rivelato in chiave di sogno: musicisti in strada, l´autoritratto davanti alla finestra o davanti alla casa, l´amata Bella ripresa sul ponte o di profilo, il carretto dei poveri, il ricordo di una slitta.
L´essere di fede ebraica non gli vietava di rivisitare la Crocifissione dell´ebreo Gesù, con il taled (il manto rituale) che gli copre i lembi. Inedito, in questo caso, Resistenza, Liberazione, Resurrezione, trittico del 1937-1948, dove il Cristo rappresenta dolore e vita in chiave onirica ed immanente. Per certi dipinti di Chagall, ormai familiari, è come risentire e godere un brano di musica classica: ne captiamo sempre nuovi elementi, coinvolgenti, ne L´ebreo in rosso del 1914-?15, ne Lo specchio o La passeggiata del 1917-?18, capolavori provenienti dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo. Altrettanto importante Il pendolo dall´ala blu del 1948, che sarebbe forse piaciuto a Breton perché l´avrebbe interpretato in chiave surrealista. Tra le opere esposte, ricordiamo la gouache e tempera Nel mio paese del 1943, della collezione Gam. La maggior parte dei pezzi provengono dai fondi privati della famiglia, sparsa tra gli Stati Uniti e la Svizzera.
Chagall aveva un grande amore per certi quadri, li teneva per sé come nel caso della splendida raffigurazione del fratello, morto giovane, David con mandolino del 1914, eseguito su semplice cartone perché non aveva i soldi per comprarsi la tela. Ebreo devoto per ciò che riguarda i Comandamenti, Marc Chagall, il cui vero nome era Moisé, seguiva alla lettera la severa disposizione che recita «non ti farai immagine alcuna», contro l´idolatria. Ma siccome la Legge data da Dio a Mosè non vieta all´uomo di trasfigurare i propri sogni in chiave illustrativa e soggettiva, l´artista si comportò di conseguenza. Tutta la sua produzione è un trasfigurare il vivere quotidiano in una leggenda poeticamente intima. Nel 1910, il pittore è a Parigi e conosce, tra i poeti, Apollinaire, Jacob, Cendrars, ma anche i pittori Modigliani e Delaunay. Non ha mai avuto simpatia per Picasso.
Sono anni di ricerca e di esposizioni. Nel 1914 torna in Russia, è scoppiato il primo conflitto mondiale. Nel 1915 sposa l´amata Bella (gli muore tra le braccia negli anni Quaranta, negli Stati Uniti dove erano approdati per salvarsi dal nazismo); nel 1916 partecipa alla Rivoluzione Sovietica: niente costruttivismo, niente realismo. Fanno fede Apparizione, dipinto ad olio del 1917-´18, e il ricordo degli affreschi andati perduti, eseguiti per il teatro ebraico di Granovskij, ricoperti di vernice bianca ai tempi di Stalin, perché non in linea con il realismo socialista. Nel 1922, in rotta con Malevic e il regime, torna nella sua Parigi. Diverrà francese nel 1937. Prima Parigi e poi Vence saranno le sedi dei suoi atelier. Mentre tutte le avanguardie del Novecento sono ormai statiche e datate, curiosamente le opere di Chagall reggono magnificamente perché sono fuori dal tempo e dalla storia, eseguite da un autore senza regole prestabilite, senza che abbia aderito a manifesti programmatici o a parole d´ordine. In questo senso l´evento espositivo torinese ha raggiunto lo scopo. Ne fanno fede anche i lavori d´epoca tarda, dal pigmento ancora vibrante, dal messaggio lirico, devoto di fronte a Gerusalemme, a un mazzo di fiori, a un acrobata, a un violinista, composizioni serene ed azzurre, come il loro autore che era un giusto.
Chagall alla Gam un ebreo in rosso
Fiabesco I suoi dipinti accolgono i suoi sogni
La maggior parte dei pezzi esposti proviene dai fondi privati della famiglia, sparsa fra gli Stati Uniti e la Svizzera
Si apre domani al pubblico una mostra con 130 opere, a mezzo secolo da quella a Palazzo Madama inaugurata da lui stesso
di PAOLO LEVI
Dopo mezzo secolo ritorna a Torino un´esposizione dedicata a Marc Chagall (Vitebsk 1887, Saint Paul de Vence 1985). Si era svolta nel 1953 in Palazzo Madama, presente il Maestro coi suoi capelli bianchi, ormai vicino ai settant´anni. Sono circa centotrenta le opere, con datazioni dal 1907 al 1976 presenti alla Gam di Torino (via Magenta n. 31, dal 24 marzo al 4 luglio). L´evento nasce grazie alla collaborazione tra Artificio-Skira, Città di Torino, le fondazioni Crt e Torino Musei. I curatori sono Jean-Michel Foray, di Meret Meyer, nipote di Chagall e Alan Crump, mentre Claudia Beltramo Ceppi Zevi è il direttore di questa mostra di «improvvisi» cromatici eccezionali, di un maestro dalla scrittura tonale fiabesca ed incantevole, dedicata a un mondo ebraico tragicamente scomparso. Opere dove pare sorridere la malinconia di un quotidiano rivelato in chiave di sogno: musicisti in strada, l´autoritratto davanti alla finestra o davanti alla casa, l´amata Bella ripresa sul ponte o di profilo, il carretto dei poveri, il ricordo di una slitta.
L´essere di fede ebraica non gli vietava di rivisitare la Crocifissione dell´ebreo Gesù, con il taled (il manto rituale) che gli copre i lembi. Inedito, in questo caso, Resistenza, Liberazione, Resurrezione, trittico del 1937-1948, dove il Cristo rappresenta dolore e vita in chiave onirica ed immanente. Per certi dipinti di Chagall, ormai familiari, è come risentire e godere un brano di musica classica: ne captiamo sempre nuovi elementi, coinvolgenti, ne L´ebreo in rosso del 1914-?15, ne Lo specchio o La passeggiata del 1917-?18, capolavori provenienti dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo. Altrettanto importante Il pendolo dall´ala blu del 1948, che sarebbe forse piaciuto a Breton perché l´avrebbe interpretato in chiave surrealista. Tra le opere esposte, ricordiamo la gouache e tempera Nel mio paese del 1943, della collezione Gam. La maggior parte dei pezzi provengono dai fondi privati della famiglia, sparsa tra gli Stati Uniti e la Svizzera.
Chagall aveva un grande amore per certi quadri, li teneva per sé come nel caso della splendida raffigurazione del fratello, morto giovane, David con mandolino del 1914, eseguito su semplice cartone perché non aveva i soldi per comprarsi la tela. Ebreo devoto per ciò che riguarda i Comandamenti, Marc Chagall, il cui vero nome era Moisé, seguiva alla lettera la severa disposizione che recita «non ti farai immagine alcuna», contro l´idolatria. Ma siccome la Legge data da Dio a Mosè non vieta all´uomo di trasfigurare i propri sogni in chiave illustrativa e soggettiva, l´artista si comportò di conseguenza. Tutta la sua produzione è un trasfigurare il vivere quotidiano in una leggenda poeticamente intima. Nel 1910, il pittore è a Parigi e conosce, tra i poeti, Apollinaire, Jacob, Cendrars, ma anche i pittori Modigliani e Delaunay. Non ha mai avuto simpatia per Picasso.
Sono anni di ricerca e di esposizioni. Nel 1914 torna in Russia, è scoppiato il primo conflitto mondiale. Nel 1915 sposa l´amata Bella (gli muore tra le braccia negli anni Quaranta, negli Stati Uniti dove erano approdati per salvarsi dal nazismo); nel 1916 partecipa alla Rivoluzione Sovietica: niente costruttivismo, niente realismo. Fanno fede Apparizione, dipinto ad olio del 1917-´18, e il ricordo degli affreschi andati perduti, eseguiti per il teatro ebraico di Granovskij, ricoperti di vernice bianca ai tempi di Stalin, perché non in linea con il realismo socialista. Nel 1922, in rotta con Malevic e il regime, torna nella sua Parigi. Diverrà francese nel 1937. Prima Parigi e poi Vence saranno le sedi dei suoi atelier. Mentre tutte le avanguardie del Novecento sono ormai statiche e datate, curiosamente le opere di Chagall reggono magnificamente perché sono fuori dal tempo e dalla storia, eseguite da un autore senza regole prestabilite, senza che abbia aderito a manifesti programmatici o a parole d´ordine. In questo senso l´evento espositivo torinese ha raggiunto lo scopo. Ne fanno fede anche i lavori d´epoca tarda, dal pigmento ancora vibrante, dal messaggio lirico, devoto di fronte a Gerusalemme, a un mazzo di fiori, a un acrobata, a un violinista, composizioni serene ed azzurre, come il loro autore che era un giusto.
psicofarmaci ai bambini
Il Tempo sabato 20 marzo 2004
BAMBINI e adolescenti italiani «imbottiti» di anti-depressivi
Nel 2002 si sono registrate oltre 500 mila prescrizioni di questi farmaci, ben 1.600 per pazienti con meno di 18 anni di età.
Eppure non ci sono prove significative che le pillole contro la depressione siano sicure ed efficaci per i più giovani. L'allarme lanciato da un'equipe di ricercatori italiani sul «British Medical Journal».
Secondo lo studio degli specialisti dell'Istituto Mario Negri di Milano, coordinati da Antonio Clavenna, a 1.200 sono stati prescritti inibitori selettivi della ricattura della serotonina (SSRI), una classe di antidepressivi: molti di questi farmaci non hanno l'indicazione per uso pediatrico. L'uso degli SSRI fra i più piccoli è quasi quintuplicato dal 2000 al 2002.
«E continua a crescere - sottolinea Clavenna sul Bmj - nonostante le evidenze di efficacia e sicurezza del trattamento farmacologico contro la depressione in bambini e adolescenti siano insufficienti. Nel nostro Paese le prescrizioni di anti-depressivi per i più giovani sono inferiori rispetto a Usa e Paesi Bassi, ma preoccupano i ricercatori del Mario Negri. Servono studi "ad hoc" e indipendenti - afferma Clavenna - per dare certezze ai piccoli pazienti e alle loro famiglie».
BAMBINI e adolescenti italiani «imbottiti» di anti-depressivi
Nel 2002 si sono registrate oltre 500 mila prescrizioni di questi farmaci, ben 1.600 per pazienti con meno di 18 anni di età.
Eppure non ci sono prove significative che le pillole contro la depressione siano sicure ed efficaci per i più giovani. L'allarme lanciato da un'equipe di ricercatori italiani sul «British Medical Journal».
Secondo lo studio degli specialisti dell'Istituto Mario Negri di Milano, coordinati da Antonio Clavenna, a 1.200 sono stati prescritti inibitori selettivi della ricattura della serotonina (SSRI), una classe di antidepressivi: molti di questi farmaci non hanno l'indicazione per uso pediatrico. L'uso degli SSRI fra i più piccoli è quasi quintuplicato dal 2000 al 2002.
«E continua a crescere - sottolinea Clavenna sul Bmj - nonostante le evidenze di efficacia e sicurezza del trattamento farmacologico contro la depressione in bambini e adolescenti siano insufficienti. Nel nostro Paese le prescrizioni di anti-depressivi per i più giovani sono inferiori rispetto a Usa e Paesi Bassi, ma preoccupano i ricercatori del Mario Negri. Servono studi "ad hoc" e indipendenti - afferma Clavenna - per dare certezze ai piccoli pazienti e alle loro famiglie».
Iscriviti a:
Post (Atom)