Corriere della Sera (22.8.03?)
ELZEVIRO
Il dopo Heidegger
L’ombra del nichilismo
di GIUSEPPE GALASSO
Con il titolo Il nichilismo europeo (ora edito da Adelphi, a cura di Franco Volpi) Martin Heidegger pubblicò come saggio a sé nel 1967, a 78 anni, uno squarcio del suo Nietzsche del 1961. L’emergere del nichilismo nei suoi studi nietzschiani non fu fortuito. Che cosa vuol dire - si chiedeva Nietzsche - «nichilismo»? Che i valori massimi - rispondeva - si svalorizzano. Manca lo scopo, manca la risposta al «perché». Il problema, non nuovo, del senso della tradizione europea era così connesso da Nietzsche con il tema del nichilismo, familiare alla cultura russa del tempo. Manfred Riedel notava che per Nietzsche (di cui non gli sfuggiva il «linguaggio leggero, a volte troppo leggero e vorticoso») l’uomo, «"essenza" temporalmente finita», non può «dare risposte definitive alla domanda sul "che cos’è", niente "verità eterne" come supreme condizioni di tutte le cose che appaiono», come «categorie innalzate a "valori" quali "scopo, unità, essere"». Perciò, neppure il perché del nichilismo ha una risposta. Ne consegue che, «nell’accadere storico della modernità, non si può più identificare l’Europa con l’Occidente e l’Occidente con l’antichità e il cristianesimo». Heidegger riprese il problema di Nietzsche, dice Volpi, quando maturò la sua «attenzione per la negatività che contrassegna l’epoca moderna».
Non era una ripresa innocente. Per Riedel, Heidegger si muove nella scia del Nietzsche «ingannato nella sua speranza di sognatore di un rinnovamento spirituale del Reich di Bismarck». Heidegger, cullatosi in un’analoga «disillusa attesa» del Terzo Reich di Hitler, «rivela così, a partire dal trauma, dopo la metà degli anni Trenta, il sogno della "Germania spirituale"». La sua riflessione sul nichilismo si lega a un «processo di rielaborazione del trauma» attraverso l’idea della «Germania spirituale», una «Germania segreta» contrapposta a quella «ufficiale». Questa porta Heidegger a pensare che «lo spirito non si rivela né "popolare", né "europeo"», e a vederlo, «di fronte alla catastrofe della seconda guerra mondiale», piuttosto, come lo spirito degli abitanti della terra, e quindi come qualcosa di contrario «all’abituale fiducia europea nella ragione e all’ideologia coeva del "sangue" e della "terra"» (l’ideologia del nazionalismo razzistico al culmine nel Terzo Reich). Così, è «lo spirito dell’oikoumene a emergere dinanzi allo sguardo di Heidegger», che con ciò conclude, per Riedel, «la sua traumatica esperienza per rielaborarla in un lungo e faticoso cammino di pensiero e purificarsene infine nella sua opera tarda».
Anche Volpi collega il nichilismo all’esperienza politica di Heidegger, «alla lotta ideologica accesasi nel nazionalsocialismo per la leadership culturale», in cui egli si scontrò con Alfred Rosenberg ed Ernst Krieck. Krieck in particolare gli imputava «un esplicito ateismo e un nichilismo metafisico analogo a quello sostenuto specialmente da scrittori ebrei» e, quindi, «un impulso alla depravazione e dissoluzione del popolo tedesco». Lo studio di Nietzsche e del nichilismo e del rapporto tra metafisica e nichilismo rozzamente associati da Krieck sono la risposta di Heidegger. Ne viene fuori la tesi che «il nichilismo non è solo una spettrale ma contingente ombra che accompagna la storia europea tra Ottocento e Novecento, e che la grande letteratura, specie con Turgenev e Dostoevskij, ha tentato di catturare». Esso è assai di più: «un movimento che inerisce all’essenza stessa della metafisica occidentale». Perciò, secondo Volpi, per Heidegger «Nietzsche e il nichilismo segnalano un destino: il destino di un de profundis dal quale l’umanità pare non essersi ancora risollevata».
Riedel, dunque, vede nelle tesi heideggeriane sul nichilismo una riuscita e purificante evasione dal sogno di una Germania spirituale fallito sia col Secondo che col Terzo Reich. Volpi, più persuasivo, lascia Heidegger nella sua constatazione del de profundis . In entrambi i casi, però, resta il senso di una contestazione e negazione heideggeriana dell’Europa e della sua tradizione speculativa. Ne uscivano con le ossa rotte, oltre le ideologie della terra e del sangue, anche la modernità, l’identificazione europea con la tradizione classica e cristiana, il senso europeo di una storia che angoscia, ma anche libera e promuove. A che vale, allora, scoprire lo spirito dell’oikoumene o degli abitanti della terra come alternativa allo spirito dell’Occidente, all’Europa? Cosmopolitismo contro europeismo? Cosmopoli contro Eurolandia? E con quali pensieri e valori (e, in più, non solo teoretici, metafisici, come in Heidegger)?
Francamente, non vediamo qui una veduta che, oltre a «purificare» Heidegger, apra una vera alternativa all’esperienza europea di cui si canta il de profundis . Vi vediamo, invece, una meditazione e un travaglio di pensiero non superiori a ciò che criticano e negano, ma con prospettive e suggestioni ricche di fascino e di feconda problematicità. Così è, ad esempio, nelle pagine sul nichilismo come svalutazione dei valori supremi e come storia o in quelle sul dominio del soggetto nell’età moderna. Sono pagine che non si dimenticano. Ma proprio in esse ci sembrano, non a caso, operare più forti gli spiriti e le voci di quella tradizione europea di cui si vuol proporre una critica risolutiva.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 22 agosto 2003
Jerry A. Fodor e David Hume
Corriere della Sera (22.8.03?)
A colloquio con il famoso filosofo americano che riscopre in chiave moderna l’empirismo di David Hume
La mente creò gli oggetti. Con un’idea
Con un titolo dal sapore volutamente musicale, Hume Variations, ovvero Variazioni Hume, sta per uscire in libreria, per i tipi della Oxford University Press, l'ultima fatica di Jerry A. Fodor, da circa vent'anni il piu' noto e piu' controverso filosofo, psicologo e scienziato cognitivo. Molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano e pochi sono, anche da noi, gli studiosi e gli studenti di psicologia e di filosofia della mente che non li abbiano assiduamente frequentati, magari ammirandoli, o, magari, tentando di demolirli. Il «New York Times», alcuni mesi or sono, ha scritto che la presenza di Fodor nell'area newyorchese ha grandemente contribuito a far nascere una «Atene sullo Hudson», cioè un polo filosofico senza uguali al mondo. Attualmente professore alla Rutgers University, nel New Jersey (a un tiro di autobus da Manhattan, dove abita), Fodor si e' formato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), dove ha poi insegnato per oltre vent'anni, spalla a spalla con il celeberrimo linguista Noam Chomsky.
Stancatosi, infine, di discutere fino a notte inoltrata, nell'area di Boston, soprattutto a Harvard e al MIT, con una legione di insigni colleghi, sedotto dalla prospettiva di tornare a vivere a New York, avendo, oltretutto, trovato un appartamento a pochi metri dal suo diletto teatro d'opera, il Metropolitan, accettò, nel 1986, l'offerta di trasferirsi alla Rutgers University e di ivi rafforzare la collaborazione con i suoi principali colleghi e spesso co-autori Ernest LePore e Zenon Pylyshyn.
Dotato di una mente collimata e penetrante come un laser e di uno straordinario senso dell’umorismo che rende divertenti anche i suoi libri più austeri, Fodor ha continuato a svolgere il ruolo di enfant terrible, creando attorno a sè una minoranza di seguaci (alla quale mi onoro di appartenere) e una larga maggioranza di feroci critici, con i quali perennemente incrocia la spada. «A Boston - mi dice Fodor - quando si iniziava una discussione filosofica, si andava avanti per ore e ore. Qui a New York, per fortuna, dopo un po', l'uno o l'altro guarda l'orologio e si scusa di dover andar via, dato che ha i biglietti per il Metropolitan». Ma difficilmente, penso, lo lasceranno ora in pace, biglietti o no, con il suo eterodosso saggio su Hume.
Come mai questa strana scelta? David Hume (1711-1776) è uno dei padri fondatori della filosofia empirista, e Fodor, da bravo razionalista, si era ripetutamente scagliato, in passato, contro le tesi centrali non solo di Hume, ma di ogni psicologia di stampo empirista. La sua risposta e' fulminea: «Hume mi interessa perché è stato il primo pensatore a porsi come obiettivo esplicito una teoria psicologica basata sui fatti e sull'esistenza di genuine rappresentazioni mentali. Lui le chiamava idee, noi li chiamiamo concetti, ma quello che conta è che, sia lui che noi, ammettiamo che esistano dei contenuti mentali, che vi siano dei veri oggetti del pensiero e che le idee semplici siano innate».
Gli chiedo, allora, dove risiede la differenza. Fodor va dritto al nucleo della questione: «Secondo Hume, ogni immagine mentale trae origine dai sensi (vista, udito, tatto), ed è un po' come un quadro visto con gli occhi della mente. Inoltre, per Hume, il pensiero e' dominato dalle associazioni mentali. Basta togliere via queste due ipotesi, cioè che le idee siano delle pitture mentali e che le associazioni guidino il pensiero, e otteniamo una teoria perfettamente accettabile». Fodor si affretta ad aggiungere, con ammirazione, che Hume ha il grande vantaggio di essere sempre molto chiaro e di renderci facile vedere dove ha sbagliato e come correggerlo.
Fodor ha smantellato in molti modi, tutti a mio avviso persuasivi, il ruolo centrale un tempo attribuito alle associazioni mentali nella costruzione delle conoscenze umane, dal bambino all'adulto. Gli chiedo come, oggi, riassumerebbe le ragioni essenziali della sua feroce inimicizia per le associazioni mentali.
In sintesi, mi risponde che le associazioni mentali, per loro intima natura, non sono guidate da criteri di verità, ma solo da criteri superficiali di prossimità e di similitudine. Quando tali criteri sono meno superficiali, allora dobbiamo farli emergere e spiegarli, rinunciando alla speranza che le associazioni costituiscano esse stesse una spiegazione.
Un fatto fondamentale della nostra psiche è che i pensieri portatori di verità conducono molto spesso ad altri pensieri che sono, per lo più, anch'essi portatori di verità. L'associazionismo non può spiegare questo fatto. Abbiamo dovuto aspettare circa due secoli, dopo Hume, per cominciare a capire che la spiegazione va essenzialmente cercata nelle proprietà sintattiche del pensiero, non nelle associazioni mentali.
I pionieri di questa svolta sono stati il compianto matematico inglese Alan Mathison Turing (artefice sommo della logica astratta degli automi razionali, intorno al 1935) e Noam Chomsky (artefice sommo della teoria della sintassi universale delle lingue umane, dal 1953 ad oggi).
A colloquio con il famoso filosofo americano che riscopre in chiave moderna l’empirismo di David Hume
La mente creò gli oggetti. Con un’idea
Con un titolo dal sapore volutamente musicale, Hume Variations, ovvero Variazioni Hume, sta per uscire in libreria, per i tipi della Oxford University Press, l'ultima fatica di Jerry A. Fodor, da circa vent'anni il piu' noto e piu' controverso filosofo, psicologo e scienziato cognitivo. Molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano e pochi sono, anche da noi, gli studiosi e gli studenti di psicologia e di filosofia della mente che non li abbiano assiduamente frequentati, magari ammirandoli, o, magari, tentando di demolirli. Il «New York Times», alcuni mesi or sono, ha scritto che la presenza di Fodor nell'area newyorchese ha grandemente contribuito a far nascere una «Atene sullo Hudson», cioè un polo filosofico senza uguali al mondo. Attualmente professore alla Rutgers University, nel New Jersey (a un tiro di autobus da Manhattan, dove abita), Fodor si e' formato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), dove ha poi insegnato per oltre vent'anni, spalla a spalla con il celeberrimo linguista Noam Chomsky.
Stancatosi, infine, di discutere fino a notte inoltrata, nell'area di Boston, soprattutto a Harvard e al MIT, con una legione di insigni colleghi, sedotto dalla prospettiva di tornare a vivere a New York, avendo, oltretutto, trovato un appartamento a pochi metri dal suo diletto teatro d'opera, il Metropolitan, accettò, nel 1986, l'offerta di trasferirsi alla Rutgers University e di ivi rafforzare la collaborazione con i suoi principali colleghi e spesso co-autori Ernest LePore e Zenon Pylyshyn.
Dotato di una mente collimata e penetrante come un laser e di uno straordinario senso dell’umorismo che rende divertenti anche i suoi libri più austeri, Fodor ha continuato a svolgere il ruolo di enfant terrible, creando attorno a sè una minoranza di seguaci (alla quale mi onoro di appartenere) e una larga maggioranza di feroci critici, con i quali perennemente incrocia la spada. «A Boston - mi dice Fodor - quando si iniziava una discussione filosofica, si andava avanti per ore e ore. Qui a New York, per fortuna, dopo un po', l'uno o l'altro guarda l'orologio e si scusa di dover andar via, dato che ha i biglietti per il Metropolitan». Ma difficilmente, penso, lo lasceranno ora in pace, biglietti o no, con il suo eterodosso saggio su Hume.
Come mai questa strana scelta? David Hume (1711-1776) è uno dei padri fondatori della filosofia empirista, e Fodor, da bravo razionalista, si era ripetutamente scagliato, in passato, contro le tesi centrali non solo di Hume, ma di ogni psicologia di stampo empirista. La sua risposta e' fulminea: «Hume mi interessa perché è stato il primo pensatore a porsi come obiettivo esplicito una teoria psicologica basata sui fatti e sull'esistenza di genuine rappresentazioni mentali. Lui le chiamava idee, noi li chiamiamo concetti, ma quello che conta è che, sia lui che noi, ammettiamo che esistano dei contenuti mentali, che vi siano dei veri oggetti del pensiero e che le idee semplici siano innate».
Gli chiedo, allora, dove risiede la differenza. Fodor va dritto al nucleo della questione: «Secondo Hume, ogni immagine mentale trae origine dai sensi (vista, udito, tatto), ed è un po' come un quadro visto con gli occhi della mente. Inoltre, per Hume, il pensiero e' dominato dalle associazioni mentali. Basta togliere via queste due ipotesi, cioè che le idee siano delle pitture mentali e che le associazioni guidino il pensiero, e otteniamo una teoria perfettamente accettabile». Fodor si affretta ad aggiungere, con ammirazione, che Hume ha il grande vantaggio di essere sempre molto chiaro e di renderci facile vedere dove ha sbagliato e come correggerlo.
Fodor ha smantellato in molti modi, tutti a mio avviso persuasivi, il ruolo centrale un tempo attribuito alle associazioni mentali nella costruzione delle conoscenze umane, dal bambino all'adulto. Gli chiedo come, oggi, riassumerebbe le ragioni essenziali della sua feroce inimicizia per le associazioni mentali.
In sintesi, mi risponde che le associazioni mentali, per loro intima natura, non sono guidate da criteri di verità, ma solo da criteri superficiali di prossimità e di similitudine. Quando tali criteri sono meno superficiali, allora dobbiamo farli emergere e spiegarli, rinunciando alla speranza che le associazioni costituiscano esse stesse una spiegazione.
Un fatto fondamentale della nostra psiche è che i pensieri portatori di verità conducono molto spesso ad altri pensieri che sono, per lo più, anch'essi portatori di verità. L'associazionismo non può spiegare questo fatto. Abbiamo dovuto aspettare circa due secoli, dopo Hume, per cominciare a capire che la spiegazione va essenzialmente cercata nelle proprietà sintattiche del pensiero, non nelle associazioni mentali.
I pionieri di questa svolta sono stati il compianto matematico inglese Alan Mathison Turing (artefice sommo della logica astratta degli automi razionali, intorno al 1935) e Noam Chomsky (artefice sommo della teoria della sintassi universale delle lingue umane, dal 1953 ad oggi).
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