l'articolo che segue è stato ripubblicato il giorno dopo da Liberazione, il quotidiano del PRC, integralmente, senza tagli né commenti
La Repubblica Sabato 27 Gennaio 2003
Condanna dei gulag, non violenza assoluta: la lunga marcia del segretario di Rifondazione
Dal proletariato ai no global la Bad Godesberg di Bertinotti
In articoli e convegni l'allontanamento dal solco della tradizione comunista
Il segretario nega ogni volontà di abiura, ma recide i legami con l'ideologia
La "scoperta" delle foibe: "Anche da parte dei giusti, soppressione di umanità"
di GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Anche abbandonare una storia, rimanere comunisti di nome ed esserlo sempre meno di fatto, è una lunga marcia. E lenta, e problematica, a volte noiosa nello sforzo di essere una cosa seria, non una «svolta» da annunciare in tv e basta. Fausto Bertinotti scrive, risponde, puntualizza, corregge spostando sempre un po' più in alto l'asticella, magari solo di qualche centimetro alla volta ma a lui sembra l'unico modo per saltarla davvero. Niente abiure, nel frattempo continuiamo a dirci comunisti, avverte. Si può? Lui dice di sì, declinando in maniera nuova il concetto, la storia, contagiandola con la realtà. È una Bad Godesberg allungata, una corsa a tappe, non uno sprint, che si arricchisce ogni giorno di ragionamenti, lettere, interviste, convegni, di tante «svolte». È il «confronto delle idee» nel solco dell'unica parte della tradizione comunista, quella intellettuale, che il segretario di Prc ha deciso di salvare. Ovviamente il comunismo è stato qualcosa di più del confronto delle idee. È stato culto, ideologia, «religione», si è fatto tragicamente Stato per milioni di uomini. E qui il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua deve lentamente ma inesorabilmente venire giù.
In questi ultimi due anni, Rifondazione ha scattato alcune nuove fotografie della storia comunista condannando il massacro di Kronstadt e i gulag, «15-20 milioni di persone sterminate». Cancellando dal suo Statuto i richiami allo stato leninista e agli insegnamenti di Gramsci. Rileggendo la Resistenza «per lavorare sui nostri errori». Scoprendo le foibe e ammettendo che sono state per tanto tempo «minimizzate». Impegnandosi quindi a sciogliere il legame con il '900 e scegliendo l'adesione a una logica totalmente non-violenta della politica. Non caso Bertinotti ha «ripudiato» gli episodi più cruenti della storia comunista. L'approdo è quello del pacifismo assoluto, è il suo indirizzo offerto ai movimenti, alla piazza, ai no global.
Durante il cammino, la domanda è sempre stata la stessa: bene, allora siete pronti a cambiare nome, ad abbandonare la «ragione sociale» comunista? Anche la risposta di Bertinotti è rimasta uguale: «Noi siamo comunisti». Ma con mille punti interrogativi, critici, problematici. Non quelli del secolo scorso. Oggi il comunismo di Bertinotti è un «processo aperto e indefinito», come ha scritto in una lunga lettera di risposta a Adriano Sofri sull'Unità. Una definizione di per sé rivoluzionaria visto che il comunismo non aveva niente di indefinito, era regola, disciplina, autoritarismo. Basta rileggere, 64 anni dopo, Buio a mezzogiorno di Koestler. Se è così, se il comunista di oggi dev'essere tanto diverso da quello di ieri per stare nel mondo del terzo millennio, Sofri chiede al segretario di Prc se sia giusto usare la falce e martello solo come bandiera o nostalgia. Bertinotti parla di nuovi obbiettivi, di un cambio di soggetto politico dal proletariato al «movimento dei movimenti». Ma alla fine allarga le braccia: «Non saprei come chiamare questo compito se non comunismo».
Eppure sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome. Viene reciso il cordone ombelicale con l'ideologia, con il «grande cambiamento promesso» nel nome del quale il comunismo ha perpetrato i suoi «orrori». Nell'intervista a Repubblica sul dibattito aperto da Sergio Segio a proposito delle possibili infiltrazioni Br nel movimento, Bertinotti ha usato le forbici della memoria: «Non mi appartiene più il Brecht che diceva: Vogliamo un mondo gentile ma per averlo non possiamo essere gentili». Oggi la scelta non può essere altra che respingere ogni atto di violenza». Dopo quelle parole ha aperto un confronto con Marco Revelli e Paolo Mieli sui rapporti tra comunismo e violenza politica. E ha rialzato l'asticella organizzando a metà dicembre a Venezia un convegno sulle foibe, «minimizzate», esempio di come anche «dalla parte dei giusti c'è stata oppressione e soppressione di umanità», l'occasione per «estirpare la violenza entrata in noi». Quell'appuntamento ha celebrato anche rivisitazione di alcuni passaggi che il comunismo italiano aveva trasformato in bandiere indelebili. «C'è stata un'angelizzazione della Resistenza. Sarà pure un problema se Pavese scrive del suo orrore per il sangue e Pintor ci racconta del ribrezzo per le armi», ha detto a Venezia il leader di Prc. E lì ha unito gulag, lotta di liberazione italiana, il massacro di migliaia di italiani per mano dei partigiani fedeli a Tito, per condannarli, per «non giustificarli». Lo ha fatto nel nome dell'anticomunismo? No, lo ha fatto perché è «comunista davvero».
Il travaglio personale e collettivo è accompagnato da una prudente ed elaborata «operazione politica», il lento avvicinarsi ai movimenti, soggetto politico che «non ha niente a che vedere con la storia del '900», diffidente verso i partiti, verso il Palazzo, verso il passato compreso quello comunista che fu più partito di tutti fino a trasformarsi in partito-stato. Nel collegamento con la piazza l'iconografia comunista appare dunque un peso e quello spazio lasciato libero dall'uscita di scena di Sergio Cofferati candidato a Bologna va guidato con parole d'ordine chiare (la non violenza) ma con il massimo di apertura e indefinitezza. La prossima tappa è dietro l'angolo: il 10 e l'11 a Berlino Rifondazione, i comunisti francesi, gli spagnoli di Izquierda unida e il Pds tedesco firmano un protocollo d'intesa per le elezioni europee. Si presenteranno con i loro simboli ma sotto l'insegna di «partiti della sinistra alternativa». Dopo il crollo della statua, vacilla anche la targa, il richiamo al comunismo.
oggi Martedì 30 su Liberazione:
Quell'articolo di "Repubblica"
su comunismo e rifondazione
Caro direttore, sono rimasto sconcertato dall'articolo apparso su "La Repubblica" di sabato 27 dicembre ("Dal proletariato ai no global, la Bad Godesberg di Bertinotti") e ancor più sconcertato dal fatto che "Liberazione", il giorno dopo (28 dicembre). abbia ripubblicato lo stesso articolo senza un filo di commento. Goffredo De Marchis, l'autore dell'articolo, è abile nel far emergere la sua verità: e cioè che il Prc avrebbe intrapreso una sua "lunga marcia" per fuoriuscire dal comunismo ("Sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome"). Sono affermazioni pesantissime, secondo le quali i militanti e gli elettori del Prc non si troverebbero di fronte ad un cambiamento di linea politica, ma di fronte ad un avanzato processo di cancellazione della natura politica e teorica del loro partito, e cioè di fronte ad un nuovo tentativo di superamento, in Italia, del Partito comunista. A questa "elaborazione" de "La Repubblica" (che già svolse un ruolo centrale nella cancellazione del Pci) occorreva rispondere, denunciando la strumentalizzazione che sale ancora una volta dalle pagine di una testata anticomunista. Quando si ripropone un articolo così pesante di un'altra testata, senza decodificarlo e criticarlo, si rischia di inviare ai propri lettori un messaggio oggettivo, che è, tradizionalmente, questo: «è un articolo importante, che vi proponiamo per farvi riflettere». Poiché sono convinto che non è questo il messaggio che "Liberazione" voleva inviare, sono anche convinto che sia stato fatto solo un errore nel pubblicarlo così nudo e crudo. Un errore che però va corretto, rispondendo chiaramente a De Marchis e, per la verità, anche a tutti i compagni e le compagne sconcertati e inquietati.
Fosco Giannini
Caro Sandro, devo dirti che fa un certo effetto rileggere il giorno dopo sulle colonne del giornale del partito l'articolo di Repubblica su "la lunga marcia del segretario di Rifondazione", dove viene attribuito a Fausto Bertinotti l'impegno defatigante e anche un po' noioso di «rimanere comunista di nome e di esserlo sempre meno di fatto». L'approdo di un comunismo del terzo millennio che sfuma in un processo aperto e indefinito, segnato dal lento avvicinamento ai movimenti, e verso il pacifismo assoluto… Immagino che i commenti e forse la replica dell'interessato verranno i prossimi giorni. Non credo che si tratti di una questione personale di Fausto, ma della descrizione deformata e tradotta nel politichese imperante, di una questione che riguarda tutto il partito e le sue scelte congressuali e post congressuali. Nella sostanza si tratta né più né meno della rifondazione per cui è sorto il nostro partito, con l'apporto fin dall'inizio di forze politiche e intellettuali che non avevano aspettato la caduta del muro per esprimere una critica profonda e radicale del socialismo reale. E non mi riferisco solo a chi si richiamava esplicitamente alle tradizioni eretiche del comunismo novecentesco, ma anche alle esperienze di provenienza sessantottina, alle culture maturate nel crogiuolo che è stata la sinistra sindacale negli anni sessanta e settanta, all'elaborazione innovativa di settori della sinistra comunista e socialista italiana, da Lelio Basso ad Aldo Natoli, da Pietro Ingrao al "manifesto", al dissenso di matrice cristiana. Anzi c'è da meravigliarsi, in un certo senso, che sotto l'urgenza delle esigenze di una politica di resistenza, un progetto di ripensamento radicale dell'eredità novecentesca e di progettazione innovativa di un nuovo pensiero comunista abbia tardato a decollare e a uscire dall'ambito di elaborazioni puramente intellettuali. Certamente è stato il movimento dei movimenti che ha creato le condizioni e fatto emergere la necessità di un ripensamento complessivo non più rinviabile. Ed è certamente merito di Rifondazione oggi, del suo ultimo congresso, e del suo segretario, di aver posto questo ripensamento come un atto politico concreto da perseguire non solo in Italia, ma a livello internazionale, almeno nell'orizzonte di una sinistra alternativa europea di cui si avverte drammaticamente la necessità e la mancanza...
Domenico Jervolino
risponde Sandro Curzi, direttore di Liberazione:
A noi l'articolo di De Marchis è parso interessante: non un testo "veritiero" o "condivisibile", ma appunto un documento giornalistico sul Prc e le sue scelte attuali, che valeva la pena di far conoscere anche ai nostri lettori. Com'era ovvio, "La Repubblica" ha fornito la sua interpretazione di parte, nella quale non si distingue tra «abiura» (magari con annesso cambiamento di nome) e «rifondazione» di nuova cultura comunista - forse neppure si capisce la differenza. Dovevamo corredare l'articolo di una presa di distanza? Specificare che non si trattava, da parte nostra, di una "assunzione" acritica? Ma il testo conteneva alcune affermazioni di Fausto Bertinotti che non davano adito ad alcun dubbio sulla qualità, il senso e la portata del percorso che il Prc ha intrapreso, del resto da molti anni. Anche per questo abbiamo evitato un'operazione che sarebbe suonata pesantemente pedagogica, e ci siamo fidati delle autonome capacità critiche dei nostri compagni e dei nostri lettori. Cogliamo l'occasione per ribadire che "Liberazione" spesso pubblica (o ripubblica) testi di un certo interesse politico, analitico o giornalistico, che sono da noi condivisi solo parzialmente: non solo in omaggio a principi liberali e pluralisti, ma al dato di fatto che il mondo (compreso quello di sinistra) «è molto più grande di quanto non ne contenga la nostra filosofia».