martedì 26 aprile 2005

una segnalazione di Tonino Scrimenti

solo per la zona di Roma

Questa sera alle ore 21

Carlo Patrignani

sarà ospite di Telesalute (canale 59)
e presenterà il nuovo numero della rivista, l'Aula Magna di sabato 30
e il video


"La psichiatria esiste?"
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L'immortalità del prof. Boncinelli

L'Arena Lunedì 25 Aprile 2005
Presentato alla Letteraria il volume di Edoardo Boncinelli e Galeazzo Sciarretta, edito da Cortina, che sta conquistando i lettori, «anche se pochi hanno davvero voglia di vivere di più»
L’immortalità

Sta avendo molto successo il libro di Edoardo Boncinelli e Galeazzo Sciarretta che "dimostra", scienza alla mano, che sarà possibile vivere più a lungo. Verso l'immortalità? La scienza e il sogno di vincere il tempo: dietro il titolo fantascientifico c'è un resoconto aggiornatissimo sulla ricerca e sulle sue possibili applicazioni future. Un racconto di grande godibilità, con un filo di ironia, come ha detto Alberto Battaggia, presidente della Letteraria, nel presentare gli autori, accompagnati dall'editore Raffaello Cortina, nel corso di una presentazione del volume alla Società Letteraria, in una sala gremita di pubblico.
Si è detto soddisfatto l'editore, che ha potuto arrivare in classifica con un buon libro, e per di più di due scienziati italiani. Sciarretta, veronese, ha illustrato quattro strategie per vincere la morte, dalla cura delle malattie fino a interventi sempre più sofisticati sul genoma per contrastare la senescenza del corpo, ma soprattutto della mente.
Per la prima volta - ha ricordato Boncinelli - la scienza ha compreso il meccanismo dell'invecchiamento, che si verifica perché alla Natura non interessa quello che accade dopo l'età riproduttiva. Si invecchia per logoramento, per decadimento dei meccanismi di riparazione, i quali sono regolati da geni, mentre altri geni "tengono il conto" delle moltiplicazioni cellulari. Ora siamo in grado di intervenire su quei geni, e in tal modo potremo allungare considerevolmente la vita. Stiamo parlando di spostare la morte, non certo di eliminarla. Nelle discussioni intorno a questo libro - constata lo scienziato - quasi nessuno ha detto: "che bello vivere di più!". "Se potessimo reincontrarci fra cinquant'anni, sarebbe interessante sapere quante cose si sono, nel frattempo, avverate, ma anche quale diverso atteggiamento avrebbe la gente". (l. f.)

il tempo delle chimere?

La Stampa 26 Aprile 2005
«SONO I MOSTRI DEL XXI SECOLO». «SI APRE UNA NUOVA ERA PER LA MEDICINA»
Cocktail di Dna per l’era delle chimere
«Ecco i test con gli ibridi un po’ animali e un po’ uomini»
Gabriele Beccaria

I suoi sogni sono gli incubi di molti altri. Il professor Irving Weissman sta progettando il primo mostro del XXI secolo, un topolino dotato di cervello umano al 100%. Al momento, nel suo laboratorio alla Stanford University, California, studia il comportamento del vispo fratellino-prototipo, che sta benissimo e vanta una mente già all’1% umana, ottenuta con l’inserimento di una piccola dose di neuroni di sapiens sapiens nell’embrione animale.
E’ soltanto questione di tempo per riuscire a colmare il 99% mancante. Intanto siamo già entrati nell’«Era delle Chimere» oppure - come lo definisce la pattuglia degli entusiasti - nel «Rinascimento Biologico». Sia come sia, al professor Weissman e a tanti altri colleghi il riso giapponese dotato di un gene del nostro fegato appare un successo scontato. Dopo quella tra regno vegetale e regno umano, l’ultima linea da valicare e mescolare furiosamente, come in un sogno o in un incubo, è proprio la sacra frontiera tra animali ed esseri umani, creando nuove generazioni di creature ibride, terrificanti perché impensabili secondo le rigorose leggi dell’evoluzione.
Così, mentre vengono accusati di «giocare a fare Dio», loro si divertono un mondo: «loro» - bollati come neo-blasfemi - sono un’élite di scienziati sparsi per tutti i continenti, ben oltre i classici templi della scienza di matrice occidentale. E infatti, a dimostrazione di quanto gli equilibri globali siano in vorticoso mutamento, c’è il luogo della «creazione numero uno»: l’ha realizzata un team cinese di Shanghai, che nel 2003, per la prima volta, ha oltrepassato la fatidica linea, fondendo cellule umane con cellule di coniglio: le hanno fatte sviluppare per alcuni giorni prima di distruggerle per ricavare un mucchietto di staminali, disponibili per ulteriori (e non meglio precisati) test. Da allora a oggi, in meno di 24 mesi, americani e inglesi hanno rilanciato la sfida, dando vita a maialini con sangue umano e a pecore con fegati e cuori geneticamente modificati in modo da essere prossimi ai nostri.
Fatto a pezzi il tabù, e confermata la fattibilità delle spericolate manipolazioni del Dna di specie diverse e incompatibili, si continua con altri esperimenti e si aprono scenari via via più vertiginosi. Negli Usa si discute della possibilità di ideare lo «humanzee», il tremendo incrocio tra uomo e scimpanzé, che produrrebbe, a seconda dei punti di vista, una scimmia con intelligenza e personalità vicine alle nostre oppure un orrido sub-umano, destinato a quei compiti pericolosi o ripetitivi che nessuno dei suoi ideatori accetterebbe mai di eseguire. Peggio del Golem o di Frankestein, che di colpo appaiono ingenua fantascienza da fumetto.
I sogni-incubi sbocciano nel grande vuoto legislativo internazionale e solo adesso l’americana «National Academy of Sciences» sta elaborando un insieme di linee-guida per regolamentare un settore che sta mandando all’aria 4 mila e più anni di credenze religiose e di principi etici. Per i «Signori del Dna» tutto è possibile, anche un altro tremendo scenario immaginato da David Magnus, direttore del Centro di Bioetica di Stanford: «Cavie geneticamente manipolate potrebbero produrre seme e uova umani, che, fertilizzati in vitro, genererebbero un bambino. Così quel bambino avrebbe genitori animali!».
Chi «gioca a fare Dio» ribatte che, oltre i facili sensazionalismi, si apre un’epoca d’oro per la medicina e quindi per la salute di milioni e milioni di persone: grazie alle chimere si studierà in presa diretta l’evoluzione di malattie oggi inguaribili, in primo luogo Alzheimer e Parkinson, si testeranno nuovi farmaci e si ingegnerizzeranno tessuti e organi, creando riserve illimitate e sicure per i trapianti. «Salveremo tantissime vite», ha dichiarato di recente Weissman, proprio negli stessi giorni in cui i detrattori, approfittando del centenario della morte di Jules Verne, ricordavano la sua lugubre profezia sui mostri metà animali e metà umani contenuta nell’«Isola del Dottor Moreau».

le bambine soldato in Africa

Corriere della Sera 26.4.05
Un rapporto di «Save the Children» accusa i leader del mondo: mancano i fondi e i programmi di aiuto
Rapite e stuprate, sono 120 mila le bambine soldato
Se riescono a tornare a casa vengono trattate come prostitute e cacciate via
Monica Ricci Sargentini

Hawa ha otto anni quando i ribelli la portano via dal suo villaggio, nella Sierra Leone. Per otto mesi diventa «la moglie» di uno dei soldati. «Non mi sentivo bene - racconta - mi faceva male la pancia, sempre. Forse perché ero piccola, non avevo ancora le mestruazioni». Riesce a fuggire, ma quando torna al suo villaggio si accorge che l’inferno che ha subìto non la abbandonerà più: «Quando ho incontrato le mie sorelle è stato molto triste: mi discriminavano perché ero stata stuprata». Zaina, 14 anni, viene violentata da un soldato congolese mentre sta andando a scuola. Torna a casa in lacrime e la famiglia la caccia di casa: «Mi chiesero come avevo potuto accettare quello che mi era successo». Aimerance, 14 anni, viene convinta da un’amica a unirsi a un gruppo armato della Repubblica democratica del Congo. Di giorno combatte, di notte viene stuprata dai soldati: «Ogni volta che volevano, venivano e facevano sesso con noi. Gli uomini erano così tanti. Arrivavano uno dopo l’altro. Noi eravamo lì solo per fare quello che volevano. Anche se ti rifiutavi, ti prendevano lo stesso». Hawa, Zaina, Aimerance. Storie uguali a tante altre. Sono 120mila le bambine rapite o vendute a gruppi armati. Schiave sessuali, soldati, spie, cuoche, donne delle pulizie. In tutto il mondo. 6.500 in Uganda, 12.000 nella repubblica democratica del Congo, 21.500 nello Sri Lanka. Un piccolo esercito «invisibile» dimenticato dalla comunità internazionale. Eppure sono il 40% dei 300mila bambini soldato utilizzati nelle guerre. Save the children ha deciso di ascoltare le loro voci per capire come aiutarle a superare l’orrore e a reinserirsi nella comunità. Nel rapporto «Le vittime dimenticate delle guerra, le bambine nei conflitti armati», pubblicato in Gran Bretagna, l’organizzazione riesce, per la prima volta, a fornire dati, cifre e racconti di un fenomeno finora ignorato. «La maggior parte delle ragazze che riesce a scappare - spiega Mike Aaronson, responsabile di Save the Children in Gran Bretagna - non trova la giusta assistenza perché non ci sono programmi pensati per le bambine. Quelle che ce la fanno a tornare a casa vengono spesso emarginate dalla famiglia e dalla comunità perché sporche, impure, immorali».
L’attuale programma di «disarmo, rilascio e reinserimento», coordinato dall’UNDP (il programma di sviluppo delle Nazioni Unite), dalla Banca Mondiale e dall’UNDPKO (il dipartimento per il mantenimento della pace delle Nazioni Unite) punta soprattutto al recupero delle armi e al rilascio dei ragazzi rapiti, mentre la fase di reinserimento viene affidata all’Unicef o a delle Ong che, però, non hanno i fondi necessari. Il risultato è che le bambine rimangono tagliate fuori. Nella repubblica democratica del Congo sono solo il 2% dei bambini inseriti nel programma di Save the Children . In Sierra Leone il 4,2% delle piccole combattenti è seguito da un’Ong. «Quando la gente pensa a un conflitto armato - spiega Aaronson - si immagina sempre uomini impegnati in sanguinosi combattimenti, ma sono le ragazzine la faccia orribile e nascosta della guerra».
Le bambine-soldato chiedono aiuto alla comunità internazionale. Desiderano che qualcuno faccia capire alla loro famiglia che sono state costrette a fare quello che hanno fatto. Implorano assistenza medica e psicologica, anche per i figli che spesso nascono dagli stupri. E la possibilità di studiare per costruirsi una professione. Soprattutto non vogliono essere trattate come delle prostitute. «La gente del mio villaggio - racconta Rose, liberiana - ha reso la mia vita molto difficile quando sono tornata a casa. Non posso stare con le persone della mia età. Mi trattano male perché ho un bambino. Per loro sono una prostituta e temono che possa incoraggiare le loro figlie. Nessuno mi parla».

Usa: anabolizzanti e ragazze

Ap 26.4.05
USA/ ANCHE TRA LE ADOLESCENTI E' EMERGENZA STEROIDI L'obiettivo è apparire con l'aspetto atletico delle modelle

New York, 26 apr. (Ap) - L'uso di steroidi e di ormoni maschili non sarebbe più soltanto un fenomeno limitato al mondo dello sport, ma anche un metodo sempre più in voga tra le ragazze americane per perdere peso ed acquistare un aspetto "atletico", come quello delle modelle. E' questa la conclusione dell'ultima inchiesta sugli abusi degli adolescenti statunitensi, svolta con cadenza annuale dalla University of Michigan.
Secondo il docente Lloyd Johnston, che ha guidato il gruppo di ricercatori, "si è verificata una brusca impennata nell'uso di steroidi tra i giovani durante gli anni '90 ed ora si è raggiunto un vero e proprio picco".
Circa il 5% delle ragazze che frequentano scuole superiori ammettono di aver assunto anabolizzanti almeno una volta. Il motivo non sarebbe quello di migliorare le prestazioni sportive, come accade agli atleti, ma di migliorare l'aspetto. Gli steroidi contribuiscono infatti a conferire tonicità muscolare e a ridurre il grasso corporeo, ma hanno anche gravi controindicazioni, tra le quali problemi legati allo sviluppo sessuale, depressione e paranoia. Secondo i ricercatori, ricorrerebbero agli anabolizzanti soprattutto le ragazze affette da disturbi dell'alimentazione.

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sinistra
Occhetto e Rifondazione

Corriere della Sera 26.4.05
Il leader che volle il cambio di nome del Pci pensa a un’intesa con gli «scissionisti» ora guidati da Bertinotti
Achille Occhetto tentato da Rifondazione comunista
di Maria Teresa Meli

ROMA - L’ultimo fugace rapporto con il partito che ha inventato data al febbraio scorso. Congresso Ds, Piero Fassino lo chiama per invitarlo alle assise, lui accetta, ma poi si ritrova confinato nel palco delle delegazioni accanto a Ignazio La Russa. In quell’occasione Achille Occhetto seppe celare amarezza e dispiacere. Anche perché quel che ormai lo divide dalla Quercia non è un grumo di personalissimi rancori (che pure c’è), ma una distanza politica che man mano si è fatta sempre più grande. Tanto da produrre uno di quei paradossi della politica che, a tutta prima, potrebbero stupire. Cioè, il riavvicinamento di Occhetto a Rifondazione comunista. Ossia a quel partito che nacque dalla scissione con la Quercia, contro la svolta dell’allora leader del Pds.
Ma da quell’epoca molte cose sono cambiate. Oggi Occhetto ha spiegato anche pubblicamente, e non solo nei conversari con i più fidati amici, che la situazione è mutata.
Già, quel che è diventata la Quercia assomiglia sempre meno, secondo Occhetto, alla creatura politica che lui aveva immaginato alla Bolognina. Anche per questo - oltre che per il cambiamento radicale impresso a Rifondazione da Fausto Bertinotti - le distanze con gli "avversari" di allora si sono accorciate. «Io - è stato sempre il rammarico di Occhetto rispetto alla Quercia nuova versione - pensavo a una svolta a sinistra e non a questo riformismo tiepido». Perciò adesso l’ex segretario del Pds guarda verso altri lidi. «Non ho problemi - è stato il ragionamento che è andato facendo in questi giorni Occhetto - a ritrovarmi anche con chi in momenti cruciali ha avuto posizioni diverse dalle mie perché tutti dobbiamo sentire il dovere di colmare un’assenza, l’assenza di una sinistra degna di questo nome». E infatti adesso l’inventore della Quercia dice con gran tranquillità che la «svolta» compiuta da Fausto Bertinotti nel suo ultimo congresso «è rilevante». Di più: «Il segretario del Prc - ha osservato l’ex leader della Quercia - ha posto delle questioni che mi sembrano avvicinarsi alle posizioni che, in una diversa visione generale, mi spinsero all’iniziativa che prese il nome della Bolognina».
E il fatto che Occhetto paragoni la sua «svolta» a quella operata dal leader del Prc non può lasciare indifferenti. Del resto, anche Rifondazione versione Bertinotti è molto diversa da quella a cui diede vita Armando Cossutta, dopo che l’ondata occhettiana si era abbattuta sul Pci. Dunque dopo Pietro Ingrao, ecco un altro esponente della Quercia che sembra preferire Rifondazione al suo partito d’origine. Ma, naturalmente, pensare che Occhetto possa aderire al Prc come ha fatto, per esempio, Pietro Folena che, da un giorno all’altro, ha detto addio ai Ds ed è entrato nel gruppo di Rifondazione comunista della Camera come indipendente, sarebbe sbagliato. Senza contare che sarebbe fare un torto a chi inventò la Quercia.
Però la direzione di marcia è quella. E Occhetto ha avuto modo di spiegare più volte quali sono i suoi intendimenti. «La domanda da porre adesso a Bertinotti - è stato il succo della sua riflessione - è se l’innovazione che ha messo nel cantiere del partito, per la quale ha condotto un confronto anche duro con le minoranze, resta un fatto interno oppure si proietta all’esterno». E’ una domanda, ben inteso retorica, a cui l’ex leader della Quercia ha già fornito una risposta: «Io credo che la svolta del congresso dovrebbe essere messa a disposizione di un processo di riorganizzazione della sinistra». Insomma, secondo Occhetto, «sarebbe un errore», per Bertinotti e per il suo partito, non aprirsi all’esterno, anche perché «produrrebbe una grave contraddizione tra le novità strategiche e la struttura organizzata che invece manterrebbe i caratteri del passato».
Dunque, l’idea è quella di una sorta di patto federativo tra partiti, associazioni e movimenti della sinistra. La creazione di quella che, per semplificare, Occhetto chiama «un’area». In questo modo, attraverso il gruppo del Cantiere da lui presieduto, l’ex leader del Pds potrebbe federarsi con Rifondazione, trovare una forma più soft di adesione. Un modo meno indolore di dare l’addio definitivo al suo partito d’origine. Il traguardo finale, comunque, non è stato raggiunto. C’è ancora del lavorìo da fare. E va fatto sotto traccia. Perché è chiaro che l’avvicinamento di Occhetto a Rifondazione non passerebbe inosservato. Né tra i Ds, che ne subirebbero un contraccolpo, né tra le file del Prc, partito, in questo momento, come non mai diviso, e dove gli ex cossuttiani, ancora legati ai vecchi riti comunisti, potrebbero prendere a male l’idea di un’alleanza con colui che abbattè il Pci.
Ma è anche nell’interesse di Bertinotti allargare l’area della sinistra e non ritirarsi dentro la ridotta di Rifondazione. Tanto più dopo il risultato non appagante delle elezioni regionali. «C’è una difficoltà», ha ammesso lo stesso leader del Prc ai suoi. Difficoltà acuita dalle fibrillazioni interne al partito. Visibili soprattutto a livello locale. Nella scelta dei gruppi dirigenti periferici, infatti, Bertinotti è stato costretto a scendere a patti con le minoranze. E’ successo a Torino, per esempio, e accadrà molto probabilmente anche in Lombardia. E’ chiaro quindi che il segretario di Rifondazione che ha finora snobbato gli altri partitini della sinistra, dovrà comunque riallacciare rapporti e creare una "rete". Ovviamente dopo le elezioni. Partendo da quel che il leader del Prc ha sempre messo al primo posto. Ovvero i programmi. «E i programmi dovranno essere una nostra discriminante», è stato l’avvertimento di Bertinotti ai suoi. Avvertimento che anche Romano Prodi sarà costretto ad ascoltare. E sui programmi tra il leader del Prc e l’ex segretario della Quercia c’è grande sintonia. Come c’è sintonia sull’obiettivo finale di una sinistra che incida sulla coalizione spostandone il baricentro. Bertinotti, come Occhetto, si rende conto che, però, per raggiungere questa meta occorre mettere in campo più forze. Occorre unirle e farle lavorare insieme. Anche perché Rifondazione con i suoi 35-40 deputati rischia di essere ininfluente nella prossima legislatura, se la vittoria di Prodi sarà più ampia.
Ma c’è un modo per evitare questa deriva. Unire la sinistra, per dirla con Occhetto. Bertinotti lo direbbe in altro modo, più prolisso e suggestivo, probabilmente, ma quel che conta è la sostanza. E la sostanza riporta al discorso di Occhetto. Unire la sinistra. Intanto anche quella che c’è in Parlamento. Già, perché oltre ai deputati di Rifondazione comunista ci saranno quelli (una ventina, all’incirca, se verrà rispettata la percentuale congressuale ottenuta da questa componente) del Correntone, poi i Verdi, e, infine, anche quelli del Pdci che saranno costretti a mettere una pietra sopra ai vecchi dissapori con Bertinotti. Una pattuglia di tutto rispetto, una pattuglia che potrebbe effettivamente spostare il baricentro dell’Unione. «Per colmare», come chiede Occhetto, «l’assenza di una sinistra degna di questo nome».

spudorata arroganza Usa

L'Unità 26 Aprile 2005
Calipari, per gli Usa ha sparato un solo soldato
Il Pentagono: la raffica dei colpi partita dallo stesso uomo che con l’altra mano ha sollevato la torcia
Negli atti della commissione congiunta le tesi care al Pentagono, che conferma: nessun procedimento contro i nostri soldati. Il contrasto con gli italiani
«Non c’è stato agguato: tutta colpa di Calipari»
Gli americani si assolvono

Andrea Purgatori

ROMA L'inchiesta della Commissione congiunta Usa-Italia sulla uccisione di Nicola Calipari è conclusa. Niente affatto condivisa nella parte finale delle valutazioni e condivisa invece nel capitolo dei fatti o della somma dei fatti. Anche se, dal punto di vista italiano, limitatamente alla constatazione che si tratta di un assemblaggio tecnico di dati non omogenei, che semmai ribadiscono l'esistenza di una doppia ricostruzione non convergente dell'incidente.
I fatti propongono rivelazioni sconcertanti su ciò che è accaduto la sera del 4 marzo scorso.
Una su tutte. Secondo il Pentagono, a sparare contro la Corolla su cui si trovavano la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, l'agente C del Sismi (al volante) e il direttore della Divisione Operazioni all'estero, sarebbe stato uno solo dei militari in servizio al Checkpoint 504 sulla strada dell'aeroporto. Un soldato che, con la sinistra, ha alzato e acceso un faro che ha accecato la Corolla e, con la destra, ha fatto partire una raffica dal fucile mitragliatore. Dunque, niente avvisi luminosi dai sette mezzi militari dislocati al posto di blocco, nessun reticolato di filo spinato, come normalmente avviene per segnalare i checkpoint della coalizione, ma solo una grossa torcia elettrica del peso di circa tre chilogrammi accesa all'improvviso e poi gli spari. La giustificazione americana per il «fuoco amico» poggia tutta sulla velocità attribuita alla Corolla. Secondo il Pentagono, 50 miglia orarie ovvero 80 chilometri l'ora (con regole d'ingaggio che prevedono una prima segnalazione di alt a 130 yard e, in caso di mancato arresto, l'apertura del fuoco contro il vano motore del veicolo a 65 yard). Una versione contestata dagli italiani, anche sulla base della testimonianza dell'agente C del Sismi, il quale ha affermato che la velocità «non poteva essere superiore a 40/45 chilometri l'ora» anche perché si trovava a metà di una curva e ha «arrestato il mezzo nello spazio di uno, due metri». Ma in quel momento il fuoco era stato già aperto. Dice ancora l'agente C: «Mentre frenavo ho udito l'esplosione di numerosi colpi di arma da fuoco...ho avuto la sensazione che a sparare fossero diverse armi automatiche». Sulla bassa velocità concorda anche il verbale di Giuliana Sgrena. L'agente C è un ufficiale che aveva fatto quella strada decine di volte, anche con altri ostaggi appena liberati. A operazione conclusa e a 600 metri dall'aeroporto, non avrebbe avuto alcun motivo di forzare un posto di blocco alleato.
Anche sul numero dei proiettili sparati non si va molto al di là delle ipotesi. Una dozzina, sulla base del conteggio dei fori sull'auto effettuato dagli americani (vetri esclusi, sono andati in pezzi), che però secondo gli italiani sembrano esplosi da direzioni diverse. Il fatto è che l'auto è stata sì esaminata dai componenti della Commissione, ma la perizia balistica è stata effettuata dai soli esperti americani, per giunta su una scena purgata di tutti i possibili riferimenti necessari a stabilire traiettorie dei proiettili e posizione dei mezzi. L'esame della «scena del crimine» è uno snodo che ha creato grande attrito. Già nella notte della sparatoria, gli americani avevano provveduto a ripulire la strada e a rimuovere i mezzi militari coinvolti, rendendo impossibile una ricostruzione condivisa dei fatti. I successivi sopralluoghi sono stati virtuali e anche rischiosi (in un caso, da un cavalcavia è stata lanciata una granata sugli esperti, che ha ferito un americano a una gamba e solo per un caso non ha provocato altre vittime).
Per capire come stanno le cose sul piano tecnico/diplomatico, bisogna ricordare che la decisione di associare gli italiani all'inchiesta (il ministro plenipotenziario Ragaglini e il generale Campregher) è stata presa quando già era partita l'indagine del Criminal Investigation Detachment della terza Divisione di fanteria dell'esercito degli Stati Uniti in base alla procedura 1/56, un protocollo investigativo militare molto rigido che lascia pochissimi spazi di manovra. Nell'interrogatorio di un militare, ad esempio, la sequenza delle domande è prestabilita e, in caso di risposta insufficiente o di incomprensioni conseguenti alla sua formulazione, non è possibile ripetere il quesito.
Di fondo c'è poi da registrare il braccio di ferro interno all'amministrazione americana. Il Dipartimento di Stato, su sollecitazione della Casa Bianca, avrebbe preferito chiudere la faccenda la notte stessa della sparatoria con la formula del «tragico incidente» e tante scuse. Anche la Cia era schierata su questa linea (si appresta infatti a consegnare una medaglia alla memoria a Nicola Calipari).
Il Pentagono invece ha dovuto tenere conto degli umori delle proprie forze dislocate sul campo. E la gestione da parte americana della Commissione (affidata ai generali Vines e Vangjiel) è stata tutt'altro che tenera. Ne sa qualcosa Giuliana Sgrena. Quando l'hanno interrogata, hanno cercato di metterla in difficoltà sostenendo che non era in una situazione psicologicamente favorevole o che senza occhiali non aveva potuto vedere come erano andate le cose. Salvo sentirsi replicare con determinazione dalla giornalista del Manifesto: «Ero perfettamente lucida e ci vedevo benissimo».
La Commissione italiana ha formalmente chiesto che al comportamento di Nicola Calipari, che ha protetto Giuliana Sgrena col proprio corpo salvandole la vita, fosse attribuito nella relazione l'aggettivo «eroico».
Il risultato, l'effetto che una conclusione condivisa nei fatti ma non nelle valutazioni (opzione A) piuttosto che un freddo comunicato nel quale si dà conto della fine delle indagini congiunte e basta (opzione B, che gli americani vorrebbero evitare a ogni costo), sta nell'esiguo margine di mediazione politica rimasto tra Roma e Washington. Ma il Pentagono, già ieri sera, ha fatto sapere che in ogni caso i militari americani «non sono imputabili» perchè hanno «rispettato le consegne» e quindi e nei loro confronti non ci sarà alcun procedimento disciplinare.
Da parte italiana, il lavoro collaterale di sostegno alla Commissione, ha portato alla preparazione di un dossier nel quale viene documentata dall'aprile 2003 a oggi la morte di centinaia di persone (in gran parte civili iracheni, anche donne e bambini) uccise ai checkpoint americani in situazioni analoghe a quella in cui ha perso la vita Nicola Calipari. Sulla necessità di andare in fondo a questa storia, alleanza o no, la struttura militare e dei servizi segreti che opera in Iraq è compatta e si aspetta dal governo italiano che la politica non faccia sconti alla verità dei fatti. Niente di più, niente di meno.