domenica 30 maggio 2004

il film di Incerti su Marco Bellocchio

Repubblica, ed. di Napoli 30.5.04
CINEMA
Il nuovo lavoro del regista: "Stessa rabbia stessa primavera"
Incerti racconta gli anni ribelli "Film dedicato a Bellocchio"
di ANTONIO TRICOMI


Generazioni a confronto. Stefano Incerti presenterà il suo nuovo film Stessa rabbia stessa primavera il 19 giugno al "Napoli Film Festival". Si tratta di un lavoro interamente dedicato a Marco Bellocchio: dopo l´anteprima napoletana, il documentario uscirà in dvd insieme a Buongiorno notte, ultimo lavoro del maestro emiliano. Bellocchio sarà anche il produttore del prossimo film di Incerti, che il 38enne regista napoletano ha appena cominciato a scrivere e sul quale osserva il più stretto riserbo.
Come nasce, Incerti, l´idea di Stessa rabbia stessa primavera?
«Mentre Bellocchio girava Buongiorno notte, i produttori Dario Formisano e Sergio Velone mi chiesero se ero interessato a realizzare un making of, uno di quei documentari che si girano sui set dei film. Accettai a patto che il lavoro evolvesse in un progetto più complesso, in cui a partire da Buongiorno notte si potesse raccontare l´opera del maestro attraverso alcuni suoi film e la rievocazione del clima storico da cui erano ispirati».
Per esempio?
«L´opera prima di Bellocchio, I pugni in tasca, si dice abbia anticipato il ?68: le immagini di quel film sono montate insieme a materiali di repertorio sui moti studenteschi di quegli anni. Lo stesso accade per Matti da slegare e il movimento dell´antipsichiatria, Marcia trionfale e i casi di nonnismo in caserma, Buongiorno notte e il terrorismo degli anni '70».
Una rilettura della storia recente del nostro paese?
«Non solo. Ci sono anche pagine più intime. Quasi nessuno sa che più di vent´anni fa il fratello gemello di Bellocchio si suicidò. Subito dopo Marco girò il film Gli occhi la bocca, segretamente ispirato a quel doloroso episodio. Il segreto lo ha rivelato per la prima volta davanti alla mia telecamera, in lacrime: mi ha chiesto di tagliare quel passaggio e io lo stavo facendo, ma poi lui stesso ci ha ripensato. E´ una delle sequenza più forti del mio film».
Chi le ha ispirato il titolo?
«Da un verso di Fabrizio De André, contenuto nella canzone che conclude il suo disco più politico, Storia di un impiegato. Mi sembrava il titolo più adatto per un omaggio a un regista sessantenne che ha più rabbia e freschezza di tanti suoi giovani colleghi».
Con Capuano, Corsicato, De Lillo e Martone lei ha firmato nel '97 il film a episodi I vesuviani: un´esperienza che ripeterebbe?
«Anche subito. Allora la cosa non andò benissimo, la Mikado che distribuiva il film decise di mandarlo in concorso alla Mostra di Venezia contro la nostra volontà. E si sa, i film a episodi a Venezia non hanno mai avuto fortuna. Oggi a vivere a Napoli siamo rimasti soltanto io, Capuano e Corsicato: il primo sta preparando un nuovo film, mentre so che il secondo è in pausa di riflessione. Ma, dovessero verificarsi le condizioni, io sono disponibile a nuove intese».

su L'espresso in edicola:
colloquio con Marco Bellocchio

una segnalazione di Dina Battioni

L’Espresso n.22 anno L, in edicola
Cultura
Ciak, è tornata l’avanguardia

“Dopo Mezzanotte”, “Radio West”, “La spettatrice.
Il cinema italiano riscopre il film d’autore.
E il regista dei “Pugni in tasca” l’analizza e gli dà le pagelle
colloquio con Marco Bellocchio di Alessandra Mammì


Sì. Qualcosa è cambiato. All’improvviso è scomparso l’aggettivo carino che aveva invaso cronache e recensioni. Qualcosa è davvero cambiato nel nuovo cinema d’autore italiano. Se non altro siamo usciti dalla carineria...
Parola di Marco Bellocchio che non apprezza molto la “carineria”. Ma apprezza invece molte di quelle opere prime e seconde che hanno coniato un’altra definizione: la rinascita del film d’autore italiano. Opere a volte bizzarre, a volte a bassissimo budget, altre provocatorie. Piccoli film che conquistano il pubblico, trovano sale che li difendono e soprattutto raccontano storie nostre. Come la poetica cinefilia del guardiano del museo del cinema di Torino, una sorta di Quasimodo rinchiuso nella Mole Antonelliana ‘”Dopo Mezzanotte” di Davide Ferrario). L’incapacità di vivere di una giovane interprete (Adele H postmoderna più ossessione che passione) che segue da Torino a Milano un uomo visto da una finestra (“La spettatrice” di Paolo Franchi). Amori e rapine sullo sfondo di nordiche periferie marginali e multietniche (“A/R. Andata+ritorno” di Marco Ponti). O infine lo stordimento di una pattuglia di soldati italiani in Kosovo a cui sono state insegnate tutte le più avanzate tecniche belliche, ma niente della cultura del paese che dovrebbero pacificare. È “Radio West” di Alessandro Valori con Marco Bellocchio che firma la sceneggiatura insieme al regista e a Francesco Colangelo. Ordine alfabetico e il massimo dell’understatement.
Lo stesso che usa quando parla della sua scuola, sia quella che fa ogni estate a Bobbio sia i corsi più estemporanei qua e là per l’Italia, da cui nascono sempre cortometraggi realizzati insieme agli studenti. Laboratori che raccolgono giovani attori, aspiranti registi, apprendisti sceneggiatori, debuttanti direttori della fotografia.
Quindici giorni per “Fare cinema” accanto a un regista che si rifiuta di insegnare, ma preferisce far vedere quel che sa fare: un film. Non da solo. Perché a Bobbio sbarcano ogni anno giovani colleghi da Edoardo Winspeare a Ciprì e Maresco chiamati a lavorare in bottega. Perché forse è proprio da botteghe così che parte il Rinascimento del cinema italiano.

Professor Bellocchio...
«No, professore non lo sarò mai. Non sono portato».

E la scuola, gli allievi, i corsi ogni estate a Bobbio?
«Non è una scuola. È un lavoro pratico. Un tempo il cinema era arte elitaria, ora c’è un proliferare di questi corsi a ogni livello, europeo, regionale, cittadino. Evidentemente molti giovani vogliono farei registi. cosa misteriosa perché mi sembra che oggi riservi più gratificazioni partecipare a un reality show».

Non è stato sempre così diffuso tra i giovani l’amore per il cinema?
«Quando mi sono iscritto al Centro Sperimentale, tra cinema e televisione non c’era nessuna relazione. Il cinema aveva una totale autonomia tecnica ed economica. Fare film era un privilegio, un'arte aristocratica. Ora i confini tra cinema, tv, videoclip sono molto più labili. Le tecnologie si sono popolarizzate e tutti sono in grado di fare un film. Ho visto una trasmissione dove anonimi turisti mostravano filmini girati durante i viaggi. Era sorprendente quanto fossero tecnicamente corretti. Sapevano girare una scena e orientarsi nello spazio e nel tempo. Chiunque ha ormai una tale educazione all’immagine da poter prendere in mano una macchina da presa. O un telefono, visto che si fanno i film anche con il telefonino».

E allora cosa c’è da insegnare?
«Di certo non la tecnica. Quasi tutti i ragazzi che arrivano a frequentare un corso hanno già girato un loro piccolo film. Da questo punto di vista non ho nulla da insegnare. Quello che fa la differenza è lavorare in gruppo, partecipare alla ricerca di immagini originali. Uscire dalla superficialità televisiva e riflettere sull’immagine. Si è già cominciato a farlo, dopo anni di deserto in cui il cinema italiano si divideva tra film carini e la triste inclinazione a imitare i padri e i nonni. Ora invece vedo molti registi che seguono ricerche personali sperimentando modelli innovativi».

E quali fra questi giovani registi sono quelli che la interessano di più?
«Sicuramente Edoardo Winspeare, Matteo Garrone, Roberta Torre, Vincenzo Marra e soprattutto Ciprì e Maresco visivamente i più originali, capaci di utilizzare il cinema in modo più provocatorio. Ed è interessante il fatto che questi giovani autori riescano a conquistare il pubblico con tutti i rischi che questo comporta. Perché il successo di pubblico per un regista esordiente è sempre un rischio. Induce a ripetere il film e dunque a sbagliare. È difficile raddoppiare il successo e difendere al tempo stesso la propria strada, la propria fantasia, la propria immaginazione. Sono abbastanza cresciuto per aver visto passare nel nostro cinema decine di meteore, partite con grandi successi e subito scomparse. Non si deve mai dimenticare che la cosa più importante è la fedeltà alla propria identità artistica».

In tanto cambiamento tecnologico che ruolo ha svolto la tecnologia?
«Un ruolo rivoluzionario. Un tempo si diceva che essere registi significa trovare soldi. Ora questa moltiplicazione di film e di talenti è anche dovuta al fatto che si può girare in digitale senza pellicola, montare il film in casa, partecipare alle miriadi di festival dedicati ai video e corti. Essere in poche parole padrone dei propri mezzi di produzione. Fare un film diventa sempre più simile a fare musica riunendosi in cantina con una piccola band».

Ma bisogna anche avere buone storie. Uno dei difetti che è stato rimproverato al nostro cinema è di rinchiudersi nell’intimismo o nel minimalismo e non riuscire più a raccontare la realtà del paese.
«Questo non riguarda solo il cinema. La caduta catastrofica delle grandi utopie negli anni ‘70 e ‘80 ha fatto deserto della coscienza civile e dell’interesse per la storia. È stato il fallimento di un progetto, la morte di una parola fondamentale come trasformazione. Sono rimaste le parole d’ordine della religione: carità e assistenza. E oggi gli ex marxisti hanno solo la bandiera dell’assistenzialismo. La storia come trasformazione è scomparsa».

Eppure lei, in “Buongiorno, notte” racconta una dolorosa pagina della nostra storia
«Non solo io. I francesi si sono stupiti di rivedere dopo anni la storia italiana in film come il mio o come “La meglio gioventù” di Giordana. Ma anche “Caterina” di Virzì, sia pure con accenti leggeri ed evasivi, racconta l’attuale storia. Qualcosa, come ho già detto, sta cambiando».

Dalla storia ai classici. Nei corti realizzati con i suoi allievi ricorrono autori come Pascoli o Checov. Anche questo è un modo per allontanarsi dalla superficialità televisiva?
«Non è un passaggio obbligato leggere Checov, ma di certo aiuta a costruire la profondità di un’immagine. Drammi, tragedie, lieto fine sono sempre gli stessi. Io non so se un giovane sappia riconoscere nella rabbia dei “Pugni in tasca”la sua rabbia. Come non credo all’eternità delle passioni umane. Ma ci sono delle costanti che ci legano tanto alla Russia di Checov che alla Grecia di Eschilo, e che possiamo ritrovare nelle nostre vite. O nel nostro cinema».

Un corto lungo un festival

Dai corti alla celebrità. Così fu per l'utarchico Moretti con "Come parli frate2 e per l'anglo-salentino Winspeare che presentò la sua breve opera prima "A Toilet Short Story" al Festival Arcipelago nel 1989. Festival sui generis dedicato a film brevi e brevissimi che in sette giorni produceoltre 200 titoli firmati da studenti di scuole e corsi d'ogni pare d'Europa, più retrospettive e repêchage dei cordi esordi di registi dalla carriera lunghissima. Quest'anno, dal 4 al 10 giugno, nelle tre sale del cinema Intrastevere a Roma, Arcipelago presenterà sia i lavori della scuola di Bobbio di Bellocchio (con incontro con il regista l'8 giugno alle 18) sia i primi lavori e dolori del giovane Winspeare, ma soprattutto una panoramica dei talenti emergenti in Italia (sezione ConCorto), con tanto di premio offerto da Sky e due commossi omaggi: a jacques Tati e ai suoi imperdibili film brevi e a François Truffaut con l'intervista inedita per l'Italia girata nel 1971 dalla tv franco-canadese Radio Canada.

storia del tempo:
dal 1582: il calendario di papa Gregorio XIII

Corriere della Sera 30.5.04
IL NOSTRO CALENDARIO
Nel 1582 il Papa volle la riforma con decorrenza immediata. Ma per secoli si rischiò il caos
Così Gregorio XIII fece litigare l’Europa


L’ultimo laico che in Occidente riuscì a realizzare una riforma duratura del calendario fu Giulio Cesare. Plutarco scrive che «chiamò a raccolta i migliori matematici e filosofi dell’epoca». Tra essi spicca Sosigene, l’astronomo alessandrino che discusse della cosa direttamente con il condottiero in Egitto. Poi il tempo cominciò a modificare anche questo ordine dei giorni. Al Concilio di Nicea del 325, ad esempio, si fissò l’equinozio il 21 marzo, mentre al tempo di Cesare era fatto cadere tra il 25 e il 26 di quel mese. Tolomeo, intanto, nel 130 aveva già messo il suo autorevole becco in quel conteggio, diminuendo di qualche ora la durata dell’anno. Altri calcoli li propose Ibn Jabir al-Battani nel IX secolo, basandosi sulla trigonometria indiana: corresse di poco Tolomeo. E dal gioco non restò fuori Copernico, che si accanì con i decimali in una storia lunga da raccontare. Quando nel 1582 Gregorio XIII decise di dare un ordine al calendario, l’equinozio cadeva l’11 marzo. La data della Pasqua era completamente sbagliata: in sostanza ogni 4 secoli si anticipava di 3 giorni. La cristianità chiedeva da tempo questa riforma e il papa era l’unico, grazie alla sua autorità, che la potesse realizzare. Diremo inoltre che del gran numero di persone, che si interessarono alla nuova sistemazione del tempo, tre meritano di essere ricordate. È grazie ad esse se possiamo dire che ci troviamo nel tal giorno del tale anno.
Cominciamo con la prima. Si chiamava Aloysius Lilius o, meglio, in italiano Luigi Lilio. Non sappiamo esattamente quando nacque: pare il 1510, comunque un anno non lontano da questo. Famiglia modesta, studi di astronomia e medicina a Napoli, un soggiorno a Verona, un insegnamento a Perugia. L’unica cosa certa è che in vecchiaia tornò nella nativa Cirò, non lontano dai luoghi della tradizione pitagorica, dove giunse alla soluzione del problema del calendario. Un uomo isolato che porta a compimento la sua idea sulla costa ionica della Calabria, senza una grande biblioteca a disposizione. Morì - alcune testimonianze sostengono a Roma - prima che la sua proposta potesse essere presentata nel 1576 alla commissione papale. Fu il fratello Antonio, medico esperto di astronomia ma incline a pasticciare, che sostenne il progetto e ne ricavò gli utili. Diremo soltanto che il papa gli revocò ben presto il privilegio della stampa per il testo del nuovo computo, perché non riusciva a tirare le copie sufficienti alle richieste, tanto che ci furono giorni in cui la riforma rischiò di naufragare a causa della sua lentezza.
Il secondo personaggio è un gesuita: Christopher Clavius (1538-1612). Fu lui che prese le difese di Lilio tra le acque infide delle controversie scientifiche ed ecclesiastiche. Si adoperò come nessun altro per diffondere il nuovo calendario, anche oltre quei pochi Paesi che l’avevano accettato subito. Oggi il suo nome dice poco, ma al tempo dei fatti che stiamo narrando Clavius godeva di alta considerazione, tanto che Galileo disse di lui: «Degno di immortale fama». Va precisato che il sommo pisano si recò dal gesuita, che era tolomaico convinto, per trovare un sostegno dopo le sue osservazioni astronomiche effettuate con il telescopio. Si scrisse: «È l’Euclide del nostro tempo»; poi lentamente scomparve, anche se la sua effigie è rimasta alla base della statua di Gregorio XIII in San Pietro. Furono comunque i suoi studi a consolidare la riforma del calendario, a convincere l’Europa ad applicare le nuove regole. Certo, qualcuno non era d’accordo, come il poeta John Donne. In una ingenerosa satira contro i gesuiti, Ignatio His Conclave, trovò lo spazio per infilare anche Clavius e le sue idee sul conteggio dei giorni, spedendolo all’inferno - siamo nel 1611 - prima ancora che morisse.
Il terzo personaggio è papa Gregorio, al secolo Ugo Boncompagni (1502-1585), giurista, bolognese. Condusse nei suoi verdi anni vita disinvolta (tra l’altro, ebbe un figlio), ma poi - grazie all’incontro con Carlo Borromeo - la tramutò in austera. È bello notare che Marc’Antonio Ciappi, nella biografia che dedicò al pontefice, Compendio delle heroiche et gloriose attioni, uscita a Roma nel 1596, scrive a pagina 96 una frase che riassume la sua indole: «Soprattutto teneva gran parsimonia del tempo». Insomma, soltanto un papa senza tempi morti poteva mettere in sesto il conto dei giorni. Aggiungiamo che Gregorio XIII fu anche coinvolto nella Notte di san Bartolomeo, celebre per il massacro degli ugonotti. Per essa fece celebrare un Te Deum in Santa Maria Maggiore e ripetere tre giorni dopo in San Luigi dei Francesi. Si coniarono anche delle medaglie commemorative: una di esse recava la scritta: «Pietas excitavit justitiam», ovvero: «La pietà risvegliò la giustizia».
Con la bolla Inter gravissimas del 13 febbraio 1582, papa Gregorio promulgò la riforma a tutto il mondo; si decise di sopprimere i giorni che erano di troppo (il giorno successivo a giovedì 4 ottobre 1582 sarebbe diventato venerdì 15 ottobre), di eliminare un bisestile alla fine di ciascun secolo la cui cifra non fosse divisibile per 4.
Detto così tutto sembra semplice, ma è difficile immaginare il vespaio che ne nacque. Già dopo il 5 gennaio 1578, giorno in cui veniva pubblicato il Compendium di Lilio, cominciarono ad arrivare in Vaticano osservazioni, emendamenti, proteste e insulti. Certo, in molti erano d’accordo, ma il matematico di corte del duca di Savoia, tale Giovan Battista Benedetti, voleva già correggere il calendario di 21 giorni, in modo da far cadere il solstizio d’inverno il 1° gennaio. E, siccome si era in ballo, chiedeva di modificare i mesi per farli coincidere con la presenza del Sole in ognuno dei 12 segni zodiacali. Enrico III di Francia acconsentì, ma soltanto a dicembre. Filippo II di Spagna si sottometteva, ma suggeriva di far cadere l’equinozio il 21 marzo in modo da rispettare le decisioni del Concilio di Nicea (e si sarebbe anche risparmiato perché non si doveva modificare la data su messali e breviari). Rodolfo II accettò ma prese tempo e decise di rendere attiva la riforma soltanto il 4 settembre 1583. La Germania protestante la rifiutò e si dovette attendere il 1775 per vederla applicata pienamente. La Gran Bretagna respinse la deliberazione papale: in tal caso, occorre saltare sino al 1752, anno in cui anche le colonie americane si adeguarono. Il parlamento inglese, tuttavia, per non imitare il papa, eliminò i giorni a settembre. E così di seguito: il Giappone ci arrivò nel 1873, la Russia nel 1917, la Cina nel 1949.
Per dar l’idea di qual polverone causò la riforma del calendario, basterà ricordare che molti villaggi si sollevarono temendo una vendetta sul raccolto dei santi eliminati in quei giorni di ottobre e chi prestava soldi volle gli interessi come se il mese usato per la riforma avesse avuto 31 giorni. Immaginatevi i debitori. Curioso è il comportamento di tal Thomas Stokes, un mercante inglese che arrotondava i propri introiti facendo la spia, le cui lettere di informazione conservate ancora a Londra recano la doppia data. Michel de Montaigne riassume i malumori degli scettici: «Stringo i denti ma la mia mente è sempre dieci giorni avanti oppure dieci giorni indietro; sento di continuo un sussurro alle orecchie: "Questo aggiustamento riguarda quelli che non sono ancora nati"».
Terminiamo ricordando che il secolo dei Lumi ebbe un sussulto laico e cercò a sua volta delle riforme. Le quali, però, durarono talmente poco da trasformarsi in curiosità. Ad esempio, nel 1756 Linneo pubblicò un calendario in cui a ogni giorno dell’anno era abbinato, al posto di un santo, il fiore che sboccia in quella data, oppure una indicazione relativa a partenze o arrivi di uccelli migratori o la muta delle piume di alcuni volatili o ancora taluni accoppiamenti dei pesci o i lavori agricoli. Cambiò anche il nome dei mesi: gennaio diventò «glacialis», agosto «messis», ecc. Da qui prese le mosse il calendario promulgato dalla Rivoluzione francese, che cominciava il suo complicato conteggio repubblicano dal 22 settembre 1792. Napoleone lo soppresse il 1° gennaio 1806. Aveva altro a cui pensare.

cultura tolemaica:
"disturbi bipolari", farmaci, effetti indesiderati...

Yahoo! Notizie Sabato 29 Maggio 2004, 14:37
Trattamento del disturbo bipolare di tipo 1 secondo il NICE
Di PsichiatriaOnline.net


(Xagena) - Il NICE (National Institute for Clinical Excellence) ha emesso un parere positivo sull’impiego di due nuovi farmaci nel trattamento della mania acuta associata a disturbi bipolari di tipo 1.
La scelta del trattamento dell’episodio maniacale acuto dovrebbe essere fatta dal medico sentendo il parere del paziente sulla base dei benefici e degli effetti indesiderati di ciascun farmaco.
Il disturbo bipolare è una malattia psichiatrica cronica, caratterizzata dall’alternanza di episodi maniacali e di depressione.
Si distinguono principalmente due tipi di disturbi bipolari: disturbo bipolare di tipo 1 e di tipo 2.
Il disturbo bipolare di tipo 1 è caratterizzato da un decorso clinico con episodi maniacali o misti, dove gli episodi maniacali sono gravi e causano danni funzionali e frequentemente richiedono l’ospedalizzazione del paziente.
Nel disturbo bipolare di tipo 2 prevale l’ipomania.
L’ipomania è distinta dalla mania dall’assenza di sintomi psicotici e minor danno funzionale.
I soggetti con ipomania di norma non richiedono l’ospedalizzazione.
Il rischio di suicidio negli individui con disturbo bipolare varia tra il 15 ed il 19%.
Gli uomini presentano un maggiori rischio di suicidio rispetto alle donne, e questo avviene più frequentemente durante un episodio depressivo.
Comunemente gli individui con disturbo bipolare presentano disturbi psichiatrici concomitanti o fanno abuso di sostanze stupefacenti o di alcool.
Alcuni farmaci impiegati nel trattamento del disturbo bipolare di tipo 1 agiscono sia sugli episodi maniacali che nella prevenzione delle recidive.
I farmaci che sono impiegati per trattare la fase maniacale acuta vengono anche assunti durante la remissione con lo scopo di prevenire o ritardare la comparsa delle recidive.
I sali di Litio sono stati per molto tempo i farmaci di prima scelta nel trattamento e nella profilassi della mania, della malattia maniaco-depressiva e delle recidive di depressione.
Tuttavia il Litio non presenta un buon profilo di sicurezza, e richiede frequenti aggiustamenti del dosaggio.
Gli anticonvulsivanti come il Valproato e la Carbamazepina sono impiegati come alternativa al Litio.
Riguardo all’episodio maniacale acuto non c’è consenso su quale sia il trattamento più appropriato.
L’impiego dei farmaci per la profilassi può avvenire sia singolarmente che in combinazione.
Questi farmaci possono essere assunti in modo concomitante con un farmaco che controlla i sintomi acuti della mania.
Una strategia alternativa è quella di iniziare il farmaco profilattico una volta che l’umore del paziente è stato stabilizzato da un farmaco antimaniacale.
Le benzodiazepine sono spesso impiegate negli stadi iniziali della fase acuta della mania.
Gli antipsicotici possono essere suddivisi in due classi: i più vecchi antipsicotici, detti “tipici” ed i più nuovi o “atipici” (es. Olanzapina).
Tutti gli antipsicotici sono associati ad effetti indesiderati.
Gli effetti indesiderati comprendono i sintomi extrapiramidali (come parkinsonismo, distonia, acatisia, discinesia tardiva) effetti autonomici ( come offuscamento visivo, aumento della pressione intraoculare, secchezza della fauci ed oculare, costipazione e ritenzione urinaria ), aumentati livelli di prolattina, convulsioni, sedazione, alterazioni elettriche del cuore ed aumento di peso.
Un grave effetto indesiderato con l’uso degli antipsicotici è la discinesia tardiva ( movimenti involontari del tronco ed orofacciali ), che può essere irreversibile e può peggiorare sospendendo il trattamento.
Sebbene l’incidenza degli effetti indesiderati sia associata alla dose somministrata, gli antipsicotici atipici in generale presentano una più bassa incidenza di sintomi extrapiramidali rispetto agli antipsicotici tipici.
Secondo il NICE l’Olanzapina (Zyprexa) ed il Valproato semisodico dovrebbero essere considerati come opzioni nel trattamento dei sintomi acuti della mania associati al disturbo bipolare di tipo 1. (NICE -Xagena)