domenica 30 novembre 2003

poesia araba oggi
«La donna abita ogni cellula del mio corpo e io la respiro»

La Repubblica, edizione di Palermo 30.11.03
L´INTERVISTA
Parla Adonis, vincitore per l'opera straniera
DALLA SIRIA CON AMORE
La donna abita ogni cellula del mio corpo e io la respiro per cercare me stesso
L'oppressione nel mondo arabo produce estremismi che non rispecchiano il volto della società

di SALVATORE FERLITA


È Ali Ahmad Sa'id Esber il vero nome del poeta siriano Adonis, autore della raccolta "Cento poesie d´amore" (Guanda) e vincitore quest'anno del premio Mondello, nella sezione autore straniero. Nato in un villaggio siriano nel 1930 da una famiglia di origine contadina, Adonis ha studiato filosofia in Siria, per poi trasferirsi a Beirut e, successivamente, insegnare all'Università di Damasco e alla Sorbonne di Parigi. Tra le sue opere tradotte in italiano "Desiderio che avanza nelle mappe della materia, Libro delle metamorfosi" e "Nella pietra e nel vento". Adonis oggi è considerato uno dei più grandi poeti arabi viventi, forse il massimo rappresentante della modernità letteraria araba. «È una grande responsabilità, se dobbiamo credere a quello che si dice in giro? afferma il poeta, che verrà premiato oggi pomeriggio alle 17 all'hotel Palace di Mondello - In verità mi considero uno dei tanti poeti del mondo, faccio parte della poesia universale. Il poeta, a mio avviso, è sempre un allievo che impara in continuazione. La situazione della poesia ci insegna che non si può orientare, guidare il mondo, senza prima imparare dal mondo stesso».
La sua raccolta premiata è un moderno canzoniere d'amore, il periplo di un'avventura amorosa. Cos'è per lei la donna?
«La donna per me non è solo un oggetto per scrivere poesie d'amore. Essa abita ogni cellula del mio corpo. Io respiro la donna, al punto che comincio ad ascoltare me stesso per trovare la mia parte maschile e quella femminile. Se l'uomo non possiede una parte femminile nel suo essere, la sua stessa virilità rimane incompleta. Anche per la donna, s'intende, vale lo stesso principio. A questo proposito, io credo fortemente in quello che disse Platone: la donna e l'uomo sono un unico essere».
È quello che ha sostenuto anche de Unamuno nel suo romanzo "Nebbia"?
«È vero, però tengo a precisare che Platone lo ha sostenuto prima».
Se dovesse in poche parole spiegare cosa sia oggi l'universo arabo, al centro della sua riflessione nella raccolta di saggi "La preghiera e la spada", cosa direbbe?
«Anzitutto direi che non è possibile identificare il potere politico e la società, perché si rischierebbe di vedere gli arabi solo attraverso un regime collettivo. La stessa cosa succede per l'Italia: non possiamo guardare al vostro paese solo attraverso Berlusconi. La società araba è una cosa, il sistema politico un'altra. Credo che la società abbia molte potenzialità, e possa vantare un gran numero di artisti e intellettuali. Però va detto che il sistema politico e la condizione storica hanno paralizzato queste potenzialità. Oggi la situazione di oppressione vigente non produce altro che radicalismi ed estremismi, che di sicuro non rispecchiano il vero volto della società araba».
E la religione?
«Quelli che parlano attraverso la religione non fanno altro che diffondere una chiusa, asfittica ideologia, invece che aprirsi a un orizzonte aperto. Da qui gli aspetti di natura violenta che essa spesso assume. L'ideologia non uccide soltanto la società, ma anche la religione. È un po' quello che è successo con il fondamentalismo cristiano e quello ebraico».
Qual è allora oggi la funzione della poesia? Fu detto che dopo i campi di sterminio non sarebbe stato più possibile scrivere versi.
«Certo, i campi di sterminio, e qualsiasi altra manifestazione di odio e violenza in questo senso, rappresentano un'esperienza tremenda da condannare con tutte le forze, una sorta di punto di non ritorno. Eppure il problema è un altro: dopo tragedie del genere va preso atto che non è più possibile praticare e tollerare lo sterminio. Ma tutto ciò non può che indurre a scrivere altri versi, a praticare ancora la poesia. Dai campi di sterminio, e oggi dalle stragi sempre più cruente che la televisione e i giornali ci mostrano, ci viene questa lezione: bisogna fermare la mano che uccide».
La poesia, in questo senso, cosa può fare?
«È la poesia che ci dà proprio questa sensazione»

Theodor W. Adorno

La Repubblica 30.11.03
EPISTOLARI
Il filosofo ha lasciato migliaia di pagine che ancora attendono di essere pubblicate
Solo quando giunse a New York si accorse pienamente di che cosa fosse il nazismo
Attinse al "Dramma barocco" di Benjamin senza rendergli il giusto riconoscimento
Per il centenario della sua nascita si moltiplicano celebrazioni e varie iniziative editoriali
Scrisse di musica, filosofia, sociologi e saggistica letteraria. A volte il tono della sua prosa disturbava

ADORNO. La sua fama di intellettuale oscurata da una certa doppiezza
di GEORGE STEINER


Si può definire "l'estate di Adorno" questa appena trascorsa, a Francoforte e altrove nel mondo letterario ed accademico di lingua tedesca. Francoforte ha intitolato una piazza al maestro. Settembre ha visto un congresso internazionale - assente, purtroppo, Bernard Williams. All'Adorno compositore e teorico musicale rendono omaggio rappresentazioni delle suo opere, delle opere della seconda Scuola di Vienna, culla della sua filosofia musicale, e presentazioni dei suoi arrangiamenti di Trakl, Brecht e Stefan George sia dal punto di vista poetico che musicale. Traduttori francesi, italiani e inglesi si incontrano per discutere pubblicamente delle difficoltà che implica rendere il linguaggio proprio di Adorno, notoriamente oscuro e peculiare. Mostre, dibattiti, recital si protrarranno fino a dicembre per culminare in una tavola rotonda di poeti chiamati a confrontarsi con il famoso detto di Adorno, di norma erroneamente citato ,che non può esistere, che non dovrebbe esistere poesia lirica dopo Auschwitz, una dichiarazione che egli smentì alla luce (se il termine è appropriato) del genio di Paul Celan.
In questo centenario è essenziale il ruolo della casa editrice Suhrkamp. Indefesso oratore accademico, saggista, autore di conferenze radiofoniche, di notazioni ai programmi musicali e articoli di critica, Theodor W. Adorno lasciò una massa di testi postumi paragonabile quanto a volume a quella di Heidegger (le analogie tra antagonisti sono profonde). Editori devoti, Rolf Tiedeman in testa, sostenuto dal generoso supporto tecnico e dal prestigio della Suhrkamp, pubblicano tutto, volume dopo volume. Sono usciti i volumi su Beethoven e la riproduzione musicale, quindi il saggio su Schelling e la sua analisi del concetto di libertà. Abbiamo poi il pensiero di Adorno sulla metafisica, la sua introduzione alla sociologia, le sue lezioni sulla dialettica negativa. Devono ancora uscire cinque volumi di "osservazioni" filosofiche, un'epistemologia, un'introduzione generale alla filosofia, un'attesissima sthetik - il fantasma di Lukács - due volumi di "lezioni improvvisate", tre di incontri letterari e interviste e, tra tutti il più intrigante, un volume dal titolo Poetische Versuche.
In tandem Suhrkamp ha pubblicato la colossale corrispondenza di Adorno: con Walter Benjamin, con Ernst Krenek, con Alban Berg. Ad oggi è disponibile il primo volume, che copre il decennio 1927-37, della corrispondenza tra Adorno e Max Horkeimer, suo mecenate e partner intellettuale, nonché principale esponente della Scuola di Francoforte. Attendono la pubblicazione altre centinaia, forse migliaia di epistole di uno scambio ideologico e critico tra i più rilevanti del secolo. Dalla quasi totale distruzione dell'esistenza ebraica tedesca emerge un'enorme mole di dibattito e di presenza umana. Questo diluvio che cade sui venti volumi di scritti già pubblicati conferma o aiuta a comprendere la statura di Adorno? È prova dell'ammirevole accuratezza e generosità con cui si pubblicano opere serie in Germania o piuttosto di una maniacale aspirazione alla totalità hegeliana - tanto più ironica nel caso di un pensatore che proclamò che "tutto ciò che è completo è falso" e definì la modernità come era del frammento?
Emergono un certo numero di aspetti decisivi. Adorno fa parte dei pochissimi, tra cui Rousseau e Nietzsche, che hanno posto la lingua scritta in rapporto con la musica, che hanno scritto di composizione musicale, del significato dei suoi significati, dell'esecuzione musicale, con intelligenza contemporaneamente filosofica e tecnica. Gli scritti di Adorno su Mahler, su Berg, su Wagner, su Beethoven nella monografia postuma incompleta, costituiscono un'impresa monumentale. Andando oltre i suoi rari predecessori inoltre Adorno pose le basi di una sociologia della musica, di un inserimento della musica nel tessuto dinamico della storia sociale, dell'ideologia e dei media. Basterebbero le Klangfiguren e i saggi successivi su Schoenberg e Webern a garantire ad Adorno un posto nella storia dell´estetica e, cosa più importante, nel tormentato rapporto tra parola e musica. È giusto che una delle festose celebrazioni dedicate al maestro a Francoforte si intitoli "La musica, la seconda lingua di Theodor W. Adorno".
Ma ciò che questa sequela di testi postumi va decretare è il valore di Adorno come filosofo, come illustre voce in campo ontologico, epistemologico, nell'esplorazione della metafisica. I "Minima Moralia", la "Dialettica dell'illuminazione", e l´attacco ad Heidegger in Jargon der Eigentlichkeit sono stati esempio del ruolo eminente di "critico culturale" che Adorno ha rivestito. In tedesco il termine è più incisivo, attiene sia ai philosophes francesi che all'aura della Kritik di derivazione kantiana. Nell'ambito dell'eredità tedesca e centroeuropea il Kulturkritiker, da Lessing a Karl Kraus occupa una nicchia essenziale. Le opere di Adorno che spaziano dalla critica letteraria e musicale alla politica dell'istruzione, lo collocano tra i testimoni decisivi del turbolento spirito dell'epoca.
Nelle sue lezioni sulla metafisica del 1965 (pubblicate nel 1998), Adorno si domanda se sia possibile vivere dopo Auschwitz. Ho vissuto personalmente il tormento di sogni ricorrenti in cui ho la sensazione di non essere più realmente vivo ma una semplice emanazione dei desideri di una delle vittime di Auschwitz.
Il suicidio va evitato, aggiunge Adorno, solo in quanto farebbe il gioco dei macellai. Ma il percorso verso questa intuizione, destinata a dominare le opere successive di Adorno, ebbe inizio solo quando si ebbe vere e propria notizia della Shoah nel 1944-45. Fino ad allora le cose erano state più fuorvianti.
Potendo contare su un'agiata posizione economica familiare, Adorno, a differenza di Walter Benjamin, che fu perseguitato dalla miseria, poté permettersi di portare avanti un doppio apprendistato, in campo musicale e filosofico. Studiò composizione con Schoenberg e Berg, ottenne quindi l'Habilitation, il più elevato titolo accademico tedesco, sotto l'egida di Paul Tillich nel 1931. A quell'epoca era già stato accettato presso l'Istituto per la Ricerca Sociale diretto da Max Horkheimer ed era entrato a far parte dell'élite ebraico-tedesca di Francoforte. Benché privato del diritto all'insegnamento nel 1933, Adorno dimostrò stranamente una scarsa perspicacia e una certa leggerezza (la madre era di origine italiana e cattolica). Nella sua macabra cecità insistette perché Benjamin si candidasse ad entrare a far parte della nuova "Associazione Nazionale degli Scrittori", istituzione totalmente nazista. Nel giugno 1934 Adorno pubblicò nella rivista Die Musik un'appassionata recensione dell'adattamento delle poesie di Baldur von Schirach, uno dei più brutali criminali hitleriani. Benché ora con una certa apprensione T. W. Wiesengrund-Adorno nel 1938 si recava ancora in visita nel Reich. Fu solo a New York, dove emigrò quell´anno, che Adorno divenne pienamente consapevole del proprio stato di esiliato e dell'ipoteca che la catastrofe tedesca poneva su di lui.
Questo primo volume della corrispondenza tra Adorno e Horkheimer disegna un ampio scenario psicologico e concreto di quel periodo. Un certo numero di lettere hanno le dimensioni di breve saggio filosofico e sociologico. Horkheimer si spostava tra Ginevra, dove l'Istituto da lui diretto aveva trovato inizialmente rifugio, e Manhattan, ove ben presto venne rifondato in collegamento con la Columbia University. Tutto questo richiese una profusione di lettere. Passati gli anni critici, i rapporti tra i due mutarono impercettibilmente ma decisamente. Al principio Adorno si mostrava deferente di fronte alla posizione e all'anzianità del suo corrispondente. Nelle missive la forma di cortesia non cedette il passo al "caro Max" e al "Caro Teddy" prima del settembre 1937. Di indole prudente e mondana Horkheimer, che era in grado di dispensare favori vitali, non cedette immediatamente alle esortazioni e ai progetti di Adorno. Mirava a distogliere il suo geniale accolito da interessi puramente epistemologici e metafisici, soprattutto in riferimento alla proposta esegesi del pensiero di Husserl. Vedeva con favore l'impegno di Adorno nella musicologia, spingendolo però verso interessi sociologici, come ad esempio il ruolo del jazz nella crisi dei valori culturali. Gradualmente tuttavia la forza pura delle analisi di Adorno, il modo in cui seppe sviluppare tutto ciò che nel programma di Horkheimer era vago e incerto, si imposero. Le lusinghe furono sempre meno necessarie. La nomina ufficiale a membro dell'Istituto nel 1938 (un atto formale che avrebbe potuto salvare la vita a Benjamin) conferì ad Adorno autorità magistrale. Ne risultò un partnerariato straordinariamente produttivo.
Nonostante tutto l'interesse e i pettegolezzi suscitati nell'ambiente intellettuale, Briefwechsel, l'epistolario, è un libro deprimente. La condizione di profugo nel labirinto di visti, permessi di lavoro o sussidi di beneficenza risulta macabra persino in presenza, come nel caso di Adorno, di disponibilità di mezzi. L'ostracismo derivante dalla propria lingua mistifica persino i rapporti intimi. La necessità di blandire, compiacere, chi è in grado di aiutarti, può farsi mendace. Elogiare gli scritti di Horkheimer, accentuare il proprio obbligo nei suoi confronti era un imperativo per Adorno. Ma oltre alla generale fausse situation, emergono aspetti del carattere di Adorno niente affatto attraenti. Benché dovesse a Tillich il titolo accademico scrisse di lui ad Horkheimer con malcelato disprezzo. Cercò di convincere Horkheimer del "fascismo" di Marcuse sulla base del complesso rapporto di quest'ultimo con Heidegger. Ma la cosa più triste è il ruolo di Walter Benjamin in questa corrispondenza.
Come contestatogli dallo stesso Benjamin, nello studio su Kierkegaard Adorno aveva attinto, abbondantemente e senza renderne riconoscimento alcuno, all'estetica e alla teoria del dramma di Benjamin. Col peggiorare della situazione e la conseguente sempre più pesante dipendenza di Benjamin dallo scarno sostegno offertogli da Horkheimer e dal suo legame marginale con l'Istituto, Adorno iniziò a fargli da patrono. (I dettagli di questa squallida vicenda vengono ripresi in esame nel numero di maggio del periodico francese Lignes, intitolato "Adorno e Benjamin"). Le critiche mosse da Adorno al saggio di Benjamin su Baudelaire, al progetto Passagen, al pensiero di Benjamin sull'industrialismo e la decadenza dell'aura estetica, sono spesso acute e validamente motivate. È il tono che disturba, lo sfoggio di potere nei confronti di un individuo sempre più disperato e bisognoso di comprensione. L'aspetto peggiore è rappresentato dalla doppiezza, forse inconscia, nelle osservazioni destinate a Horkheimer. Benjamin è, fuor di dubbio, un pensatore e un allegorista di straordinaria originalità, tuttavia nei suoi scritti molto necessita delle benevole revisioni dispensate da Oxford e da New York. Indubbiamente Benjamin merita sostegno materiale, ma nei suoi metodi di ricerca, nella sua vicinanza a Brecht, nel suo marxismo messianico, molto necessita di un'attenta osservazione e dei benefici della disapprovazione.
L'orrenda fine di Benjamin mutò radicalmente la situazione. Adorno si trasformò nell'indefesso paladino e divulgatore dell'eredità di Benjamin. Né lui né Horkheimer nascosero il debito delle proprie opere nei confronti dell´intuizione capitale di Benjamin che alla base di tutta l'arte e la cultura elevata c'è uno zoccolo di barbarie e inumanità. Sarà questo il tema dei "Minima Moralia" e della "Dialettica Negativa". Negli anni abbracciati dall'epistolario però, e in quelli precedenti al 1941, la storia è una storia triste.
Adorno provava al contempo fascino e repulsione nei confronti di Heidegger, era in soggezione di fronte alla sua statura e rabbiosamente determinato a smascherarla come fondamentalmente fittizia. Tuttavia tra i due esiste una sorprendente analogia. Entrambi nelle proprie opere pubblicate fecero della prosa un mezzo contorto, spesso quasi impenetrabile, mentre le lezioni accademiche, oggi rese disponibili post mortem, sono modelli di lucidità, di attento ritmo e metodo pedagogico. Il che risulta ancor più intrigante laddove Adorno fa propri i principali temi di Heidegger. Le ventitré lezioni su Ontologie und Dialektik furono tenute tra il novembre del 1960 e la fine di febbraio del 1961. Rappresentano un modello di retorica e mostrano il professor T. W. Adorno al massimo delle sue capacità di docente, ironico ma equanime.
Una sorta di tabù, una "specie di terrorismo" circondano la magia del linguaggio di Heidegger e il suo postulato della priorità dell´essere sugli esseri. Ironicamente l´esaltazione del linguaggio ad assoluta supremazia, ad autonoma singolarità, trova un parallelo nella scuola filosofica più in antitesi col pensiero di Heidegger, quella del positivismo logico e della logica linguistica anglo-americana. Gli spiriti benigni invocati da Adorno saranno quelli di Aristotele, e di Kant, di Hegel e Husserl. Enfatizzare l'indefinibile, purissimo, Sein di Heidegger come se il mero termine portasse in sé garanzia mistica di significato esistenziale vuol dire cadere nella trappola dell´autismo metafisico, del bluff auto-referenziale. Vuol dire fuggire l'interrogativo, vecchio quanto il "Parmenide" di Platone, se sia affatto possibile una comprensione dell´essere nel senso rapito di Heidegger.
Adorno definisce la condizione di Heidegger e del suo discepolo ammaliato come di chi "trema per timore di sporcarsi le mani", trema per timore di impegnarsi nell'essenza materiale, storica, sensoriale, dell´esperienza umana. Una simile posizione è figlia delle tradizioni occidentali dell'irrazionalismo come le troviamo in Nietzsche e Bergson. Le elevate astrazioni di Sein und Zeit hanno come risultato un anti-intellettualismo sistematico. L'io razionale è negato in nome del suo essere posseduto dal mistero dell'essere persino quando gli strumenti umani del linguaggio vengono confusi dal famoso detto di Heidegger secondo cui "è il linguaggio che parla". Questo imperativo inesplicabile permette ad Heidegger di eludere gli interrogativi circa ciò che più conta per l'uomo: l'esistenza di dio e il tema della libertà. Così nella dottrina di Heidegger, come già nella sua politica, è presente un'arcaica sottomissione ai misteri fuori da qualsiasi portata dialettica individuale. Da qui la convinzione fondamentale di Adorno che non possiamo elidere dalla filosofia di Heidegger, per quanto sembri sopraffarci e ipnotizzarci, "cosiddette stravaganze e aberrazioni politiche".
Man mano che la polemica si avvia alla conclusione, Adorno fornisce importanti intuizioni circa le proprie convinzioni magiche. L’esperienza musicale comunica un'abbondanza di contenuti specifici inaccessibile però al pensiero concettuale. Spiegare questo problema è compito essenziale dell'estetica, di un’ermeneutica filosofica (la decostruzione e il postmodernismo attuali hanno abdicato a questa sfera assolutamente centrale.) Nella ventunesima lezione Adorno si appella alla tesi dell'"aura" di Benjamin e a tesi storico-filosofiche. Pensare in maniera responsabile, afferma Adorno, equivale a "de-mitologizzare", abolire gli elementi iconici nella coscienza, l’idolatria inseparabile dalle immagini. Il pensiero dialettico è uso alle contraddizioni e all'ardire del mondo. Equivale a ripudiare una teologia, persino una teologia negativa, quale quella che ossessiona Heidegger. Il vero pensiero implica un riconoscimento della corporeità, una disperata ma lucida immanenza quale troviamo in Becket. Essa non comporta alcun almanaccare sulla morte o quella fuga nell´abisso che troviamo persino in Kafka. È l’impensabile, le nostre vite dopo quella mezzanotte della storia di cui Martin Heidegger fu parte in causa, che esige soprattutto riflessione.
(Traduzione di Emilia Benghi)

Macaluso sul comunismo

Corriere della Sera 30.11.03
«I conti col comunismo? Li abbiamo già fatti,
il Pci non era il Msi»
intervista con EMANUELE MACALUSO


ROMA - «L’autocritica l’abbiamo fatta, fino in fondo». Al ministro Gasparri, che esorta la sinistra a «fare i conti con la storia», dai gulag alle foibe, Emanuele Macaluso replica senza esitazioni: gli esami sono finiti da tempo. «I conti con il socialismo reale e con il comunismo, così come si incarnò nell’Unione Sovietica, li abbiamo fatti autocriticamente, dicendo con chiarezza che il socialismo democratico ha vinto la sfida contro quel comunismo».
Niente da rimproverare ai leader di Pci, Pds e ora Ds?
«Già Enrico Berlinguer prese le distanze da quel regime e la svolta della Bolognina segnò poi una vera e propria cesura. Togliendo dal nome del partito la parola "comunista" abbiamo preso le distanze in modo netto. E ricordo che nell’89, ai tempi di Tien-an-Men, il Pci andò a manifestare sotto l’ambasciata cinese».
Gasparri invita D’Alema e Bertinotti a visitare le foibe e i «luoghi degli eccidi della guerra civile».
«Il comunismo di Bertinotti non è quello di Stalin, ma quello ideale di Marx. Quanto a D’Alema... Stiamo attenti, il Pci non è il Msi. E’ stato una forza fondante della democrazia italiana, ha fatto la Resistenza e nella Costituzione c’è la firma di Terracini. Che poi ci siano state dopo la Resistenza uccisioni da parte di forze che si richiamavano ai comunisti...».
Le «volanti rosse», ad esempio.
«Abbiamo fatto una battaglia per ribadire che quei fatti furono opera di gruppi che si staccarono da quegli ideali. Chi dopo la Resistenza ha ucciso a sangue freddo anche un fascista, è un assassino».
Quindi la storia della Resistenza non va riscritta.
«Penso di no, anche se io non ho nulla contro il revisionismo».
Quanto a Salò, la sinistra rispetta quei morti?
«Non ho nulla da rimproverare alla sinistra, ma non mi si dica che quella causa era uguale a quella della Resistenza. Salò fu una lotta sbagliata, anche se fatta da molti in buona fede. La Resistenza fu la causa della Patria».
E i gulag?
«Nel ’56 il Pci fece il grave errore di non appoggiare la rivoluzione ungherese, ma la condanna dei gulag è stata netta e va sempre ribadita».
Fassino quindi non avrà la sua Gerusalemme.
«I gesti simbolici sono stati fatti tutti, nel 1988 Fassino andò sulla tomba di Nagy contro il governo ungherese. Piuttosto, il segretario deve avere fermezza contro il fondamentalismo islamico che tende a colpire le conquiste del socialismo democratico. Ed essere molto chiaro quando dovrà fare alleanze con chi, come Cossutta, sbaglia gravemente a non condannare con nettezza le fucilazioni del regime di Cuba».

brightlightsfilm.com dagli USA su "Buongiorno, notte"

uno stralcio da un articolo sul New York Film Festival, l'intero articolo è disponibile qui
This year's NYFF is a decidedly mixed bag of tricks
By Megan Ratner


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In some ways, Good Morning, Night had a similar problem: too much exposition and the whole enterprise outweighed by the events themselves. In his take on the 1978 kidnapping of President Aldo Moro, Marco Bellocchio focuses on Chiara, the only female member of the terrorist cell, played with real verve by Maya Sansa. Some elements work extremely well: Bellocchio conveys the fear and suspicion of the cell members hiding out in an apartment purportedly inhabited by Chiara and her husband, who are as much prisoners as their hostage. But, for those not versed in this seminal episode of modern Italian history, Good Morning, Night is underwritten and lags in the middle. Though Bellocchio uses archival footage to great effect and the costuming and details are just right for 1978, the entire film is upstaged by the final news footage of the once-spry Pope John Paul II performing Moro's state funeral.
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