venerdì 19 dicembre 2003

Pablo Picasso, a Parigi

La Stampa 19.12.03
IN MOSTRA A PARIGI GLI ARCHIVI DELL’ARTISTA: UN UOMO CHE NON GETTAVA NIENTE E CATALOGAVA TUTTO, ANCHE GLI INSULTI
Picasso, la vita in scatola
Conservava persino i biglietti del tram
di Marco Vallora


PARIGI. «PERCHÉ dovrei sentirmi impegnato a gettar via quello che mi ha fatto la grazia di giungere sino a me?». Ci può essere frase più gentile e rivelatrice di questa? Tante qualità si possono ascrivere al rude, diretto Picasso: forse non proprio la gentilezza: la «delicatesse». Eppure è con il viatico nella testa di quell'espressione magnifica, insieme d'accettazione metafisica, di passività regale e di cosmica disponibilità, soprattutto toccata da una grazia sublime, che possiamo accingerci a visitare questa geniale mostra, aperta sino al 19 gennaio, al Museo parigino di Picasso, che si chiama Les archives de Picasso.
Abitualmente il termine di «archivio» spande intorno a sé un po' di sentore polveroso e pedante: fiato pesante della filologia ed esattezza maniacale. Certo questo non poteva capitare con Picasso, che forse era sì maniacale nel conservare tutto («Pablo il conservatore» lo chiamavano gli amici, a contrasto col suo ruolo rivoluzionario d'artista) ma pure non rischierà mai il sospetto di catalogatore precisino e noioso. E così i curatori di questa mostra, Marie-Paule Arnauld e Gérard Régnier, che non è poi altri che Jean Clair, hanno pensato di vivacizzare e teatralizare questo viaggio tra le sue carte, con una sottile messa in scena ed un'arte di racconto del personaggio, che è tutta francese.
Biglietti d'augurio ammonticchiati come in un trompe-l'oeil ottocentesco. Finte carpette-colonne per costruire l'architettura inquieta di questa cattedrale labile del ricordo. E poi un'immensa quadreria di tele, dipinte spesso in stile costituzionalmente anti-picassiano, che bambini ed adulti gli spedivano, per celebrare il genetliaco del Maestro ed il Culto di Sé. Ma Picasso, generoso ed avido, non gettava via nulla, perché tutto gli sembrava degno di sopravvivere (e certo non solo perché sanciva il trionfo definitivo della propria imago pubblica). Come quando il suo segretario Sabartès tentava di lasciarlo lavorare in pace, chiudeva le porte agli intrusi, e lui s'imbufaliva. «Non posso proprio. Lo so che quando dipingo tutto viene dal mio mondo interiore. Ma se so che di là c'è qualcuno, sono tormentato dall'idea che ci potrebbe essere qualcosa che io devo sapere. Io ho bisogno degli altri, non soltanto per quel che mi apportano, ma per questa mia terribile curiosità, che io devo comunque soddisfare».
E' lo stesso sentimento di avidità nei confronti della vita (quasi un esorcismo della paura di morire) che gli faceva conservare tutto, dai disegni degli amici ai biglietti del tram o del cinema (e non soltanto per nutrire i suoi collages) lettere di devozione come di disprezzo, fotografie, ritagli di stampa, appunti. La mostra ha un sottotitolo rivelatore, rubata al consapevolissimo artista: «si è quello che si conserva». Che pare ridisegnata sul protagonista di Quarto Potere di Orson Welles, che anche lui ammassava, accumulava, tesaurizzava, per illudersi di essere. Picasso non aveva dubbi sul suo essere, ma voleva che le cose restassero accanto a lui, come dei vivi feticci di protezione. Per questo, quando si sposò ed entrò nel ruolo del buon borghese, in Rue de la Boétie, si costruì una doppia casa inquietante: sotto, quella benestante e pretenziosa; sopra, un simmetrico regno stregonesco, ove crescevano stalagmiti impressionanti di documenti e scarti preziosi, cui nessuno poteva aver accesso, men che meno le domestiche. Perché lui aveva un culto sacro e nutritivo della polvere, sorta di abito propiziatorio: e giovane, quasi aveva alzato le mani sulla madre, che si era permessa di spazzolargli un cappotto, benedetto dalla polvere nostalgica di Parigi.
Ecco poi, all'appello, una quantità impressionante di lettere, di scambi, di biglietti, con poeti, pittori, mercanti, amici. Revery si limita a disegnare una specie di calligramma incolonnato come un sonetto, in cui ammette la volontà di deporre la sua ammirazione e basta. «Mio caro Picasso / questo qui non è nulla / né una lettera né un poema / solo qualche parola / scritta con fervore per voi/ per la nostra amicizia / e la grande ammirazione / che merita il grande / l'unico artista / che siete». Magnifico, l'eccentrico musicista Satie, con cui Picasso ha condiviso la burrascosa battaglia di Parade, che bussa leggermente alla porta della sua attenzione, per mandare un timido ricordo, con la sua artificialissima calligrafia miniata e déco: «Sono io, mio caro amico. Satie». E nient'altro. Oppure: «Complimenti affettuosi a Perruchette, vi prego»: il pappagallo di casa, con cui probabilmente si sentiva assai più a suo agio.
Con Stravinsky nulla, perché o si vedono e discutono animatamente, altrimenti non son tipi da sprecare tempo nelle missive. Radiguet fa invece il finto perbenino, scusandosi per il lungo silenzio: non ha ancora ringraziato per il dono del ritratto, che nobiliterà la sua raccolta di poemi. E s'intuisce subito che alle spalle c'è il vecchio Cocteau («Jean è qui, malato, ecco perché non vi ha ancora scritto») che gli fa le rampogne e lo rimprovera per non aver ancora mandato due righe. Quanto a Cocteau, è tutto un piagnisteo: «non dimenticarti di me», «perché non m'hai ancora risposto?»: ma c'è un affiatamento quasi morboso. Che noiosino invece Magritte, che trova ogni scusa, per informarsi, una lagna, se ci sono sbocchi di mercato e mercanti da consigliare. Picasso ogni volta risponde, anche agli sconosciuti, e aggiunge (sulle missive d'omaggio o di questua) un appunto, per ricordarsi la propria reazione. Che pazienza impressionante! Anche quando ha la cattiva idea di rispondere ad un giornalista che «vorrebbe essere povero», ed allora è subissato di rabbie, di proteste, di richieste. E come si sarà divertito, quando un ragazzino replica: «Io invece amerei esser ricco. Dipende solo da voi». O quando riceve un busta con sopra la sua immagine ritagliata e sotto scritto solo: Cannes. Naturalmente gli arriva. Come quando il grande David imbustò per «Canova. Europa», e la missiva trovò naturalmente la sua via.

depressione e aggressività

www.Staibene.it
Venerdì 19 Dicembre 2003, 10:00
Bimbi più aggressivi se la mamma ha sofferto di depressione


Bambini aggressivi e violenti? Forse è colpa delle mamme che hanno sofferto di depressione dopo il parto. Lo studio è stato condotto da ricercatori della Cardiff University, su 112 famiglie londinesi, con ragazzi di 11 anni. I ricercatori hanno monitorato prima le donne in attesa e poi i bambini in tre diversi momenti della crescita, scoprendo così che risse, sospensioni e note in condotta vedono più spesso protagonisti i ragazzini le cui mamme sono state colpite da depressione tre mesi dopo il parto.
Decisamente poco tranquilli anche i figli di donne con ripetute crisi depressive. La maggioranza dei bambini coinvolti nello studio non era violenta, precisano i ricercatori, quanto piuttosto incline a cattivi comportamenti. Un problema soprattutto per i maschi, mentre le femmine sembrano risentire di meno dell'effetto della depressione materna.

storie dell'uomo:
nuove ipotesi su Atlantide

La Repubblica 19.12.03
IL SUCCESSO DEL LIBRO DI FRAU
SE ATLANTIDE ESCE DAL MITO E DIVENTA STORIA
di PAOLO MAURI


L'ultimo evento risale a pochi giorni fa: al Suor Orsola Benincasa si è tenuta una tavola rotonda con cinque antichisti per discutere la tesi avanzata da Sergio Frau nel suo libro-inchiesta sulle colonne d'Ercole, edito da Nur Neon. Come i lettori di Repubblica ricorderanno (il nostro giornale ha anticipato le parti salienti del libro) si tratta né più né meno di una vistosa correzione alla geografia in uso dal Medio Evo in qua. Dante pone infatti le Colonne a Gibilterra, ma questo comporta (sto riassumendo alla buona) una stupefacente lettura dei testi antichi: risultano infatti tutti sbagliati, con città e luoghi di cui non si trova alcuna traccia archeologica o almeno documentaria.
Frau ha spostato le Colonne al Canale di Sicilia e improvvisamente tutto il puzzle della geografia antica è tornato al suo posto: le città, gli dei, il problema della navigazione? Rileggendo Platone alla luce della tesi avanzata da Frau si risolve persino il problema di Atlantide. Altro non sarebbe che la Sardegna, passata attraverso autentici cataclismi. Ma all'autore non preme affatto mettersi nella lunga schiera dei cercatori di Atlantide, genere prediletto dai fantaarcheologi, molto di più gli preme la verifica di quanto ha scoperto. Nei pochi mesi che ci separano dall'uscita del libro, che è già alla sesta ristampa con circa ventimila copie vendute, non poche per un tomo di oltre seicento pagine e zeppo di citazioni, le conferme non sono mancate.
Per Luis Godart, che è un celebre archeologo, l'inchiesta di Frau «lancia una teoria rivoluzionaria, e costringe chiunque a ripensare molte delle certezze che riguardano gli studi in corso». Per il geologo del Cnr Mario Tozzi il libro è «per molti aspetti clamoroso».
È già clamoroso, aggiungiamo noi, che il lavoro di un giornalista sia stato preso così sul serio dall'Accademia in genere gelosa dei suoi territori, ma qui tutto è documentato e l'ipotesi viene appunto consegnata nelle mani di coloro che per mestiere si occupano di geografia e di storia antica perché dicano la loro.
La rivista Diogéne sta appunto per pubblicare nel suo numero 2004, un dossier sulle Colonne d'Ercole di Frau con contributi di Andrea Carandini, Luciano Canfora, Sergio F. Donadoni, Jean Bingen e Vittorio Castellani.
Castellani, che è un astrofisico della Normale di Pisa, aveva scritto anni fa un libro in cui collegava il discorso di Platone su Atlantide con l'innalzamento dei mari alla fine dell'ultima glaciazione che avrebbe provocato la sommersione di vasti territori popolati. Proprio quel libro aveva spinto Frau a condurre la propria inchiesta e oggi Castellani definisce il lavoro di Frau incredibile per i risultati raggiunti e per la mole di dati accumulati. Castellani aveva posto Atlantide nelle Isole Britanniche ma dopo aver letto Frau si è convinto di aver sbagliato. «Di colpo tutto si fa chiaro e in particolare si fa chiaro quanto Platone dice nel Timeo di Atlantide: "perché davanti a quella foce che viene chiamata come dite, le Colonne d'Eracle, c'era un'isola? e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta intorno a quello che è veramente mare". Passo che ha formato la croce di tutte le collocazioni di Atlantide, e che mal si attaglia, e con fatica, anche all'ipotesi delle isole britanniche. Tutto invece pare ora diventare chiaro. Al di là del canale di Sicilia c'è Atlantide-Sardegna, e al di là ancora altre isole sino ad arrivare al continente che, dall'Italia alla Spagna ed alle coste africane davvero circonda un mare: il Tirreno-Mediterraneo». Insomma, se tutto è vero, Atlantide esce dal mito e diventa storia, perché poi la Sardegna nella sua realtà archeologica è ancora poco studiata. L'inchiesta di Frau è stata alla base di due speciali televisivi e l'impressione è che più si procede negli studi e più se ne discuterà.


gli articoli precedenti

Senza titolo
Stargate: Fabio Tamburini sarà a Malta per indagare sulle Colonne d'Ercole. La memoria collettiva le ha sempre collocate a Gibilterra tra Mediterraneo e Atlantico. Il giornalista Sergio Frau rivoluziona tale tesi e le pone nel canale di Sicilia. Nella seconda parte si seguono le tracce di Atlantide. Secondo Frau, l'isola scomparsa era situata in Sardegna.


E se Atlantide fosse davvero la Sardegna? Ercole voleva il numero chiuso contro i greci
di Roberta Mocco


Magari sarà per via di quella sardità già segnalata dal cognome: “Non sono io, sono gli antichi a dirlo: Platone, Erodoto, mica niente”. Eppure è proprio Sergio Frau, 54 anni, (nella foto), romano, inviato di Repubblica - redazione Cultura - di madre bergamasca e padre sardo (nato in “Casa Frau” di Pula), ad aver pensato l’impensabile: identificare la Sardegna con Atlantide. Un’isola dal nebuloso passato di cui resta visibile traccia solo nei nuraghi, e una terra - isola, continente? - impregnata di mito e leggenda, sparita o sprofondata da qualche parte e cercata dappertutto, posizionata dovunque da migliaia di libri e teorie. E sarebbero la stessa isola, secondo la ricerca di Frau “Le colonne d’Ercole: un’inchiesta”, pubblicata dalla casa editrice romana Nur Neon. Ponderoso volume, “un mattone” - scherza l’autore - di 672 pagine, dense di richiami e citazioni, di carte e mappe di ogni epoca, frutto di due anni di ricerca sistematica e maniacale su testi antichi e materiale specialistico.
Punto di partenza della teoria di Frau è una specie di Rivoluzione Copernicana della protogeografia: spostare le colonne d’Ercole, confine tradizionale del mondo antico oggi identificato con lo stretto di Gibilterra, nel Canale di Sicilia: il braccio di mare tra la Tunisia e la Sicilia, che un tempo era molto più angusto.
L’intuizione di Frau è scattata proprio dalle analisi geologiche di come era il Mediterraneo millenni fa, compiute da Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all’Università di Pisa. Nel libro “Quando il mare sommerse l’Europa” l’astrofisico spiega che nella protostoria (circa cinquemila anni fa) il livello del mare Mediterraneo era assai più basso di adesso. E illustra il tutto con dovizia di cartine. Ed è proprio sfogliando il libro di Castellani che Frau si trova di fronte la mappa dello stretto di Gibilterra e, nella pagina a fianco, quella del canale di Sicilia, dove allora i fondali erano più bassi di 200 metri. Praticamente due stretti, anziché uno, e tutti e due nel Mediterraneo. E che succede? Prima il panico di un giornalista che, per quanto di lunghissima esperienza, si sente sempre un po’ “ospite” negli ambienti accademici e specialistici. Scrive Frau nel suo libro: “Dàgli a ripetersi - per riprendersi- che, certo, quella era una sorpresa solo per ignoranti. Che era mica una cartina inedita, quella, e che chiunque va per mare la conosce, che non era certo uno scoop”. Ma, da buon sardo ostinato, Frau comincia la ricerca per capire chi per primo avesse accreditato la tradizionale collocazione a Gibilterra. Consulta i testi di viaggiatori e geografi antichi, li confronta con le interpretazioni teoriche date nei secoli dagli studiosi e scopre tutta una serie di incongruenze che vengono “aggiustate” con un lungo sforzo interpretativo, fino a separare nettamente ciò che gli antichi dicono e ciò che gli studiosi pensano.
Il primo geografo a piazzare chiaramente le colonne d’Ercole a Gibilterra fu Eratostene, per esigenze di “simmetria propagandistica”. Eratostene era al servizio di Alessandro Magno, “uno abbastanza fissato con la geografia - sentenzia Frau - tanto che in giro per le sue conquiste portava sempre con sé alcuni soldati addetti a misurare la distanza percorsa contando il numero di passi fatti”. Gli enormi spazi percorsi a Oriente dalle truppe di Alessandro smentivano la tradizione secondo cui la Grecia fosse il centro del mondo conosciuto: a meno che le colonne d’Ercole non venissero collocate a Gibilterra. Ed ecco nata la tradizione che, secondo Frau, non ha niente a che fare con quello che gli antichi greci pensavano dei veri confini del loro mondo. Nessuna distanza, nessun itinerario descritto dai viaggiatori della Grecia classica coincide con la mappa del mondo così come si delinea considerando l’intero Mediterraneo come “terra cognita” dagli antichi Greci.
Tutto invece va al posto suo se si limita questo spazio al Mediterraneo orientale. Anche la vera collocazione della zona di influenza della Grecia antica, che terminava dove cominciava la porzione di mare dove spadroneggiavano Fenici e Cartaginesi: cioè ad ovest della Sicilia, appunto. Le colonne d’Ercole verrebbero così a delimitare quella che il grande Sabatino Moscati, sui Quaderni dell’Accademia dei Lincei, ha chiamato la “cortina di ferro” dell’antichità.
E la Sardegna come diventa Atlantide? Ricollocando le colonne d’Ercole nel canale di Sicilia, traslocano all’interno del Mediterraneo tutti quei miti e luoghi leggendari estromessi nell’Oceano e lì lasciati in balìa alle ipotesi più peregrine. Lo stesso Frau, più che di Atlantide, preferisce parlare di Isola di Atlante, perché il nome Atlantide è stato usurato dagli “ufaroli”, come li chiama lui: tutti coloro che sulla leggenda dell’isola-continente sprofondata hanno sovrapposto di volta in volta gli extraterrestri, i Mu, l’Antartide e via delirando. Questa teoria dirada un po’ le nebbie affascinanti dei miti per mostrare un solido sostrato di prosaica verità. “I miti non erano favole e basta - dice Frau. - Non questi miti, che raccontavano di terre lontane ma spiegavano come raggiungerle e elencavano tutto quello che ci si trovava con pedanteria minuziosa, come fa Platone per Atlantide nel “Crizia”. I miti erano racconti e anche sistemi di mnemotecnica per costruire a mente una geografia del tempo antico”. Tutto coincide: l’isola di Atlante è descritta come terra dal clima mite, che dà più raccolti all’anno, ricca di metalli preziosi, regnante sui Tirrenici, ossia il “popolo delle torri”. Le torri sono i nuraghi, gli ottomila nuraghi che secondo gli studiosi affollavano l’isola a quel tempo.
Non solo: le descrizioni coincidono in maniera impressionante anche con quello che si diceva di un altro luogo del mito, la Tartesso terra ricca di messi e frutti, ma soprattutto terra dell’argento, di miniere ricchissime e famose. Quelle per cui il Gennargentu era davvero, nell’antichità, la “porta dell’argento”. Tartesso, identificata di volta in volta con terre d’oltreoceano, l’Andalusia, la Spagna, persino la Britannia. Un’altra prova dell’equazione Tartesso uguale Sardegna è la stele in pietra ritrovata a Nora, e che ora giace in un angolo un po’ trascurato del museo Archeologico di Cagliari. Lì è incisa la scritta fenicia con il nome di “Tarshish”.
Quello che più conforta la reinterpretazione fatta da Frau è che le distanze e i riferimenti geografici, che gli antichi fanno nel raccontare di queste due terre mitiche, risultano alla perfezione; cosa che non succede invece se si spostano le colonne d’Ercole a Gibilterra.
Qualche difficoltà di spiegazione viene dalle date che indica Platone per dare i tempi della storia gloriosa di Atlantide. Parla infatti di “novemila anni” nel passato rispetto alla sua epoca. Qui Frau si ritrova a fare l’ “aggiustamento” più rilevante sulle parole degli antichi, e lo fa seguendo ancora una volta una logica prosaica che allontana dalle suggestive leggende. Non è pensabile che un popolo che usava i metalli, conoscitore della scrittura, potesse esistere nel Diecimila prima di Cristo. E strano è misurare in anni il tempo, cosa che i Greci non facevano mai. Tutto torna, invece, se si interpreta come “mesi” ciò che per secoli è stato tradotto come “anni”. Un rammendo interpretativo visibile, ma motivato.
In questo modo, inoltre, coinciderebbero i tempi con lo sviluppo della civiltà nuragica, il popolo “venuto dal mare”, come lo chiama Platone, ossia gli Shardana, gli stessi che ritroviamo poi schiavi del faraone Ramsete. E la fantasmagorica “inondazione” che avrebbe colpito Atlantide? Colpì in effetti la Sardegna nuragica, trasformata in una palude, abbandonata da gran parte del suo popolo.
Al posto dei terreni fertili e verdeggianti restano gli acquitrini di quello che ora è il Campidano Ed ecco ricostruita la strada che li porta, vinti, in catene, alla corte di Ramsete. Una teoria complessa e affascinante- quella di Sergio Frau- che spiega tanti di quegli enigmi rimasti aperti sul passato del Mediterraneo antico. E che a noi sardi, sempre un po’ piagnoni, regalerebbe una patente inaspettata di civiltà grandiosa.

La parola agli archeologi veri

Sergio Frau, 54 anni, romano figlio di padre sardo e madre bergamasca, lavora nella redazione Cultura di Repubblica. Che cosa dicono di lui gli archeologi “veri”? Cosa pensano delle sue teorie?
Maria Giulia Adamasi Guzzo, docente di Epigrafia semitica all’Università “La Sapienza” di Roma: “Un brutto tiro a chi pensava che tutto ormai fosse assodato. I dati raccolti s’incastrano l’un l’altro. Si deve, dunque, ricominciare a fare i conti con le datazioni delle altre fonti classiche. Forse essere disposti a reinterpretarle, a capirle davvero”.
Lorenzo Braccesi, docente di Storia antica all’Università di Padova: “Quando i Greci, in età classica, divulgano il mito di Atlantide sono senz’altro convinti che si sia trovata al di là di Gibilterra. La tradizione a cui attingono, però, poteva benissimo averla ubicata in un remotissimo e non più storicizzabile passato, al di là di Colonne d’Eracle, situate originariamente sul Canale di Sicilia…”.
Sergio F. Donadoni, egittologo, accademico dei Lincei: “Ce ne sono talmente tante di Colonne d’Ercole in giro che le prime potrebbero essere state davvero lì, al Canale, e poi spostate man mano che il mondo si faceva più grande”. Sergio Ribichini, storico delle religioni e ricercatore all’Istituto di studi fenicio-punici del Cnr: “ Mentre leggevo ho preso appunti. Per dire no, che qui non sono d’accordo e neppure qui e nemmeno là; e ancora: boh, forse, chissà. Ma ho pure cominciato, lentamente, quasi con ritegno, a dirmi: sì, caspita, è vero, com’è che non ci avevo pensato, ma guarda, e io che non c’ero arrivato, ha ragione, anzi, però…”
Giovanni Lilliu, archeologo e accademico dei Lincei:”Di fronte a dati nuovi è un obbligo - in archeologia - rivedere le proprie convinzioni”.
Per i più curiosi ecco l’email di Sergio Frau: s.frau@repubblica.it

Atlantico, Cipro, Sahara: tre nuove spedizioni pronte a partire
Caccia ad Atlantide, città perduta sotto un mare d' acqua o di sabbia
L''antica civiltà raccontata da Platone torna al centro dell'attenzione e delle ricerche degli archeologi e degli esploratori Quel luogo fantastico prende forma sempre più concreta Non è soltanto letteratura La maggiore isola di un arcipelago, coperta dalle acque 11.000 anni fa fu inghiottita da un mare di sabbia: una tesi già accreditata nell' Ottocento
di CINZIA DAL MASO


ROMA - Allacciate le cinture, si parte. Destinazione: Atlantide. Tre spedizioni sono pronte a "salpare" per dimostrare che il grande impero perduto è esistito davvero. Per sciogliere il millenario enigma con prove concrete, e usando i dialoghi di Platone come mappa del tesoro. Non si pongono neppure il dubbio che quello di Platone sia solo un mito, ambientato in un' isola inesistente oltre i limiti del mondo allora conosciuto, le Colonne d' Ercole (come diceva già Aristotele e, da ultimo, un libro in uscita in questi giorni in Francia, "Atlantide la solution oubliée" di Jacques Hébert, ed. Carnot). Per loro quel luogo è assolutamente reale. Anzi, secondo l'archeologo Jacques Collina-Girard dell'Università di Aix en Provence, è proprio lì dove lo descrive Platone, un'isola in Atlantico poco oltre le Colonne. Ora è nota come la piattaforma di Spartel, sommersa da oltre 100 metri d'acqua, ma durante l'ultima glaciazione era terra emersa. Un'isola, la maggiore di un arcipelago di sette isole, l'ultima a venire coperta dalle acque circa 11.000 anni fa, come racconta Platone. Questo Collina-Girard lo mise nero su bianco già nel 2001. E l'estate prossima partirà alla ricerca delle prove. Tracce di vita sulla piattaforma, indizi che rivelino che, prima di essere inghiottita dai flutti, quell' isola era abitata dall' uomo. Ha trovato i compagni giusti, gli esploratori di oceani Paul-Henri Nargeolet e George Tulloch, capifila delle molte spedizioni che hanno recuperato gli oggetti dal Titanic. Con un sommergibile indagheranno le grotte dell'isola sommersa così come hanno ispezionato le cabine del transatlantico. Alla ricerca di tesori non meno preziosi. La seconda spedizione vagherà invece le primavera prossima tra le sabbie del Sahara, capofila l' inglese Carla Sage. La tesi non è nuova, risale all' Ottocento. E ai primi del Novecento si fece romanzo grazie alla penna di Pierre Benoit. Atlantide era un grande impero continentale che commerciava con i popoli del Mediterraneo. Lo inghiottì un mare non d'acqua ma di sabbia. Del resto, i geologi sanno bene come l'innalzarsi delle temperature abbia trasformato la fertile pianura sahariana in deserto. Ora, Sage ne è convinta, l'high-tech scoverà anche l'antica metropoli sommersa dalle sabbie. Gli annunci delle due spedizioni sono stati preceduti dall'uscita negli Usa per Origin Press di un bel libro illustrato con tanto di mappe batimetriche e modelli 3D a dimostrare che Atlantide è al largo della costa di Cipro. L'autore, Robert Sarmast, ha individuato una piattaforma a circa 1.500 metri di profondità che, secondo lui, prima dell'ultimo scioglimento dei ghiacci era terra emersa e corrisponde punto per punto al racconto platonico. Conta anche lui di andare a indagare, convinto di trovare sotto il Mediterraneo mura, templi e palazzi. E intanto c'è chi la propria Atlantide sta già cominciando a scoprirla. Sono gli archeologi inglesi della Newcastle University che a settembre hanno trovato selci e altri oggetti preistorici al largo della foce del fiume Tyne. Per caso, durante un corso di subacquea. I geologi sanno da tempo che, nell'ultima glaciazione, il mare del Nord era una vasta pianura poi sommersa dalle acque. Ma gli archeologi hanno sempre giudicato difficile trovare tracce di vita così antica tra i flutti. Il caso ha dimostrato che invece si può. Così ora l'English Heritage ha deciso di mettere in campo le più aggiornate tecnologie per mappare il fondale del mare del Nord. E scovare ogni traccia possibile dei nostri antenati

L'archeologo Jacques Collina-Girard ha trovato la sua 'antica civiltà'
è un' isola di fronte a Gibilterra
l'intervista


ROMA - Archeologo e paleontologo, Jacques Collina-Girard si è imbattuto in Atlantide per caso. «Stavo facendo ricerche con dei colleghi in Marocco, studiavamo gli effetti dell' ultimo grande cambiamento climatico. Scoprimmo che tra le terre che vennero sommerse c'era un' isola di fronte a Gibilterra. Non ebbi dubbi, è l' Atlantide di Platone». La geologia corrisponde con il racconto del filosofo? «Tutto: la collocazione, la descrizione dell' isola, l'epoca della catastrofe». Platone dice che l'isola "era più grande della Libia e dell'Asia riunite", mentre la sua Atlantide misura circa 14 chilometri per 5. E Platone parla di un cataclisma improvviso, non di un lento alzarsi delle acque. «Sono invenzioni di Platone per "drammaticizzare" maggiormente l'evento. Come lo è anche l'idea di una civiltà progredita. Io non credo al mito di Atlantide, ma a un evento che gli uomini sperimentarono e poi tramandarono oralmente. Videro le acque impadronirsi delle terre al termine dell'ultima glaciazione e inventarono la storia di Atlantide così come quella del diluvio universale. Platone l'ha usata per un suo insegnamento, aggiungendoci la descrizione della società ideale». Chi erano gli uomini che vivevano sull' isola ora sommersa? «Cacciatori e raccoglitori del Paleolitico. Nessuna civiltà altamente progredita, gli "Atlantidei" non costruivano templi o palazzi favolosi». E cosa spera di trovare con le sue indagini dell'estate prossima? «Voglio esaminare da vicino l'antica linea di costa, cercare caverne o altri luoghi dove gli uomini del Paleolitico si possono essere insediati, trovare magari oggetti che possano rivelare se gli abitanti dell'isola venivano dall'Africa o dall'Europa». è importante? «Moltissimo. Platone dice che Atlantide invase altre terre, e credo che si riferisca a una colonizzazione del nord Africa da parte di genti europee durante il picco della glaciazione circa 20.000 anni fa. Spero di poterlo dimostrare». (c.d.m.)

un nuovo articolo su
“La Danza del Drago giallo”

una segnalazione di Mentore Riccio

Il Cittadino Oggi (di Siena) venerdì 19 dicembre 2003
In onda “La danza del drago giallo”
articolo di Rosa Franca Cigliano


Siena. Questa sera alle 17,40 [le date della messa in onda del film di Domenico Fargnoli sono cambiate: vedi il post specifico ndr] il Canale Civico manderà in onda la seconda proiezione del video “La Danza del Drago giallo”, realizzato dallo psichiatra Domenico Fargnoli in collaborazione con lo studio “Videodocumentazione” di Siena. Girato fra Siena e Firenze, il video si snoda come una narrazione poetica a più voci in cui prendono corpo diverse figure: lo psichiatra, l’artista ed un gruppo dall’iniziale fisionomia incerta (“umbratili presenze”). Sarà proprio la dialettica fra l’arte e una nuova immagine della psichiatria, entrambe legate alla realtà non consapevole dell’uomo, a determinare la fisionomia di questo gruppo composto da attori, protagonisti di una profonda trasformazione.

Una “nascita” storicamente mai prima realizzata che va al di là della particolarità delle storie individuali, per acquistare una risonanza collettiva e universale.

Il tema della trasformazione pervade d’altra parte anche lo stesso linguaggio cinematografico proposto dall’autore. Fatto di inquadrature, di fotografia in bianco e nero, dell’uso di una particolare modalità di ripresa che scompone le immagini in pennellate di luce dove si indovinano nuove forme in ciò che sembrava già noto. Tutto si alterna, creando un effetto dinamico, un movimento che si fonde con la forte carica emozionale che gli attori, non professionisti per scelta intenzionale del regista, riescono con intensità crescente a trasmettere allo spettatore. “La Danza del Drago giallo” sarà nuovamente in onda lunedì prossimo alle 14,40.