Panorama 27 settembre 2004
Dopo Confucio e Mao tutti da Freud
di Angelo Sica
Nell'ultima indagine nazionale, la Società cinese di psicologia ha rilevato che, nelle aree metropolitane, il numero dei divorzi ha avuto un'impennata, sono aumentati gli episodi di violenza e il suicidio è diventata la principale causa di morte tra i giovani
Il bisogno di psicoanalisi rispecchia i cambiamenti epocali che stanno ridisegnando la società cinese. Nei sondaggi un terzo del campione si è dichiarato frustrato, pieno di rabbia, oppure apatico. Il senso di insicurezza si è diffuso durante l'epidemia della sars, ma debellata la malattia, è rimasta l'ansia.
Confucio, Mao e adesso Freud. Il bisogno di psicoanalisi rispecchia i cambiamenti epocali che stanno ridisegnando la società cinese. Come il paese si è lasciato alle spalle la pianificazione economica per avventurarsi nel libero mercato; così la popolazione urbana, protagonista della new economy cinese, ha scoperto lo shock della competizione e dello stress. Sradicati dai tradizionali valori dell'autocontrollo, dell'efficienza, della fiducia nella comunità, impauriti dalla sars, messi a confronto con il consumismo, i cinesi si ritrovano depressi sul lettino mentre chiedono allo psicologo un nuovo equilibrio.
AUMENTO DEI DIVORZI E DEI SUICIDI
Nell'ultima indagine nazionale la Società cinese di psicologia ha rilevato che, nelle aree metropolitane, il numero dei divorzi, da sempre modestissimo, ha avuto un'impennata; sono aumentati gli episodi di violenza; il suicidio è diventata la principale causa di morte tra i giovani. Inoltre, nelle interviste, un terzo del campione si è dichiarato frustrato, pieno di rabbia, oppure apatico. Il senso di insicurezza si è diffuso durante l'epidemia della sars, ma debellata la malattia, è rimasta l'ansia.
Secondo gli studiosi, nelle giovani generazioni l'instabilità è dovuta dalla particolare forma che ha assunto la famiglia cinese per effetto della politica demografica.
TROPPI FIGLI UNICI
La limitazione di un solo figlio, imposta alle coppie da Deng Xiaoping nel 1979 per combattere la sovrappopolazione, ha creato una schiera di figli unici protetti, viziati, ipercoccolati tra le mura domestiche. I "piccoli imperatori e imperatrici", come vengono definiti dai sociologi, mancano di educazione alla socialità ed entrano in depressione appena interagiscono con l'ambiente competitivo che trovano a scuola o nel luogo di lavoro. Telefonano agli ospedali in cerca di un aiuto specialistico. Navigano su internet per mettersi in contatto (e in cura online) con studi terapeutici negli Usa. Consumano Prozac come se fosse Aspirina (dal 2001 le vendite dell'antidepressivo sono quasi raddoppiate).
AUTODIDATTI IN CERCA DI FACILI GUADAGNI
Per far passare l'ansia di un esame scolastico i genitori dei "piccoli imperatori" sono disposti a pagare uno psicologo anche 240 dollari l'ora. Nata dal nulla, l'industria terapeutica è un mercato in espansione: prolifera la vendita di medicinali; spuntano schiere di psicologi autodidatti in cerca di facili guadagni. Per correre ai ripari il governo cinese ha finalmente sdoganato Sigmund Freud, figura oscurata per quarant'anni dall'ombra di Mao Zedong. Dal 1966, infatti, la rivoluzione culturale etichettò la psicologia come pseudoscienza inventata dal capitalismo espansionista. Fino alla fine degli anni Settanta i comunisti intransigenti vietarono la ricerca, distrussero intere bibliografie, obbligarono gli studiosi a lasciare le università per allevare i maiali nei campi. Dopo l'entrata nel libero mercato e l'epidemia di sars la situazione si è capovolta.
4 MILA LAUREATI L'ANNO
Un rapporto governativo identifica la psicologia come una delle sei discipline che nei prossimi due decenni godranno di priorità nello stanziamento di fondi strategici allo sviluppo. Dal 2000 le università del paese hanno raddoppiato i dipartimenti di psicologia e riescono ora a laureare circa 4 mila studenti l'anno. Nel 2003 il ministro del Lavoro e della sicurezza sociale ha fissato regole nazionali per praticare la professione, rilasciando in un anno oltre tremila licenze. L'agosto scorso Pechino ha ospitato una conferenza internazionale sulla psicologia, la prima dedicata a questa disciplina in Cina.
COME VIENE GIUDICATO L'AMORE PER IL RISCHIO
Nella conferenza di Pechino gli accademici si sono trovati d'accordo sul prossimo obiettivo: trovare la "via cinese" alla psicoanalisi, creare cioè un modello di cura conciliabile con la cultura, la mentalità, la sensibilità nazionale. «La personalità è alla base della psicoterapia» spiega Wang Dengfeng, professore universitario della capitale, «la teoria occidentale della personalità non può essere valida in Cina. I popoli di culture così differenti pensano e si comportano in modo diverso. Ad esempio, una persona che ama il rischio è considerato un estroverso secondo i canoni occidentali. Questo è un giudizio positivo, un riconoscimento della fiducia in se stessi. In Cina vale il contrario. Una persona che ama il rischio viene considerata troppo emotiva, incapace di autocontrollo. In definitiva, una personalità debole».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 28 settembre 2004
ancora sugli antidepressivi
ricevuto da Francesco Troccoli
First World
FDA likely to add black box warning for antidepressants
William Kanapaux
09/24/2004
Dr. Robert Temple, the director of the FDA's office of medical policy, told a congressional committee that the agency will likely require a black-box warning on all antidepressant drug labels, CBS MarketWatch and other news sources report. A final decision on how to handle the warnings of a possibility of suicide risk from antidepressant use could come within days or possibly weeks, he said. A panel of outside experts recommended earlier this month that the FDA highlight the risk in the most serious warning label. Temple said that the FDA is "thinking about" adding a black-box warning to labels of antidepressants but that the decision is "by no means final," CBS MarketWatch reports. He noted that some groups have expressed concern to the agency that a black-box warning may scare physicians away from prescribing antidepressants to patients who need them. The FDA could instead decide to use a bolded-print label for a similar effect, he said. Temple also said at the hearing of the investigations subcommittee of the U.S. House Energy and Commerce Committee that the agency kept one of its researchers from presenting findings about the possible suicide risk of antidepressants last February because the data were unclear and needed more analysis, reports news sources. "We didn't think the information was wrong. We just didn't think it was ripe yet. We thought the cases needed to be looked at before a conclusion was reached," he is quoted as saying in news sources. "A premature conclusion ... would be a disservice to the public health."
First World
FDA likely to add black box warning for antidepressants
William Kanapaux
09/24/2004
Dr. Robert Temple, the director of the FDA's office of medical policy, told a congressional committee that the agency will likely require a black-box warning on all antidepressant drug labels, CBS MarketWatch and other news sources report. A final decision on how to handle the warnings of a possibility of suicide risk from antidepressant use could come within days or possibly weeks, he said. A panel of outside experts recommended earlier this month that the FDA highlight the risk in the most serious warning label. Temple said that the FDA is "thinking about" adding a black-box warning to labels of antidepressants but that the decision is "by no means final," CBS MarketWatch reports. He noted that some groups have expressed concern to the agency that a black-box warning may scare physicians away from prescribing antidepressants to patients who need them. The FDA could instead decide to use a bolded-print label for a similar effect, he said. Temple also said at the hearing of the investigations subcommittee of the U.S. House Energy and Commerce Committee that the agency kept one of its researchers from presenting findings about the possible suicide risk of antidepressants last February because the data were unclear and needed more analysis, reports news sources. "We didn't think the information was wrong. We just didn't think it was ripe yet. We thought the cases needed to be looked at before a conclusion was reached," he is quoted as saying in news sources. "A premature conclusion ... would be a disservice to the public health."
le donne musulmane in Italia
Corriere della Sera 28.9.04
Aisha, Samira e le altre: la poligamia in Italia
Migliaia di donne musulmane senza tutele. «Abusi e violenze, la legge non ci protegge dalla sharia»
di Magdi Allam
ROMA - Poligamia, tanta violenza e un secco rifiuto di «concedere» il ripudio. Perché Aisha è una schiava dei nostri tempi: è costretta a lavorare duro per mantenere il marito-padrone, deve rassegnarsi a farsi sfruttare fino all’ultimo dei suoi giorni. Se non si concede, se disobbedisce, se si ribella, lui ammazza di botte lei e la figlia, prende in mano l’acido e minaccia di deturpare i loro volti, esibisce una tanica di benzina e promette di dare fuoco alla casa. Alla fine lei si è fatta coraggio e l’ha denunciato alla Polizia. Ma la risposta è stata raggelante: le autorità italiane non possono intervenire fintantoché lei non dimostri di aver divorziato. Anche se in realtà il loro è un matrimonio islamico non riconosciuto dal nostro Stato. Indifferenti al fatto che il divorzio a una donna musulmana viene concesso solo in casi straordinari. Eppure succede in Italia: fette, esigue ma significative, del vissuto sociale dei residenti musulmani sono sottratte alle nostre leggi, sono sottomesse ai dettami della sharia , la legge islamica. A pagarne le conse guenze sono soprattutto migliaia di donne musulmane. Se, come attesta un’inchiesta da me svolta nel 2001, l’1,5 per cento dei musulmani in Italia sono poligami, significa che abbiamo a che fare con 15 mila casi, considerando anche le situazioni nei paesi d’origine. Pochi rispetto al milione di musulmani residenti, troppi per ciò che comporta sul piano della violazione della legalità e dei diritti fondamentali della persona. Il paradosso è che tutto ciò avviene, da un lato, all’ombra di un’interpretazione miope e burocratica del diritto internazionale che salvaguarda la legislazione del Paese d’origine degli immigrati in materia di stato civile e, dall’altro, di un atteggiamento fin troppo accondiscendente dei nostri magistrati all’insegna di una singolare percezione del relativismo culturale. La sentenza del tribunale di Bologna del 13 marzo 2003 ha indirettamente riconosciuto il diritto alla poligamia in Italia, sostenendo che «il reato di bigamia può essere commesso solo dal cittadino italiano sul territorio nazionale essendo irrilevante il comportamento tenuto all’estero dallo straniero la cui legge nazionale riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni».
Ebbene sono proprio le donne musulmane, vittime dei mariti-padroni, a contestare l’assenza di una legge che le protegga e a invocare l’intervento dello Stato italiano: «Sono da vent’anni in Italia. Ho sempre lavorato onestamente nelle case di tanti italiani - racconta Aisha -. Ho implorato mio marito di ripudiarmi. Ma lui non vuole. Gli interessa solo sfruttarmi». La figlia Huda ha tredici anni, è nata in Italia, ha studiato in Italia, i suoi amici sono italiani, si sente italiana al cento per cento. Quando negli scorsi giorni Aisha, 43 anni, presa dalla disperazione è stata tentata di fuggire nella sua Tunisia, Huda l’ha implorata: «Mamma non voglio, io voglio vivere in Italia». Ed è così che Aisha si è decisa a rivolgersi alle autorità di sicurezza. Perché anche lei si sente italiana. Il suo sogno è ottenere la cittadinanza italiana, farsi tutelare dalle nostre leggi.
Il matrimonio con Mohammad, cittadino egiziano, da tempo disoccupato e tossicodipendente cronico, fu celebrato nel 1990 in un ufficio di attività varie, gestito da un somalo a Roma. Si trattò del cosiddetto matrimonio islamico «consuetudinario» ( zawaj urfi ), che non necessariamente deve essere registrato. Per l’Italia non ha alcun valore legale. Eppure, sullo stato di famiglia, Aisha e Mohammad risultano sposati. Esclusivamente sulla base della constatazione della residenza domiciliare operata da un vigile urbano. «Lui mi nascose il fatto che aveva già una moglie e due figli in Egitto», ricorda Aisha. «Per me fu uno choc. Anche perché ero appena venuta fuori da un altro matrimonio poligamico. Il mio primo marito era sempre egiziano. Pure lui quando ci sposammo nel 1985 celò l’esistenza di una prima moglie italiana, da cui aveva avuto una figlia. Ho imparato a mie spese che cosa significa la poligamia: menzogne, sfruttamento, sottomissione e violenze».
Aisha, con voce sommessa, rammenta come, assecondando l’incessante corteggiamento di Mohammad, sia stata costretta a rinunciare al suo primogenito Omar, oggi un bel diciottenne con cittadinanza italiana ottenuta dopo essere stato adottato dalla matrigna italiana. Per Aisha è stato un duro colpo: «Forse è stato meglio così. Se Omar fosse rimasto con me, chissà che brutta fine avrebbe fatto». Per spiegarsi meglio dice: «Un giorno ho scoperto Mohammad che versava una polverina bianca nel bicchiere dell’aranciata di Huda, dicendole di bere. Io mi sono opposta. E’ un uomo senza scrupoli, è una bestia. Sarebbe capace di dare in pasto la figlia agli avanzi di galera che frequenta, spacciatori e consumatori di droga. Più di una volta mi ha teso il coltello alla gola minacciando di sgozzarmi se non gli davo centinaia di euro per comprarsi la droga. Negli ultimi tempi ho dovuto chiamare l’ambulanza due volte perché aveva assunto una dose eccessiva di stupefacenti».
Oggi Huda si presenta come una ragazza fragile, dallo sguardo perso, succube di un trauma non metabolizzato, parla poco e con difficoltà. Come lei in Italia ci sono tantissimi figli di famiglie poligame abbandonati a se stessi, spesso maltrattati, talvolta sfruttati, comunque segnati da un’esperienza indelebile: «Dobbiamo recuperare questi ragazzi vittime della violenza familiare, predisporre un programma di rieducazione psichica e sociale - chiede Souad Sbai, presidente dell’Associazione delle donne marocchine -; lancio un appello al ministro delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, perché intervenga a tutela dei figli e delle donne musulmane vittime della poligamia e della violenza».
Di fatto l’Italia è piena di casi simili. E anche di più strazianti. Samira, una tunisina residente a Torino, da più di dieci anni non vede i suoi due figli sottratti con la forza dal padre egiziano e nascosti nell’abitazione della sua seconda moglie in Egitto. Pure lei implora l’intervento dello Stato italiano per restituirle i figli. Nel frattempo è costretta a subire le vessazioni del marito che vive da parassita alle sue spalle nel nostro Paese. E da Nuoro la marocchina Halima, seconda moglie di un connazionale, ha preso il coraggio di denunciare il fatto che il marito, nullafacente, si fa mantenere da entrambe le consorti e le costringe a condividere la stessa casa. I consolati arabi in Italia conoscono centinaia di casi che coniugano la poligamia alla violenza. Ma preferiscono tacere. Contando anche sulla ritrosia delle autorità italiane a intervenire.
Questo fenomeno rivela come in realtà il conflitto tra le culture sia interno alla galassia islamica prima ancora di esserlo tra l’Islam e l’Occidente. Il maschilismo, la misoginia, il fanatismo e la violenza sono fortemente contrastati dalle donne e dagli uomini musulmani fautori dell’emancipazione femminile e dello Stato di diritto. Ed è singolare che proprio nel momento in cui la poligamia risulta in declino nei Paesi musulmani, perfino in quelli più conservatori come l’Arabia Saudita, guadagna invece terreno tra le comunità islamiche in Italia e nell’Occidente laico e cristiano. Facendo leva su condizioni di vita relativamente migliori e tollerata da interpretazioni benevole di codici giuridici ipergarantisti. I casi di Aisha, Samira e Halima devono farci riflettere. Aiutandole a emanciparsi dai mariti-padroni, aiuteremo noi stessi a liberarci da un cavallo di Troia integralista e fanatico che inquina la nostra libertà e il nostro Stato di diritto.
Magdi Allam www.corriere.it/allam
Aisha, Samira e le altre: la poligamia in Italia
Migliaia di donne musulmane senza tutele. «Abusi e violenze, la legge non ci protegge dalla sharia»
di Magdi Allam
ROMA - Poligamia, tanta violenza e un secco rifiuto di «concedere» il ripudio. Perché Aisha è una schiava dei nostri tempi: è costretta a lavorare duro per mantenere il marito-padrone, deve rassegnarsi a farsi sfruttare fino all’ultimo dei suoi giorni. Se non si concede, se disobbedisce, se si ribella, lui ammazza di botte lei e la figlia, prende in mano l’acido e minaccia di deturpare i loro volti, esibisce una tanica di benzina e promette di dare fuoco alla casa. Alla fine lei si è fatta coraggio e l’ha denunciato alla Polizia. Ma la risposta è stata raggelante: le autorità italiane non possono intervenire fintantoché lei non dimostri di aver divorziato. Anche se in realtà il loro è un matrimonio islamico non riconosciuto dal nostro Stato. Indifferenti al fatto che il divorzio a una donna musulmana viene concesso solo in casi straordinari. Eppure succede in Italia: fette, esigue ma significative, del vissuto sociale dei residenti musulmani sono sottratte alle nostre leggi, sono sottomesse ai dettami della sharia , la legge islamica. A pagarne le conse guenze sono soprattutto migliaia di donne musulmane. Se, come attesta un’inchiesta da me svolta nel 2001, l’1,5 per cento dei musulmani in Italia sono poligami, significa che abbiamo a che fare con 15 mila casi, considerando anche le situazioni nei paesi d’origine. Pochi rispetto al milione di musulmani residenti, troppi per ciò che comporta sul piano della violazione della legalità e dei diritti fondamentali della persona. Il paradosso è che tutto ciò avviene, da un lato, all’ombra di un’interpretazione miope e burocratica del diritto internazionale che salvaguarda la legislazione del Paese d’origine degli immigrati in materia di stato civile e, dall’altro, di un atteggiamento fin troppo accondiscendente dei nostri magistrati all’insegna di una singolare percezione del relativismo culturale. La sentenza del tribunale di Bologna del 13 marzo 2003 ha indirettamente riconosciuto il diritto alla poligamia in Italia, sostenendo che «il reato di bigamia può essere commesso solo dal cittadino italiano sul territorio nazionale essendo irrilevante il comportamento tenuto all’estero dallo straniero la cui legge nazionale riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni».
Ebbene sono proprio le donne musulmane, vittime dei mariti-padroni, a contestare l’assenza di una legge che le protegga e a invocare l’intervento dello Stato italiano: «Sono da vent’anni in Italia. Ho sempre lavorato onestamente nelle case di tanti italiani - racconta Aisha -. Ho implorato mio marito di ripudiarmi. Ma lui non vuole. Gli interessa solo sfruttarmi». La figlia Huda ha tredici anni, è nata in Italia, ha studiato in Italia, i suoi amici sono italiani, si sente italiana al cento per cento. Quando negli scorsi giorni Aisha, 43 anni, presa dalla disperazione è stata tentata di fuggire nella sua Tunisia, Huda l’ha implorata: «Mamma non voglio, io voglio vivere in Italia». Ed è così che Aisha si è decisa a rivolgersi alle autorità di sicurezza. Perché anche lei si sente italiana. Il suo sogno è ottenere la cittadinanza italiana, farsi tutelare dalle nostre leggi.
Il matrimonio con Mohammad, cittadino egiziano, da tempo disoccupato e tossicodipendente cronico, fu celebrato nel 1990 in un ufficio di attività varie, gestito da un somalo a Roma. Si trattò del cosiddetto matrimonio islamico «consuetudinario» ( zawaj urfi ), che non necessariamente deve essere registrato. Per l’Italia non ha alcun valore legale. Eppure, sullo stato di famiglia, Aisha e Mohammad risultano sposati. Esclusivamente sulla base della constatazione della residenza domiciliare operata da un vigile urbano. «Lui mi nascose il fatto che aveva già una moglie e due figli in Egitto», ricorda Aisha. «Per me fu uno choc. Anche perché ero appena venuta fuori da un altro matrimonio poligamico. Il mio primo marito era sempre egiziano. Pure lui quando ci sposammo nel 1985 celò l’esistenza di una prima moglie italiana, da cui aveva avuto una figlia. Ho imparato a mie spese che cosa significa la poligamia: menzogne, sfruttamento, sottomissione e violenze».
Aisha, con voce sommessa, rammenta come, assecondando l’incessante corteggiamento di Mohammad, sia stata costretta a rinunciare al suo primogenito Omar, oggi un bel diciottenne con cittadinanza italiana ottenuta dopo essere stato adottato dalla matrigna italiana. Per Aisha è stato un duro colpo: «Forse è stato meglio così. Se Omar fosse rimasto con me, chissà che brutta fine avrebbe fatto». Per spiegarsi meglio dice: «Un giorno ho scoperto Mohammad che versava una polverina bianca nel bicchiere dell’aranciata di Huda, dicendole di bere. Io mi sono opposta. E’ un uomo senza scrupoli, è una bestia. Sarebbe capace di dare in pasto la figlia agli avanzi di galera che frequenta, spacciatori e consumatori di droga. Più di una volta mi ha teso il coltello alla gola minacciando di sgozzarmi se non gli davo centinaia di euro per comprarsi la droga. Negli ultimi tempi ho dovuto chiamare l’ambulanza due volte perché aveva assunto una dose eccessiva di stupefacenti».
Oggi Huda si presenta come una ragazza fragile, dallo sguardo perso, succube di un trauma non metabolizzato, parla poco e con difficoltà. Come lei in Italia ci sono tantissimi figli di famiglie poligame abbandonati a se stessi, spesso maltrattati, talvolta sfruttati, comunque segnati da un’esperienza indelebile: «Dobbiamo recuperare questi ragazzi vittime della violenza familiare, predisporre un programma di rieducazione psichica e sociale - chiede Souad Sbai, presidente dell’Associazione delle donne marocchine -; lancio un appello al ministro delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, perché intervenga a tutela dei figli e delle donne musulmane vittime della poligamia e della violenza».
Di fatto l’Italia è piena di casi simili. E anche di più strazianti. Samira, una tunisina residente a Torino, da più di dieci anni non vede i suoi due figli sottratti con la forza dal padre egiziano e nascosti nell’abitazione della sua seconda moglie in Egitto. Pure lei implora l’intervento dello Stato italiano per restituirle i figli. Nel frattempo è costretta a subire le vessazioni del marito che vive da parassita alle sue spalle nel nostro Paese. E da Nuoro la marocchina Halima, seconda moglie di un connazionale, ha preso il coraggio di denunciare il fatto che il marito, nullafacente, si fa mantenere da entrambe le consorti e le costringe a condividere la stessa casa. I consolati arabi in Italia conoscono centinaia di casi che coniugano la poligamia alla violenza. Ma preferiscono tacere. Contando anche sulla ritrosia delle autorità italiane a intervenire.
Questo fenomeno rivela come in realtà il conflitto tra le culture sia interno alla galassia islamica prima ancora di esserlo tra l’Islam e l’Occidente. Il maschilismo, la misoginia, il fanatismo e la violenza sono fortemente contrastati dalle donne e dagli uomini musulmani fautori dell’emancipazione femminile e dello Stato di diritto. Ed è singolare che proprio nel momento in cui la poligamia risulta in declino nei Paesi musulmani, perfino in quelli più conservatori come l’Arabia Saudita, guadagna invece terreno tra le comunità islamiche in Italia e nell’Occidente laico e cristiano. Facendo leva su condizioni di vita relativamente migliori e tollerata da interpretazioni benevole di codici giuridici ipergarantisti. I casi di Aisha, Samira e Halima devono farci riflettere. Aiutandole a emanciparsi dai mariti-padroni, aiuteremo noi stessi a liberarci da un cavallo di Troia integralista e fanatico che inquina la nostra libertà e il nostro Stato di diritto.
Magdi Allam www.corriere.it/allam
violenze in famiglia
Corriere della Sera edizione di Roma 28.9.04
Dall’inizio del 2004 sono stati aperti 707 dossier, i «dottor Jekyll e mister Hyde» si nascondono in tutte le classi sociali
«Aumentano le violenze in famiglia»
Denuncia dell’associazione «Differenza donna»: gli abusi sulle partner in crescita dell’11 per cento
Lavinia Di Gianvito
Crescono le violenze in famiglia. Contro le donne e contro i bambini. Tra le mura domestiche mogli e figli vengono insultati, maltrattati, picchiati. Subiscono abusi sessuali e, nei casi più drammatici, le liti sfociano in spietati omicidi. Se poi il rapporto finisce, mariti, conviventi e fidanzati diventano ancora più aggressivi: il 60 per cento degli «ex» non abbandona la preda neanche quando la magistratura dispone l’allontanamento da casa. Per frenare tanta brutalità, nei casi più gravi resta solo il carcere. I dati raccolti da «Differenza donna» sono significativi. Il confronto fra il 2003 e il 2004 dimostra che la prepotenza maschile è aumentata dell’undici per cento. Ma chi ogni giorno assiste alle lacrime di mogli e madri disperate nelle due sedi dell’associazione non si sorprende: «Il trend è in salita da tre anni», sottolinea l’avvocato Teresa Manente. Il segno, sostiene, «di una restaurazione, di un ritorno alla cultura patriarcale».
Sono 707 i nuovi «dossier» aperti da «Differenza donna» in questi primi nove mesi dell’anno: in 360 casi le vittime si sono rivolte al centro antiviolenza di Villa Pamphili, in 347 a quello di Torre Spaccata. Tra il 1° gennaio e il 27 settembre 2003, invece, le due sedi dell’associazione avevano ricevuto, rispettivamente, 337 e 300 segnalazioni, per un totale di 637.
L’aggressore non è un emarginato. Anzi. «Chi maltratta la propria compagna è in genere un uomo "normale" - avverte Oria Gargano, responsabile della sede di Villa Pamphili -. Non è né tossicodipendente né alcolizzato né psicotico. Ha un lavoro e relazioni sociali. Spesso amici e conoscenti lo considerano simpatico e cortese».
I «dottor Jekyll e mister Hyde» sono diffusi in tutte le classi sociali: la violenza in famiglia non dipende dal reddito e dal titolo di studio. La stessa «trasversalità» caratterizza le vittime, che hanno tra i 25 e i 40 anni e che possono essere tanto disoccupate quanto manager. A renderle simili nella diversità, sono la solitudine e una grande fragilità psicologica, che nascono proprio dagli abusi subiti. «Sono condannate a un sistema di vita improntato ad aggressioni, minacce e ingiurie», sottolinea il pm Maria Monteleone, uno dei magistrati del pool antiviolenza della procura. E le prepotenze uccidono la libertà: «Una donna sottoposta a continue intimidazioni - dice Manente - è di per sé una donna subordinata». In più c’è la paura: «La tipica vittima di una persecuzione - spiega Gargano - crede che non potrà mai e in nessun modo sfuggire al suo aguzzino».
Invece sottrarsi al partner violento è possibile. Ma ci vuole determinazione. Ci è riuscita Elena (che in realtà ha un altro nome), una maestra di 32 anni, due bimbi, sposata con un falegname. Durante il primo colloquio nel centro di Villa Pamphili ha spiegato: «Mi voglio separare perchè mio marito mi offende, non mi ama più». Negli incontri successivi è emersa la verità: Elena aveva perso il conto delle volte che era stata picchiata e si era fatta medicare al pronto soccorso giurando di essere caduta. A poco a poco, la maestra ha raccontato anche che il marito la costringeva a vedere cassette porno e che le aveva proposto amori di gruppo.
«Nella maggior parte dei casi - spiega la Monteleone - le donne arrivano a denunciare le violenze subite quando non hanno altre possibilità. Dietro ci sono mesi, anni di maltrattamenti. La norma sull’allontanamento dalla famiglia è stata un passo avanti, ma è grave constatare che non basta: occorrono misure cautelari più severe, spesso la custodia in carcere».
Dall’inizio del 2004 sono stati aperti 707 dossier, i «dottor Jekyll e mister Hyde» si nascondono in tutte le classi sociali
«Aumentano le violenze in famiglia»
Denuncia dell’associazione «Differenza donna»: gli abusi sulle partner in crescita dell’11 per cento
Lavinia Di Gianvito
Crescono le violenze in famiglia. Contro le donne e contro i bambini. Tra le mura domestiche mogli e figli vengono insultati, maltrattati, picchiati. Subiscono abusi sessuali e, nei casi più drammatici, le liti sfociano in spietati omicidi. Se poi il rapporto finisce, mariti, conviventi e fidanzati diventano ancora più aggressivi: il 60 per cento degli «ex» non abbandona la preda neanche quando la magistratura dispone l’allontanamento da casa. Per frenare tanta brutalità, nei casi più gravi resta solo il carcere. I dati raccolti da «Differenza donna» sono significativi. Il confronto fra il 2003 e il 2004 dimostra che la prepotenza maschile è aumentata dell’undici per cento. Ma chi ogni giorno assiste alle lacrime di mogli e madri disperate nelle due sedi dell’associazione non si sorprende: «Il trend è in salita da tre anni», sottolinea l’avvocato Teresa Manente. Il segno, sostiene, «di una restaurazione, di un ritorno alla cultura patriarcale».
Sono 707 i nuovi «dossier» aperti da «Differenza donna» in questi primi nove mesi dell’anno: in 360 casi le vittime si sono rivolte al centro antiviolenza di Villa Pamphili, in 347 a quello di Torre Spaccata. Tra il 1° gennaio e il 27 settembre 2003, invece, le due sedi dell’associazione avevano ricevuto, rispettivamente, 337 e 300 segnalazioni, per un totale di 637.
L’aggressore non è un emarginato. Anzi. «Chi maltratta la propria compagna è in genere un uomo "normale" - avverte Oria Gargano, responsabile della sede di Villa Pamphili -. Non è né tossicodipendente né alcolizzato né psicotico. Ha un lavoro e relazioni sociali. Spesso amici e conoscenti lo considerano simpatico e cortese».
I «dottor Jekyll e mister Hyde» sono diffusi in tutte le classi sociali: la violenza in famiglia non dipende dal reddito e dal titolo di studio. La stessa «trasversalità» caratterizza le vittime, che hanno tra i 25 e i 40 anni e che possono essere tanto disoccupate quanto manager. A renderle simili nella diversità, sono la solitudine e una grande fragilità psicologica, che nascono proprio dagli abusi subiti. «Sono condannate a un sistema di vita improntato ad aggressioni, minacce e ingiurie», sottolinea il pm Maria Monteleone, uno dei magistrati del pool antiviolenza della procura. E le prepotenze uccidono la libertà: «Una donna sottoposta a continue intimidazioni - dice Manente - è di per sé una donna subordinata». In più c’è la paura: «La tipica vittima di una persecuzione - spiega Gargano - crede che non potrà mai e in nessun modo sfuggire al suo aguzzino».
Invece sottrarsi al partner violento è possibile. Ma ci vuole determinazione. Ci è riuscita Elena (che in realtà ha un altro nome), una maestra di 32 anni, due bimbi, sposata con un falegname. Durante il primo colloquio nel centro di Villa Pamphili ha spiegato: «Mi voglio separare perchè mio marito mi offende, non mi ama più». Negli incontri successivi è emersa la verità: Elena aveva perso il conto delle volte che era stata picchiata e si era fatta medicare al pronto soccorso giurando di essere caduta. A poco a poco, la maestra ha raccontato anche che il marito la costringeva a vedere cassette porno e che le aveva proposto amori di gruppo.
«Nella maggior parte dei casi - spiega la Monteleone - le donne arrivano a denunciare le violenze subite quando non hanno altre possibilità. Dietro ci sono mesi, anni di maltrattamenti. La norma sull’allontanamento dalla famiglia è stata un passo avanti, ma è grave constatare che non basta: occorrono misure cautelari più severe, spesso la custodia in carcere».
creatività...
Repubblica edizione di Firenze 28.9.04
Oggi e domani convegno al Palacongressi con esperti da tutto il mondo
I mille volti della creatività
Le mille frontiere della creatività. Non solo nell´arte, ma anche nella politica, nella fisica, nell´architettura, nel linguaggio. Dai brevetti al nuovo stile di vita, passando attraverso la letteratura, la moda, il cinema. Se ne parlerà oggi e domani a Firenze nel convegno «Nuovo e utile» che al Palacongressi vedrà riuniti psicologi, architetti, filosofi, etologi, sociologi provenienti da tutto il mondo per indagare i tanti campi in cui si esprime il creare, penetrando nei suoi aspetti economici, culturali e sociali. Un convegno per indagare, ma anche risvegliare. «Quello del declino intellettuale è un grande problema per l´Italia, legato alla scarsità di risorse che vengono impiegate nel campo dell´innovazione e della ricerca. Anche per questo crediamo molto al contributo che da studiosi ed esperti potrà emergere da questo convegno sulla creatività» dice Claudio Martini presidente della Regione Toscana che organizza il convegno insieme al Comune di Firenze e Firenze Fiera, con la direzione scientifica di Annamaria Testa e il sostegno di Gazzoni Ecologia. Le due giornate di studi vedranno la partecipazione di esperti dei più svariati settori provenienti da tutto il mondo, che interverranno per raccontare la creatività nei suoi meccanismi cognitivi e sotto gli aspetti economici, culturali e sociali. Tra i relatori, il filosofo Remo Bodei, il linguista Tullio De Mauro, la giornalista scientifica Sylvie Coyaud, il semiologo Ugo Volli. Al convegno verrà anche presentata la ricerca «La creatività e gli italiani», condotta da Eurisko per cercare di capire che cosa intendono gli italiani per creatività; quando e dove la creatività serve di più; i miti e i modelli creativi; se l´Italia è creativa. Su questo ultimo punto, in particolare, gli italiani danno giudizi contrastanti: l´Italia ai loro occhi è il paese della creatività nei settori dell´arte applicata (moda, cucina), mentre appare per niente creativa nei settori determinanti per lo sviluppo del paese (economia, finanza, ricerca scientifica).
Oggi e domani convegno al Palacongressi con esperti da tutto il mondo
I mille volti della creatività
Le mille frontiere della creatività. Non solo nell´arte, ma anche nella politica, nella fisica, nell´architettura, nel linguaggio. Dai brevetti al nuovo stile di vita, passando attraverso la letteratura, la moda, il cinema. Se ne parlerà oggi e domani a Firenze nel convegno «Nuovo e utile» che al Palacongressi vedrà riuniti psicologi, architetti, filosofi, etologi, sociologi provenienti da tutto il mondo per indagare i tanti campi in cui si esprime il creare, penetrando nei suoi aspetti economici, culturali e sociali. Un convegno per indagare, ma anche risvegliare. «Quello del declino intellettuale è un grande problema per l´Italia, legato alla scarsità di risorse che vengono impiegate nel campo dell´innovazione e della ricerca. Anche per questo crediamo molto al contributo che da studiosi ed esperti potrà emergere da questo convegno sulla creatività» dice Claudio Martini presidente della Regione Toscana che organizza il convegno insieme al Comune di Firenze e Firenze Fiera, con la direzione scientifica di Annamaria Testa e il sostegno di Gazzoni Ecologia. Le due giornate di studi vedranno la partecipazione di esperti dei più svariati settori provenienti da tutto il mondo, che interverranno per raccontare la creatività nei suoi meccanismi cognitivi e sotto gli aspetti economici, culturali e sociali. Tra i relatori, il filosofo Remo Bodei, il linguista Tullio De Mauro, la giornalista scientifica Sylvie Coyaud, il semiologo Ugo Volli. Al convegno verrà anche presentata la ricerca «La creatività e gli italiani», condotta da Eurisko per cercare di capire che cosa intendono gli italiani per creatività; quando e dove la creatività serve di più; i miti e i modelli creativi; se l´Italia è creativa. Su questo ultimo punto, in particolare, gli italiani danno giudizi contrastanti: l´Italia ai loro occhi è il paese della creatività nei settori dell´arte applicata (moda, cucina), mentre appare per niente creativa nei settori determinanti per lo sviluppo del paese (economia, finanza, ricerca scientifica).
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