venerdì 4 marzo 2005

sinistra
si è aperto il congresso del Prc

Corriere della Sera 4.3.05
LE ASSISE DI RIFONDAZIONE
Il segretario stringe la mano a Cossutta. Il leader dell’Unione Prodi: tra noi c’è dissenso su molti punti Bertinotti sfida i riformisti: il popolo scelga la linea «È la mia ultima relazione, il testimone va ai giovani». E cita come modello Nichi Vendola
Monica Guerzoni

VENEZIA - Commosso, con il pugno alzato e la platea che canta, in piedi, l’Internazionale , il Bertinotti «rivoluzionario di governo» passa il testimone alle giovani leve di Rifondazione, primo tra tutti quel Nichi Vendola che è «uomo della sinistra radicale, originale e promettente e rappresenta l’intera coalizione». È l’ultimo congresso, l’ultimo in cui il comandante Fausto parla dal palco per due ore e cinque minuti scandendo senza incepparsi mai le tappe della svolta per Palazzo Chigi, dalla non violenza all’abbraccio critico con i riformisti di Romano Prodi, mentre una bufera di neve avvolge il Lido di Venezia in un’atmosfera da San Pietroburgo. «Questa è la mia ultima relazione, ora qui siam giunti. Il testimone passa in buone mani. Buona corsa, compagni e compagne». Applausi, pugni alzati, i delegati scandiscono «Fausto, Fausto» e il segretario nasconde il viso tra le mani.
Comincia in ritardo, il sesto congresso. Delegazioni straniere bloccate dalla tormenta e l’aereo di Pier Ferdinando Casini che accompagna alla base di Aviano l’onorevole Alfonso Gianni e riporta indietro il presidente della Camera. Romano Prodi in anticipo e Francesco Rutelli che si ferma pochi minuti, il tempo di stoppare la candidatura a sindaco del giudice Felice Casson. Come dice il senatore Giovanni Russo Spena (e come diceva Lenin), un buon segretario la relazione la scrive da solo e Bertinotti ha limato tutta notte 44 pagine fitte, racchiuse in una cartellina di plastica giallina.
Marx, Gramsci, Benjamin, Schmitt, Luigi Pintor ma anche don Franzoni, la Caritas e padre Balducci. La pace, «rivoluzione del nostro tempo», è il filo rosso, la guerra e il terrorismo sono i nemici dichiarati, gli eserciti occupanti devono ritirare le truppe dall’Iraq. E poi il sogno del «movimento dei movimenti», la teoria della non violenza, il grazie con gli occhi lucidi a Pietro Ingrao, nome simbolo del Pci che ha chiesto la tessera di Rifondazione. L’attacco a Silvio Berlusconi, il cui «ciclo breve» pare a Bertinotti «un tempo interminabile» e la sfida a Rutelli e a Piero Fassino.
«I riformisti hanno sovente la propensione ad annettersi ciò che chiamano il timone dell’Unione, cioè l’alternativa alla "logica follia" di Berlusconi. Ne capisco la ragione, ma non sono d’accordo. Dove deve stare il timone, lo decida il popolo dell’Unione». E cosa vuole il popolo dell’Unione? Vuole cacciare Berlusconi ed è questo il motivo primo di quel «passaggio in funzione di un progetto riformatore» che è l’accordo con Prodi. «Chi non fosse in grado di contribuire a realizzare questo obiettivo - dice il segretario a quel 40 per cento di delegati che non la pensa come lui - verrebbe cancellato dalla scena della politica e dal rapporto di massa».
Avanti verso palazzo Chigi, dunque, perché il Prc è partito di lotta e di governo, perché non c’è riformismo senza antagonismo, perché la globalizzazione, il dramma dei giovani precari, il capitalismo italiano «allo sbando» vanno sconfitti dall’interno. Perché è ora di «cambiare il sistema». E se la parola patrimoniale fa inorridire qualcuno, Bertinotti promette che non la userà, ma il prelievo sulle rendite quello non si discute e il sogno di abolire la proprietà privata, che è «come dirsi comunisti», nemmeno. Prodi non gradirà, ma pazienza, «Prodi non è mica comunista».
La giornata in qualche modo è storica, e non solo per il paesaggio da steppa siberiana o per la stretta di mano con Armando Cossutta. Al prossimo congresso, sul palco ci sarà un giovane segretario, scelto tra le file della prima generazione «autoctona» di Rifondazione. «Una generazione ribelle, disobbediente e comunista. E comunista perché disobbediente e ribelle».

Corriere della Sera 4.3.05
IL PERSONAGGIO
La gioia al telefono da Roma: la mia lettera? A Fausto sarà piaciuto il passaggio sulla non violenza. Non l’ho pensata sempre così
Applausi e lacrime per il sì di Ingrao
«Per una volta vinco un congresso»

Il decano del Pci: la lotta non è mai finita, torno a impicciarmi di politica

Aldo Cazzullo

VENEZIA - La voce di Pietro Ingrao, al telefono dalla sua casa di Roma, è incredula: «Davvero hanno aperto il congresso di Rifondazione con la mia lettera?». Davvero. «E chi l'ha letta?». Bertinotti, di persona. Alla fine piangeva. «È caro, Fausto. Gli sarà piaciuto il passaggio in cui mi riconosco nel suo elogio della non violenza. Non l'ho pensata sempre così, in passato. E gli altri come hanno reagito?». Tutti in piedi ad applaudire. «Solo applausi, neanche un fischio?». Neanche uno. Girava una battuta: è la prima volta che Ingrao vince... «un congresso? Ah ah ah! È una battuta valida. Se è andata così, è davvero la prima volta che vinco un congresso...»
L'ex presidente della Camera, il decano - 90 anni il 30 marzo - del Pci, non ha perso l'autoironia. La sua voce è felice ma incredula. «È sicuro che si siano alzati tutti?». Quasi tutti. Ventinove file. La prima fila no, è rimasta seduta. «E chi c'era in prima fila?». Prodi, Parisi, Rutelli, Fassino. «È legittimo. Anzi, è giusto che siano rimasti seduti. La pensiamo diversamente. Mi iscrivo a Rifondazione, mica ai Ds. Con Fassino e con gli altri ci conosciamo, ci rispettiamo, ma tra noi ci sono molte ragioni di dissenso. Sull'America, per esempio». La lettera con cui lei chiede la tessera di Rifondazione ha passaggi aspri sul «nuovo imperialismo americano». Lei scrive che l'impero agiva «su una legittimazione a volte bassamente, cinicamente fraudolenta, ma che dava poteri con cui dirigere e controllare addirittura nazioni e continenti». E che ora l'impero è andato oltre, sino alla guerra «esaltata nella sua capacità salutare e preventiva». Parole dure. «Dure perché la guerra preventiva è una novità inquietante. Che mi ha spinto a riprendere l'antica lotta, a scegliere un vincolo così forte come l'appartenenza a un partito, che ha segnato tanta parte della mia vita». Anche Prodi era contro la guerra preventiva, ma ora ha colto un'evoluzione in Bush. Welcome Mr President, ha scritto. «Ho visto la lettera al Corriere . Stimo Prodi, però sono molto distante da questa sua apertura. Ma mi dica, chi c'era ancora al congresso?». Cossutta. Ma appena Bertinotti ha iniziato la relazione se n'è andato. «Cossutta non è stato mai dalla mia parte». E poi Intini e Villetti, i socialisti. Dicono che la loro storia è diversa dalla sua, però la stimano anche perché, raccontano, lei non è mai stato un comunista ortodosso, piuttosto un eretico. «Diciamo un turbolento. Lo sono sempre stato, si figuri ora che sono un vecchiaccio...».
Il più celebre tra i tanti congressi comunisti persi da Ingrao fu l'undicesimo. Roma, 1966. «Lo ricordo come lo scontro più duro. È un ricordo amaro, perché venni sconfitto pesantemente, e anche maltrattato. Eppure ritengo tuttora di aver avuto qualche ragione. Ponevo la questione della dialettica interna al partito, del diritto al dubbio, della facoltà di dissenso. E avevo una visione del futuro del capitalismo diversa da quella di Amendola. Giorgio parlava di capitalismo straccione. Io di neocapitalismo, che mi pareva pericoloso. Come poi si è visto, su entrambi i punti avevo davvero qualche ragione. Per evitare troppi guai feci leggere prima la relazione al segretario, Luigi Longo, che non fece obiezioni. Dopo però fui maltrattato, anche da compagni con cui c'era molta stima. Alicata chiese di esonerarmi dalla direzione. Pure Pajetta, Laconi, Amendola mi attaccarono. Molti che condividevano le mie idee dovettero lasciare. Luigi Pintor fu mandato in Sardegna, la sua terra natia. Oggi invece... sul serio la mia lettera è piaciuta?». Sul serio: applausi e lacrime. In particolare al passaggio sul "groppo in gola" con cui ha visto «piazze ricolme di una generazione a volte giovanissima balzare in testa ai cortei...». Ma perché è così incredulo, presidente? «Vede, è esistita una frazione nel Pci, gli ingraiani. Parevano sempre tanti; ma non lo erano. Ci voleva coraggio, a criticare il centralismo democratico. Il nostro era un partito duro. Ma io non mi sono mai doluto di essere trattato con durezza».
Poi vennero i congressi di fine stagione. «Quando Occhetto alla Bolognina parlò per la prima volta di cambiare nome al Pci io ero in Spagna. Ai funerali di Dolores Ibarruri. La Pasionaria. Il segretario mi telefonò e io gli espressi fin da subito il mio dissenso. Lui mi chiese di attendere prima di renderlo pubblico. Ho seguito entrambi i congressi che fecero nascere il Pds, mi sono opposto strenuamente, ma sono stato sconfitto ancora. Così un giorno presi la parola, alle Frattocchie, per dire che uscivo. È una storia pesante, la mia, la nostra». Ora la lotta ricomincia. Un'altra tessera con la falce e il martello, una nuova militanza. «La lotta non è mai finita. È la storia, che ricomincia. Torno a impicciarmi di politica».
«Mi sono rivolto a Ciampi due volte, per far valere l'articolo 11 della Costituzione. Prima da solo, poi con un appello pubblicato da Liberazione, che ha voluto mettere la mia firma in testa a quella di trenta intellettuali e giuristi. L'Italia può combattere solo guerre di difesa, e quella in Iraq non lo è. Però non ho avuto risposte. Forse è giusto: io sono quidam de populo. Cosa vuole che conti».
Precisa però Ingrao che non è stata solo la guerra preventiva di Bush a scuoterlo, ma anche la necessità di formulare una risposta che non si prestasse a equivoci. Nella sua lettera scrive di una «guerra tragicamente contrastata da un disperato e sanguinoso terrorismo». Terrorismo, non Resistenza: «Dobbiamo allargare la lotta per la liberazione degli oppressi e al tempo stesso difendere la pace nel mondo anche dalla risposta terroristica». Per questo Ingrao continua a chiedere se davvero tutti i compagni erano d'accordo: «Perché la frammentazione non mi piace. Siamo in una fase delicatissima, di rischi e di debolezze, non solo in Italia. Occorre una politica unitaria». E per questo, in fondo, è contento che ad ascoltare le sue parole scritte da lontano ci fossero tutti i leader del centrosinistra, sia pure seduti. «Non è il momento di agitare ognuno la propria bandiera. Manteniamo le differenze, ma troviamo anche punti di vista comuni. Ad esempio la non violenza». È così che si vincono i congressi.

aprileonline.info
Pietro Ingrao: ''Voglio lottare con voi''
Congresso Prc. L'adesione dello storico leader della sinistra del Pci, il messaggio di Ciampi
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Ingrao aderisce al Prc. All'inizio del congresso di Rifondazione è subito colpo di scena. Bertinotti dal palco annuncia "un dono". Quello di Pietro Ingrao che si iscrive al partito. Sì, proprio quel Pietro Ingrao, leader storico della sinistra del Pci, che si oppose alla svolta ma poi rimase nel Pds (come lo stesso Bertinotti del resto), per uscirne qualche anno dopo, sconsolato, prendendo atto che in quel partito "non c'era più nulla di sinistra". "Vi chiedo di accogliermi nella vostra organizzazione, per partecipare alla vostra lotta", dice Ingrao nella sua lettera. "Tante volte, in questi decenni aspri in cui abbiamo dolorosamente visto tornare la guerra, ci siamo incontrati nelle piazze - scrive ancora Ingrao - per tutelare e rivendicare diritti del mondo proletario, o per invocare la pace violata dal nuovo imperialismo americano. Quante volte ho vissuto questa fratellanza che scavalca questioni di nomi e vincoli di tessere".
L'anziano leader comunista ripercorre gli avvenimenti degli ultimi anni che hanno fatto tornare in lui "in modo nuovo e urgente l'interrogativo sulla politica e sulle leggi", fino a che "risorgeva per me la domanda assillante e insoddisfatta circa un agire politico il quale incidesse su quel potere di Stati e di Imperi che ora aveva nelle sue mani strumenti tanto terribili e nuovi circa la vita e la morte".
"E così, come il vostro segretario - chiude Ingrao - ho incontrato nella mia riflessione la sete e la speranza della nonviolenza. E tutto il discorso e l'impegno sulla politica hanno preso un volto di dimensioni nuove e ineludibili. Capite - conclude Ingrao -, perché sono ora qui a chiedere la tessera del vostro partito e torno a scegliere un vincolo così forte, che per lungo tempo già prese tanta parte della mia vita".
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Ciampi: "Bravi, difendete l'art.11"
Infine l’arrivo poi del messaggio da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ringraziando per il pensiero a lui rivolto agli inizi dei lavori, ha voluto ricordare l’importante partecipazione del Prc al processo democratico nazionale, a partire dalla "difesa della Costituzione e dell'art.11" (passaggio particolarmente significativo, visto che proprio dal Prc era partita nei mesi scorsi una petizione a Ciampi sul rispetto di quell'articolo) può considerarsi quasi un bollino di qualità. I comunisti, al contrario di quel che dice Berlusconi, servono alla democrazia.
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La Stampa 4.3.05
CENE, SALOTTI, PIACEVOLI VILLEGGIATURE: LA PRESENZA DEL LEADER PRC È APPREZZATISSIMA, A DESTRA COME A SINISTRA
Fausto visto da vicino: il politico che piace a tutti
Lui stesso teorizza: «Uno può avere anche idee politiche repellenti. Ma
potrebbe essere gradevolissimo per prendere un caffè o giocare a bocce»

ROMA. Poiché il congresso di Rifondazione comunista si apre oggi, 3 marzo 2005 alle 16, ed è il sesto, Fausto Bertinotti è un po’ più tranquillo. Non c’è neanche un “8”: nella data, negli orari, niente. Lui ha il terrore del numero otto. «Non ha superstizioni, è un uomo razionale», dice l’amica Rina Gagliardi. Ma non è vero: «Il giorno otto è morto suo padre», conferma la moglie Lella. «Adesso abitiamo all’interno otto, ma ho dovuto impormi. Sta superando un po’ questa fobia». E anche il congresso gli fa meno paura, sebbene conservi un’ansia da prestazione per lui classica. «Non c’è congresso che abbia affrontato serenamente», dicono quelli che gli stanno accanto. «E’ emozionatissimo, e si è dimenticato del congresso del ‘99, drammatico perché successivo alla caduta del governo Prodi», aggiungono.
Non c’è possibilità che Bertinotti perda: ha con sé il sessanta per cento dei delegati, ma averne contro il quaranta è lancinante per un uomo abituato a piacere a tutti. «La gente mi chiama e mi chiede: quando avete un buco? Dammi una data», dice Lella dispiaciuta di non poter accontentare tutti. Non è soltanto una questione di cene. Sì, le cene, i salotti, tutto vero. Bertinotti adora il convivio, se non proprio con chiunque con molti, e teorizza: «Una persona può avere anche idee politiche repellenti. Ma in un angolo magari conserva qualcosa di interessante. Potrebbe essere gradevolissima per prendere un caffè o giocare a bocce». E infatti ci si ricorda di una serata nel gennaio 2003, al compleanno dell’amico attore Leo Gullotta, quando arrivò l’ambasciatore americano Thomas Foglietta che si illuminò, allargò le braccia e dentro vi accolse Bertinotti per un caldo abbraccio. Qualche disinformato si stupì.
Tutta gente trasecolante se salta fuori che Bertinotti è stato “Al Matriciano” con Gigi Sabani - e Gigi gli faceva le imitazioni - o alla tal festa con Ricky Tognazzi, Carlo Verdone e Ramona Badescu. Se salta fuori che il segretario abbandona la lotta per cedere al soufflé al cioccolato della Taverna Ripetta, che peraltro sembra abbia piegato caratteri all’apparenza più rigidi, come quelli di Ornella Muti e Ivano Fossati. Bertinotti detesta questi trasecolanti. «Lui si confronta, non si contamina», dice Lella, senza specificare in quale caso rischi la contaminazione edonista e capitalistica. Non certo durante le serate a casa di Vittorio Cecchi Gori e Valeria Marini, carissimi amici. «Qualche sera fa, prima che vincesse l’Oscar, ci siamo visti tutti insieme “Million dollar baby”. Quanto ci è piaciuto», ragguaglia Valeria. La quale approfitta dell’occasione per rettificare una notizia circolata la scorsa estate: «Io e Fausto non giochiamo a tennis insieme. E’ capitato al ping pong».
Ma, ecco, non è soltanto una questione di cene o di villeggiature a Capri con Ricky e Guia Sospisio («E’ un grande conversatore, sa tutto di arte, di teatro, di cinema», dice Guia) o di ricevimenti con Marta Marzotto («Mette tutti a loro agio, si fa dare del tu dai camerieri», rivela la contessa). La questione, spiega Lella, è che suo marito è sempre in tv. Così lei fa altro, coi soliti giri, ma lui spesso non c’è e non è a disposizione per la quantità di pretendenti. L’impressione, tra l’altro, è che in questi giorni di approccio al congresso Bertinotti abbia faticato a contenere l’apprensione anche per la mancanza degli svaghi.
Dicono sia diventato di centro, prodiano, filoamericano, ormai distante dai movimenti no global sposati sin dal G8 di Genova. E lo dicono dentro Rifondazione, così lui è obbligato ad andare da Giuliano Ferrara, a Otto e mezzo (si sottolinea mezzo), a sostenere che la democrazia in Iraq un po’ l’hanno esportata pure i no global. Ma su di lui pesano i pettegolezzi, come quello secondo cui abbandonò un World Social Forum di Porto Alegre per prendere il sole a Ipanema, e senza nemmeno l’accortezza di lasciare in albergo la polo col coccodrillo, logo dei loghi. E ci mette niente a ironizzare uno come Luca Casarini: «Lui andrà al governo, Vittorio Agnoletto ha trovato un bel posto al Parlamento europeo e io sono sotto processo a Cosenza per cospirazione». Adesso, poi, gli avversari interni ridacchiano anche per questa cosa della «ricerca» di cui Bertinotti ha parlato al settimanale Panorama.
«Sono trent’anni che Fausto è alla ricerca, da che lo conosco. Magari andrà avanti fino alla fine, senza approdare a nulla. Capita, no?», dice Lella. Non c’è proprio niente da scherzare, lascia intendere. Insomma, non s’è ammorbidito, non è che avendo sessantacinque anni e sentendo arrivare la vecchiaia stia cercando la scorciatoia consolatoria della religione. Non c’è nessuno, fra i familiari e famigli, che possa dubitarne. Ha sempre letto l’Osservatore romano, ha sempre frequentato i gerarchi della Chiesa e i preti del dissenso, ha sempre letto San Paolo. «L’ho visto commuoversi alle cerimonie religiose», dice Raul Mantovani, quello che una sera del novembre 1998 interruppe una cena di Bertinotti con Mario D’Urso per dirgli: «Ti porto in Italia Ocalan». E Bertinotti rispose come avrebbe risposto chiunque: «Oca... chi?».
A questo congresso già vinto, Bertinotti deve convincere tutti che non basta contribuire alla sconfitta di Berlusconi, ma bisogna contribuire alla vittoria del centrosinistra, e poi della sinistra nel centrosinistra. Senza che l’opposizione interna - benedetta per imprescindibili ragioni di immagine e democrazia - scada nel velleitarismo del «sempre dalla parte del torto», o nella demagogia alla Antonio Pennacchi, scrittore, che di Bertinotti disse: «Il capo del proletariato è uno con l’erre moscia. Ma vaff... O no?». Se dovesse riuscirci, si commuoverà. I suoi ne sono certi, perché è un uomo sensibile, dicono. Rina Gagliardi ricorda del giorno in cui, a un congresso della sinistra europea, incontrò il vecchio maestro Pietro Ingrao: «Si sono stretti, hanno pianto venti minuti, han fatto il laghetto».
Trascorso il fine settimana, il segretario potrà tornare alle sue numerose occupazioni e ai pisolini di sette-nove minuti in taxi fra un appuntamento e l’altro. Potrà tornare, nelle notti speciali, a cantare in qualche casa privata con il caro Antonello Venditti. Ributtarsi davanti alle telecamere, nonostante gli alleati comincino a sospettare che tutti lo invitino nel ruolo dell’avversario che rafforza gli elettori di destra nei loro convincimenti (e chi lo pensa è stalinista, dice Bertinotti). Potrà tornare a parlare col figlio Duccio di Aristotele, a far giocare i nipotini («nel ruolo di nonno è perfetto, perché ai nonni non competono compiti educativi», dice la moglie Lella con l’ironia che la rende simpatica a tutti), a concludere la biografia di Ho Chi Minh lasciata a metà. A sfoggiare una lattina di chinotto e abbasso la coca cola. A provare finalmente un’avventura di governo, visto che soltanto Berlusconi più di lui è stato uomo simbolo della Seconda Repubblica. E poi, più avanti, progetterà il giro del mondo. «E’ il mio sogno. Un mese, un mese e mezzo per i continenti, senza che Fausto debba rientrare per qualche emergenza...», dice Lella. Un progetto ancora lontanto. «Mah, non è detto». Già, ci sono di mezzo il congresso, la campagna elettorale. E soprattutto Berlusconi.

Corriere della Sera 4.3.05
DIETRO LE QUINTE
Primarie a rischio, ma Fausto le vuole per «superare» il Prc

Maria Teresa Meli

VENEZIA - Fausto Bertinotti non pronuncia la parola innominabile, quella che fa venire l’orticaria a Piero Fassino, sprofondato su una poltrona in prima fila. Non dice «primarie», ma dal palco del congresso fa capire ugualmente qual è il suo obiettivo: «Io penso - afferma - che la stessa guida di Prodi sarebbe esaltata da una crescita della partecipazione e della democrazia. E’ la lezione della Puglia».
Insomma, Bertinotti non rinuncia alla «competizione con la sinistra riformista» (leggasi Ds). E questa sua presa di posizione è tanto più importante in quanto cade in un frangente particolare. In un momento in cui, nel centrosinistra, si rincorrono le voci sulla possibilità che Romano Prodi rinunci alle primarie, dopo le Regionali. Pare che il Professore stia valutando l’opportunità di lasciar perdere, mentre Arturo Parisi lo spinge ad andare avanti. Ma le primarie, per Bertinotti, sono un passaggio importante. Lo schema del segretario di Rifondazione è quello del tandem Schröder-Fischer, dove ovviamente lui vestirebbe i panni del leader verde, mentre quelli del cancelliere tedesco spetterebbero a Prodi. Per questa ragione le primarie a due (gli altri candidati possibili, infatti, da Alfonso Pecoraro Scanio a Oliviero Diliberto, sono troppo deboli) rappresentano una tappa fondamentale nella strategia bertinottiana.
Ma Prodi ha in mente un altro schema, quello che, scherzosamente, qualcuno nella Margherita ha battezzato "Biancaneve e i sette nani". Ossia, un leader forte (cioè Prodi medesimo) e partiti deboli. Solo dopo le Regionali si saprà se il candidato premier dell’Unione darà il via alla danza delle primarie o se, piuttosto, come scommettono in molti nei Ds, lascerà perdere. Anche perchè si è visto proprio a Venezia che gli stessi prodiani sono allergici alle primarie in alcuni casi. Il sindaco Paolo Costa, fedelissimo del candidato premier dell’Unione, ha fatto di tutto per impedire che il verde Gianfranco Bettin tentasse la strada delle primarie quando aspirava alla poltrona di primo cittadino del capoluogo veneto.
Senza questo tipo di consultazione verrà a mancare un tassello nel puzzle di Bertinotti. Ma anche in questo caso il leader di Rifondazione andrebbe avanti sullo schema Schröder-Fischer. «Questa è la mia ultima relazione da segretario di Rifondazione», ha detto. E chi ha pensato in un suo disimpegno dalla politica si è sbagliato di grosso. Forse questo è anche l’ultimo congresso di Rifondazione, perchè Bertinotti punta a costruire un «soggetto largo della sinistra radicale»: con il traino delle primarie l’operazione sarebbe più agevole, perchè il mondo che il segretario del Prc vuole aggregare (movimenti, volontariato, Arci, sinistra ds) ovviamente voterebbe per lui. Dunque, ecco perchè le primarie. Ma per portare avanti questo suo progetto e diventare il leader di uno schieramento più grande, Bertinotti non può ricoprire il ruolo di segretario del Prc, un ruolo che ormai gli sta stretto. Naturalmente una parte di Rifondazione fa fatica a seguire il segretario lungo questa strada. Giorgio Cremaschi che saluta con il pugno chiuso, chiedendo se è ancora «permesso» e Marco Ferrando che gli risponde che «no, non è più permesso» con una venatura più che polemica nei confronti del segretario, sono un esempio della difficoltà di un pezzo del Prc ad assecondare l’operazione bertinottiana. Ma il leader lo sa bene e per questo ha allevato una nuova classe dirigente. «Abbiamo avuto in questi ultimi anni - ha spiegato infatti il segretario - il dono della venuta alla luce, anche in ruoli di direzione del partito, di una nuova generazione di militanti, la prima generazione autoctona e perciò apertissima al mondo».