mercoledì 3 novembre 2004

citato al Lunedì
Cancrini sull'Unità del 1 novembre

L'Unità 1.11.04 pag. 27

Luigi Cancrini
Il disagio mentale nella trappola dei pregiudizi

Devo lanciare un allarme. Attenti a quello che accade in termini di salute mentale. Facendo parte di una associazione sono informata su quanto avviene in termini di disagio psichico nel Lazio; è proprio sotto i nostri occhi: il progressivo depauperamento delle strutture pubbliche (Alcune ASL di Roma hanno l'organico ridotto del 50%) e delle strutture del privato sociale che si occupano di cura e di recupero, a favore delle cliniche private con l'inevitabile aumento dei pazienti psichici nelle cliniche e l'ospedalizzazione progressiva e lunga. Come? Per esempio con la firma di un verbale d'intesa con tredici case di cura private con il quale si destinano 800 posti letto per pazienti psichiatrici per i quali si prevedevano cospicui aumenti delle rette giornaliere. Questo, a mio avviso, è il modo per fare entrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta: il manicomio. La cura e il recupero non possono consistere solo nell'andare avanti e indietro con la testa bassa, la sigaretta in mano e nella tasca, spesso, un rosario.
Ho sempre pensato che la legge Basaglia, lo psichiatra che lottò contro l'istituzione manicomiale, sia una delle più coerenti con lo spirito della nostra Costituzione. Allora attenti ai vari tentativi mascherati di cambiarla; se andranno a segno apriranno la strada in modo inarrestabile anche agli ospizi per poveri, portatori di handicap, anziani.
Anna Maria De Angelis


Più leggo lettere come queste e più mi convinco che nell'organizzazione dei servizi psichiatrici è oggi necessario un cambiamento, un salto in avanti di ordine culturale. Il punto della legge Basaglia relativo alla necessità di superare un ordinamento basato sull'idea che la malattia mentale, incurabile, chiedeva alla società di dare solo risposte "custodialistiche" è di fatto acquisito anche da quelli che sono i più critici, oggi, di fronte alle scelte di allora. La presenza di una rete, sul territorio, di centri di salute mentale (a Roma, al tempo in cui la riforma fu approvata, c'era solo un centro di salute mentale che serva l'intera provincia, oggi i centri sono una quarantina), la diffusione enorme degli psicofarmaci e il numero crescente di strutture che si occupano di questi problemi a livello residenziale e ambulatoriale propongono un quadro complesso che non sarebbe compatibile in nessun caso con un ritorno al passato del manicomio. Quello di cui dobbiamo renderci conto, tuttavia, è che quelle veicolate all'interno di tutte queste strutture sono teorie, ipotesi sulla malattia mentale e sulle cure profondamente diverse, che i modelli di intervento che da tali teorie discendono sono spesso inutilmente (e dannosamente) contraddittori, che le amministrazioni si trovano spesso nel momento delle scelte più significative, in balia di tecnici improvvisati e di parte.
Il problema di fondo, a mio avviso, è quello che riguarda il tipo di rapporto che l'operatore della salute mentale tende a stabilire tra il disturbo esibito da un certo paziente in un certo momento della sua vita e le circostanze concrete in cui tale disturbo si manifesta. Convinto del fatto per cui il disturbo (una crisi delirante-allucinatoria, per esempio, l'attacco di panico o l'episodio depressivo) è espressione semplice e diretta di una alterazione biochimica che si attiva criticamente, per ragioni sconosciute e imprevedibili, lo psichiatra biologico di oggi interviene molto rapidamente (dopo aver cioè riconosciuto e considerato i sintomi, senza fare molte altre domande) con i farmaci che più gli sembrano adatti. il mondo dei suoi pazienti si divide, a questo punto, i quello dei "responders" (che rispondono al trattamento) e quello dei no-responders" (detto in inglese sembra più"scientifico") per cui c'è, purtroppo, poco da fare oltre che aumentare o variare dosi e tipologia di farmaci. Organizzata sul modello medico che la ispira, la psichiatria biologica di oggi prevede, coerentemente, dal punto di vista dei ruoli professionali, medici con il camice bianco al vertice dell'organizzazione, psicologi, assistenti sociali e infermieri che lo aiutano aiutando il paziente ad accettare la terapia (a sostenere cioè quella che, sempre in inglese, si chiama oggi "compliance" con la terapia stessa); dal punto di vista delle strutture ambulatoriali per il primo intervento, ospedali e case di cura per le situazioni acute che richiedono dosi alte di farmaco, strutture residenziali protette per i più gravi che non si riprendono.
Sull'altro versante, e in modo oggi vivacemente contrapposto, la psichiatria delle relazioni interpersonali ragiona sul comportamento sintomatico come su una comunicazione complessa. Un enigma da decifrare (l'immagine è di Sigmund Freud) come un sogno, un lapsus, un oracolo o un rebus della settimana enigmistica tenendo conto della storia personale e familiare e del contesto in cui il paziente si muove. Comprendere è, per chi crede in questa seconda possibilità, la base del curare: nei casi più semplici semplicemente aiutando a capire quello che sta succedendo e in quelli più complessi, in cui quello che serve è anche, o soprattutto, "cambiare", aiutando chi sta male a costruire rapporti diversi (la terapia familiare o di contesto) con le persone che per lui/lei sono più importanti. Centrale per chi accetta il primo modello, il ruolo del farmaco (e del medico che lo prescrive) diventa qui un ruolo secondario di sostegno. Indispensabile nella fase acuta perché permette l'accesso ad un rapporto altrimenti impossibile e mai o quasi mai sufficiente da solo, però, perché l'azione del farmaco è inevitabilmente sintomatica, incapace di incidere sulle cause e sulle conseguenze reali del disturbo in atto. Con conseguenze importanti dal punto di vista dell'organizzazione dei servizi, ovviamente, perché quella di cui c'è più bisogno, per i sostenitori di questa seconda visione della psichiatria, è una formazione psicoterapeutica degli operatori, una disponibilità ampia di risposte, nel privato e nel pubblico, basate su questo tipo di competenze. Nei casi più gravi, di strutture basate sull'idea della Comunità Terapeutica invece che delle case di cura; in quelli più difficili da curare sul territorio, di una integrazione forte dei presidi sociali e sanitari.
Difficili da conciliare, queste opposte visioni della psichiatria esistono comunque. In termini di rapporto con la classe sociale dell'utenza per esempio, esse si presentano come assai diversamente rappresentate in un sistema sanitario come il nostro per cui l'aspetto medico è prevalente: chi ha soldi e cultura può scegliere e si rivolge sempre più spesso al modo degli psicoterapeuti: chi non ha soldi e/o non ha letto molti libri è costretto naturalmente, invece, ad accontentarsi dei farmaci. Anche se i tentativi di integrazione sono sempre più frequenti, come è naturale in un mondo che è, comunque, in continua evoluzione.
La cosa di cui sono sempre più convinto è che, alla fine, può essere un po' riduttivo stabilire dei legami diretti fra le categorie della politica e quelle dei modelli teorici a cui ci si ispira organizzando i servizi. Il problema vero, a volte, sembra quello dei tecnici cui ci si rivolge chiedendo consiglio. Con risultati paradossali, a volte, come accade oggi a una destra che chiede solo a San Patrignano (dove i farmaci sono considerati "diabolici") cosa si deve fare con i tossicomani e che chiede solo a psichiatri senza formazione psicoterapeutica (e capaci solo d'usare i farmaci) cosa si deve fare con le persone che soffrono di disturbi psichici.
Quello di cui ci sarebbe bisogno, cara Anna Maria, è di finirla una buona volta con i tecnici "onnipotenti" apparentemente al servizio del politico che vince le elezioni ma al servizio, sostanzialmente, delle lobbies di cui fanno parte. Interdisciplinari e compositi, gli organismi tecnici di consulenza per le politiche sociali e sanitarie dovrebbero funzionare in modo più equilibrato, più autonomo dal potere politico e più serio aiutando chi deve decidere a decidere per il meglio.
Riuscirà l'Ulivo, nei giorni in cui tornerà al governo, a riflettere seriamente su questo tipo di problema? Io spero proprio di sì. La mancanza di un collegamento stabile ed efficace fra i progressi delle conoscenze scientifiche e le decisioni assunte a livello dell'amministrazione dipende soprattutto dalla debolezza delle istituzioni scientifiche di riferimento e dalla incapacità degli amministratori di costruire occasioni di confronto utile fra operatori di diverso orientamento. Si tratta di un problema sempre più evidente e sempre più grave: a livello della psichiatria in modo particolare ma non solo, comunque, a livello della psichiatria.

ha vinto Bush, «questa è l'America, baby!», ma Kerry sarebbe stato meglio?
IL FATTORE DIO

L'Adige 3.11.04
Il fattore Dio
nel voto Usa

(segue dalla prima pagina)
«Per la prima volta ho sentito che Dio è alla Casa Bianca», esclama Tricia, con la voce strozzata dall´emozione. «Dio sia lodato. Grazie che ci hai dato George W. Bush».
Sono quattro milioni, tra gli stati del Sud e del Midwest, gli evangelici della Bible Belt, la cintura della Bibbia. Una macchina da voto travolgente, decisivi col loro appoggio negli swing states, gli stati traballanti dove i due candidati sono alla pari. Per loro questa è la Santa Battaglia, Lepanto contro i Turchi, la Liberazione dall´Egitto. Quello di oggi, per loro, non sarà un voto per eleggere il 44° presidente degli Stati Uniti d´America, ma la difesa suprema dei valori della moralità, nuova crociata del 2000 che Bush, born again, cristiano rinato, ha dichiarato di voler capitanare.
* * *
Mai come in queste elezioni la religione in America è diventata il tema politico cruciale, quello su cui il Paese, ma soprattutto Bush e Kerry, dicono di voler giocare il proprio futuro. Potendo vantare un assai misero carnet di risultati ottenuti, visto che nei suoi quattro anni di presidenza si sono persi un milione e 600 mila posti di lavoro e il bilancio statale è al limite della bancarotta, il presidente Bush ha puntato tutto sull´apocalisse finale, lo scontro tra il Bene e il Male, la difesa dell´America o la sua dissoluzione, il drago dalle sette teste e il sangue dell´Agnello. Non c´è comizio, discorso o appello presidenziale che non trabocchi di citazioni dalla Bibbia, di riferimenti alla città sulla collina, alla luce radiosa e alle tenebre della valle di Josafat.
Non è da meno il candidato democratico John Kerry che in questo ultimo mese s´è fatto almeno tre messe ogni fine settimana, citando dovunque il suo passo preferito, san Giacomo, 2, 14-26, «la fede senza le opere è morta», in risposta all´avversario presidenziale.
Nei suoi discorsi sul futuro dell´America e del mondo, ha ripetuto alla nausea che da piccolo, lui cattolico praticante, ha fatto il chierichetto e anzi, aveva pensato di diventar prete. Poi la politica e la guerra in Vietnam avevano preso il sopravvento, ma sulla sua fede - dice- nessuno può dubitare.
Del resto, tutti i sondaggi di queste settimane lo dicono chiaramente: il 70% degli americani vuole come presidente «un uomo timorato di Dio e di forte fede». Chiunque dei due sarà eletto, questo dovrà fare. «In America il senso religioso è molto forte, è l´elemento che crea comunità», spiega il sociologo di Harvard Robert Putnam, famoso anche in Italia per i suoi studi sulla crisi della cultura civica americana («Bowling alone»). «Negli Stati Uniti ogni significativa riforma, compreso il movimento dei diritti civili o la lotta alla schiavitù, ha avuto profonde radici religiose - afferma Putnam-. Storicamente non c´è sindacato o altra realtà sociale così incisiva nella società americana come le chiese. Certo, questa forza può essere usata in chiave fondamentalista e conservatrice, come è avvenuto negli ultimi vent´anni, o in chiave progressista, come è avvenuto a lungo nei decenni precedenti. Ma la religione resta un forte elemento propulsivo della società e della politica americana».
* * *
Che la carta della fede fosse quella da giocare, Bush l´aveva capito fin dal 1988, quando faceva propaganda per suo padre, e intuì la forza elettorale dei telepredicatori alla Pat Robertson. Alla fine degli anni Settanta l´America, prostrata dalla sconfitta del Vietnam e confusa dal libertarismo sessantottino e femminista, ripiegò sulla fede.
Milioni di americani chiedevano qualcosa di forte in cui credere, dei valori a cui aggrapparsi, e le chiese divennero la consolazione. Fu l´abilità della destra a comprendere che quella massa di "nuovi cristiani" poteva essere politicamente organizzata.
«Mentre i cristiani liberali dormivano, i fondamentalisti hanno costruito la loro potente rete», spiega Robert Edgar, segretario generale del consiglio nazionale delle chiese, che a settembre era a Milano alla settimana ecumenica della Comunità di S.Egidio. «Chiedevano a tutti un dollaro a preghiera. Ma soprattutto chiedevano il loro indirizzo e la lista dei valori in cui credevano. È lì che è nata la falange della destra cristiana».
Così, temi come l´aborto, le cellule staminali, i matrimoni gay e l´eutanasia sono diventati centrali dell´agenda politica, cancellando ogni riferimento a questioni come le politiche sociali, i diritti delle minoranze, i fondi per la salute e l´istruzione, la pena capitale, i morti in guerra, che sono stati volontariamente ignorati dalla campagna elettorale.
Per Kerry un grattacapo mica da poco. Lui, cattolico della cattolica Boston, s´è visto osteggiare perfino dai vescovi cattolici, perlomeno da alcuni, che l´hanno additato come pubblico peccatore, e come tale scomunicato, escluso dalla comunione. «Votare Kerry è un peccato che richiede la confessione» ha tuonato padre Charles Chaput, frate cappuccino e arcivescovo di Denver. E monsignor Bernard Schmitt, vescovo di Wheeling-Charleston, in West Virginia, ha scritto ai suoi parrocchiani per ricordare che votare Kerry «è peccato mortale», visto le sue posizioni liberali sull´aborto e le cellule staminali, subito spalleggiato dall´arcivescovo di St. Louis, Raymond Burk, che ha scomodato il giudizio di Dio come a Sodoma e Gomorra se l´America consentirà il matrimonio dei gay.
Nonostante questo, i cattolici, la chiesa più numerosa d´America, è divisa a metà, con una percentuale di favorevoli a Kerry, maggiore che per Bush. L´ultimo sondaggio Pew ha stabilito che il 41% dei cattolici sono per Bush e il 44% per Kerry. «Forse va ricordato che oltre all´aborto e alla ricerca sulle cellule staminali, c´è anche il tema della guerra e la pena di morte, a cui un cattolico dovrebbe guardare quando va a votare», ha detto chiaro e tondo padre Bryan Hehir, docente di teologia all´università di Harvard. «Per non parlare poi dell´aiuto ai più deboli, ai poveri, ai bambini abbandonati, di cui in America ormai non parla più nessuno».
Proprio per questo le chiese battiste degli afro-americani hanno scelto al 90% di appoggiare Kerry, il democratico. «Se vince Bush, per la comunità nera è la fine», ripete sconsolato il professor Lawrence Bobo, che insegna Sociologia e Storia degli afroamericani ad Harvard. «Negli ultimi quattro anni ha azzerato tutti finanziamenti alle scuole per i neri e agli aiuti sociali per le minoranze. Sta cercando di portarci via anche il voto, con campagne intimidatorie per impedire ai neri di votare. La comunità nera è molto arrabbiata. Molto. Se Bush sarà rieletto, per noi è la fine».
* * *
Eppure, nonostante far quadrare il bilancio familiare sia diventato il problema principale della classe media americana, che negli ultimi quattro anni s´è vista declassare il proprio ruolo per stipendi e sicurezza del lavoro, molti ritengono che mettere fuorilegge l´aborto venga prima che creare nuovi posti di lavoro.
Come gli operai di Cleveland, in Ohio, dove negli ultimi quattro anni s´è perso un posto di lavoro su cinque con il trasferimento all´estero degli stabilimenti della Firestone e della Goodyear, che davanti alle telecamere della televisione hanno confessato: «Bush ci fa del male, è vero. Ma non possiamo votare Kerry: la coscienza morale viene prima di tutto».
Questa è l´America che oggi, il giorno dei Morti, andrà a votare. E se anche le organizzazioni dei cristiani, cosiddetti liberali, si stanno mobilitando per riprendersi il terreno perduto nel nome della giustizia sociale e del sostegno ai derelitti che a migliaia dormono sui marciapiedi delle strade, la parola d´ordine di queste elezioni è una sola: moralità. E Bush l´immorale, che sotto la sua presidenza ha visto aumentare in massa il numero degli aborti perché ha cancellato ogni sussidio per le ragazze madri, ne è il profeta. «Perch Gesù Cristo è il suo più fidato consigliere», ha detto dall´altare un telepredicatore della Florida. E giù tutti a battere le mani. Hallelujah.

Marco Bellocchio

Libertà 3 novembre 2004

Successo per Bellocchio al Film Festival di Sydney

(ma il testo dell'articolo è disponibile on line solo per gli abbonati)

Il Messaggero Martedì 2 Novembre 2004
Casa del Cinema, Chiesa e Bellocchio incontrano il pubblico


Oggi e domani alle 15 due incontri alla “Casa del cinema”, a Largo Mastroianni 1 (Villa Borghese, Casina delle Rose). Il primo con il regista Guido Chiesa di cui verrà proiettato il film “Lavorare con lentezza”. Il secondo con Marco Bellocchio, con la proiezione del suo “L’ora di religione”. Ingresso libero fino a esaurmimento posti.

archeologia
Paolo Matthiae: Ebla, «la culla di tutta la nostra civiltà»

La Stampa 03 Novembre 2004
INCONTRO CON L’ARCHEOLOGO CHE QUARANT’ANNI FA RIPORTÒ ALLA LUCE LE ROVINE DI EBLA
Matthiae: scava scava ritroverete l’Altro
«Il nostro lavoro non è solo legato al passato, a ciò che si trova sotto terra. È uno straordinario allenamento alla cultura delle differenze»
di Marco Vallora

DAMASCO. QUARANT’ANNI esatti dalla scoperta di Ebla. E non si direbbe: per lo meno a saggiare la vitalità con cui Paolo Matthiae, l'illustre archeologo della Sapienza di Roma che ha legato il proprio nome al ritrovamento imprevisto di questa antichissima città siriana, nemmeno sospettata dalla dottrina archeologica classica, racconta della sua straordinaria esperienza, come se fosse un'episodio che risale a qualche settimana fa. «E c'è ancora moltissimo da fare, non si smette mai, per carità, non s'interrompe un attimo di lavorare. Le zone da riportare alla luce sono ancora molte». Nessun rimpianto, nessuna recriminazione, persino la burocrazia e le sovvenzioni, i fondi venuti dall'Italia, hanno questa volta insolitamente funzionato: «Sì, non possiamo lamentare nulla, l'importanza di Ebla è stata subito percepita. Ma anche sul sito ho lavorato sempre benissimo, accanto ad amici e colleghi siriani. Non soltanto sul piano tecnico, ma anche per lo spirito straordinario di collaborazione. Direi che questa è una situazione esemplare nei rapporti euro-asiatici, la Siria è indubbiamente un paese di eccezionale equilibrio. Perché non si può negare che questa, del Vicino Oriente, è una zona assai delicata, anche e soprattutto per l'archeologia».
In Siria è diverso. «Ho sempre pensato che la Siria sia stata terra di frontiera e ponte di cultura. Ed è innegabile che in questa terra, dove pure nei secoli sono avvenuti scontri anche feroci, sia esistita sempre una compresenza di credi e di civiltà abbastanza unica. Basta andare al museo di Damasco e leggere l'importantissima testimonianza degli affreschi staccati di Duros Europos, in cui tranquillamente convivono dignitari togati romani con altri personaggi in fogge elegantemente orientali. Per questo, in un momento così delicato, ho trovato assai intelligente, e non turistica, spettacolare, l'iniziativa di Cristina e Riccardo Muti e del Ravenna Festival, non soltanto di portare la musica italiana, qui, nel teatro romano di Bosra e di voler così celebrare i quarant'anni di Ebla. Ma anche di fondere insieme simbolicamente gli esecutori della Scala con quelli siriani, perché qui c'è una vivissima cultura musicale e artistica. La giovane moglie del presidente è molto attenta allo sviluppo culturale del paese, ed è assai presente anche agli sviluppi del cantiere di Ebla».
Che cosa abbia rappresentato per l'archeologia la riscoperta di Ebla è ormai noto, universalmente. Ma che cosa ha significato per la Siria? «Che il ritrovamento abbia davvero cambiato il corso della storia dell'archeologia del secondo dopoguerra non tocca a me dirlo, ormai lo ha riconosciuto l'intero consorzio scientifico. Ma per la storia della Siria è stato un evento davvero decisivo. Perché prima, schiacciata e negletta dalle vicine civiltà imponenti, come l'Egitto e la Mesopotamia, la Siria quasi non aveva un'identità. Poi è venuta fuori questa città, Ebla, già così evoluta e ricca intorno al 2300 a. C. Abbiamo trovato oltre 17.000 tavolette in ottimo stato, che, decrittata ormai la loro sconosciuta scrittura semitica, l'eblaita, ci hanno permesso di conoscere usi e costumi, soprattutto economici, d'una cittadina tanto nevralgica e in una zona così strategica e con legami politico-commerciali tanto importanti. Tutto ciò ha cambiato completamente l’immagine storica della Siria e pure il suo corso moderno. Le ha regalato una nuova identità».
Dunque l'archeologia non ha soltanto un peso specialistico, universitario, ma anche un peso politico. «Uno pensa allo stereotipo del vecchio professore trasognato, fissato, con gli occhi rivolti soltanto al passato e legati a un minimo, circoscritto periodo. Ma non è vero: l'archeologia non è qualcosa di antico, di polveroso, di sepolto nella terra. È un’ottima palestra per insegnarci a pensare insieme, in dialogo fecondo, all'alterità e alla nostra identità. Ritrovi le tue radici, ma riscopri anche il diverso da te: uno straordinario allenamento alla cultura delle differenze».
La distruzione dei Buddha in Afghanistan, gli assalti ai musei di Kabul e di Baghdad. Oggi la politica distrugge più che proteggere. «Io non voglio dare giudizi politici, ma certo quello che è successo in Iraq è allarmante. Uno poteva anche pensare a deturpazioni di monumenti, a ruberie e sciacallaggio nei siti indifendibili, ma che una grande democrazia come l'America non abbia saputo, non sia riuscita a proteggere un museo fondamentale e ben localizzato come quello di Baghdad è davvero inquietante». Che non abbia saputo o voluto? «Ma è questo che è spaventoso, che possa prevalere un calcolo politico su quello culturale. E così questi pezzi unici, per la cultura del mondo, potranno finire soltanto in quelle ricche case di Paesi che non hanno fatto nulla per proteggere quel patrimonio. E poi è impressionante pensare che invece si sia difeso un simbolo vuoto, un edificio astratto come quello del ministero del Petrolio: allora vuol dire davvero che l'economia ha vinto su tutto». Ma il passato mesopotamico, dice Matthiae, non è una prerogativa del popolo iracheno: «Questa è la culla di tutta la nostra civiltà, qui è nata la prima scrittura, qui la trascrizione del primo rigo musicale, qui è vissuta la più antica poetessa della storia e si sono realizzati altri primati, magari meno divertenti, un po' bizzarri, ma comunque essenziali per tutta l'umanità».
Per fortuna in Mesopotamia la guerra non ha sempre avuto effetti devastanti. È il caso dell’incendio che ha reso indistruttibili le tavolette di Ebla: una distruzione protettiva, com'è successo a Pompei. «Sì, è una delle contraddizioni dell'archeologia, di cui la scienza si può avvantaggiare, un po' cinicamente. Quanto più le grandi catastrofi sono state improvvise, non solo Pompei ma per esempio anche Santorini, tanto più il lavoro dell'archeologo è reso interessante e ricco. Chi ha tempo di fuggire lascia solo un guscio vuoto». Ebla ha ancora dei segreti? «Le oltre 17.000 tavolette, compresi i frammenti, sono state trascritte quasi tutte. Ormai conosciamo i contenuti nei minimi dettagli. Si parla molto di economia, ma anche di arte e di musica, dal punto di vista tecnico-pratico. Per esempio si sa che c'erano molti cantori e che prima dell'assalto la città aveva avuto un incremento economico straordinario. Forse questo ha determinato la sua morte».

a Firenze
omaggio a François Truffaut

Repubblica 3.11.04
A Firenze fino al 7 novembre
Omaggio a Truffaut da France Cinéma

FIRENZE - Prosegue a Firenze fino al 7 novembre France Cinéma, la rassegna sulla cinematografia francese con una retrospettiva dedicata quest´anno a François Truffaut: oggi alle 10 presso la Sala dell´Istituto francese verrà proiettato il film "L´argent de poche" del 1976. Ai fratelli Taviani, dei quali è stata presentata copia restaurata di "Un uomo da bruciare" del 1962, è dedicata una mostra che presenta una percorso fotografico attraverso alcuni dei loro film più significativi, da "Padre padrone" a "Luisa Sanfelice".