lunedì 19 luglio 2004

citato al Giovedì
Loana e i misteri di Eco

Repubblica 15.7.04
LE IDEE
LOANA E I MISTERI DI ECO
DOPO L'ULTIMO ROMANZO

La lettura di una storia piena di ricordi condivisi spinge a cercare di capire meglio l´autore: un maestro di molte discipline, un grande innovatore
Una sceneggiatura multimediale con figurine, canzoni, poesie e fumetti
Il prodotto più riuscito è stato "Il nome della rosa" che coniugò il gotico con il giallo
di EUGENIO SCALFARI


Da qualche settimana sono alle prese con Umberto Eco. Dovrei forse dire con l´ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Mi è arrivato per posta celere con tre parole di dedica: a Eugenio, su tempi comuni.
È vero, tempi comuni e ormai remoti. I giochi che facevamo una quarantina d´anni fa, quando tra un whisky e un Cuba libre ci sfidavamo con le citazioni a memoria dai Tre moschettieri e dai testi delle canzoni degli anni Quaranta io li ho ancora nella mente come fossero di ieri. Tempi comuni.
Eccome.
Dunque sono alle prese con la regina Loana. Ho letto il libro, 456 pagine.
Illustrate. Ho letto le recensioni diciamo così colte, che analizzano e scompongono i vari livelli della narrazione, la qualità della memoria di Eco, del personaggio protagonista, nella voce narrante, che è l´Autore ma non è necessariamente Eco, così come Yambo, il protagonista, è una via di mezzo tra l´autobiografia di Eco e l´Autore. Insomma c´è un´ambiguità voluta in quel gioco delle parti e - dicono le recensioni colte - quello è il bello della regina Loana (che poi era uno dei nomi tipici delle ragazze che allora lavoravano nei bordelli dove gli studenti "under eighteen" cercavano di entrare abusivamente).
Ho letto anche i resoconti delle serate di presentazione del libro. In particolare quella fatta al teatro Dal Verme a Milano, gremito da oltre duemila persone in gran parte giovani, attratti non tanto dai tempi comuni (i loro sono molto diversi dai nostri) ma da te, caro Umberto, dalla tua maniera così nuova, così diversa dalle fottutissime presentazioni editoriali delle quali se diovuole non frega niente a nessuno salvo che agli amici costretti ad andarci per dovere di cortesia e di possibile reciprocità.
Tu invece fai spettacolo, esibisci videocassette, fai suonare e cantare canzoni d´epoca e perfino gli inni del Guf Fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompe e Roma rivendica l´Impero e La saga di Giarabub. A quell´epoca tu eri poco più che bambino, io avevo già i miei «seventeen» e marciavo con la mia divisa di fascista universitario, figlio del regime che mi conteneva e mi aveva covato per tutti quegli anni come le galline covano le uova. «Una maschia gioventù con romana volontà».
Come vedi il tuo libro mi riguarda, Cino e Franco mi riguardano, Gordon e l´impero di Mongo mi affascinavano molto di più del Balilla che nessuno di noi ragazzi di allora ha mai letto. Da questo punto di vista i propositi che tu dichiari nell´introduzione li hai perfettamente realizzati ed hai risvegliato i ricordi d´un paio di generazioni.
Ma è solo questa la motivazione del tuo libro? La tua necessità di scriverlo? Il costrutto che il lettore - vecchio o giovane che sia - ne ricava?
No, non credo che sia questo. E il libro m´intriga proprio perché desidero scoprirla quella ragione, quella necessità. Desidero scoprire chi è Umberto Eco, che cosa veramente rappresenta nella cultura italiana ed europea, qual è l´immagine che proietta e soprattutto qual è l´immagine che Eco ha di sé.
Mi si può chiedere, da te o da altri, perché mai io persegua questa testarda idea di voler esplorare la «terra di Eco», ma la risposta è facile ed anche veritiera. Tu sei un personaggio a tutti gli effetti singolare nella cultura moderna. Maestro in semiologia e in scienza della comunicazione. Autore di romanzi che hanno fatto il giro del mondo tradotti in non so quante lingue, alcune delle quali scritte con strani alfabeti, cirillici, conici, addirittura geroglifici. Accademico di non so quante accademie. Premiato di non so quanti premi. Caposcuola. Esperto di Internet. A tuo modo uomo politico. Educazione cattolica. Vagamente ateo. Razionalista. Illuminista con palesi venature romantiche. Per certi versi gnostico. Ludico, soprattutto ludico. Pietro Citati, recensendo su Repubblica un tuo romanzo qualche anno fa, incominciò con un «incipit» che allora mi fece saltare sulla sedia: «Eco - scrisse - è un grande buffone». Poi chiarì il senso della parola che non era affatto un insulto ma la presa d´atto della tua maniera.
Insomma ce n´è abbastanza perché ci si interessi alla tua opera e al suo autore. Tu del resto, con una fedeltà che dura ormai da quarant´anni (ti invitai a collaborare all´Espresso nel 1963) hai sempre riservato la tua attività giornalistica ai giornali da me fondati e diretti. E vuoi che non mi interessi capire chi è, nel profondo, Umberto Eco e qual è il suo ruolo nella cultura contemporanea?

* * *

Ti dirò qual è l´immagine che io ho di te: l´ideatore e il costruttore di un grande cantiere dove si sperimentano nuove architetture culturali utilizzando nuovi materiali e nuove tecnologie. E dove si educano studenti, studiosi, letterati e artisti. A nuovi linguaggi. A nuovi modi di associare idee.
Possibilmente perfino a nuovi comportamenti civili.
Strada facendo il cantiere - pur restando tale - ha assunto la forma d´una cattedrale della quale tu sei il solo o il principale officiante. E poiché l´officiante fa tutt´uno con la cattedrale-cantiere tu, badando a portare avanti il lavoro, ti sei dovuto inevitabilmente occupare anche della tua immagine di officiante che fa parte integrante dell´opera. E´ tutt´uno con l´opera.
Non sei il solo che si dedica alla coltivazione dell´opera e di se stesso in quanto parte dell´opera. In un certo senso lo facciamo tutti, intendo dire tutti quelli che hanno un certo concetto di sé. Ma lo facciamo, quasi tutti, da dilettanti, tra ventate di narcisismo e di sopravveniente umiltà. Tu sei un professionista in materia; ti consideri tale e come tale sei universalmente riconosciuto. Se debbo pensare ad un artista, a un uomo di lettere, ad un poeta totalmente dissimile da te che del resto poeta non sei, ma al quale mi viene spontaneo riferirmi nel considerare il rapporto tra opera e autore, mi viene in mente D´Annunzio. Lui usava i levrieri, le avventure guerresche, gli amori, i debiti, la ricercatezza, la «décadence», ma lavorava come un forsennato, maneggiava uno sterminato vocabolario, era culturalmente prensile come una spugna. In quell´epoca fu il solo artista italiano che avesse circuito europeo.
Anche tu lavori come un forsennato, usi il computer, possiedi anche tu un immenso vocabolario di segni, giri il mondo come una trottola, tieni lezioni nelle più sofisticate università d´Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, Argentina e forse ne scordo qualcuna. Detesti la guerra e ami la pace. Sei moderatamente ma fermamente di sinistra. Rifletti e lavori in treno, in taxi, in aereo, in automobile. Quando il semaforo segna il rosso tu metti mano al taccuino nella pausa e ci fissi qualche appunto.
Nelle Faville del maglio D´Annunzio racconta che mentre componeva il Centauro si accorse di star mimando la lotta tra l´uomo-cavallo e il grande cervo che lo aveva aggredito e nella mimesi involontaria si piegò a terra trascinando con sé il cervo che aveva afferrato per il ramaggio delle corna fino a spezzargli il cranio.
Ecco, così non ti ci vedo. La tua mimesi con l´opera tua si svolge attraverso una liturgia da letterato borghese e non da artista decadente e scapigliato. Ma si tratta pur sempre d´una liturgia amministrata con scrupolosissima attenzione e attinenza al fine.
Resta da vedere qual è l´opera che ne deriva e il cantiere-cattedrale che la produce.

* * *

Ho già detto che l´immagine da te proiettata è quella dell´imprenditore d´un grandioso cantiere sperimentale. Quindi di un innovatore. Non a caso hai sfiorato a suo tempo la neo-avanguardia del Gruppo ?63 pur restando ai margini di quell´esperienza, come l´altro grande innovatore letterario della stessa tua generazione, Alberto Arbasino.
La neo avanguardia del ?63 si occupò della parte «destruens», produsse piuttosto dichiarazioni di intenti che non opere creative. Arbasino ed Eco erano al di là delle dichiarazioni e dei manifesti programmatici. Innovavano con le opere, producevano testi, operavano sul linguaggio e sulle formule letterarie. Con una differenza notevole tra i due che mi fa venire in mente il rapporto tra Matisse e Picasso (si parva licet...). Disse Matisse: «Siamo stati entrambi due innovatori delle forme pittoriche con la differenza che io ho cercato di modificarle dal di dentro e lui dal di fuori».
E´ illuminante questa distinzione critica. Qualche cosa di analogo era accaduto negli stessi anni tra Proust e Joyce: il primo modificò il romanzo dal di dentro, il secondo dal di fuori attraverso un´operazione radicale sul linguaggio.
Se ora volessimo applicare questa lettura critica ad Arbasino ed Eco, dovremmo dire che il primo ha innovato la forma-romanzo dal di fuori operando soprattutto sul linguaggio, il secondo dal di dentro operando sulla struttura e sull´assemblaggio senza toccare la lingua. Con tutto ciò che vi può essere di arbitrario in questo genere di approccio critico.
Il prodotto più riuscito di Eco è stato Il nome della rosa. Coniugò una trama narrativa letterariamente tradizionale con il «gotico» e insieme con il «giallo». Fu questa la grande innovazione e la ragione dell´immenso successo commerciale. Da quel momento il «giallo» è entrato a far parte stabile del genere letterario dal quale era stato rigorosamente escluso, con l´eccezione dell´esperimento rivoluzionario di Poe che però era innestato su una struttura letteraria e su una poetica di tutt´altra natura.
La regina Loana (tralascio i titoli intermedi tra quelle due opere che a me sono sembrati di minor peso anche se sono certamente serviti alla preparazione di Loana) è un´operazione del tutto diversa. Non è un romanzo, non esiste trama e non esistono personaggi. Il protagonista di fatto non ha un carattere, non ha veri rapporti con gli altri che sono altrettante «comparse», non ha passioni tali da consentire al lettore un´identificazione. Insomma non suscita emozioni. Alla lunga suscita un certo senso di noia.
Allora qual è l´operazione?
La regina Loana in realtà distrugge, o se volete supera, la forma-romanzo e colloca al suo posto una sceneggiatura multimediale assemblando canzoni, poesie, citazioni, reperti, figurine, fumetti, che hanno punteggiato mezzo secolo di storia della comunicazione.
Un corsivo al vetriolo pubblicato giorni fa sul Foglio sostiene che la regina Loana è in realtà un copione da affidare a Pippo Baudo perché lo trasformi in una trasmissione televisiva a puntate di sicuro successo. Non è così o non è soltanto così. Il corsivista del Foglio non considera il nucleo fondamentale del montaggio di Eco. Dopo la regina Loana la forma-romanzo incontrerà le stesse difficoltà ad essere riproposta che incontrò la pittura figurativa a ritornare sulla scena dopo il lungo dominio dell´astratto, dell´informale. Ci ritornò ma attraverso la «pop art», la raffigurazione degli oggetti e dei volti-oggetto, da quello di Marilyn alla bottiglia della Coca-cola.
Questo è secondo me la regina Loana. Debbo dire: «In contro tendenza con il romanzo americano dei De Lillo, dei Franzen, dei Roth che in modi stilisticamente nuovi descrivono una realtà sociale nel suo stato di implosione, di ferocia, di disperata mancanza di senso.
Forse la società europea non offre materia a quel tipo di letteratura.
Forse noi siamo alla meticolosa raccolta di reperti da rimasticare con una memoria sdentata che non comunica emozioni e non suscita sentimenti. O forse, dopo questa «pop art» letteraria e dopo il minimalismo di molti nostri autori giovani, arriveremo anche noi al recupero d´una forma-romanzo che esprima il senso o il dramma della sua assenza?

Laura-Ann Petitto
«il ritmo del linguaggio è scritto nel nostro Dna»

Yahoo! Notizie ANSA Giovedì 15 Luglio 2004, 18:52
Cervello: il ritmo del linguaggio è innato, riflesso anche sui gesti


(ANSA) - ROMA, 15 LUG - La sensibilita' al ritmo del linguaggio e' scritta nel nostro Dna, cioe' e' una prerogativa innata dell'uomo e si manifesta ancora prima che il neonato inizi a parlare anche con i ritmi dei movimenti delle mani indotti in risposta a suoni o gesti.
E' quanto Laura-Ann Petitto del Dartmouth College di Hanover, New Hampshire, leader nel campo degli studi sul linguaggio, sostiene di aver dimostrato con uno studio su neonati esposti o solo al linguaggio dei segni dei sordo-muti o solo al linguaggio verbale.
I bimbi, spiega sulla rivista Cognition, ciascuno a modo suo, sperimentano la sensibilita' innata al ritmo del linguaggio. Coloro che sono esposti solo alla lingua dei segni possono farlo solo con movimenti delle manine, viceversa quelli che ricevono sollecitazioni sonore oltre a muovere le mani iniziano anche le vocalizzazioni che li conducono sulla via della parola.
Bocca o mani pero', non c'e' differenza, dice l'esperta, sono solo due modi diversi di esprimere un ritmo che e' in noi dalla nascita.
Per affermare cio' la Petitto conduce da anni esperimenti sui piccoli, prima concentrandosi sui bambini sordi ma poi, poiche' alcuni studiosi suoi colleghi hanno insinuato il dubbio sulla correttezza del confronto tra neonati sordi o non, la scienziata ha deciso di seguire i comportamenti di neonati con udito normale, alcuni dei quali pero' esposti solo al linguaggio dei gesti.
In questo suo ultimo esperimento dunque l'esperta ha osservato sei bimbi, tre figli di sordo-muti.
Con sensori infrarossi applicati agli arti ha valutato la frequenza del ritmo dei movimenti di ciascun bambino in risposta a input verbali o gestuali.
L'idea di base della Petitto e' che se i gesti con le mani sono semplicemente espressione di attivita' motoria casuale, nei due gruppi di bimbi non si dovrebbe osservare nessuna differenza anche se gli input che inducono i movimenti, linguaggio e gesti, sono diversi.
Ma non e' cosi': le frequenze misurate, osserva la Petitto, non sono casuali, come ci si aspetterebbe se non ci fosse nulla di innato alla base, ma rispecchiano quelle degli input ricevuti. Ma alcuni scienziati sono scettici e dicono che queste evidenze non sono sufficienti a screditare le ipotesi della casualita' dei gesti dei neonati e dei vocalizzi, nonche' di come questi ultimi diventino parole solo per effetto di apprendimento.
(ANSA).

il commento di Silva Stella:


Mi sembra interessante che si parli di "sensibilità" del neonato e di linguaggio come movimento. La Petitto dice che il bambino "sente" il ritmo del suono o del gesto e risponde, (quindi parla), con il proprio movimento all'imput del suono e del gesto.
Inoltre dire che la sensibilità al ritmo del linguaggio è scritta nel nostro DNA è un elemento biologico, che ci differenzia dagli animali. Il nostro DNA è senza dubbio diverso da quello animale. Non c'è niente di innato, nel senso del divino-spirituale, siamo liberi di tornare a riflettere sulla sensibilità generica, acquisita durante la vita fetale.
Dire che bocca e mani sono due modi diversi di esprimere un ritmo che è in noi fin dalla nascita, direi che conferma come il bambino si "esprima" con il movimento di tutto il corpo, prima ancora della parola articolata. Movimento che costituisce la matrice dell'immagine interna che con la maturazione neurofisiologica si trasformerà in linguaggio articolato del tutto personale e non appreso.

Simona Maggiorelli
due mostre: a Madrid e a Martigny

Europa quotidiano
MONOCROMOS. DA MALEVICH AL PRESENTE


La prima mostra della Madrid di Zapatero sceglie il segno incisivo della pittura astratta e il colore magnetico dei monocromi. Al museo nazionale Reina Sofia, fino al 6 settembre, Vincenzo Trione, con Barbara Rose, ha allestito una mostra pensata come un viaggio di ricerca intorno a questo interessante tema che attraversa le avanguardie storiche, la pittura del secondo Novecento e che continua ancora oggi ad avere nuovi sviluppi.
Punto di partenza scelto dal critico d’arte napoletano, Trione, il “bianco su bianco” con cui, nel 1918, Kasimir Malevich prende consapevolezza di aver fatto una scoperta: quella del monocromo come immagine “alogica” che va oltre il figurativismo, capace di comunicare in modo profondo con un linguaggio che va oltre la descrittività razionale e analitica del già visto, ma anche oltre la fantasia di immagini deformate, fatte a pezzi, scomposte con cui il cubismo cercava di forare la superficie delle cose. Qualche anno prima Malevich aveva dipinto il famoso “Quadrato nero”, nato forse dalla trasformazione di un sipario scuro in una sorta di schermo di rappresentazione. Quella tela esposta nell’ultima mostra dei futuristi a San Pietroburgo, segnò un punto di svolta.” Si comincia a capire che il monocromo può essere una porta – scrive Trione nel catalogo – una soglia estrema della pittura oltre la quale diventa installazione, icona assoluta, capace di spingere lo spettatore al di là del limite del colore e della tela percepibili con i sensi”. Poi sarebbero venuti, negli anni ‘40 e ‘50 i luminosi rettangoli frontali di Rothko che sembrano librarsi sulla superficie della tela, le esplorazioni monocrome di Lucio Fontana, che dopo il punto di arrivo del bianco, precipitò nel taglio della tela come azzeramento totale della cromia. Con toni più esibiti e meno risonanza interiore quasi negli stessi anni Yves Klein sperimentava l’ossessione del blu oltremare, Franz West i ritorni continui sul rosso. E dopo aver visto una mostra di Klein nel ’57 Piero Manzoni concepisce i suoi “Achrome”, monocromi bianchi con i quali propone un’idea di pittura come “spazio di libertà”, immagine assoluta che è negazione ma anche apertura verso nuovi valori. A partire da qui le sperimetazioni di pittori di oggi come Emilio Castellani e Ettore Spalletti. La mostra”Monocromos.Da Malevich al presente” è accompagnata di un catalogo di interventi critici, coordinati dallo stesso Trione e Gladys Fabre, direttrice del Museo d’arte moderna di Parigi. In Italia è edito da Skira. (Simona Maggiorelli)

Europa quotidiano
VAN GOGH, CEZANNE, PICASSO e altri capolavori A MARTIGNY


A Martigny, appena oltrepassato il confine, fino a settembre, un’occasione per vedere la Phillips Collection, che squaderna capolavori di Cèzanne, Van Gogh, Picasso, ma anche opere classiche del Settecento e Ottocento da Ingres, a Delacroix a Monet e, andando indietro nel tempo, tavole del '500 e '600, in primis di El Greco, anticipatore della stagione inquieta del manierismo internazionale, dalla Grecia, a Venezia, a Saragozza. Una collezione, messa insieme dal danaroso mecenatismo nordamericano e in particolare dal Duncan Phillips che un articolo di El Pais racconta come mecenate e insegnante di Storia dell’Arte all’Università di Yale che si era messo in testa di “creare un Prado americano”, per dare al suo giovane paese tasselli di storia dell’arte e quella conoscenza della tradizione della vecchia Europa, a lungo bramata. Progetto ambizioso che nel 1921 si concretizza nella casa mauseo Phillips Memorial Art Gallery, il primo museo di arte contemporanea negli Stati Uniti, che poi all’inizio degli anni ’60 avrebbe ospitato le prime importanti retrospettive americane di Rothko e Alberto Giacometti. Due artisti, (specie il primo che Phillips apprezzava per la “forza emotiva del colore” e a cui aveva dedicato un’intera sala della casa museo) che fanno la parte del leone anche in questa mostra svizzera alla Fondazione Pierre Gianadda che, fino al 27 settembre, ospita buona parte della collezione conservata a Washington. Apre il percorso Le dejeuner des canotiers di Auguste Renoir, una scena di tono leggero e conviviale che incarnava i valori del buon vivere della borghesia Ottocentesca e della colta Francia, meta dei viaggi di educazione dei rampolli delle famiglie americane. Ma se quest’opera di tardo impressionismo è diventata , negli anni, l’immagine simbolo della Collezione Phillips, dietro vengono opere più intriganti, come l'istrionico Paganini ritratto da Delacroix o la piccola bagnante di Ingres e, sprattutto, avvicinandosi alle avanguardie storiche, eleganti nature morte di Braque in giallo, marrone e nero accanto ai primi “esercizi” in blu del giovane Picasso. E poi ancora, per chi avesse il tempo di una capatina vacanziera appena oltre confine:’‘L’ingresso del giardino pubblico di Arles’ (1888) di Van Gogh e il ‘Vaso di zenzero con melagrane e pere' (1890-1893) di Cézanne, che il pittore regalò a Claude Monet. Info sul sito www.gianadda.ch. (Simona Maggiorelli)

Achille Bonito Oliva
Joan Mirò, a Basilea

Repubblica 19.7.04
Un sogno pieno di frammenti
esposti i suoi quadri
lavorare a un paesaggio solo dopo averlo amato
colori che talvolta scoppiano improvvisi
Basilea dedica un grande omaggio al pittore catalano Le sue opere richiamano forme solari ma anche oscure profondità interiori
di ACHILLE BONITO OLIVA


BASILEA. Per Calderón de la Barca «la vida es sueño». Il surrealista catalano Joan Mirò ha scelto di sognare il sogno dell´arte, al confine di territori che scorrono tra immagini e forme solari, formate da frammenti, bagliori improvvisi, costanti ritorni, allontanamenti e sprofondamenti in un luogo che sembra appartenere a tutti. Il territorio magico di Mirò è illuminato da uno sguardo interiore che brilla di luce propria, rafforzato da un occhio che possiede la doppia capacità di guardare e di guardarsi. Lo scopriamo visitando il Grande Omaggio a Mirò (e le sculture di Calder in contrappunto), presso la Fondazione Beyeler di Basilea, proprio a ruota dell´esaustiva mostra al Centre Pompidou di Parigi.
Il sogno di Mirò è costellato e disseminato da frammenti che vivono all´incrocio di molti cieli e che gravitano ad altezze diverse, sempre sottili e mai corposi, dato che la leggerezza permette loro di vagare velocemente e di sostare tranquillamente senza ingombro e squilibri. Nei cieli-quadri di Mirò non esistono sprofondamenti o precipitazioni. Gli elementi si dispongono secondo i dettami della compresenza e dell´epifania, e secondo il senso dell´illuminazione e dell´apparizione improvvisa.
Le forme germinano direttamente nel sogno del quadro, ritagliato nella sua inquadratura, che trova il bordo nei confini della pittura, che equivalgono ai confini del sogno stesso. Il linguaggio germinante dell´arte provoca molti fiori e anche deserti, ovvero punti bianchi e vergini della tela. Prolifera su se stesso e inonda la superficie del quadro con attento disordine. L´attenzione nasce da una disciplina biologica del linguaggio, che si dispone sempre secondo rapporti di istantaneità, che in seguito l´americano Calder renderà volatili in tempo reale e stabili nello spazio della scultura.
Anche i colori si dispongono in maniera aperta, dentro i filamenti delle immagini o fuori, deconcentrando le figure e stabilendo nessi che poi precipitano come inseguendo echi che sembrano spegnersi lontano. Talvolta scoppiano vicino con un fragore che resta sempre silenzioso, e che investe sempre l´occhio, seppure quello interno. Da qui, poi, scorre velocemente negli altri organi della percezione, mai solamente visivi. Così le immagini tornano da dove sono partite, nei recessi bui o totalmente luminosi del profondo.
Il profondo di Mirò non è naturalmente il luogo dell´irrazionale, del puro misconoscimento della ragione, bensì il serbatoio che trova sempre nuova linfa e rinnovamento dalla sua pulsione a restare sotterraneo. È un serbatoio disposto in orizzontale, che non ama alzare la testa, e che per attitudine ha un movimento inclinato. È il sogno dell´arte a trasportarlo fuori dalla posizione supina, a trascinarlo nel luogo della rappresentazione, dove non subisce perdite, ma si accresce di un ulteriore splendore oscuro.
«Disciplina di lavoro per avvicinarsi di più alla forma», dice Mirò. Quest´asserzione scaturisce dalla natura stessa del linguaggio, che ama porsi sempre sotto lo sguardo in maniera compita e compunta. Compunzione non significa perdita d´intensità, ma accrescimento e maggior concentrazione. Il sogno dell´arte, in Mirò, passa attraverso il superamento dell´improvvisazione, dove l´affinamento dell´immagine calibra la propria apparizione in modo che non fuoriesca precipitosamente dal serbatoio che l´ha trattenuta fino a quel momento.
Il trattenimento dell´immagine equivale all´unica possibilità di serbarla fuori da ogni cesura. L´artista possiede il dono di non privare l´immagine del suo spessore e dei suoi legami interni. Mirò non produce mai lacerazioni: forme e figure conservano radici che affondano nella sostanza dell´immaginario, che non è un luogo astratto, cioè una condizione astratta della fantasia, ma il terminale ininterrotto del serbatoio del profondo. Il linguaggio costituisce la meccanica attraverso cui esso avvia e produce le sue polluzioni.
«Noi avremo un´arte libera. Tutto l´interesse dell´artista si baserà sulla vibrazione dello spirito creatore», dice Mirò. Dunque la vibrazione è il movimento che l´artista sviluppa per avvicinarsi al luogo interiore. Da questo luogo non è lontana la natura, che vive, anzi, sulla stessa lunghezza d´onda, fatta di espansione e contrazione, tremiti sottili che impediscono grandi eventi ma costituiscono le polarità temporali (e per questo invisibili) all´interno delle quali avvengono i piccoli eventi della nascita e della morte.
«Quando lavoro a un paesaggio comincio a amarlo, di quell´amore figlio di una lenta comprensione. Lenta comprensione della grande ricchezza delle sfumature, ricchezza concentrata, che offre il sole. Felicità di riuscire a comprendere nel paesaggio un filo d´erba», dice Mirò. La simultaneità dell´immagine non è quindi il portato della velocità: piuttosto è una calibratura paziente che tende a non privarla della sua intensità iniziale. E l´intensità è la temperatura che misura la realtà dell´immagine, il suo rimanere inalterata dentro la griglia del linguaggio.
Una lotta lenta e paziente si apre tra l´artista e i suoi strumenti, e la posta in gioco è impedire la perdita che può derivare dall´uso troppo concitato del linguaggio. Mirò sa che il linguaggio ha una struttura profonda, e che il profondo è strutturato come il linguaggio, con nessi e passaggi. Dunque l´artista, come l´acrobata, cammina lentamente sul filo, nel tentativo di attraversare un punto strettissimo in cui è possibile precipitare.
Mirò ha conservato radici sufficienti per restare saldamente ancorato alla vibrazione che sorregge la natura e anche il sogno dell´arte. Qui geometria e segni organici si intrecciano incessantemente, stabilendo l´armonia di apparizioni che conservano dentro e fuori di sé l´intenso fantasma dell´insieme. La circolarità del tutto è anche una lotta per trattenere l´iniziale vibrazione all´interno dei confini di un linguaggio che prolifera in un una direzione duplice, quella ascensionale della finitezza e quella illimitata e discendente di un infinito che si può soltanto sospettare.

De Oliveira, Bush, «Il quinto impero»

Repubblica 19.7.04
Il novantaseiene regista portoghese presenterà a Venezia "Il quinto impero". E riceverà un premio alla carriera "per la sua modernità"
De Oliveira: "Con George Bush siamo tornati alle Crociate"
"Il mio non è pessimismo integrale, ma posso ignorare ciò che vedo?"
Nel mio "Quinto impero" il re del Portogallo vuole unificare il mondo. Vi ricorda niente?
Mastroianni era il più grande attore europeo. Era convinto che lavorando avrebbe esorcizzato la morte
di ROBERTO NEPOTI


GRADO - Novantasei anni (li compirà il 12 dicembre), di cui settantasei dei quali spesi per il cinema. Eppure la motivazione con cui La Mostra di Venezia attribuirà a Manoel de Oliveira il premio alla carriera insiste soprattutto sul concetto di "modernità". Ineccepibile. Venuto a ritirare il premio Città di Grado, per il Festival "Onde mediterranee", de Oliveira ci parla a lungo; ricorda il passato ma, soprattutto, si sofferma sul nostro travagliato presente.
Il sottotitolo del suo ultimo film è Oggi come ieri. Quale continuità percepisce tra avvenimenti datati sedicesimo secolo e lo scenario mondiale odierno?
«Chi ha visto Un film parlato conosce già il soggetto del Quinto impero: è la storia che la protagonista racconta alla sua bambina partendo da Lisbona. All´epoca, il re del Portogallo Sebastiano fece guerra al Marocco. Sognava di riunire tutto il mondo sotto il suo regno cristiano, ma fu sconfitto dall´Islam. Di lì cominciò il declino del Paese. Una leggenda, condivisa dai musulmani, dice che tornerà su un cavallo bianco a pacificare la Terra. Ecco, oggi come ieri c´è un Bush che vuole riunire tutto il mondo sotto un solo dominio. Però la crociata, adesso, viene piuttosto da parte musulmana. La Storia, in ogni caso, si ripete».
Dunque, la Storia non ci ha insegnato nulla?
«Non molto. Permane l´ostinazione della guerra e della distruzione. Dopo il 25 aprile 1974, quando la Rivoluzione dei garofani liberò il mio Paese, feci un film contro la demenza della guerra dal titolo No, o la folle gloria del comando. Allora sembrava che le cose si mettessero al meglio: la caduta delle dittature, il nuovo corso di Gorbaciov in Russia... Invece è andato tutto storto con le guerre in Africa, in Kosovo, nell´Est europeo. E con l´11 settembre siamo tornati ai tempi delle crociate».
Il pessimismo è sempre stato una costante del suo cinema, anche quando il soggetto del film era letterario, o riguardava l´amore e la vita di coppia.
«C´è un proverbio russo che recita: "Il pessimismo è la conclusione dell´ottimista". Ma io la vedo piuttosto come il filosofo Spinoza, quando dice: "Crediamo di essere liberi perché non conosciamo le forze oscure; non siamo padroni di noi stessi". Il mio non è un pessimismo integrale: però non posso ignorare quel che vedo. Penso al petrolio, che è il veleno più desiderato del mondo e per il possesso del quale si massacra la gente. Mentre dovremmo pensare a preservare l´ambiente, che è la nostra sola ricchezza, anziché a distruggerlo».
Lei coniuga pessimismo e ironia offrendo, come in Ritorno a casa e in Principio dell´incertezza, parentesi divertenti in contesti tragici. In che modo riesce a mantenere questo delicato equilibrio?
«Non esiste un criterio: o viene o non viene. Il più delle volte non riesco a dire perché ho risolto quella scena in quel modo: so solo che cerco di comunicare allo spettatore ciò che penso. Prenda la scena finale di Un film parlato, quando il transatlantico esplode per le bombe dei terroristi. Tutti lo hanno trovato un momento terribile, ma c´è una sorta d´ironia tragica».
A Marcello Mastroianni affidò il ruolo del suo alter-ego regista in Viaggio all´inizio del mondo.
«Come attore, era semplicemente il più grande attore europeo. Come uomo mi sbalordì. Sapeva di avere poco tempo da vivere eppure non si lamentava mai; era forte, coraggioso. Diceva che, se lavorava tanto, la morte non avrebbe avuto il tempo di prenderselo. Subito dopo la fine delle riprese, continuò la sua tournée con lo spettacolo teatrale Le ultime lune. Quando ci congedammo disse: se fai un altro film, chiamami. Sapevo che non era possibile e ne fui molto commosso».

Marco Bellocchio a Massenzio

Repubblica 17.7.04
a ROMA
PALAZZO BRASCHI
Dal 20 luglio la storica rassegna. Inaugura Bertolucci
Un'arena da 200 posti in attesa del ritorno alla Basilica che diede i natali alla manifestazione. Due proiezioni al giorno fino al 5 agosto
di FRANCO MONTINI


In attesa che Massenzio torni a Massenzio, ovvero al grande rito epico, il ritorno nella basilica sui Fori Imperiali potrebbe già avvenire il prossimo anno, la prima storica rassegna cinematografica dell´Estate Romana si ridimensiona nei tempi e negli spazi. Massenzio 2004 propone quindici serate, dal 20 luglio al 5 agosto, in un´arena da 200 posti allestita nel cortile di Palazzo Braschi.
In controtendenza rispetto alle altre proposte sotto le stelle, il cartellone è tutto dedicato al cinema d´autore con una serie di film tutt´altro che popolari e un´attenzione particolare rivolta alla produzione nazionale. Ancora una volta, come già accaduto spesso in passato, sarà Bernardo Bertolucci ad inaugurare Massenzio: il primo film in programma martedi prossimo alle 21 sarà The dreamers. Poi toccherà a Bellocchio con Buongiorno notte; ai fratelli Frazzi con il sorprendente Certi bambini. (...)

Eroi etruschi e miti greci a Vulci

Repubblica 19.7.04
UN CICLO PITTORICO DECORATIVO IN MOSTRA A VULCI
GLI EROI GRECI VISTI DAGLI ETRUSCHI
di GIUSEPPE M. DELLA FINA


VULCI. Alessandro François era un archeologo assai noto nei decenni centrali dell´Ottocento: a lui si devono scoperte di particolare rilievo in area etrusca, tra le quali, a Vulci, nell´aprile del 1857, quella di una tomba dipinta di straordinario interesse. Raccontò il momento e le sensazioni della sua scoperta nella rivista Bullettino dell´Instituto di Corrispondenza Archeologica. Le pareti delle tomba apparvero ai suoi occhi decorate da «esimie pitture munite ciascuna figura di ben chiara iscrizione etrusca, senza della quale circostanza si sarebbe creduto che questo sepolcro fosse appartenuto ad altra epoca, tanta è la bellezza delle medesime pitture da far rammentare i bei tempi del Botticelli e del Perugino».
L´eco della scoperta sul momento fu notevole. Nel 1863 gli affreschi vennero staccati dalle pareti ed entrarono nella collezione Torlonia, mentre sulla tomba priva ormai delle decorazioni scese il silenzio. Nel 1924 Goffredo Bendinelli dovette svolgere ricerche specifiche per rintracciarla, essendone andata perduta anche l´ubicazione. Poi, nel 1930, fu oggetto di un nuovo scavo che diede risultati di un certo interesse.
Ora, per la prima volta in Italia, l´intero ciclo pittorico che decorava la tomba viene esposto in occasione della mostra "Eroi etruschi e miti greci", allestita nel Castello della Badia a Vulci (sino al 26 settembre 2004). L´esposizione è stata resa possibile grazie alla liberalità dei Torlonia e all´impegno della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell´Etruria Meridionale e degli Enti Locali, che hanno voluto tale realizzazione con grande determinazione.
Quali sono i motivi della notorietà del ciclo pittorico? Il livello stilistico degli affreschi che giustifica l´ingenuo entusiasmo di François (si osservi, in particolare, sotto questo aspetto, la scena dell´aggressione di Aiace a Cassandra), e l´interesse storico dei soggetti raffigurati.
Si tratta di episodi della storia etrusca a noi ignoti e di quella romana, ma visti nell´ottica degli Etruschi. Sulla parete di destra del tablino sono raffigurati vari duelli tra personaggi vulcenti e loro alleati contro guerrieri originari di altre poleis etrusche. Tale scena sembra proseguire sulle pareti immediatamente combacianti: vi si vede Marce Camitlnas che uccide il romano Cneve Tarchunies (Gneo Tarquinio) e Mastarna che libera Celio Vibenna. Sappiamo dall´imperatore romano Claudio, autore di un´opera storica proprio sugli Etruschi, che Mastarna va identificato con Servio Tullio. Negli affreschi della tomba vulcente abbiamo quindi anche il racconto di vicende relative alla fase monarchica di Roma, con l´uccisione di un esponente della dinastia dei Tarquini e col ricordo di un´azione coraggiosa di Servio Tullio, con ogni probabilità non ancora salito sul trono di Roma.
C´è da aggiungere che a queste scene vittoriose per i vulcenti fanno da contraltare scene tratte dalla tradizione greca, come ad esempio il sacrificio dei prigionieri troiani voluto da Achille in espiazione della morte di Patroclo: tutto ciò spinge a far ritenere che chi volle far realizzare la tomba credeva nell´identificazione dei Vulcenti con i Greci e dei Romani con i Troiani e, al contempo, nutriva scetticismo e probabilmente disgusto per la violenza senza freni. Conosciamo il suo ritratto e il suo nome: si tratta di Vel Saties raffigurato coronato e con una veste di fattura raffinatissima, mentre avanza preceduto da un fanciullo che tiene in mano una rondine.
Resta da dire che gli affreschi vanno datati intorno al 330 a.C.: entro pochi decenni Vulci e l´intera Etruria sarebbero caduti in mano romana, e il ricordo dei successi vulcenti sembra avvolto in un alone di doloroso rimpianto che riesce a giungere fino a noi.

Francesco Petrarca (1304 - 1374)

La Stampa 19 Luglio 2004
SETTECENTO ANNI FA NASCEVA IL GRANDE POETA ITALIANO DEL «CANZONIERE»
Petrarca, non ci fu soltanto Laura
Solitario nei versi, coraggioso e forte nella vita
di Giorgio Calcagno


IL bambino nato in vico dell’Orto ad Arezzo il 20 luglio 1304, figlio di un fiorentino che, come Dante, era dovuto fuggire dalla patria per salvarsi la vita, venne battezzato con il nome di Francesco. Ma rimase, fino all’età adulta, senza cognome. Il padre, Pietro detto Petracco, nonostante la professione di notaio, non ne aveva nessuno da trasmettergli. Gliene fu dato uno trentun anni dopo, nel 1335: quando il non più tanto giovane Francesco, costretto a cercarsi da vivere, scelse la carriera ecclesiastica e ottenne un canonicato. Per «Francisco Petrachi de Florentia», era scritto nel documento di nomina, concesso in Avignone da papa Benedetto XII. Solo più tardi il «florentinus» cercò di addolcire quel brutto cognome in Petrarca, assai più in sintonia con il suo mondo onomastico. Il cantore di Laura, capace di inventare tanti giochi sul nome attribuito alla sua donna, non poteva chiamarsi Petracco.
Nonostante l’aura gentile di cui aveva voluto ammantare la propria firma, l’esistenza del poeta fu tutt’altro che tranquilla, come una pigra memoria scolastica ci tramanda. Basti leggere la «Vita del Petrarca» scritta dal suo più attento biografo, l’americano Ernest Hatch Wilkins; apparsa per la prima volta nel 1961, e ripubblicata opportunamente oggi dalla Feltrinelli nel settimo centenario della nascita. Una storia in movimento continuo. L’uomo che, a tavolino, esaltava la solitudine e la contemplazione, si trovava poi ogni giorno al centro degli avvenimenti, anche politici. Sempre in viaggio, in nave, a cavallo, per l’Europa; sempre protagonista.
Desideroso della fama senza esserne avido, frequentatore delle corti senza cortigianeria, non esitava a mettere di fronte alle proprie responsabilità papi e sovrani con cui era in confidenza. Esemplare il suo attacco a Carlo IV di Boemia, venuto a farsi incoronare imperatore in Roma e poi tornato, quasi in fuga, nella sua patria. Benché fosse stato trattato da lui con ogni onore, Petrarca non gli perdonò l’avere abbandonato quella che doveva essere la vera capitale dell’impero: «Ti porti a casa lo sterile nome di imperatore: ma in verità tu sei soltanto re di Boemia», gli scrisse in una lettera che nessun cesare prima di lui aveva mai ricevuto. E quando Carlo fece avere a Petrarca un sigillo in oro, il poeta lo rimandò indietro.
Era coraggioso, l’uomo che diceva di amare «solo e pensoso i più deserti campi». Superò terremoti, naufragi, cadute da cavallo. Non temeva i briganti, da cui l’Italia era infestata, nei suoi continui viaggi, e un giorno finì anche loro prigioniero. A Roma saliva sulla volta delle Terme di Diocleziano, prossima al crollo, per ammirare il paesaggio. Durante la peste del 1349 continuò con fermezza la sua vita, a Parma, dove si accumulavano le vittime. Non si spaventò neppure quando apprese la morte di un amico, che gli aveva fatto visita la sera prima; e nei tre giorni successivi morirono tutti i suoi familiari. Ignorando tutti i consigli, scelse di andare in barca da Pavia a Padova nel 1368, mentre le sponde del Po formicolavano di truppe in guerra. Passò senza che nessuno si arrischiasse ad attaccarlo; anzi, gli armati delle due parti caricarono la barca di vino, pollame e frutta, in suo onore.
Coraggioso, e fiducioso in Dio. Il padre della cultura umanistica era spirito religiosissimo, anche se, uomo di Chiesa, non volle prendere gli ordini, e rifiutò sempre la cura d’anime. «La cura della mia è più che sufficiente per me», disse al papa. E conosceva le proprie debolezze. In un autoritratto senile, rimasto inedito per secoli, confessa di avere ceduto, in gioventù, alla «incontinenza»: che solo a 40 anni aveva domato. Nessuno, parlando di Petrarca, ricorda le sue donne reali, sopraffatte da quella ideale a cui il fiorentino di Valchiusa dedicò la più grande poesia. Ma un figlio e una figlia ci furono, quando il poeta era già canonico e cantava la sua Laura, da due donne diverse, rimaste ignote. Il figlio, Giovanni, avviato anch’egli dal padre alla carriera ecclesiastica, gli diede molti problemi, e morì di peste a 24 anni. La figlia Francesca, gli rimase vicina fino all’ultimo, con il marito e la figlia Eletta, facendo famiglia con lui. E ci fu anche una donna ferrarese, da cui il poeta fu attratto, quando i 40 anni erano passati da un pezzo. Solo il pensiero di Laura, morta un anno prima, lo avrebbe aiutato a vincere la tentazione.
Ma l’amore vero di Petrarca, durato tutta la vita, perseguito, questo sì, con incontinenza, fu quello per i libri: da leggere, da scrivere. Era l’uomo con la biblioteca più ricca d’Europa, la produzione letteraria più vasta del suo tempo. «Sono posseduto da una passione inesauribile che finora non ho potuto né voluto frenare. Non riesco a saziarmi di libri», scriveva nel 1346 a un parente fiorentino, perché gliene procurasse. Quando fece la sua più grande scoperta, la raccolta delle lettere di Cicerone ad Attico, in una biblioteca di Verona, se le copiò tutte personalmente: ne uscì un volume così grande che non gli entrava nel baule, e doveva tenerlo diritto sul pavimento. Un giorno gli cadde addosso, ferendolo a una gamba. «Perché, mio caro Cicerone, vuoi farmi male?» esclamò il poeta. Cicerone non gli diede retta; tornò a colpirlo, tre altre volte, con gravi conseguenze per la sua salute. E la gamba continuò a farsi sentire, per il resto dei suoi giorni: quasi metafora di una esistenza, votata alla parola scritta.
Quando Petrarca si avvicinava alla settantina, sempre più malfermo in salute, il suo grande amico Giovanni Boccaccio gli scrisse per invitarlo a smettere gli studi, dopo aver lavorato tanto, e finalmente riposarsi. Petrarca gli rispose risentito: «Il lavoro e l’applicazione continui sono il cibo del mio spirito. Quando comincerò a cercare il riposo, allora smetterò di vivere». E proprio all’autore del Decameron egli scrisse, nell’estate 1374, le sue ultime parole: «Valete amici, valete epistole» (Addio amici, addio lettere). La fine venne subito dopo, il 19 luglio: non gli diede nemmeno il tempo di arrivare ai 70 anni, che doveva compiere l’indomani.

psicofarmaci

Yahoo! Salute 18.7.04
Depressione : complicanze neonatali con la Venlafaxina
Di Psichiatria.org


( Xagena - Psichiatria ) - L'FDA attraverso la società farmaceutica Wyeth ha informato gli Health Care Professional” di due importanti “alert”:

- neonati esposti alla Venlafaxina e ad altri SNRI ( inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della norepinefrina ) o SSRI ( inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ), nel terzo trimestre di gravidanza hanno sviluppato complicanze richiedenti prolungata ospedalizzazione, supporto respiratorio e nutrizione artificiale;
- i pazienti con disturbi depressivi maggiori, sia adulti che in età pediatrica, possono sperimentare peggioramento del loro stato depressivo e/o ideazione suicidaria e comportamento suicidario (suicidio).
Il peggioramento della depressione ed i tentativi di suicidio possono presentarsi soprattutto all’inizio di un ciclo di terapia o al momento del cambiamento dei dosaggi.
La Venlafaxina è commercializzata negli Usa con il nome di Effexor, ed in Italia come Efexor. (FDA 2004 - Xagena)

cosa "vede" lo schizofrenico?

L'espresso
Immagini dalla mente
Sperimentato in Australia un software in grado di riprodurre le allucinazioni degli schizofrenici. Un aiuto per i medici per capire cosa succede nella testa di chi soffre
di Eugenio Spagnuolo


Non sarà proprio come vedere la Madonna o come trovarsi davvero in un quadro di Dalì, ma lo sbigottimento è garantito se ci si affaccia allo schermo del pc dell'Università del Queensland in Australia, dove è stato installato "Psychosis Simulation Software", il primo simulatore di allucinazioni per computer.
Si tratta di un prototipo sperimentale di realtà virtuale composto da tre proiettori e uno schermo gigante in grado di offrire una visuale di 150 gradi, e il suo funzionamento simula quello della mente di chi soffre di schizofrenia (malattia che secondo l‘Oms colpisce 24 milioni di persone al mondo e che tra i sintomi comporta allucinazioni di tipo visivo e uditivo). Grazie alle interviste fatte ad alcuni pazienti, il programma è stato dotato di un archivio di fotografie che rappresentano le allucinazioni più frequenti, inclusa un‘apparizione della Madonna con tanto di aureola. Gli utenti, soprattutto studenti di medicina, in pratica si muovono per una stanza virtuale e man mano che avanzano possono scegliere se far apparire un abisso nel pavimento, improvvisi flash di luce o uno specchio dove le immagini si sciolgono, come in un quadro surrealista. In alcuni casi basta solo avvicinarsi a un oggetto per far apparire una visione. "La nostra idea - ha spiegato Geoffery Ericksson, a capo del progetto di sviluppo del software - è vedere che cosa succede nella mente di chi soffre di allucinazioni dal suo punto di vista" .
In tal modo medici potranno avere una reale comprensione delle allucinazioni che opprimono i pazienti, mentre oggi devono limitarsi ad interpretarle dai loro racconti, cosa che rende impossibile valutarle con obiettività. Oltre a questo tipo di "immedesimazione" artificiale, il simulatore promette di intervenire terapeuticamente sui pazienti attraverso allucinazioni controllate che gli insegneranno col tempo a ignorare la comparsa di quelle "reali".
Il passo successivo dell'Università australiana sarà portare a termine altre interviste per avere un archivio di "visioni" il più ampio possibile e nel giro di 5 anni il software comincerà ad essere commercializzato in tutto il mondo. Prima però la realtà virtuale dovrà dimostrare di essere davvero utile nella terapia del comportamento. Ma, come hanno spiegato in un rapporto inviato al "Journal of Network and computer application" , i ricercatori del Queensland sono ottimisti: "si tratta di una tecnologia che a tutt‘oggi ha trovato molte applicazioni in campo medico. Dall'addestramento dei chirurghi alla formazione dei medici sulle emergenze catastrofiche come terremoti e incendi, ed è stata anche sperimentata con successo nel trattamento di determinati tipi di malattie mentali e di disturbi come le fobie".

lo stato del processo per il delitto di Cogne

Repubblica 19.7.04
Annamaria Franzoni, la madre accusata di aver ucciso il figlio, non sarà in aula. Sarà presente invece il marito
Cogne, il giorno della verità
Oggi il gup decide: rinvio a giudizio o proscioglimento

Non si esclude la richiesta del rito abbreviato a meno di altri colpi di scena
di MEO PONTE


AOSTA - Oggi, dopo due anni di indagini, perizie e polemiche, per Annamaria Franzoni sarà finalmente il giorno del giudizio. A meno che Carlo Taormina, il legale della donna accusata di aver ucciso Samuele, il figlio di tre anni, non abbia in serbo un ennesimo coup de theatre per strappare un ultimo rinvio - nei giorni scorsi si è diffusa la voce che abbia accarezzato l´idea di invocare il legttimo sospetto denunciando il clima «colpevolista» di Aosta - oggi il gup Eugenio Gramola dovrà decidere se rinviare a giudizio Annamaria Franzoni o se proscioglierla dall´accusa mossale dalla Procura della Repubblica di Aosta. Lei, l´imputata, in aula non ci sarà. Come non c´è più stata dal tempo della sua scarcerazione decisa da un tribunale del Riesame di Torino, poi sconfessato dai giudici della Corte di Cassazione. Ci sarà invece il marito, Stefano Lorenzi, parte offesa ma anche strenuo difensore dell´innocenza della moglie.
Al gup Gramola, però, nel caso che l´avvocato Taormina decida di chiedere il rito abbreviato, toccherebbe un compito ancor più delicato: decidere lui se Annamaria Franzoni è o non è l´assassina del piccolo Samuele. È un compito non facile quello che aspetta il giudice aostano, noto per la sua serietà e soprattutto per il suo rigore.
Quello che la mattina del 30 gennaio di due anni fa era sembrato ai più un caso di immediata soluzione (un bambino ucciso in una casa isolata nella frazione isolata di un paesino isolato) per una serie di assurdi errori si è infatti trasformato in un rompicapo inspiegabile. Per capire che si trattava di un delitto e non di un aneurisma (come aveva diagnosticato la dottoressa Ada Satragni in un frettoloso e alquanto incomprensibile primo esame medico) ci volle un giorno intero e l´autopsia del professor Viglino.
La prima sospettata, Annamaria Franzoni, fu interrogata dal pm Stefania Cugge solo la sera successiva e per tre ore appena. Le tredici persone (soccorritori, amici, vicini) che entrarono in quella casa a Montroz nel momento successivo alla scoperta del delitto furono sentite come testi nell´arco di un mese. La Procura preferì affidarsi all´indagine scientifica e ai carabinieri del Ris di Parma. È in questo modo che l´inchiesta si è avvitata sulle consulenze scientifiche e sull´ormai famoso pigiama azzurro macchiato di sangue. Nel tempo sono cambiati persino gli attori di un dramma che sembra non aver fine: il pm Cugge è stato sostituito dal collega Longarini, l´avvocato Grosso da Taormina, il gup Gramola ha preso il posto del gip Gandini.
Gli ultimi atti dell´inchiesta, però, hanno messo in difficoltà la difesa di Annamaria Franzoni. La perizia fortemente voluta da Taormina e ordinata dal gup sull´analisi della tracce di sangue ha sostanzialmente confermato che almeno i pantaloni del pigiama erano indossati dall´assassino, confermando le tesi dell´accusa in un inoppugnabile incidente probatorio.