La Repubblica 05-09-04, pagina 23
Si chiamano neuropsicanalisti, curano insieme cervello e anima
I nuovi medici della mente
Roma, un congresso internazionale segna l'alleanza tra discipline un tempo distanti: neuroscienze e psicanalisi Lo specialista preferito è lo psicologo, «meno impegnativo». Il «lettino» per molti è ancora un tabù da superare. La scelta è silenziosa
di CLAUDIA DI GIORGIO
ROMA - Psicoanalista, psicologo, neurologo o psichiatra? Mentre l'uomo della strada è ancora in imbarazzo nel distinguere tra le varie figure, ecco che dagli esperti emerge una proposta quasi rivoluzionaria: mettere insieme neuroscienze e psicoanalisi, superando le barriere che da sempre separano le due discipline che indagano sulla mente. Negli ultimi decenni, in realtà, via via che il rigore oggettivo degli studi fisiologici dei problemi mentali prendeva piede, il lettino di Freud ha perso di autorevolezza, e vi sono stati casi (esemplare quello dell' autismo) in cui l'interpretazione psicoanalitica ha fallito clamorosamente. Ma già da qualche tempo, in varie parti del mondo si sono formati gruppi interdisciplinari di neuroscienziati e psicoanalisti che rivedono le teorie freudiane alla luce degli studi di neurofisiologia. Questi gruppi sono poi confluiti nella Società Internazionale di Neuropsicoanalisi (Npsa) che sta tenendo il suo quinto congresso in questi giorni a Roma, e che annovera tra i suoi ranghi esperti del calibro di Antonio Damasio, V. S. Ramachandran o Joseph Le Doux e il premio Nobel Eric Kandel. Secondo l'inglese Mark Solms, che è un po' il profeta di questo progetto, l'integrazione delle due discipline è indispensabile: «Studiando il cervello solo come cocktail chimico si perde una parte importante di informazione. Il cervello è l'unico oggetto della natura che può essere interrogato e darci informazioni su di sé». D'altra parte, sono proprio alcune delle più recenti scoperte scientifiche sulle basi biologiche delle emozioni, così come di alcune patologie neurologiche, che stanno facendo tornare alla ribalta le idee di Freud. Al centro del congresso della Npsa, per esempio, vi sono le sindromi legate a lesioni all'emisfero cerebrale destro, a cominciare da uno tra i più bizzarri disturbi neurologici: l'anosognosia. Il nome suona ostico, ma in realtà è un problema che colpisce (spesso in modo temporaneo) tra il 20 e il 30% di chi è paralizzato in seguito a un ictus, quasi sempre con danni alla parte destra del cervello. In parole povere, il malato, pur avendo metà del corpo paralizzata, sostiene di poter muovere a piacimento il braccio sinistro (i danni un emisfero cerebrale si riflettono sulla parte opposta del corpo), di camminare normalmente, insomma di stare benissimo. Ma non si limita a dirlo: ne è convinto. E per spiegare come mai, per esempio, non ha eseguito la richiesta di alzare il braccio paralizzato, elabora spiegazioni plausibili, ma inventate, che possono andare da "ho un attacco di artrite" a "mi sono stufato dei suoi test" fino a "ma certo che lo sto alzando, non vede?" Le capacità cognitive di questi soggetti sono inalterate, la loro intelligenza è intatta: non sanno di essere paralizzati. Altre sindromi dell'emisfero destro che attirano l'attenzione dei neuropsicoanalisti possono essere ancora più bizzarre. Ci sono malati che, dopo un ictus, non riconoscono più la propria immagine allo specchio, e talvolta la aggrediscono verbalmente, sentendosene minacciati. C'è chi non riconosce più il proprio braccio o la propria gamba, e si chiede che ci facciano nel suo letto. Per citare Oliver Sacks, che si occupa da tempo di queste patologie, "per i pazienti con alcune sindromi dell'emisfero destro riconoscere i loro problemi non è solo difficile, è impossibile". Le lesioni all' emisfero destro provocano lesioni dell'ego, danneggiando la consapevolezza di sé e della propria identità attraverso un meccanismo di negazione profonda: ed ecco che da disturbi neurologici in senso più classico si sconfina nell'inconscio di Freud. Queste sindromi forniscono l'opportunità per studiare sperimentalmente, in modo oggettivo, i nostri meccanismi psichici più profondi. «Le neuroscienze studiano l' anosognosia come meccanismo, - afferma Mark Solms - Noi riteniamo che questo vada integrato da spiegazioni di tipo psicologico, perché se la base biologica è indubbia, le variabili emotive sono una parte importante di questi disturbi, in cui sono in gioco sono processi inconsci, che hanno a che vedere con la rimozione, la negazione, il narcisismo e il principio di realtà. Nel bene dei pazienti, e dell'umanità intera, abbiamo bisogno di fondere le due discipline in una sola: una nuova scienza della mente e dell'anima».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 1 febbraio 2005
mutilazioni genitali femminili
L'Unità 1.2.05
Mutilazioni genitali femminili:
l’Africa cerca un’altra strada
Elena Doni
Invece del silenzio, parole: molte parole. Invece del tabù, pubblici convegni. E oltre alle leggi, spesso ignorate, «dichiarazioni di villaggio»: efficace veicolo di persuasione che si diffonde con effetto domino. E poi radio, canzoni, spettacoli e «riti alternativi», come piantare un albero, per segnare il passaggio delle ragazze all'età adulta.
Qualcosa sta cambiando in Africa a proposito delle mutilazioni genitali femminili. Lo conferma il grande congresso che si terrà a Gibuti domani e il 3 febbraio con il titolo «Verso un consenso politico e religioso contro le MGF». Che fa seguito ad altre importanti riunioni ufficiali, tra le quali quella del Cairo del giugno 2003, in cui per la prima volta il Gran Muftì di Al-Azhar, Sayed Tantawi, massima autorità religiosa sunnita, disse in diretta radiotelevisiva che le mutilazioni agli organi sessuali delle donne non erano prescritte dal Corano. Dichiarazione alquanto pilatesca, ma comunque importante perché in molti paesi africani musulmani si crede che questa pratica sia voluta dalla religione: «Non c'è nulla nella Shari'a, nel Corano o nella Sunna profetica che parli di mutilazioni genitali femminili», sono state le parole di Tantawi, che poi ha proseguito: «È un problema che appartiene alla medicina. Potranno esserci dei casi in cui la MGF sia consigliabile e altri no. Dunque dobbiamo attenerci al parere dei medici». E poiché i medici dichiarano che qualsiasi mutilazione è contraria all'etica professionale e provoca gravi conseguenze per la salute, si può sperare che diminuisca il numero di seimila ragazze che ogni giorno vengono ancora mutilate in Africa.
Certamente l'Islam non ha dato origine alle mutilazioni genitali femminili dato che erano già presenti nell'Africa centrale prima della sua penetrazione in queste zone. Secondo alcuni l'escissione risale all'antico Egitto, come forse prova l'espressione «circoncisione faraonica», ma la si ritrova anche nell'antica Roma, dove era praticata sulle schiave. E certamente di origine latina è la parola «infibulazione», proveniente da fibula, una specie di spilla che veniva applicata ai giovani (inizialmente solo ai maschi) per impedire loro di avere rapporti sessuali.
L'Islam ha semplicemente recepito tradizioni locali e le ha di fatto legittimate, difese e diffuse, anziché combatterle come hanno cercato di fare le chiese cristiane. Con scarso successo: nel 1929 ci fu in Kenia addirittura una ribellione contro i missionari che avevano proibito di fare l'escissione alle donne Kikuyu. Per secoli le mutilazioni genitali femminili sono state praticate in silenzio, spesso in segreto: anche nelle aree cristiane, dove predomina la clitoridectomia, praticata su percentuali di ragazze tra il venti e il cinquanta per cento, ma soprattutto nelle zone islamiche. Nel Corno d'Africa, dove l'infibulazione è di rigore, si toccano percentuali che vanno dall'80%.
L'inversione di tendenza oggi in corso ha avuto però connotati assolutamente laici. Aziza Hussein, presidente della Società egiziana per la Prevenzione delle Pratiche Tradizionali Dannose, ha raccontato di aver sentito parlare per la prima volta di quella che allora veniva chiamata «circoncisione femminile» negli anni ‘70 da medici egiziani all'estero. In prima linea era allora la dottoressa Nawal El Saadawi, diventata poi famosa come scrittrice, la prima donna a battersi con vigore contro le mutilazioni.
Intorno alla pratica delle mutilazioni genitali femminili esiste un viluppo di tradizioni e di riti che spiegano la ragione delle resistenze ancora diffuse tra gli africani (e soprattutto tra le donne africane) all'abbandono di queste pratiche. Le MGF sono una componente fondamentale dei riti di iniziazione attraverso cui nelle società tradizionali si diventa donna, rimuovendo la parte «maschile» dell'apparato genitale femminile. E specie nel caso dell'infibulazione contribuiscono a costruire la «femminilità» delle ragazze. Quella che le donne infibulate chiamano «cucitura», restringendo lo spazio intermedio tra le gambe, impedisce loro di correre, di fare una serie di movimenti e le costringe ad un'andatura flessuosa e lenta. Inoltre queste terribili mutilazioni del corpo delle bambine e delle ragazze (l'età in cui vengono praticate varia dai primi giorni di vita ai 14 anni) sono importanti nel determinare il prezzo della sposa, «cioè il compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie» spiega la sociologa Carla Pasquinelli dell'Istituto Orientale di Napoli «in cambio di una donna illibata - escissa o infibulata che sia - pronta a rispedirla al mittente e a riprendersi il compenso versato se la donna non è stata operata come si deve».
Il giorno dell'operazione, che avviene in un luogo appartato, le bambine vengono tenute ferme da altre donne, poi costrette a restare per alcuni giorni coricate a gambe aperte, con in mezzo un cuscino o il secchio per la mungitura se è stata praticata l'escissione, con le gambe legate fin sotto le ginocchia se si è trattato di infibulazione. Quando la ragazza è pronta per tornare nella comunità viene festeggiata e colmata di doni, a simboleggiare il suo nuovo status di donna. Accade abbastanza di frequente che quando un padre più istruito e moderno vieta l'operazione sia la ragazza stessa a pretenderla, non fosse che per salvarsi dalle coetanee che la perseguitano: «Se non sei una puttana facci vedere se sei stata pulita».
Daniela Colombo, presidente di Aidos, l'Associazione italiana Donne e Sviluppo che da trent'anni lavora per combattere le MGF, anche con il sostegno della Cooperazione italiana, dice che la sola strategia pagante è quella di lavorare insieme agli uomini e alle donne africani. «Sono i governi e le Ong locali gli agenti del cambiamento: noi, come Aidos, li aiutiamo nel "capacity building", cioè nel formare personale che diventi poi avvocato di questa causa. Quello che conta è cambiare le politiche governative, in direzione di un maggior rispetto dei diritti delle donne. Per questo il convegno di Gibuti è estremamente importante».
In Italia sarà presto discussa in Senato la legge già approvata dalla Camera che ribadisce la proibizione delle mutilazioni genitali femminili e predispone campagne informative nelle comunità di immigrati.
Mutilazioni genitali femminili:
l’Africa cerca un’altra strada
Elena Doni
Invece del silenzio, parole: molte parole. Invece del tabù, pubblici convegni. E oltre alle leggi, spesso ignorate, «dichiarazioni di villaggio»: efficace veicolo di persuasione che si diffonde con effetto domino. E poi radio, canzoni, spettacoli e «riti alternativi», come piantare un albero, per segnare il passaggio delle ragazze all'età adulta.
Qualcosa sta cambiando in Africa a proposito delle mutilazioni genitali femminili. Lo conferma il grande congresso che si terrà a Gibuti domani e il 3 febbraio con il titolo «Verso un consenso politico e religioso contro le MGF». Che fa seguito ad altre importanti riunioni ufficiali, tra le quali quella del Cairo del giugno 2003, in cui per la prima volta il Gran Muftì di Al-Azhar, Sayed Tantawi, massima autorità religiosa sunnita, disse in diretta radiotelevisiva che le mutilazioni agli organi sessuali delle donne non erano prescritte dal Corano. Dichiarazione alquanto pilatesca, ma comunque importante perché in molti paesi africani musulmani si crede che questa pratica sia voluta dalla religione: «Non c'è nulla nella Shari'a, nel Corano o nella Sunna profetica che parli di mutilazioni genitali femminili», sono state le parole di Tantawi, che poi ha proseguito: «È un problema che appartiene alla medicina. Potranno esserci dei casi in cui la MGF sia consigliabile e altri no. Dunque dobbiamo attenerci al parere dei medici». E poiché i medici dichiarano che qualsiasi mutilazione è contraria all'etica professionale e provoca gravi conseguenze per la salute, si può sperare che diminuisca il numero di seimila ragazze che ogni giorno vengono ancora mutilate in Africa.
Certamente l'Islam non ha dato origine alle mutilazioni genitali femminili dato che erano già presenti nell'Africa centrale prima della sua penetrazione in queste zone. Secondo alcuni l'escissione risale all'antico Egitto, come forse prova l'espressione «circoncisione faraonica», ma la si ritrova anche nell'antica Roma, dove era praticata sulle schiave. E certamente di origine latina è la parola «infibulazione», proveniente da fibula, una specie di spilla che veniva applicata ai giovani (inizialmente solo ai maschi) per impedire loro di avere rapporti sessuali.
L'Islam ha semplicemente recepito tradizioni locali e le ha di fatto legittimate, difese e diffuse, anziché combatterle come hanno cercato di fare le chiese cristiane. Con scarso successo: nel 1929 ci fu in Kenia addirittura una ribellione contro i missionari che avevano proibito di fare l'escissione alle donne Kikuyu. Per secoli le mutilazioni genitali femminili sono state praticate in silenzio, spesso in segreto: anche nelle aree cristiane, dove predomina la clitoridectomia, praticata su percentuali di ragazze tra il venti e il cinquanta per cento, ma soprattutto nelle zone islamiche. Nel Corno d'Africa, dove l'infibulazione è di rigore, si toccano percentuali che vanno dall'80%.
L'inversione di tendenza oggi in corso ha avuto però connotati assolutamente laici. Aziza Hussein, presidente della Società egiziana per la Prevenzione delle Pratiche Tradizionali Dannose, ha raccontato di aver sentito parlare per la prima volta di quella che allora veniva chiamata «circoncisione femminile» negli anni ‘70 da medici egiziani all'estero. In prima linea era allora la dottoressa Nawal El Saadawi, diventata poi famosa come scrittrice, la prima donna a battersi con vigore contro le mutilazioni.
Intorno alla pratica delle mutilazioni genitali femminili esiste un viluppo di tradizioni e di riti che spiegano la ragione delle resistenze ancora diffuse tra gli africani (e soprattutto tra le donne africane) all'abbandono di queste pratiche. Le MGF sono una componente fondamentale dei riti di iniziazione attraverso cui nelle società tradizionali si diventa donna, rimuovendo la parte «maschile» dell'apparato genitale femminile. E specie nel caso dell'infibulazione contribuiscono a costruire la «femminilità» delle ragazze. Quella che le donne infibulate chiamano «cucitura», restringendo lo spazio intermedio tra le gambe, impedisce loro di correre, di fare una serie di movimenti e le costringe ad un'andatura flessuosa e lenta. Inoltre queste terribili mutilazioni del corpo delle bambine e delle ragazze (l'età in cui vengono praticate varia dai primi giorni di vita ai 14 anni) sono importanti nel determinare il prezzo della sposa, «cioè il compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie» spiega la sociologa Carla Pasquinelli dell'Istituto Orientale di Napoli «in cambio di una donna illibata - escissa o infibulata che sia - pronta a rispedirla al mittente e a riprendersi il compenso versato se la donna non è stata operata come si deve».
Il giorno dell'operazione, che avviene in un luogo appartato, le bambine vengono tenute ferme da altre donne, poi costrette a restare per alcuni giorni coricate a gambe aperte, con in mezzo un cuscino o il secchio per la mungitura se è stata praticata l'escissione, con le gambe legate fin sotto le ginocchia se si è trattato di infibulazione. Quando la ragazza è pronta per tornare nella comunità viene festeggiata e colmata di doni, a simboleggiare il suo nuovo status di donna. Accade abbastanza di frequente che quando un padre più istruito e moderno vieta l'operazione sia la ragazza stessa a pretenderla, non fosse che per salvarsi dalle coetanee che la perseguitano: «Se non sei una puttana facci vedere se sei stata pulita».
Daniela Colombo, presidente di Aidos, l'Associazione italiana Donne e Sviluppo che da trent'anni lavora per combattere le MGF, anche con il sostegno della Cooperazione italiana, dice che la sola strategia pagante è quella di lavorare insieme agli uomini e alle donne africani. «Sono i governi e le Ong locali gli agenti del cambiamento: noi, come Aidos, li aiutiamo nel "capacity building", cioè nel formare personale che diventi poi avvocato di questa causa. Quello che conta è cambiare le politiche governative, in direzione di un maggior rispetto dei diritti delle donne. Per questo il convegno di Gibuti è estremamente importante».
In Italia sarà presto discussa in Senato la legge già approvata dalla Camera che ribadisce la proibizione delle mutilazioni genitali femminili e predispone campagne informative nelle comunità di immigrati.
embrioni
La Stampa 1.2.05
«Gli embrioni congelati
bastano per 500 anni»
Giacomo Galeazzi
ROMA. Fecondazione: la mobilitazione dei giuristi per una nuova legge e le ultime frontiere della sperimentazione con gli scienziati che lanciano un appello a utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati. «Considerata la rilevanza costituzionale dei valori posti in gioco dalle tecniche di riproduzione assistita, serve una norma che non sia solo un “pro-forma”», invocano i giuristi Augusto Barbera, Aldo Loiodice e Franco Modugno al convegno sulla procreazione assistita organizzato all’Accademia dei Lincei dall’Istituto per la documentazione e gli studi legislativi (Isle). Un «forum» misto scienziati-giuristi mirato a portare il dibattito sulla legge 40 al livello accademico, scientifico e interculturale grazie alla presenza di accademici di fede cattolica, ebraica, musulmana e di impostazione laica. Significativa, in apertura dei lavori, la citazione latina-leitmotiv: «Non dubitiamo che il pretore debba venire in aiuto del concepito: egli è infatti favorito perché venga alla luce, affinché sia introdotto nella famiglia. Questo concepito si deve alimentare perché nasce non solo per il genitore, cui si dice di appartenere, ma anche per la “res publica”». A reclamare una disciplina della materia anche sul piano costituzionale è anche Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta: «Il punto di partenza deve essere il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, tra cui, in primo luogo, la famiglia come società naturale, compreso il nascituro, in quanto c’è continuità naturale fra il concepimento e l’evento procreativo-generazionale».
Intanto la scienza progredisce senza sosta creando nuovi dilemmi. È previsto per il 2006 in Italia il primo intervento sull’uomo basato sull’uso di cellule staminali prelevate dieci anni fa da feti naturalmente abortiti per curare due gravi malattie neurodegenerative. E arriva così, in piena campagna referendaria, un annuncio importante: l’Italia è in «pole position» nella corsa internazionale alla sperimentazione basata sulle cellule fetali per la cura di patologie del cervello. «Altri due studi sull’uomo - afferma Angelo Vescovi, il co-direttore dell’istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele di Milano - sono al nastro di partenza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Abbiamo utilizzato la metà delle cellule prelevate. Le cinque fiale che oggi ci restano permetteranno di ottenere ancora centinaia di migliaia di cellule nervose». In preparazione nei laboratori delle università di Milano e Pavia c’è anche una macchina del tempo cellulare capace di riportare una cellula adulta indietro nello sviluppo, fino a farla tornare ad essere immatura e indifferenziata come era nella fase embrionale. L’obiettivo è arrivare ad ottenere cellule staminali embrionali senza passare per l’embrione. «Tutto ha origine dalla nascita della pecora Dolly perché quell’esperimento ha dimostrato che una cellula adulta può essere de-programmata - precisano i ricercatori -. Si tratta di ricreare attorno ad una cellula adulta un ambiente il più possibile simile a quello presente nell’ovocita».
L’idea di ottenere cellule staminali embrionali senza passare per l’embrione risale ai tempi della commissione Dulbecco, istituita nel 2000 dall’ex ministro della Sanità Umberto Veronesi. La tecnica indicata allora dalla commissione, chiamata Trasferimento nucleare di cellule staminali autologhe (Tnsa), consisteva nel privare del nucleo un ovocita umano non fecondato e nel trasferire al suo interno il nucleo prelevato da cellule somatiche del paziente in modo che nell’ovocita si sviluppassero cellule staminali con un patrimonio genetico identico a quello del paziente che le ha donate. La nuova strada ora intrapresa prevede la realizzazione in laboratorio dell’ambiente che si trova all’interno dell’ovocita. Sugli aspetti etici, poi, non sempre scienza e religione collidono. «Attualmente l’uso terapeutico delle cellule staminali embrionali è meno avanzato rispetto alle ricerche basate sulle staminali prelevate dai tessuti adulti - ammette Vescovi -. Avere a disposizione le cellule staminali prelevate dagli embrioni abbandonati consentirebbe ai laboratori di poter fare ricerca per i prossimi 500 anni. Quindi non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». Però, prima di prendere una decisione in questo senso, «si dovrà essere sicuri che di embrioni sovrannumerari non se ne producano più».
L'Adige 1.2.05
Gli scienziati: «Utilizzarli per la ricerca è più rispettoso che buttarli via»
Appello per gli embrioni orfani
ROMA - Utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati: è l´appello lanciato ieri a Roma dal direttore del Laboratorio di Biologia dello sviluppo dell´università di Pavia, Carlo Alberto Redi, e dal co-direttore dell´Istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, Angelo Vescovi, nel convegno sulla procreazione assistita organizzato ieri a Roma, nell´Accademia dei Lincei, dall´Istituto per la documentazione e gli studi legislativi (Isle).
L´obiettivo, hanno precisato gli studiosi, non è utilizzarli per la terapia perchè questo è prematura e presenta oggi molti rischi. Carlo Alberto Redi chiede che «si rispettino gli embrioni che oggi esistono, e quindi di non distruggerli», sulla base di «un´etica della responsabilità» e del desiderio «che partecipino ad un progetto buono nel fine, come la ricerca».
Pur considerando l´uso terapeutico delle cellule staminali embrionali ancora lontano e senz´altro meno avanzato rispetto alle ricerche basate sulle staminali prelevate dai tessuti adulti, Vescovi ha osservato che «bisogna avere una visione illuminata e cercare di poter utilizzate» le cellule staminali prelevate dagli embrioni abbandonati. Averle a disposizione, ha aggiunto, «sarebbe sufficiente a tutti i laboratori per fare ricerca per i prossimi 500 anni. Non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». Ma prima di prendere una decisione in questo senso, ha aggiunto, si dovrà «essere sicuri che di embrioni sovrannumerari non se ne producano più».
Il Mattino 1.2.05
Gli scienziati: «Alla ricerca gli embrioni abbandonati»
Roma. Utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati: è l’appello lanciato dal direttore del Laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’università di Pavia, Carlo Alberto Redi, e dal co-direttore dell’Istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, Angelo Vescovi, dal convegno sulla procreazione assistita organizzato a Roma. L’obiettivo, precisano gli studiosi, non è utilizzarli per la terapia perchè questo è prematura e presenta oggi molti rischi. Redi chiede che «si rispettino gli embrioni che oggi esistono, e quindi di non distruggerli», sulla base di «un’etica della responsabilità» e del desiderio «che partecipino ad un progetto buono nel fine, come la ricerca». Averle a disposizione, ha aggiunto Vescovi, «sarebbe sufficiente a tutti i laboratori per fare ricerca per i prossimi 500 anni. Non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». L’Italia, comunque, è in prima fila nella ricerca sulle cellule staminali prelevate da feti abortiti: è a buon punto l'organizzazione della prima sperimentazione sull'uomo basata sull'uso di cellule fetali altamente selezionate e purificate, prevista per il 2006. Si tratta di uno dei primi test di questo tipo al mondo e l'Italia è fra i primi tre Paesi a intraprendere la sperimentazione, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna.
«Gli embrioni congelati
bastano per 500 anni»
Giacomo Galeazzi
ROMA. Fecondazione: la mobilitazione dei giuristi per una nuova legge e le ultime frontiere della sperimentazione con gli scienziati che lanciano un appello a utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati. «Considerata la rilevanza costituzionale dei valori posti in gioco dalle tecniche di riproduzione assistita, serve una norma che non sia solo un “pro-forma”», invocano i giuristi Augusto Barbera, Aldo Loiodice e Franco Modugno al convegno sulla procreazione assistita organizzato all’Accademia dei Lincei dall’Istituto per la documentazione e gli studi legislativi (Isle). Un «forum» misto scienziati-giuristi mirato a portare il dibattito sulla legge 40 al livello accademico, scientifico e interculturale grazie alla presenza di accademici di fede cattolica, ebraica, musulmana e di impostazione laica. Significativa, in apertura dei lavori, la citazione latina-leitmotiv: «Non dubitiamo che il pretore debba venire in aiuto del concepito: egli è infatti favorito perché venga alla luce, affinché sia introdotto nella famiglia. Questo concepito si deve alimentare perché nasce non solo per il genitore, cui si dice di appartenere, ma anche per la “res publica”». A reclamare una disciplina della materia anche sul piano costituzionale è anche Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta: «Il punto di partenza deve essere il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, tra cui, in primo luogo, la famiglia come società naturale, compreso il nascituro, in quanto c’è continuità naturale fra il concepimento e l’evento procreativo-generazionale».
Intanto la scienza progredisce senza sosta creando nuovi dilemmi. È previsto per il 2006 in Italia il primo intervento sull’uomo basato sull’uso di cellule staminali prelevate dieci anni fa da feti naturalmente abortiti per curare due gravi malattie neurodegenerative. E arriva così, in piena campagna referendaria, un annuncio importante: l’Italia è in «pole position» nella corsa internazionale alla sperimentazione basata sulle cellule fetali per la cura di patologie del cervello. «Altri due studi sull’uomo - afferma Angelo Vescovi, il co-direttore dell’istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele di Milano - sono al nastro di partenza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Abbiamo utilizzato la metà delle cellule prelevate. Le cinque fiale che oggi ci restano permetteranno di ottenere ancora centinaia di migliaia di cellule nervose». In preparazione nei laboratori delle università di Milano e Pavia c’è anche una macchina del tempo cellulare capace di riportare una cellula adulta indietro nello sviluppo, fino a farla tornare ad essere immatura e indifferenziata come era nella fase embrionale. L’obiettivo è arrivare ad ottenere cellule staminali embrionali senza passare per l’embrione. «Tutto ha origine dalla nascita della pecora Dolly perché quell’esperimento ha dimostrato che una cellula adulta può essere de-programmata - precisano i ricercatori -. Si tratta di ricreare attorno ad una cellula adulta un ambiente il più possibile simile a quello presente nell’ovocita».
L’idea di ottenere cellule staminali embrionali senza passare per l’embrione risale ai tempi della commissione Dulbecco, istituita nel 2000 dall’ex ministro della Sanità Umberto Veronesi. La tecnica indicata allora dalla commissione, chiamata Trasferimento nucleare di cellule staminali autologhe (Tnsa), consisteva nel privare del nucleo un ovocita umano non fecondato e nel trasferire al suo interno il nucleo prelevato da cellule somatiche del paziente in modo che nell’ovocita si sviluppassero cellule staminali con un patrimonio genetico identico a quello del paziente che le ha donate. La nuova strada ora intrapresa prevede la realizzazione in laboratorio dell’ambiente che si trova all’interno dell’ovocita. Sugli aspetti etici, poi, non sempre scienza e religione collidono. «Attualmente l’uso terapeutico delle cellule staminali embrionali è meno avanzato rispetto alle ricerche basate sulle staminali prelevate dai tessuti adulti - ammette Vescovi -. Avere a disposizione le cellule staminali prelevate dagli embrioni abbandonati consentirebbe ai laboratori di poter fare ricerca per i prossimi 500 anni. Quindi non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». Però, prima di prendere una decisione in questo senso, «si dovrà essere sicuri che di embrioni sovrannumerari non se ne producano più».
L'Adige 1.2.05
Gli scienziati: «Utilizzarli per la ricerca è più rispettoso che buttarli via»
Appello per gli embrioni orfani
ROMA - Utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati: è l´appello lanciato ieri a Roma dal direttore del Laboratorio di Biologia dello sviluppo dell´università di Pavia, Carlo Alberto Redi, e dal co-direttore dell´Istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, Angelo Vescovi, nel convegno sulla procreazione assistita organizzato ieri a Roma, nell´Accademia dei Lincei, dall´Istituto per la documentazione e gli studi legislativi (Isle).
L´obiettivo, hanno precisato gli studiosi, non è utilizzarli per la terapia perchè questo è prematura e presenta oggi molti rischi. Carlo Alberto Redi chiede che «si rispettino gli embrioni che oggi esistono, e quindi di non distruggerli», sulla base di «un´etica della responsabilità» e del desiderio «che partecipino ad un progetto buono nel fine, come la ricerca».
Pur considerando l´uso terapeutico delle cellule staminali embrionali ancora lontano e senz´altro meno avanzato rispetto alle ricerche basate sulle staminali prelevate dai tessuti adulti, Vescovi ha osservato che «bisogna avere una visione illuminata e cercare di poter utilizzate» le cellule staminali prelevate dagli embrioni abbandonati. Averle a disposizione, ha aggiunto, «sarebbe sufficiente a tutti i laboratori per fare ricerca per i prossimi 500 anni. Non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». Ma prima di prendere una decisione in questo senso, ha aggiunto, si dovrà «essere sicuri che di embrioni sovrannumerari non se ne producano più».
Il Mattino 1.2.05
Gli scienziati: «Alla ricerca gli embrioni abbandonati»
Roma. Utilizzare per la ricerca gli embrioni in sovrannumero ottenuti negli interventi di fecondazione assistita e abbandonati dalle coppie che li hanno generati: è l’appello lanciato dal direttore del Laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’università di Pavia, Carlo Alberto Redi, e dal co-direttore dell’Istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, Angelo Vescovi, dal convegno sulla procreazione assistita organizzato a Roma. L’obiettivo, precisano gli studiosi, non è utilizzarli per la terapia perchè questo è prematura e presenta oggi molti rischi. Redi chiede che «si rispettino gli embrioni che oggi esistono, e quindi di non distruggerli», sulla base di «un’etica della responsabilità» e del desiderio «che partecipino ad un progetto buono nel fine, come la ricerca». Averle a disposizione, ha aggiunto Vescovi, «sarebbe sufficiente a tutti i laboratori per fare ricerca per i prossimi 500 anni. Non ci sarebbe alcun bisogno di produrre altri embrioni». L’Italia, comunque, è in prima fila nella ricerca sulle cellule staminali prelevate da feti abortiti: è a buon punto l'organizzazione della prima sperimentazione sull'uomo basata sull'uso di cellule fetali altamente selezionate e purificate, prevista per il 2006. Si tratta di uno dei primi test di questo tipo al mondo e l'Italia è fra i primi tre Paesi a intraprendere la sperimentazione, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna.
carcere: tossicodipendenza e problemi psichiatrici
Redattore Sociale 1.2.05
CARCERE
Il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente. Ma è ampia la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici. Lo evidenzia la ricerca ''La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti''
di Vittorino Andreoli per il Dap
ROMA - Circa il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente (pari a 15.173 persone), ma la percentuale in alcuni penitenziari sale al 40-45%, secondo i dati rilevati nel 2001. Ma è ampia anche la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici: si tratta di cifre significative, con punte sfiorano il 50%. Lo evidenzia la ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, a cura di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico della ricerca promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria.
Lo studio, pubblicato alla fine dello scorso anno, riporta i risultati di un progetto triennale (svolto dal 2000 al 2003) condotto dall’Ufficio studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali del Dap, finanziato dal Fondo Nazionale per la lotta alla droga (Art. 127 L. 309/90) e gestito dall’allora Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’obiettivo del progetto pilota era quello di focalizzare strumenti di valutazione e di intervento per rispondere alle necessità cliniche di questa fascia di detenuti. L’indagine ha analizzato, in particolare, due istituti: il “Due Palazzi” di Padova e la Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma, dove sono stati distribuiti test psicodiagnostici ai detenuti risultati suscettibili di doppia diagnosi psichiatrica dopo l’esame delle interviste autocompilate. Lo studio, che ha comportato una convenzione con le Asl di riferimento (Ussl 16 di Padova e Asl RM A), è stata divisa in due fasi. Nella prima, la ricerca si è proposta di considerare tutta la popolazione tossicodipendente, a rischio di “doppia diagnosi”, usando uno strumento che potesse essere distribuito dal personale di Polizia Penitenziaria opportunamente formato a questo scopo. Sono stati quindi distribuiti dei questionari, messi a punto dal professor Andreoli assieme al dottor Carmelo Cantone, allora direttore del carcere di Padova. Nella seconda fase sono stati invece distribuiti dei test psicodiagnostici ai detenuti risultati a dubbio di “doppia diagnosi”.
Quella della doppia diagnosi risulta essere “una terra di nessuno dove le persone, che sono al tempo stesso affette da disturbi mentali e tossicomani, non possono essere trattate dalla sola psichiatria classica, ma ancora meno dalle sole strutture destinate ai tossicomani”, commenta nell’introduzione il direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dap, Giovanni Tamburino, responsabile del progetto. Un’indagine non facile, quindi, “soprattutto perché non esistono ancora statistiche affidabili sull’argomento a livello europeo, né strutture specifiche di presa in carica delle persone che mostrino una doppia patologia, situazione questa particolarmente inquietante nel caso delle popolazioni carcerarie”.
Doppia diagnosi. Al primo posto, al Due Palazzi e a Regina Coeli, i disturbi borderline di personalità, seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d'ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici
ROMA – Su 101 detenuti tossicodipendenti nel carcere “Due Palazzi” di Padova, quelli con profilo psicopatologico sono oltre la metà (62), con sintomi psicotici nel 53,2% dei casi; una percentuale analoga si è riscontrata nella Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma: il 60% dei 100 detenuti interpellati ha un profilo psicopatologico, con sintomatologia psicotica nel 53,3% dei casi, nevrotica nel 33,3%. I dati emergono dalla ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria e curata di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico dello studio.
I risultati dimostrano un trend simile, per quanto riguarda la diagnosi rilevate nel carcere di Padova e di Roma; al primo posto, in entrambi i penitenziari, i disturbi borderline di personalità, a cui seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d’ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici. Per quanto riguarda una costante nei casi analizzati, “una caratteristica psichica e comportamentale che si può rilevare estensivamente - e che costituisce un elemento unitario tra disturbi da uso di sostanze e disturbi psichiatrici – è l’impulsività”, nota la ricerca, precisando che l’impulsività elevata “è presente nei disturbi di personalità, nei bipolari e nei tossicodipendenti. L’associazione tra disturbi di personalità e abuso di sostanze si è mostrata capace di predire la facilità a commettere reati, in particolare per ciò che concerne il disturbo di personalità borderline e quello antisociale”, nota la ricerca.
Per quanto concerne il trattamento terapeutico, anche l’uso di metadone di mantenimento “andrebbe incontro a un peggiore esito nei casi in cui al disturbo additivo si associano disordini affettivi, ansia e disturbi della personalità”, riferisce lo studio, sottolineando la “marcata necessità di interventi terapeutici inerenti la salute mentale in carcere: gli obiettivi principali sono quelli di implementare la capacità di relazione sociale e le abilità a vivere in modo indipendente”. Infine, “i pazienti con più grave comorbilità ritornano con maggiore difficoltà all’integrazione sociale e presentano un esito negativo in risposta ai più comuni trattamenti, facendo maggior ricordo ai servizi sanitari e sociali”. È stata anche rilevata la necessità di attivare, per i detenuti con disturbi psichiatrici, “strumenti terapeutici integrati, mirati sia al trattamento dello specifico disturbo psichiatrico, sia alla socializzazione e al controllo dell’aggressività”. (lab)
CARCERE
Il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente. Ma è ampia la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici. Lo evidenzia la ricerca ''La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti''
di Vittorino Andreoli per il Dap
ROMA - Circa il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente (pari a 15.173 persone), ma la percentuale in alcuni penitenziari sale al 40-45%, secondo i dati rilevati nel 2001. Ma è ampia anche la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici: si tratta di cifre significative, con punte sfiorano il 50%. Lo evidenzia la ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, a cura di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico della ricerca promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria.
Lo studio, pubblicato alla fine dello scorso anno, riporta i risultati di un progetto triennale (svolto dal 2000 al 2003) condotto dall’Ufficio studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali del Dap, finanziato dal Fondo Nazionale per la lotta alla droga (Art. 127 L. 309/90) e gestito dall’allora Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’obiettivo del progetto pilota era quello di focalizzare strumenti di valutazione e di intervento per rispondere alle necessità cliniche di questa fascia di detenuti. L’indagine ha analizzato, in particolare, due istituti: il “Due Palazzi” di Padova e la Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma, dove sono stati distribuiti test psicodiagnostici ai detenuti risultati suscettibili di doppia diagnosi psichiatrica dopo l’esame delle interviste autocompilate. Lo studio, che ha comportato una convenzione con le Asl di riferimento (Ussl 16 di Padova e Asl RM A), è stata divisa in due fasi. Nella prima, la ricerca si è proposta di considerare tutta la popolazione tossicodipendente, a rischio di “doppia diagnosi”, usando uno strumento che potesse essere distribuito dal personale di Polizia Penitenziaria opportunamente formato a questo scopo. Sono stati quindi distribuiti dei questionari, messi a punto dal professor Andreoli assieme al dottor Carmelo Cantone, allora direttore del carcere di Padova. Nella seconda fase sono stati invece distribuiti dei test psicodiagnostici ai detenuti risultati a dubbio di “doppia diagnosi”.
Quella della doppia diagnosi risulta essere “una terra di nessuno dove le persone, che sono al tempo stesso affette da disturbi mentali e tossicomani, non possono essere trattate dalla sola psichiatria classica, ma ancora meno dalle sole strutture destinate ai tossicomani”, commenta nell’introduzione il direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dap, Giovanni Tamburino, responsabile del progetto. Un’indagine non facile, quindi, “soprattutto perché non esistono ancora statistiche affidabili sull’argomento a livello europeo, né strutture specifiche di presa in carica delle persone che mostrino una doppia patologia, situazione questa particolarmente inquietante nel caso delle popolazioni carcerarie”.
Doppia diagnosi. Al primo posto, al Due Palazzi e a Regina Coeli, i disturbi borderline di personalità, seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d'ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici
ROMA – Su 101 detenuti tossicodipendenti nel carcere “Due Palazzi” di Padova, quelli con profilo psicopatologico sono oltre la metà (62), con sintomi psicotici nel 53,2% dei casi; una percentuale analoga si è riscontrata nella Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma: il 60% dei 100 detenuti interpellati ha un profilo psicopatologico, con sintomatologia psicotica nel 53,3% dei casi, nevrotica nel 33,3%. I dati emergono dalla ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria e curata di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico dello studio.
I risultati dimostrano un trend simile, per quanto riguarda la diagnosi rilevate nel carcere di Padova e di Roma; al primo posto, in entrambi i penitenziari, i disturbi borderline di personalità, a cui seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d’ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici. Per quanto riguarda una costante nei casi analizzati, “una caratteristica psichica e comportamentale che si può rilevare estensivamente - e che costituisce un elemento unitario tra disturbi da uso di sostanze e disturbi psichiatrici – è l’impulsività”, nota la ricerca, precisando che l’impulsività elevata “è presente nei disturbi di personalità, nei bipolari e nei tossicodipendenti. L’associazione tra disturbi di personalità e abuso di sostanze si è mostrata capace di predire la facilità a commettere reati, in particolare per ciò che concerne il disturbo di personalità borderline e quello antisociale”, nota la ricerca.
Per quanto concerne il trattamento terapeutico, anche l’uso di metadone di mantenimento “andrebbe incontro a un peggiore esito nei casi in cui al disturbo additivo si associano disordini affettivi, ansia e disturbi della personalità”, riferisce lo studio, sottolineando la “marcata necessità di interventi terapeutici inerenti la salute mentale in carcere: gli obiettivi principali sono quelli di implementare la capacità di relazione sociale e le abilità a vivere in modo indipendente”. Infine, “i pazienti con più grave comorbilità ritornano con maggiore difficoltà all’integrazione sociale e presentano un esito negativo in risposta ai più comuni trattamenti, facendo maggior ricordo ai servizi sanitari e sociali”. È stata anche rilevata la necessità di attivare, per i detenuti con disturbi psichiatrici, “strumenti terapeutici integrati, mirati sia al trattamento dello specifico disturbo psichiatrico, sia alla socializzazione e al controllo dell’aggressività”. (lab)
© Copyright Redattore Sociale
linguaggi
Il Sole 24 Ore 1.2.05
Linguaggio
LA GRAMMATICA? NEGLI ESSERI UMANI È QUASI UN ISTINTO
Lara Ricci
In una comunità di beduini isolata nel deserto per generazioni è nato un nuovo linguaggio. Una forma di comunicazione che sembra essersi sviluppata spontaneamente e senza influenze esterne, come quella che vide parlare i primi uomini.
È accaduto nella regione del Negev, in Israele, all'interno del gruppo beduino Al-Sayyid, isolato dal resto del mondo da circa duecento anni per motivi culturali. Tremilacinquecento persone tutte imparentate, 150 di loro sofffrono di una grave forma di sordità congenita a causa dei matrimoni tra consanguinei. Tra questi uomini, che non sono emarginati e frequentemente si sposano e hanno figli con persone sane, settanta anni fa si sono sviluppati i primi rudimenti di un linguaggio dei segni. E anche se non è quasi rimasta testimonianza della prima generazione di persone che hanno usato questa forma di comunicazione, l'analisi della seconda generazione ha aperto una finestra sui fondamenti della natura di tutti i linguaggi umani.
Dopo tre anni di studi, infatti, Wendy Sandler, Irit Meir, Carol Padden e Mark Aronoff, linguisti dell'Università di Haifa, in Israele, dell'Università della California a San Diego e della Stony Brook University di New York, hanno scoperto che le regole grammaticali emergono rapidamente e spontaneamente, come se gli uomini fossero "progettati" per esprimersi attraverso la sintassi. Portando un'ulteriore prova a supporto di chi sostiene che esista una grammatica universale, forse un "istinto del linguaggio".
"Molto presto - spiega Aronoff - sono emerse nozioni come soggetto, verbo, complemento oggetto, che vengono posizionate nella frase seguento uno stesso ordine". I ricercatori, che hanno pubblicato lo studio oggi su Pnas (rivista della National academy of sciences statunitense), sono convinti che il linguaggio dei segni sia nato spontaneamente tra i membri sordi della comunità senza influenze esterne. Infatti la struttura grammaticale ricorrente non è quella dell'arabo, la lingua parlata dai membri sani della comunità, né delle altre lingue con cui il gruppo può essere entrato in contatto. L'arabo, come l'italiano, vedeil soggetto seguito dal verbo e poi dal complemento oggetto, mentre il linguaggio dei segni dei beduini fa seguire al soggetto, il complemento oggetto e infine il verbo.
"Ci aspettavamo - dice Aronoff - che ai suoi primordi un nuovo linguaggio si limitasse a utilizzare un insieme di segnali per definire oggetti, azioni, persone. E invece abbiamo scoperto che già la seconda generazione di persone che lo parlano si esprime attraverso una struttura grammaticale ricorrente. Questa codificazione permette di liberare il linguaggio dal contesto: per esempio, se un linguaggio non ha un ordine convenzionale, la frase "Kim Jan parla", risulterebbe ambigua. Le regole sintattiche semplificano la comunicazione".
E questa semplificazione, come mostrato anche da altri studi, non sarebbe solo frutto dell'esperienza e della cultura, ma sembrerebbe avere anche delle basi biologiche.
Vi sarebbe dunque un'innata predisposizione all'uso di una grammatica che, fino a dimostrazione contraria, rimane una prerogativa unicamente umana.
Linguaggio
LA GRAMMATICA? NEGLI ESSERI UMANI È QUASI UN ISTINTO
Lara Ricci
In una comunità di beduini isolata nel deserto per generazioni è nato un nuovo linguaggio. Una forma di comunicazione che sembra essersi sviluppata spontaneamente e senza influenze esterne, come quella che vide parlare i primi uomini.
È accaduto nella regione del Negev, in Israele, all'interno del gruppo beduino Al-Sayyid, isolato dal resto del mondo da circa duecento anni per motivi culturali. Tremilacinquecento persone tutte imparentate, 150 di loro sofffrono di una grave forma di sordità congenita a causa dei matrimoni tra consanguinei. Tra questi uomini, che non sono emarginati e frequentemente si sposano e hanno figli con persone sane, settanta anni fa si sono sviluppati i primi rudimenti di un linguaggio dei segni. E anche se non è quasi rimasta testimonianza della prima generazione di persone che hanno usato questa forma di comunicazione, l'analisi della seconda generazione ha aperto una finestra sui fondamenti della natura di tutti i linguaggi umani.
Dopo tre anni di studi, infatti, Wendy Sandler, Irit Meir, Carol Padden e Mark Aronoff, linguisti dell'Università di Haifa, in Israele, dell'Università della California a San Diego e della Stony Brook University di New York, hanno scoperto che le regole grammaticali emergono rapidamente e spontaneamente, come se gli uomini fossero "progettati" per esprimersi attraverso la sintassi. Portando un'ulteriore prova a supporto di chi sostiene che esista una grammatica universale, forse un "istinto del linguaggio".
"Molto presto - spiega Aronoff - sono emerse nozioni come soggetto, verbo, complemento oggetto, che vengono posizionate nella frase seguento uno stesso ordine". I ricercatori, che hanno pubblicato lo studio oggi su Pnas (rivista della National academy of sciences statunitense), sono convinti che il linguaggio dei segni sia nato spontaneamente tra i membri sordi della comunità senza influenze esterne. Infatti la struttura grammaticale ricorrente non è quella dell'arabo, la lingua parlata dai membri sani della comunità, né delle altre lingue con cui il gruppo può essere entrato in contatto. L'arabo, come l'italiano, vedeil soggetto seguito dal verbo e poi dal complemento oggetto, mentre il linguaggio dei segni dei beduini fa seguire al soggetto, il complemento oggetto e infine il verbo.
"Ci aspettavamo - dice Aronoff - che ai suoi primordi un nuovo linguaggio si limitasse a utilizzare un insieme di segnali per definire oggetti, azioni, persone. E invece abbiamo scoperto che già la seconda generazione di persone che lo parlano si esprime attraverso una struttura grammaticale ricorrente. Questa codificazione permette di liberare il linguaggio dal contesto: per esempio, se un linguaggio non ha un ordine convenzionale, la frase "Kim Jan parla", risulterebbe ambigua. Le regole sintattiche semplificano la comunicazione".
E questa semplificazione, come mostrato anche da altri studi, non sarebbe solo frutto dell'esperienza e della cultura, ma sembrerebbe avere anche delle basi biologiche.
Vi sarebbe dunque un'innata predisposizione all'uso di una grammatica che, fino a dimostrazione contraria, rimane una prerogativa unicamente umana.
Buongiorno, notte e Marco Bellocchio
una nuova recensione, oggi su un sito francese
chronicart.com 1.2.05
Buongiorno notte
par Vincent Malausa
Avec successivement La Nourrice puis l’éblouissant Sourire de ma mère, Bellocchio a confirmé qu’il était, aujourd’hui, le plus grand cinéaste italien en activité. On pouvait craindre qu’en s’attaquant au sujet multiplement visité des Brigades Rouges, le réalisateur cède à la tentation de la consécration un peu mortifère. Le sujet, imposé par la RAI, avait tout de la commande d’embonpoint : relater le rapt et l’assassinat d’Aldo Moro, président de la Démocratie Chrétienne, en 1978. On a vu récemment, avec Nos Meilleures années, à quel point le souvenir des Brigades, en Italie, demeure une sorte de lieu commun ouvrant, plus que sur une réelle conscience historique, sur des principes de célébration un peu pompiers, quasi-touristiques, dénués de toute portée politique.
Bellocchio, loin de ces considérations télévisuelles, s’attaque au sujet de la façon la plus frontale qui soit : un huis-clos dans un appartement, quelques brigatistes face à Moro. Seul élément de perturbation : Chiara, une jeune idéaliste, qui s’égare dans le trouble de la compassion et semble à chaque instant prête à basculer du côté de Moro. Le film tout entier prend place dans le regard de Chiara, véritable double du cinéaste. C’est sur ce point que Buongiorno notte ne répond pas du tout aux attentes : dans son refus catégorique de la fiabilité historique, le film se fait micro-théâtre organique dans lequel s’infiltre un trouble noir, petit souffle diffus à l’étrangeté saisissante. Bellocchio organise son film à la manière d’un espace mental complexe, où tout fait office de pièce à double-fond : images d’archives et scènes intimistes, anonymat et mythe, petite et grande histoire. L’appartement des brigadistes, avec sa bibliothèque truquée dissimulant le cachot de Moro, est un lieu de pure sensorialité où flottent les fantômes et où naissent tous les envoûtements.
La radicalité de Buongiorno notte n’a rien d’un tour de force. Tout le cinéma de Bellocchio repose sur cette éblouissante faculté à basculer, en un froissement de plan, de la plus grande neutralité (une banale scène de cuisine) à l’obscurité des ténèbres (même scène, mais doublée d’un tube de Pink Floyd soudain devenu complètement étranger au spectateur). Puissance magnétique, retenue bouleversante, sensibilité de tous les plans : Buongiorno notte est un miracle cinématographique qui simultanément porte à incandescence les figures de style du maître et en renouvelle le trouble et le mystère à chaque seconde. De Moro comme des brigadistes, on ne saura guère plus à la fin du film. De Bellocchio non plus, sinon que son cinéma, étrange équation de la lumière et de la nuit, demeure le plus fascinant témoignage qui soit d’une possible fusion entre la glace et la grâce : un miroir sans tain où l’on n’a sans doute pas fini de plonger.
Buongiorno notte
par Vincent Malausa
(per vedere la pagina web dove è pubblicato questo articolo, clicca QUI)
Avec successivement La Nourrice puis l’éblouissant Sourire de ma mère, Bellocchio a confirmé qu’il était, aujourd’hui, le plus grand cinéaste italien en activité. On pouvait craindre qu’en s’attaquant au sujet multiplement visité des Brigades Rouges, le réalisateur cède à la tentation de la consécration un peu mortifère. Le sujet, imposé par la RAI, avait tout de la commande d’embonpoint : relater le rapt et l’assassinat d’Aldo Moro, président de la Démocratie Chrétienne, en 1978. On a vu récemment, avec Nos Meilleures années, à quel point le souvenir des Brigades, en Italie, demeure une sorte de lieu commun ouvrant, plus que sur une réelle conscience historique, sur des principes de célébration un peu pompiers, quasi-touristiques, dénués de toute portée politique.
Bellocchio, loin de ces considérations télévisuelles, s’attaque au sujet de la façon la plus frontale qui soit : un huis-clos dans un appartement, quelques brigatistes face à Moro. Seul élément de perturbation : Chiara, une jeune idéaliste, qui s’égare dans le trouble de la compassion et semble à chaque instant prête à basculer du côté de Moro. Le film tout entier prend place dans le regard de Chiara, véritable double du cinéaste. C’est sur ce point que Buongiorno notte ne répond pas du tout aux attentes : dans son refus catégorique de la fiabilité historique, le film se fait micro-théâtre organique dans lequel s’infiltre un trouble noir, petit souffle diffus à l’étrangeté saisissante. Bellocchio organise son film à la manière d’un espace mental complexe, où tout fait office de pièce à double-fond : images d’archives et scènes intimistes, anonymat et mythe, petite et grande histoire. L’appartement des brigadistes, avec sa bibliothèque truquée dissimulant le cachot de Moro, est un lieu de pure sensorialité où flottent les fantômes et où naissent tous les envoûtements.
La radicalité de Buongiorno notte n’a rien d’un tour de force. Tout le cinéma de Bellocchio repose sur cette éblouissante faculté à basculer, en un froissement de plan, de la plus grande neutralité (une banale scène de cuisine) à l’obscurité des ténèbres (même scène, mais doublée d’un tube de Pink Floyd soudain devenu complètement étranger au spectateur). Puissance magnétique, retenue bouleversante, sensibilité de tous les plans : Buongiorno notte est un miracle cinématographique qui simultanément porte à incandescence les figures de style du maître et en renouvelle le trouble et le mystère à chaque seconde. De Moro comme des brigadistes, on ne saura guère plus à la fin du film. De Bellocchio non plus, sinon que son cinéma, étrange équation de la lumière et de la nuit, demeure le plus fascinant témoignage qui soit d’une possible fusion entre la glace et la grâce : un miroir sans tain où l’on n’a sans doute pas fini de plonger.
Aldo Moro, principal artisan du compromis historique entre la Démocratie chrétienne et le Parti communiste italien, a présidé le parti Démocrate chrétien de 1976 à 1978. Il semble destiné à devenir Président de la République italienne, quand il est enlevé à Rome le 16 mars 1978 par les Brigades rouges. Après plusieurs mois de détention, il est assassiné. Il est retrouvé mort le 9 mai de la même année
la ricerca
Corriere della Sera 1.2.04
Annuncio del professor Vescovi
«Partirà entro un anno la sperimentazione su cellule d’origine fetale»
di Franca Porciani
Mentre a Pechino il neurochirurgo Huang Hongyun è travolto dalla richieste dei malati di Sclerosi laterale amiotrofica, (degenerazione progressiva dei nervi che comandano vari muscoli), in attesa del suo «miracoloso» intervento con cellule di feti abortiti - ma manca qualsiasi conferma scientifica - ieri a Roma Angelo Vescovi, Condirettore dell’Istituto per la ricerca sulle cellule staminali dell’Istituto San Raffaele di Milano, ha annunciato come prossima una "cura italiana" con cellule fetali. Più precisamente con cellule staminali neurali (progenitrici di quelle nervose) coltivate in laboratorio da quelle prelevate dieci anni fa a feti abortiti spontaneamente (in parte di provenienza canadese, in parte fornite dalla Clinica Mangiagalli di Milano dopo che il Comitato etico dette parere favorevole alla loro donazione all’Istituto Besta di Milano, dove, allora, lavorava Vescovi). La sperimentazione che coinvolgerà una ventina di malati in stadio avanzato, dovrebbe partire nel 2006 e costerà complessivamente 2 milioni e mezzo di euro. A coordinarla sarà il Constem, il Consorzio per la ricerca sulle cellule staminali nato nel maggio del 2003, che conta fra i suoi aderenti il Policlinico di Milano, l’Università di Bergamo e una serie di aziende private.
Si tratta, in pratica, di un trapianto, ma l’attenta selezione delle linee cellulari prodotte in laboratorio, dovrebbe, come ha annunciato Vescovi a margine del convegno sulla fecondazione assistita organizzato presso l’Accademia dei Lincei, ridurre notevolmente i fenomeni di rigetto e, di conseguenza, costringere ad una terapia immunosoppressiva più blanda.
La notizia ha lasciato sorpresi molti dei ricercatori italiani impegnati in questo settore. Giulio Cossu, Direttore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, commenta: «Non sono a conoscenza in modo dettagliato di questo progetto di sperimentazione che Vescovi realizzerà con il Constem; ritengo comunque che gli studi sull’animale siano stati così incoraggianti da far ipotizzare il passaggio all’uomo in tempi relativamente brevi».
Interventi con cellule fetali sono stati tentati negli anni scorsi in malati di Parkinson, ma dopo qualche evidenza positiva iniziale, la verifica su tempi più lunghi ha dimostrato che le cellule trapiantate sopravvivono nel cervello, ma nella maggior parte dei casi non riescono a dare un miglioramento significativo dei sintomi.
«Si stanno muovendo i primi passi - ammonisce Cossu - . È necessaria la massima prudenza: altrimenti rischiamo di creare false illusioni a malati gravi».
Annuncio del professor Vescovi
«Partirà entro un anno la sperimentazione su cellule d’origine fetale»
di Franca Porciani
Mentre a Pechino il neurochirurgo Huang Hongyun è travolto dalla richieste dei malati di Sclerosi laterale amiotrofica, (degenerazione progressiva dei nervi che comandano vari muscoli), in attesa del suo «miracoloso» intervento con cellule di feti abortiti - ma manca qualsiasi conferma scientifica - ieri a Roma Angelo Vescovi, Condirettore dell’Istituto per la ricerca sulle cellule staminali dell’Istituto San Raffaele di Milano, ha annunciato come prossima una "cura italiana" con cellule fetali. Più precisamente con cellule staminali neurali (progenitrici di quelle nervose) coltivate in laboratorio da quelle prelevate dieci anni fa a feti abortiti spontaneamente (in parte di provenienza canadese, in parte fornite dalla Clinica Mangiagalli di Milano dopo che il Comitato etico dette parere favorevole alla loro donazione all’Istituto Besta di Milano, dove, allora, lavorava Vescovi). La sperimentazione che coinvolgerà una ventina di malati in stadio avanzato, dovrebbe partire nel 2006 e costerà complessivamente 2 milioni e mezzo di euro. A coordinarla sarà il Constem, il Consorzio per la ricerca sulle cellule staminali nato nel maggio del 2003, che conta fra i suoi aderenti il Policlinico di Milano, l’Università di Bergamo e una serie di aziende private.
Si tratta, in pratica, di un trapianto, ma l’attenta selezione delle linee cellulari prodotte in laboratorio, dovrebbe, come ha annunciato Vescovi a margine del convegno sulla fecondazione assistita organizzato presso l’Accademia dei Lincei, ridurre notevolmente i fenomeni di rigetto e, di conseguenza, costringere ad una terapia immunosoppressiva più blanda.
La notizia ha lasciato sorpresi molti dei ricercatori italiani impegnati in questo settore. Giulio Cossu, Direttore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele, commenta: «Non sono a conoscenza in modo dettagliato di questo progetto di sperimentazione che Vescovi realizzerà con il Constem; ritengo comunque che gli studi sull’animale siano stati così incoraggianti da far ipotizzare il passaggio all’uomo in tempi relativamente brevi».
Interventi con cellule fetali sono stati tentati negli anni scorsi in malati di Parkinson, ma dopo qualche evidenza positiva iniziale, la verifica su tempi più lunghi ha dimostrato che le cellule trapiantate sopravvivono nel cervello, ma nella maggior parte dei casi non riescono a dare un miglioramento significativo dei sintomi.
«Si stanno muovendo i primi passi - ammonisce Cossu - . È necessaria la massima prudenza: altrimenti rischiamo di creare false illusioni a malati gravi».
Piero Pomponazzi 1462 - 1525
contro l'immortalità dell'anima e sulla debolezza della ragione
Il Sole 24 Ore 30 gennaio 2005
FILOSOFARE E' UN PO' COME GIOCARE
Di Maria Bettetini
La filosofia ha dua grandi mali: il primo è la paupertas, la povertà. Niente è meno necessario alla vita della filosofia, e per questo molti se ne allontanano. Ma c'è un problema più grave, e "ancor meno tollerabile", ed è l'incertezza. Sarebbe bella la filosofia, afferma Piero Pomponazzi, se fosse certa sicut mathematica. Purtroppo è invece solo basata su congetture e opinioni, fare filosofia "è come uno giochare". Il filosofo mantovano vissuto un secolo prima di Cartesio non ha dubbi sulla debolezza della ragione, limitata e fallibile, eppure autonoma nella sua ricerca filosofica. Le opere più famose di Pomponazzi sono emblematicamente un trattato sull'impossibilità di dimostrare l'immortalità dell'anima e un violento libro contro le superstizioni magiche, dove di difende l'altro l'origine naturale e non magica degli eventi astrali.
Ora è disponibile la prima edizione delle lezioni tenute da Pomponazzi a Bologna a commento trattato di Aristotele Sulle parti degli animali, per la cura attenta di Stefano Perfetti: un'esplorazione della filosofia naturale dello Stagirita e anche il primo commento rinascimentale a un suo trattato su tematiche biologiche. Nelle pagine, vergate ora in latino ora in volgare, così come si svolgeva la lezione e come viene riportata dall'allievo Gregorio Frediaaani, il testo aristotelico è spesso una scusa per riproporre temi cari a Pomponazzi, e tra questi torna spesso lo statuto della filosofia. Al filosofo, apparentemente inutile alla vita sociale, viene riconosciuto il ruolo di regolatore dei saperi e delle pratiche. Colui che pratica il "gioco" della filosofia non ha certezze, esercita il dubbio secondo una tradizione socratica esasperata ("vi insegnerò a dubitare"), eppure è tanto superiore a qualunque altro uomo da potersi imporre come riferimento per la società intera. Una sfida lanciata in tempi non certo di pace e riflessione: l'allievo di Pomponazzi riporta anche le grida di giubilo per la conquista di Piacenza udite alla fine della lezione del 21 novembre 1521 (ed erano le undici di sera). Una sfida che da punto di vista teorico sarà raccolta dal Seicento, e che nella pratica attende ancora di essere smentita.
FILOSOFARE E' UN PO' COME GIOCARE
Di Maria Bettetini
La filosofia ha dua grandi mali: il primo è la paupertas, la povertà. Niente è meno necessario alla vita della filosofia, e per questo molti se ne allontanano. Ma c'è un problema più grave, e "ancor meno tollerabile", ed è l'incertezza. Sarebbe bella la filosofia, afferma Piero Pomponazzi, se fosse certa sicut mathematica. Purtroppo è invece solo basata su congetture e opinioni, fare filosofia "è come uno giochare". Il filosofo mantovano vissuto un secolo prima di Cartesio non ha dubbi sulla debolezza della ragione, limitata e fallibile, eppure autonoma nella sua ricerca filosofica. Le opere più famose di Pomponazzi sono emblematicamente un trattato sull'impossibilità di dimostrare l'immortalità dell'anima e un violento libro contro le superstizioni magiche, dove di difende l'altro l'origine naturale e non magica degli eventi astrali.
Ora è disponibile la prima edizione delle lezioni tenute da Pomponazzi a Bologna a commento trattato di Aristotele Sulle parti degli animali, per la cura attenta di Stefano Perfetti: un'esplorazione della filosofia naturale dello Stagirita e anche il primo commento rinascimentale a un suo trattato su tematiche biologiche. Nelle pagine, vergate ora in latino ora in volgare, così come si svolgeva la lezione e come viene riportata dall'allievo Gregorio Frediaaani, il testo aristotelico è spesso una scusa per riproporre temi cari a Pomponazzi, e tra questi torna spesso lo statuto della filosofia. Al filosofo, apparentemente inutile alla vita sociale, viene riconosciuto il ruolo di regolatore dei saperi e delle pratiche. Colui che pratica il "gioco" della filosofia non ha certezze, esercita il dubbio secondo una tradizione socratica esasperata ("vi insegnerò a dubitare"), eppure è tanto superiore a qualunque altro uomo da potersi imporre come riferimento per la società intera. Una sfida lanciata in tempi non certo di pace e riflessione: l'allievo di Pomponazzi riporta anche le grida di giubilo per la conquista di Piacenza udite alla fine della lezione del 21 novembre 1521 (ed erano le undici di sera). Una sfida che da punto di vista teorico sarà raccolta dal Seicento, e che nella pratica attende ancora di essere smentita.
Pietro Pomponazzi, "Expositio super primo et secundo De partibus animalium", a cura di S. Perfetti, Leo S. Olschiki Editore, Firenze 2004, pagg. LXXXVI + 362, € 44,00.
Schopenhauer /2
Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2005-01-31
Le annotazioni stilate dopo il fallimento editoriale del "Mondo come volontà e rappresentazione"
ATHUR SCRIVE A SE STESSO
Di Armando Massarenti
È un filosofo fin troppo consapevole della propria originalità lo Schopenhauer che alla fine del 1818 pubblica il Mondo come volontà e rappresentazione, un libro che si rivelerà subito un flop editoriale. Seguono anni pieni di infelicità e frustrazioni, durante i quali imperversano nelle università filosofi come Jacobi, Fichte, Shelling, Hegel. Ottenuto nel 1820 l'insegnamento a Berlino, Schopenhauer si ostinerà per più di un decennio a tenere le proprie lezioni negli stessi orari di Hegel, che egli considera un pomposo ciarlatano. L'aula è sempre deserta, la sua opera continua a essere ignorata, i fallimenti personali si moltiplicano. Eppure proprio in quegli anni, dal 1818 al 1830, Schopenhauer rafforza anziché indebolire la consapevolezza di sé e del proprio filosofare trasponendo la sua opera teorica in una serie di osservazioni che delineano il profilo di una originalissima filosofia pratica, che sfocerà nei suoi scritti più tardi, i Parerga e paralipomena, da cui otterrà finalmente il meritato riconoscimento.
Raccolti ora in un ponderoso volume, il terzo degli Scritti postumi (il primo, con i materiali preparatori al Mondo, è uscito nel 1996, il secondo è in preparazione), quegli appunti costituiscono, da un lato, un grandioso laboratorio del pensiero dell'ultimo Schopenhauer, e dall'altro una sorta di novello A se stesso di marcaureliana memoria. Un diario che si trasforma, per dirla con Pierre Hadot, in raccolta di "esercizi spirituali" per costruire quotidianamente un'arte di vivere, una saggezza pratica orientata alla "cura di sé", dalla quale anche il lettore non filosofo può trarre grandi insegnamenti.
Sono scritti in cui l'autore, come altri grandi pessimisti dell'Ottocento (Leopardi sopra tutti), trova proprio nella precisione e nell'onestà della descrizione in negativo della natura e della condizione umana un grande motivo di consolazione. Significativa del suo atteggiamento verso la vita e il pensiero è una pagina in cui Schopenhauer afferma che bisogna aspirare "coraggiosamente a fare sempre maggiore chiarezza su se stessi e sul mondo", anche se questo ci porta inevitabilmente a scoprire che ogni felicità e ogni amicizia è "fondata sull'inganno". "Si proceda con fiducia! Senza timore del vuoto che diventa sempre più vasto!"
E aggiunge: "Di una cosa soltanto bisogna essere sicuri: che dietro i veli che si sono tolti non si abbia a scoprire la propria stessa mancanza di valore, perché tale vista è la Gorgone letale. Si sia allora intimamente coscienti del proprio valore, se si vuo allontanare l'inganno, poiché il sentimento della propria pochezza non è solo il dolore più grande, bensì l'unico vero dolore interiore". Niente potrà confortare chi è consapevole della propria pochezza, che si potrà camuffare con l'imbroglio e con l'inganno ma comunque "non a lungo", mentre la "viva consapevolezza del proprio valore è una consolazione onnipotente e perciò va anteposta a ogni bene terreno".
Da questa esigenza estrema di "fare chiarezza" scaturiscono autentiche perle filosofiche, in parte già note al pubblico italiano perché pubblicate in singoli volumetti come L'arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi (1991), splendido viaggio nella cattiveria umana in cui Schopenhauer classifica tutti gli "artifici disonesti ricorrenti nelle dispute" mostrandone l'efficacia per far trionfare un'opinione indipendentemente dalla sua verità; e L'arte di essere felici (1997), che ci invita a riconoscere con realismo che "vivere felici" può significare solo vivere il meno infelici possibile, e L'arte di farsi rispettare (1998). Quest'ultimo era in realtà il progetto di un Trattato sull'onore del 1828, il secondo è una Eudomonologia del 1826, mentre il primo appare qui con il suo titolo originario di Dialettica eristica.
"In senso etimologico la dialettica è l'arte del dialogo - scrive Schopenhauer -; poiché però a lungo andare nessun dialogo rimane interessante senza dibattito, la dialettica, per sua stessa natura trapassa nell'eristica. Che è appunto quell'insieme di tecniche, in parte già analizzate da Aristotele, che servono ad avere la meglio anche quando si ha torno.
Descrivere il modo in cui si svolgono tali scontri sleali è parte di un atteggiamento generale orientato al realismo, che si nutre di tutte le raffinatezze imparate dai grandi moralisti francesi, come La Rochefoucauld, ma anche dagli scritti sulla religione naturale di Hume. La verità, ribadisce di continuo Schopenhauer, si addice solo agli animi più elevati. "Per tenere a freno gli animi rozzi e per distoglierli dall'ingiustizia e dalla crudeltà non serve la verità, poiché essi non sono in grado di comprenderla. C'è bisogno dell'errore, di una favola, di una parabola. Da ciò la necessità delle dottrine religiose positive". E il medesimo realismo pervade le riflessioni sulla felicità, sull'onore e sulla morale, con raffinate descrizioni del funzionamento dei vizi e delle virtù, della quali abbiamo dato un piccolo assaggio nella "Filosofia minima" di domenica scorsa con il brano sulla "spudoratezza" come tratto tipico del carattere nazionale degli italiani. Per smascherare il quale possono essere utili, indirettamente, anche molte altre pagine di questo volume.
Si prendano proprio gli stratagemmi per ottenere ragione. Il numero 28 per esempio. "Lo si può adoperare principalmente - suggerisce perfidamente Schopenhauer - quando persone colte disputano davanti ad ascoltatori incolti" e consiste nell' "avanzare una obiezione non valida di cui però solo l'esperto vede l'inconsistenza". Poiché solo l'avversario è un esperto, ma non gli ascoltatori, "ai loro occhi egli viene dunque battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a porre in una luce ridicola la sua affermazione. A ridere la gente è sempre pronta, e quelli che ridono li si ha dalla nostra parte. Per mostrare che l'obiezione è nulla, l'avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione e risalire ai principi della scienza, o cose del genere: ma se lo fa non trova facilmente ascolto". Non vi pervade una strana senzazione? A leggere certi passi di Schopenhauer sembra che abbia appena assistito a un talk show con Brunro Vespa o Giuliano Ferrara.
Le annotazioni stilate dopo il fallimento editoriale del "Mondo come volontà e rappresentazione"
ATHUR SCRIVE A SE STESSO
Di Armando Massarenti
È un filosofo fin troppo consapevole della propria originalità lo Schopenhauer che alla fine del 1818 pubblica il Mondo come volontà e rappresentazione, un libro che si rivelerà subito un flop editoriale. Seguono anni pieni di infelicità e frustrazioni, durante i quali imperversano nelle università filosofi come Jacobi, Fichte, Shelling, Hegel. Ottenuto nel 1820 l'insegnamento a Berlino, Schopenhauer si ostinerà per più di un decennio a tenere le proprie lezioni negli stessi orari di Hegel, che egli considera un pomposo ciarlatano. L'aula è sempre deserta, la sua opera continua a essere ignorata, i fallimenti personali si moltiplicano. Eppure proprio in quegli anni, dal 1818 al 1830, Schopenhauer rafforza anziché indebolire la consapevolezza di sé e del proprio filosofare trasponendo la sua opera teorica in una serie di osservazioni che delineano il profilo di una originalissima filosofia pratica, che sfocerà nei suoi scritti più tardi, i Parerga e paralipomena, da cui otterrà finalmente il meritato riconoscimento.
Raccolti ora in un ponderoso volume, il terzo degli Scritti postumi (il primo, con i materiali preparatori al Mondo, è uscito nel 1996, il secondo è in preparazione), quegli appunti costituiscono, da un lato, un grandioso laboratorio del pensiero dell'ultimo Schopenhauer, e dall'altro una sorta di novello A se stesso di marcaureliana memoria. Un diario che si trasforma, per dirla con Pierre Hadot, in raccolta di "esercizi spirituali" per costruire quotidianamente un'arte di vivere, una saggezza pratica orientata alla "cura di sé", dalla quale anche il lettore non filosofo può trarre grandi insegnamenti.
Sono scritti in cui l'autore, come altri grandi pessimisti dell'Ottocento (Leopardi sopra tutti), trova proprio nella precisione e nell'onestà della descrizione in negativo della natura e della condizione umana un grande motivo di consolazione. Significativa del suo atteggiamento verso la vita e il pensiero è una pagina in cui Schopenhauer afferma che bisogna aspirare "coraggiosamente a fare sempre maggiore chiarezza su se stessi e sul mondo", anche se questo ci porta inevitabilmente a scoprire che ogni felicità e ogni amicizia è "fondata sull'inganno". "Si proceda con fiducia! Senza timore del vuoto che diventa sempre più vasto!"
E aggiunge: "Di una cosa soltanto bisogna essere sicuri: che dietro i veli che si sono tolti non si abbia a scoprire la propria stessa mancanza di valore, perché tale vista è la Gorgone letale. Si sia allora intimamente coscienti del proprio valore, se si vuo allontanare l'inganno, poiché il sentimento della propria pochezza non è solo il dolore più grande, bensì l'unico vero dolore interiore". Niente potrà confortare chi è consapevole della propria pochezza, che si potrà camuffare con l'imbroglio e con l'inganno ma comunque "non a lungo", mentre la "viva consapevolezza del proprio valore è una consolazione onnipotente e perciò va anteposta a ogni bene terreno".
Da questa esigenza estrema di "fare chiarezza" scaturiscono autentiche perle filosofiche, in parte già note al pubblico italiano perché pubblicate in singoli volumetti come L'arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi (1991), splendido viaggio nella cattiveria umana in cui Schopenhauer classifica tutti gli "artifici disonesti ricorrenti nelle dispute" mostrandone l'efficacia per far trionfare un'opinione indipendentemente dalla sua verità; e L'arte di essere felici (1997), che ci invita a riconoscere con realismo che "vivere felici" può significare solo vivere il meno infelici possibile, e L'arte di farsi rispettare (1998). Quest'ultimo era in realtà il progetto di un Trattato sull'onore del 1828, il secondo è una Eudomonologia del 1826, mentre il primo appare qui con il suo titolo originario di Dialettica eristica.
"In senso etimologico la dialettica è l'arte del dialogo - scrive Schopenhauer -; poiché però a lungo andare nessun dialogo rimane interessante senza dibattito, la dialettica, per sua stessa natura trapassa nell'eristica. Che è appunto quell'insieme di tecniche, in parte già analizzate da Aristotele, che servono ad avere la meglio anche quando si ha torno.
Descrivere il modo in cui si svolgono tali scontri sleali è parte di un atteggiamento generale orientato al realismo, che si nutre di tutte le raffinatezze imparate dai grandi moralisti francesi, come La Rochefoucauld, ma anche dagli scritti sulla religione naturale di Hume. La verità, ribadisce di continuo Schopenhauer, si addice solo agli animi più elevati. "Per tenere a freno gli animi rozzi e per distoglierli dall'ingiustizia e dalla crudeltà non serve la verità, poiché essi non sono in grado di comprenderla. C'è bisogno dell'errore, di una favola, di una parabola. Da ciò la necessità delle dottrine religiose positive". E il medesimo realismo pervade le riflessioni sulla felicità, sull'onore e sulla morale, con raffinate descrizioni del funzionamento dei vizi e delle virtù, della quali abbiamo dato un piccolo assaggio nella "Filosofia minima" di domenica scorsa con il brano sulla "spudoratezza" come tratto tipico del carattere nazionale degli italiani. Per smascherare il quale possono essere utili, indirettamente, anche molte altre pagine di questo volume.
Si prendano proprio gli stratagemmi per ottenere ragione. Il numero 28 per esempio. "Lo si può adoperare principalmente - suggerisce perfidamente Schopenhauer - quando persone colte disputano davanti ad ascoltatori incolti" e consiste nell' "avanzare una obiezione non valida di cui però solo l'esperto vede l'inconsistenza". Poiché solo l'avversario è un esperto, ma non gli ascoltatori, "ai loro occhi egli viene dunque battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a porre in una luce ridicola la sua affermazione. A ridere la gente è sempre pronta, e quelli che ridono li si ha dalla nostra parte. Per mostrare che l'obiezione è nulla, l'avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione e risalire ai principi della scienza, o cose del genere: ma se lo fa non trova facilmente ascolto". Non vi pervade una strana senzazione? A leggere certi passi di Schopenhauer sembra che abbia appena assistito a un talk show con Brunro Vespa o Giuliano Ferrara.
Arthur Schopenhauer, "Scritti postumi. Volume III. I manoscritti berlinesi (1818-1830)", testo stabilito da Arthur Hübscher, ed. it. diretta da Franco Volpi, a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano 2004, pagg. 1.040, € 70,00.
Prozac
Bresciaoggi.it Lunedì 31 Gennaio 2005
Lettere dai lettori
Finalmente la verità
Caro direttore,
il Corriere della Sera ha riportato recentemente la seguente notizia: «Il Prozac fa male, ecco le prove». Finalmente! Finalmente la verità riguardo le controverse sostanze psicotrope sta emergendo in tutta la sua drammaticità. Alla lunga, nemmeno le più abili operazioni di marketing possono reggere davanti all’evidenza: tali sostanze, quale che sia il loro nome commerciale, sconvolgono la mente con il pretesto di curarla, hanno effetti collaterali devastanti che spaziano, come riporta l’autorevole quotidiano, dalle modificazioni del comportamento, al suicidio, a forme incontrollate di aggressività. Il Comitato dei cittadini per i diritti dell’uomo (Ccdu) da anni sta lanciando il suo grido d’allarme nei confronti delle droghe psichiatriche, da anni sta documentando casi di abuso psichiatrico e il sito www.cchr.org è a disposizione della comunità per fornire informazioni. Questi dati sono da tempo riportati sulle pubblicazioni nazionali ed internazionali del Ccdu, distribuite ai cittadini, ai legislatori, ai medici, ecc. Il Ccdu internazionale ha documentato casi di decesso di bambini e adolescenti sotto trattamento psichiatrico ed è impegnato quotidianamente ad informare i genitori e gli insegnanti sul pericolo di facili diagnosi di disturbi mentali dei minorenni. Tali etichette, oltre che essere invalidanti, sono il corridoio d’accesso per terapie a base di sostanze psicotrope i cui effetti si sono dimostrati dannosi. Alcuni ricercatori li hanno paragonati a quelli procurati dalle droghe da strada. Qualcosa quindi sta emergendo, è un passo avanti verso la corretta informazione, ma ci sono voluti anni e nel frattempo molte vite, alcune molto giovani, sono state rovinate se non addirittura perdute. Il Ccdu combatte da alcuni decenni la sua battaglia per difendere i diritti umani contro gli abusi della psichiatria, dai campi di lavoro nel Sudafrica alla scuole degli Stati Uniti, dove recentemente si è ottenuta un’importante inversione di rotta e cioè non potrà più essere impedito l’accesso a scuola ai minori che non volgiono sottoporsi a trattamenti psichiatrici, facendo così cessare il potere di ricatto della psichiatria sui genitori. Forse fra qualche anno un altro quotidiano, magari ancora in prima pagina, riporterà che gli psicofarmaci possono essere letali per i bambini. Non aspettiamo quel giorno, è già tutto documentato, compresi purtroppo i nomi delle giovani vittime. Non c’è nulla di scientifico nella definizione di malattia mentale, non c’è test clinico oggettivo che la dimostri, non c’è virus che la causi, non è riscontrabile con nessun esame del sangue. Certo, le persone hanno problemi e qualcuno, compresi i bambini, li manifesta con comportamenti che possono disturbare, ma le sostanze psicotrope non li risolvono, al massimo li soffocano. La gente non ama subire trattamenti invalidanti e tantomeno i bambini. Proteggiamoli.
Lettere dai lettori
Finalmente la verità
Caro direttore,
il Corriere della Sera ha riportato recentemente la seguente notizia: «Il Prozac fa male, ecco le prove». Finalmente! Finalmente la verità riguardo le controverse sostanze psicotrope sta emergendo in tutta la sua drammaticità. Alla lunga, nemmeno le più abili operazioni di marketing possono reggere davanti all’evidenza: tali sostanze, quale che sia il loro nome commerciale, sconvolgono la mente con il pretesto di curarla, hanno effetti collaterali devastanti che spaziano, come riporta l’autorevole quotidiano, dalle modificazioni del comportamento, al suicidio, a forme incontrollate di aggressività. Il Comitato dei cittadini per i diritti dell’uomo (Ccdu) da anni sta lanciando il suo grido d’allarme nei confronti delle droghe psichiatriche, da anni sta documentando casi di abuso psichiatrico e il sito www.cchr.org è a disposizione della comunità per fornire informazioni. Questi dati sono da tempo riportati sulle pubblicazioni nazionali ed internazionali del Ccdu, distribuite ai cittadini, ai legislatori, ai medici, ecc. Il Ccdu internazionale ha documentato casi di decesso di bambini e adolescenti sotto trattamento psichiatrico ed è impegnato quotidianamente ad informare i genitori e gli insegnanti sul pericolo di facili diagnosi di disturbi mentali dei minorenni. Tali etichette, oltre che essere invalidanti, sono il corridoio d’accesso per terapie a base di sostanze psicotrope i cui effetti si sono dimostrati dannosi. Alcuni ricercatori li hanno paragonati a quelli procurati dalle droghe da strada. Qualcosa quindi sta emergendo, è un passo avanti verso la corretta informazione, ma ci sono voluti anni e nel frattempo molte vite, alcune molto giovani, sono state rovinate se non addirittura perdute. Il Ccdu combatte da alcuni decenni la sua battaglia per difendere i diritti umani contro gli abusi della psichiatria, dai campi di lavoro nel Sudafrica alla scuole degli Stati Uniti, dove recentemente si è ottenuta un’importante inversione di rotta e cioè non potrà più essere impedito l’accesso a scuola ai minori che non volgiono sottoporsi a trattamenti psichiatrici, facendo così cessare il potere di ricatto della psichiatria sui genitori. Forse fra qualche anno un altro quotidiano, magari ancora in prima pagina, riporterà che gli psicofarmaci possono essere letali per i bambini. Non aspettiamo quel giorno, è già tutto documentato, compresi purtroppo i nomi delle giovani vittime. Non c’è nulla di scientifico nella definizione di malattia mentale, non c’è test clinico oggettivo che la dimostri, non c’è virus che la causi, non è riscontrabile con nessun esame del sangue. Certo, le persone hanno problemi e qualcuno, compresi i bambini, li manifesta con comportamenti che possono disturbare, ma le sostanze psicotrope non li risolvono, al massimo li soffocano. La gente non ama subire trattamenti invalidanti e tantomeno i bambini. Proteggiamoli.
Marina Mandelli Brescia
storia
«la leggenda del fascismo buono»
L'Unità 31 gennaio 2005
LA LEGGENDA DEL FASCISMO BUONO
Nicola Tranfaglia
Due cose mi hanno particolarmente colpito nel giorno della memoria che quest'anno ha avuto una particolare solennità non solo per i sessant'anni passati dalla liberazione di Auschwitz ma anche perché il tempo presente è purtroppoun tempo di guerra, di lutti, di barbarie difficili da accettare.
La prima é costituita dalle parole che il presidente dello Stato d'Israele Moshé Katzav ha pronunciato ad Auschwitz dinanzi a una quarantina di Capi dello Stato e primi ministri (alcuni dei quali, in un passato anche recente, hanno riabilitato a parole l'esperienza fascista): «Il mondo sapeva della distruzione degli ebrei e questo resterà come un marchio di infamia sulla fronte dell'umanità».
A questa tesi molti storici (penso tra gli altri a Walter Laqueur) erano arrivati da tempo con le loro ricerche ma il fatto che lo stesso concetto sia stato affermato dal presidente dello Stato d'Israele dinanzi agli eredi di quei governi che in Europa e negli Stati Uniti insieme con il Vaticano e la Croce Rossa Internazionale avevano assistito silenziosi al genocidio degli ebrei (di milioni di oppositori politici e religiosi, di zingari e di omosessuali) assume un significato particolare che non si può sottovalutare.
La seconda cosa che mi ha fatto riflettere é stata la pubblicazione avvenuta su questo giornale della prima pagina del 6 agosto 1938 del "Popolo d'Italia", il giornale ufficiale del regime, al quale Mussolini collaborò con editoriali e corsivi durante l'intero ventennio e che rifletteva ogni giorno il pensiero del dittatore. Quella pagina dovrebbe far pensare assai più di me, che ho trascorso una parte ormai grande della mia esistenza a studiare i fascismi e la prima parte del Novecento, tutti quelli che in questi anni hanno cercato con interventi televisivi e con articoli in tutte le sedi di accreditare, a livello di cultura di massa, una leggenda che si compone di due proposizioni di base. Il fascismo, secondo questa leggenda molto di moda in questo periodo, è rimasto fuori del cono d'ombra della persecuzione degli ebrei. Quindi non ha nulla a che vedere con la dittatura nazista e le fabbriche della morte come Auchswitz e deve essere visto come un regime autoritario ma benevolo, se si eccettua l'errore della guerra con Hitler negli ultimi tre anni. Ebbene la lettura attenta di quella prima pagina mette in crisi, una volta per tutte, una simile leggenda a cui storici di qualche rilievo hanno prestato fede coerentemente con le loro attuali opinioni politiche. Nell'apertura si ricorda che il razzismo antisemita di Mussolini e dei fascisti data dal 1919, anno di fondazione del movimento e riporta una frase tratta da un discorso del futuro Duce al primo congresso del PNF nel novembre 1921: «Intendo dire che il Fascismo si preoccupi del problema della razza; i fascisti devono preoccuparsi del problema della razza,con la quale si fa la storia». L'articolo prosegue portando come giustificazione della persecuzione contro gli ebrei italiani la ragione grottesca secondo cui il numero esiguo degli ebrei che stanno nel nostro paese (44 mila secondo gli ultimi calcoli) come se i diritti potessero dipendere dalle quantità e introducendo il principio pericoloso per cui la religione ebraica costituisce un impedimento alla piena cittadinanza italiana.
Non trascorsero che pochi mesi e quest'affermazione venne smentita dalle leggi razziali che previdero l'esclusione dalle scuole come dagli uffici di chiunque fosse di religione ebraica mentre procedeva il lavoro per un nuovo censimento in base al quale il regime avrebbe proceduto successivamente alla confisca dei beni.
Si é scritto spesso che il razzismo italiano, a differenza di quello tedesco, fosse di tipo culturale piuttosto che biologico ma la lettura di quella pagina é destinata a togliere anche questa illusione giacché, citando anche altri passi di Mussolini legati all'espansione in Etiopia, l'ossessione che prende corpo é quello della mescolanza del sangue italiano o meglio della nostra "razza ariana e mediterranea che a un dato momento si è sentita minacciata dall'esistenza di una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata." (1921) dove il riferimento agli ebrei é straordinariamente chiaro. E ritorna, per quanto riguarda i neri dell'Africa, con l'immagine paurosa, la "catastrofica piaga" del "meticciato", "la creazione di una razza bastarda, né europea né africana che fomenterà la disintegrazione e la rivolta".
I fascisti, insomma, per il "Popolo d'Italia" devono restare "puri" e fermare un processo di imbastardimento della razza che riguarda il colore della pelle (gli africani) ma anche la religione (gli ebrei per giunta, si aggiunge, a torto convinti di essere il popolo eletto del Vecchio Testamento). Ma si può parlare di fronte aqueste affermazioni di razzismo spirituale o diverso da quello nazista.
Ma se questo è vero,e mi sembra difficile negarlo, non ha senso sul piano storico ritenere il fascismo lontano dal nazionalsocialismo e da quello che avvenne durante la seconda guerra mondiale. Campi di concentramento nacquero in Italia e ne abbiamo finalmente la conferma da ricerche storiche documentate. E l'attiva complicità della Repubblica Sociale Italiana nel rastrellamento e nella deportazione di ebrei, oppositori e militari per la fabbrica della morte sparsa nei lager europei dovrebbe porre la parola fine ai tentativi goffi e spesso in malafede di diffondere la leggenda sul fascismo benevolo e su Mussolini buon padre di famiglia.
LA LEGGENDA DEL FASCISMO BUONO
Nicola Tranfaglia
Due cose mi hanno particolarmente colpito nel giorno della memoria che quest'anno ha avuto una particolare solennità non solo per i sessant'anni passati dalla liberazione di Auschwitz ma anche perché il tempo presente è purtroppoun tempo di guerra, di lutti, di barbarie difficili da accettare.
La prima é costituita dalle parole che il presidente dello Stato d'Israele Moshé Katzav ha pronunciato ad Auschwitz dinanzi a una quarantina di Capi dello Stato e primi ministri (alcuni dei quali, in un passato anche recente, hanno riabilitato a parole l'esperienza fascista): «Il mondo sapeva della distruzione degli ebrei e questo resterà come un marchio di infamia sulla fronte dell'umanità».
A questa tesi molti storici (penso tra gli altri a Walter Laqueur) erano arrivati da tempo con le loro ricerche ma il fatto che lo stesso concetto sia stato affermato dal presidente dello Stato d'Israele dinanzi agli eredi di quei governi che in Europa e negli Stati Uniti insieme con il Vaticano e la Croce Rossa Internazionale avevano assistito silenziosi al genocidio degli ebrei (di milioni di oppositori politici e religiosi, di zingari e di omosessuali) assume un significato particolare che non si può sottovalutare.
La seconda cosa che mi ha fatto riflettere é stata la pubblicazione avvenuta su questo giornale della prima pagina del 6 agosto 1938 del "Popolo d'Italia", il giornale ufficiale del regime, al quale Mussolini collaborò con editoriali e corsivi durante l'intero ventennio e che rifletteva ogni giorno il pensiero del dittatore. Quella pagina dovrebbe far pensare assai più di me, che ho trascorso una parte ormai grande della mia esistenza a studiare i fascismi e la prima parte del Novecento, tutti quelli che in questi anni hanno cercato con interventi televisivi e con articoli in tutte le sedi di accreditare, a livello di cultura di massa, una leggenda che si compone di due proposizioni di base. Il fascismo, secondo questa leggenda molto di moda in questo periodo, è rimasto fuori del cono d'ombra della persecuzione degli ebrei. Quindi non ha nulla a che vedere con la dittatura nazista e le fabbriche della morte come Auchswitz e deve essere visto come un regime autoritario ma benevolo, se si eccettua l'errore della guerra con Hitler negli ultimi tre anni. Ebbene la lettura attenta di quella prima pagina mette in crisi, una volta per tutte, una simile leggenda a cui storici di qualche rilievo hanno prestato fede coerentemente con le loro attuali opinioni politiche. Nell'apertura si ricorda che il razzismo antisemita di Mussolini e dei fascisti data dal 1919, anno di fondazione del movimento e riporta una frase tratta da un discorso del futuro Duce al primo congresso del PNF nel novembre 1921: «Intendo dire che il Fascismo si preoccupi del problema della razza; i fascisti devono preoccuparsi del problema della razza,con la quale si fa la storia». L'articolo prosegue portando come giustificazione della persecuzione contro gli ebrei italiani la ragione grottesca secondo cui il numero esiguo degli ebrei che stanno nel nostro paese (44 mila secondo gli ultimi calcoli) come se i diritti potessero dipendere dalle quantità e introducendo il principio pericoloso per cui la religione ebraica costituisce un impedimento alla piena cittadinanza italiana.
Non trascorsero che pochi mesi e quest'affermazione venne smentita dalle leggi razziali che previdero l'esclusione dalle scuole come dagli uffici di chiunque fosse di religione ebraica mentre procedeva il lavoro per un nuovo censimento in base al quale il regime avrebbe proceduto successivamente alla confisca dei beni.
Si é scritto spesso che il razzismo italiano, a differenza di quello tedesco, fosse di tipo culturale piuttosto che biologico ma la lettura di quella pagina é destinata a togliere anche questa illusione giacché, citando anche altri passi di Mussolini legati all'espansione in Etiopia, l'ossessione che prende corpo é quello della mescolanza del sangue italiano o meglio della nostra "razza ariana e mediterranea che a un dato momento si è sentita minacciata dall'esistenza di una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata." (1921) dove il riferimento agli ebrei é straordinariamente chiaro. E ritorna, per quanto riguarda i neri dell'Africa, con l'immagine paurosa, la "catastrofica piaga" del "meticciato", "la creazione di una razza bastarda, né europea né africana che fomenterà la disintegrazione e la rivolta".
I fascisti, insomma, per il "Popolo d'Italia" devono restare "puri" e fermare un processo di imbastardimento della razza che riguarda il colore della pelle (gli africani) ma anche la religione (gli ebrei per giunta, si aggiunge, a torto convinti di essere il popolo eletto del Vecchio Testamento). Ma si può parlare di fronte aqueste affermazioni di razzismo spirituale o diverso da quello nazista.
Ma se questo è vero,e mi sembra difficile negarlo, non ha senso sul piano storico ritenere il fascismo lontano dal nazionalsocialismo e da quello che avvenne durante la seconda guerra mondiale. Campi di concentramento nacquero in Italia e ne abbiamo finalmente la conferma da ricerche storiche documentate. E l'attiva complicità della Repubblica Sociale Italiana nel rastrellamento e nella deportazione di ebrei, oppositori e militari per la fabbrica della morte sparsa nei lager europei dovrebbe porre la parola fine ai tentativi goffi e spesso in malafede di diffondere la leggenda sul fascismo benevolo e su Mussolini buon padre di famiglia.
depressione...
YAHOO SALUTE lunedì 31 gennaio 2005
Sport, contro la depressione funziona!
di Paola Mariano
Il Pensiero Scientifico Editore
Allenarsi contro la depressione si può: infatti una attività fisica moderatamente intensa e frequente riduce i sintomi clinici della malattia nei casi non gravi con risultati comparabili a quelli offerti da terapie farmacologiche e cognitive. La dimostrazione arriva da uno studio della University of Texas Southwestern Medical Center a Dallas pubblicato sul Journal of Preventive Medicine e indica per la prima volta la palestra come un buon tappeto per la lotta alla depressione.
Nell’indagine individui con depressione non grave tra i 20 e i 45 anni hanno beneficiato di una riduzione dei sintomi depressivi quasi del 50 per cento partecipando a 30 minuti di ginnastica aerobica 3-5 volte a settimana. “L'effetto prodotto dall'attività fisica da sola nel trattamento della depressione clinica”, ha dichiarato entusiasta il coordinatore dello studio Madhukar Trivedi, “è del tutto simile a quello offerto dagli antidepressivi e la chiave del successo della ginnastica sta nell'intensità degli esercizi svolti”. “Non è certo una terapia per deboli di cuore”, ha aggiunto l’esperto in tono di scherzo.
I suoi risultati derivano da esperimenti condotti su 80 pazienti suddivisi in cinque gruppi per differenti regimi di allenamento fisico. I primi due gruppi dovevano svolgere attività fisica moderatamente intensa tre o cinque volte a settimana per 30-35 minuti; altri due gruppi attività fisica di bassa intensità tre o cinque volte a settimana per 30-35 minuti. Infine il quinto gruppo solo 20 minuti di stretching per tre volte a settimana. Il regime di allenamento per i primi quattro gruppi comprendeva molto semplicemente cyclette e tapis-roulant. Dopo tre mesi di allenamento i primi due gruppi mostravano una riduzione del 47 per cento dei sintomi depressivi, il terzo e quarto gruppo del 30 per cento, infine il quinto gruppo del 29 per cento.
Poiché la depressione è in molti casi vissuta ancora come una malattia da nascondere contribuendo al fatto che solo il 23 per cento degli individui depressi segua terapie standard a base di antidepressivi, poiché inoltre solo il 19 per cento di essi riceve cure adeguate, ha concluso Trivedi, l'esercizio fisico potrebbe divenire un'ottima alternativa agli psicofarmaci per molti individui con una diagnosi di depressione non grave.
Sport, contro la depressione funziona!
di Paola Mariano
Il Pensiero Scientifico Editore
Allenarsi contro la depressione si può: infatti una attività fisica moderatamente intensa e frequente riduce i sintomi clinici della malattia nei casi non gravi con risultati comparabili a quelli offerti da terapie farmacologiche e cognitive. La dimostrazione arriva da uno studio della University of Texas Southwestern Medical Center a Dallas pubblicato sul Journal of Preventive Medicine e indica per la prima volta la palestra come un buon tappeto per la lotta alla depressione.
Nell’indagine individui con depressione non grave tra i 20 e i 45 anni hanno beneficiato di una riduzione dei sintomi depressivi quasi del 50 per cento partecipando a 30 minuti di ginnastica aerobica 3-5 volte a settimana. “L'effetto prodotto dall'attività fisica da sola nel trattamento della depressione clinica”, ha dichiarato entusiasta il coordinatore dello studio Madhukar Trivedi, “è del tutto simile a quello offerto dagli antidepressivi e la chiave del successo della ginnastica sta nell'intensità degli esercizi svolti”. “Non è certo una terapia per deboli di cuore”, ha aggiunto l’esperto in tono di scherzo.
I suoi risultati derivano da esperimenti condotti su 80 pazienti suddivisi in cinque gruppi per differenti regimi di allenamento fisico. I primi due gruppi dovevano svolgere attività fisica moderatamente intensa tre o cinque volte a settimana per 30-35 minuti; altri due gruppi attività fisica di bassa intensità tre o cinque volte a settimana per 30-35 minuti. Infine il quinto gruppo solo 20 minuti di stretching per tre volte a settimana. Il regime di allenamento per i primi quattro gruppi comprendeva molto semplicemente cyclette e tapis-roulant. Dopo tre mesi di allenamento i primi due gruppi mostravano una riduzione del 47 per cento dei sintomi depressivi, il terzo e quarto gruppo del 30 per cento, infine il quinto gruppo del 29 per cento.
Poiché la depressione è in molti casi vissuta ancora come una malattia da nascondere contribuendo al fatto che solo il 23 per cento degli individui depressi segua terapie standard a base di antidepressivi, poiché inoltre solo il 19 per cento di essi riceve cure adeguate, ha concluso Trivedi, l'esercizio fisico potrebbe divenire un'ottima alternativa agli psicofarmaci per molti individui con una diagnosi di depressione non grave.
sinistra
Fausto Bertinotti su primarie e Toscana
Corriere della Sera 1.2.05
Toscana, da sinistra sfida alla Quercia
Bertinotti al Professore: primarie solo sul leader E poi litiga con i Ds
di Monica Guerzoni
ROMA - Magari non sarebbe solo il volto e la voce dell’Ulivo, come Elisabetta Gardini per Forza Italia. Ma a Romano Prodi, che vuole affidarle il ruolo di coordinatrice dei rapporti con i media, Lilli Gruber non ha ancora detto un sì definitivo. Un po’ perché la proposta non è ufficialmente giunta e un po’ perché, come l’europarlamentare ha confidato a Massimo D’Alema, vuol prima «capire meglio» se curare la Comunicazione dell’Ulivo sia incarico tale da togliere tempo ed energie al ruolo di presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo. Perplessità comprensibili, di fronte a una giornata come quella di ieri... D’Alema di Bertinotti: «E’ un uomo simpatico... Lui può consentirsi tutti questi lussi perché ci siamo noi che garantiamo la tenuta della casa comune», dove il lusso che il segretario del Prc si sarebbe concesso è un’assai velata minaccia di sfilarsi. Bertinotti di D’Alema: «Come si fa a scalfire la convinzione di chi pensa a una propria imperitura e definitiva centralità?». E’ un beccarsi a distanza, ma la scelta degli aggettivi rivela quanto fuoco covi sotto la cenere della Gad ora che il congresso Ds e la sfida per le Regionali sconsigliano di perseverare con lo scontro sulla scelta del leader.
PRIMARIE - Dopo mesi di toni vellutati, ora che all’ordine del giorno entrano le questioni programmatiche il segretario del Prc cambia registro. Rutelli ha abbattuto il «totem» della patrimoniale e Bertinotti lo accusa di voler trasformare una discussione seria «in uno scontro di bandierine». Una rispostina per le rime tocca anche a Romano Prodi, con cui Bertinotti è solito giocar di sponda: le primarie si fanno per scegliere il candidato, non il programma. «Io sarei prudente se dovessi parlare per il vincitore. Non penso che il giorno dopo le primarie si possa dire a sindacati, associazioni e movimenti che non conta ciò che pensano perché il programma è già deciso».
E non è, l’eterna questione delle primarie, l’unico rovello di Prodi. Oggi, dopo aver inaugurato la sede dei Repubblicani di Luciana Sbarbati, il Professore doveva presentare i 14 candidati governatori, ma Verdi, Pdci e Italia dei Valori lo hanno convinto a soprassedere: vogliono garanzie sul programma e «regole chiare» sulle Regionali. «Tutte le forze politiche - rivendica Pecoraro Scanio - devono essere adeguatamente rappresentate nei listini bloccati e poi nelle squadre di governo con un criterio progressivo che va definito a livello nazionale». Traduzione: Margherita e Ds devono smetterla di spartirsi le candidature. Qualcosa, dopo la protesta dei «piccoli», si è mosso. Prodi ha chiamato Pecoraro, Diliberto e Di Pietro, poi ha affidato la questione a Vannino Chiti e Franco Marini.
CASO TOSCANA - Stufo dei «veti» dei Ds, Bertinotti definisce il non-accordo in Toscana «un elemento di crisi nei rapporti» e chiede di entrare nella Gad, forte da ieri di un documento della Camera di consultazione permanente della sinistra radicale, coordinata da Alberto Asor Rosa, che accusa la Quercia di aver posto «ostacoli scandalosi e inaccettabili». L’ipotesi di un accordo con i radicali intanto si allontana. Nessuna pregiudiziale assicura D’Alema, ma i Ds vogliono verificare la convergenza di programmi, Mastella si dice «reticente» e la Margherita è divisa. Niente «armate Brancaleone» avverte Castagnetti, mentre Fioroni un accordo lo farebbe pure, a patto che sia «meramente elettorale».
Toscana, da sinistra sfida alla Quercia
Bertinotti al Professore: primarie solo sul leader E poi litiga con i Ds
di Monica Guerzoni
ROMA - Magari non sarebbe solo il volto e la voce dell’Ulivo, come Elisabetta Gardini per Forza Italia. Ma a Romano Prodi, che vuole affidarle il ruolo di coordinatrice dei rapporti con i media, Lilli Gruber non ha ancora detto un sì definitivo. Un po’ perché la proposta non è ufficialmente giunta e un po’ perché, come l’europarlamentare ha confidato a Massimo D’Alema, vuol prima «capire meglio» se curare la Comunicazione dell’Ulivo sia incarico tale da togliere tempo ed energie al ruolo di presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo. Perplessità comprensibili, di fronte a una giornata come quella di ieri... D’Alema di Bertinotti: «E’ un uomo simpatico... Lui può consentirsi tutti questi lussi perché ci siamo noi che garantiamo la tenuta della casa comune», dove il lusso che il segretario del Prc si sarebbe concesso è un’assai velata minaccia di sfilarsi. Bertinotti di D’Alema: «Come si fa a scalfire la convinzione di chi pensa a una propria imperitura e definitiva centralità?». E’ un beccarsi a distanza, ma la scelta degli aggettivi rivela quanto fuoco covi sotto la cenere della Gad ora che il congresso Ds e la sfida per le Regionali sconsigliano di perseverare con lo scontro sulla scelta del leader.
PRIMARIE - Dopo mesi di toni vellutati, ora che all’ordine del giorno entrano le questioni programmatiche il segretario del Prc cambia registro. Rutelli ha abbattuto il «totem» della patrimoniale e Bertinotti lo accusa di voler trasformare una discussione seria «in uno scontro di bandierine». Una rispostina per le rime tocca anche a Romano Prodi, con cui Bertinotti è solito giocar di sponda: le primarie si fanno per scegliere il candidato, non il programma. «Io sarei prudente se dovessi parlare per il vincitore. Non penso che il giorno dopo le primarie si possa dire a sindacati, associazioni e movimenti che non conta ciò che pensano perché il programma è già deciso».
E non è, l’eterna questione delle primarie, l’unico rovello di Prodi. Oggi, dopo aver inaugurato la sede dei Repubblicani di Luciana Sbarbati, il Professore doveva presentare i 14 candidati governatori, ma Verdi, Pdci e Italia dei Valori lo hanno convinto a soprassedere: vogliono garanzie sul programma e «regole chiare» sulle Regionali. «Tutte le forze politiche - rivendica Pecoraro Scanio - devono essere adeguatamente rappresentate nei listini bloccati e poi nelle squadre di governo con un criterio progressivo che va definito a livello nazionale». Traduzione: Margherita e Ds devono smetterla di spartirsi le candidature. Qualcosa, dopo la protesta dei «piccoli», si è mosso. Prodi ha chiamato Pecoraro, Diliberto e Di Pietro, poi ha affidato la questione a Vannino Chiti e Franco Marini.
CASO TOSCANA - Stufo dei «veti» dei Ds, Bertinotti definisce il non-accordo in Toscana «un elemento di crisi nei rapporti» e chiede di entrare nella Gad, forte da ieri di un documento della Camera di consultazione permanente della sinistra radicale, coordinata da Alberto Asor Rosa, che accusa la Quercia di aver posto «ostacoli scandalosi e inaccettabili». L’ipotesi di un accordo con i radicali intanto si allontana. Nessuna pregiudiziale assicura D’Alema, ma i Ds vogliono verificare la convergenza di programmi, Mastella si dice «reticente» e la Margherita è divisa. Niente «armate Brancaleone» avverte Castagnetti, mentre Fioroni un accordo lo farebbe pure, a patto che sia «meramente elettorale».
elezioni
Corriere della Sera 1.2.05
Il partito degli «irriducibili»: urne farsa, non cambierà nulla
di Fa. Ro.
ROMA - I militanti del pacifismo italiano, certi cattolici, alcuni intellettuali di sinistra, hanno visto la televisione e non dev’essere stato facile ascoltare quelle voci di donna, quelle irachene in fila davanti ai seggi di Bagdad, senza velo e con i bambini tenuti per mano, mentre i mariti e i nonni già uscivano fieri e un po’ eccitati dall’idea di poter mostrare alle telecamere dei tigì occidentali il loro dito imbrattato di inchiostro. Hanno visto la televisione, o addirittura hanno telefonato giù, ad amici e conoscenti: eppure, la loro posizione sull’Iraq, sostanzialmente, non cambia. Irriducibili? Il verde Paolo Cento , sì. «Abbiamo sentito Bush, Blair e Berlusconi dirci che sono state elezioni democratiche: bene, anche se è dura, fingiamo di credergli... Ma allora, a questo punto, il governo italiano non ha più alibi e deve ritirare subito le nostre truppe dall’Iraq».
Poi, il giornalista Valentino Parlato . «Inattesa, certo... questa consultazione elettorale è stata inattesa. D’altra parte, è come se a Roma si fosse andato regolarmente a votare durante l’occupazione nazista e dopo l’attentato di via Rasella: ma va bene, gli iracheni sono andati e questo è il punto che deve interessarci. Ma perché sono andati? Perché hanno voluto darci un segnale della loro esistenza: si sono solo voluti riprendere l’Iraq... E allora, mi chiedo: il nostro esercito perché resta ancora laggiù?».
Su questo concetto - «far tornare a casa il contingente italiano» - concorda anche l’ala cattolica del mondo pacifista e di sinistra. Don Albino Bizzotto , presidente dei «Beati». «Non dobbiamo soffermarci troppo a riflettere sull’esito delle elezioni... Il problema era e resta l’occupazione militare del Paese: la gente non la sopporta davvero più». È della stessa idea anche Lisa Clark , responsabile dei «Beati i costruttori di pace»: «Mi sono commossa nel vedere quelle donne in fila fuori dai seggi... Purtroppo, ho un timore: tutto questo, con le forze d’occupazione ancora presenti, potrà davvero portare a un vero cambiamento politico?».
Il filosofo Gianni Vattimo , infatti, è incredulo. «Aspetto con curiosità che i clamorosi dati sull’affluenza alle urne vengano confermati: se così fosse, con il loro 60%, sarebbero gli iracheni a dare una lezione di democrazia agli americani, che come noto a votare ci vanno sempre meno... Ma è credibile tutto questo? Lo ammetto, resto scettico. Anche perché la democrazia dei carri armati va verificata nel tempo...».
Ecco, appunto: carri armati, bombardamenti e torture. Pur con sfumature diverse, queste immagini tornano anche nei discorsi di molti esponenti diessini, da Mussi alla Melandri, che pure sono rimasti sorpresi dall’esito della consultazione elettorale. Nichi Vendola , il candidato della Gad alla Regione Puglia, che non s’è perso un solo corteo pacifista, ironizza invece polemico: «Mi chiedo: gli iracheni, per fare un favore a me che sono pacifista e un dispetto agli americani, che sono invasori, avrebbero forse dovuto rifiutarsi di votare? Ma è logico?». E poi Sergio Staino , il papà del fumetto più amato dalla sinistra italiana, «Bobo»: «Quelle donne in fila davanti ai seggi non possono farci dimenticare i corpi di tanti civili straziati dalle bombe...».
La memoria. «Io, in queste ore, cerco di averne - dice Furio Colombo , direttore dell’ Unità - e mi chiedo: era possibile eliminare Saddam senza intervenire militarmente? Era possibile non credere alle bugie che ci raccontarono, pur di scatenare la guerra, Bush, Blair e Berlusconi?».
UNA NUOVA MOZIONE? - A lanciarla è Fausto Bertinotti: «Saranno i gruppi parlamentari a deciderlo, ma io la presenterei: i soldati devono rientrare subito». Ammette il segretario di Rifondazione comunista: «Ogni volta che si va alle urne è un fatto positivo. Però con la guerra e il terrorismo il voto non è libero». Risponde subito il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio: «Sono assolutamente favorevole». Sul rientro «immediato» pensano la stessa cosa anche i Comunisti italiani e la sinistra diessina, a partire da Pietro Folena.
[...]
Il partito degli «irriducibili»: urne farsa, non cambierà nulla
di Fa. Ro.
ROMA - I militanti del pacifismo italiano, certi cattolici, alcuni intellettuali di sinistra, hanno visto la televisione e non dev’essere stato facile ascoltare quelle voci di donna, quelle irachene in fila davanti ai seggi di Bagdad, senza velo e con i bambini tenuti per mano, mentre i mariti e i nonni già uscivano fieri e un po’ eccitati dall’idea di poter mostrare alle telecamere dei tigì occidentali il loro dito imbrattato di inchiostro. Hanno visto la televisione, o addirittura hanno telefonato giù, ad amici e conoscenti: eppure, la loro posizione sull’Iraq, sostanzialmente, non cambia. Irriducibili? Il verde Paolo Cento , sì. «Abbiamo sentito Bush, Blair e Berlusconi dirci che sono state elezioni democratiche: bene, anche se è dura, fingiamo di credergli... Ma allora, a questo punto, il governo italiano non ha più alibi e deve ritirare subito le nostre truppe dall’Iraq».
Poi, il giornalista Valentino Parlato . «Inattesa, certo... questa consultazione elettorale è stata inattesa. D’altra parte, è come se a Roma si fosse andato regolarmente a votare durante l’occupazione nazista e dopo l’attentato di via Rasella: ma va bene, gli iracheni sono andati e questo è il punto che deve interessarci. Ma perché sono andati? Perché hanno voluto darci un segnale della loro esistenza: si sono solo voluti riprendere l’Iraq... E allora, mi chiedo: il nostro esercito perché resta ancora laggiù?».
Su questo concetto - «far tornare a casa il contingente italiano» - concorda anche l’ala cattolica del mondo pacifista e di sinistra. Don Albino Bizzotto , presidente dei «Beati». «Non dobbiamo soffermarci troppo a riflettere sull’esito delle elezioni... Il problema era e resta l’occupazione militare del Paese: la gente non la sopporta davvero più». È della stessa idea anche Lisa Clark , responsabile dei «Beati i costruttori di pace»: «Mi sono commossa nel vedere quelle donne in fila fuori dai seggi... Purtroppo, ho un timore: tutto questo, con le forze d’occupazione ancora presenti, potrà davvero portare a un vero cambiamento politico?».
Il filosofo Gianni Vattimo , infatti, è incredulo. «Aspetto con curiosità che i clamorosi dati sull’affluenza alle urne vengano confermati: se così fosse, con il loro 60%, sarebbero gli iracheni a dare una lezione di democrazia agli americani, che come noto a votare ci vanno sempre meno... Ma è credibile tutto questo? Lo ammetto, resto scettico. Anche perché la democrazia dei carri armati va verificata nel tempo...».
Ecco, appunto: carri armati, bombardamenti e torture. Pur con sfumature diverse, queste immagini tornano anche nei discorsi di molti esponenti diessini, da Mussi alla Melandri, che pure sono rimasti sorpresi dall’esito della consultazione elettorale. Nichi Vendola , il candidato della Gad alla Regione Puglia, che non s’è perso un solo corteo pacifista, ironizza invece polemico: «Mi chiedo: gli iracheni, per fare un favore a me che sono pacifista e un dispetto agli americani, che sono invasori, avrebbero forse dovuto rifiutarsi di votare? Ma è logico?». E poi Sergio Staino , il papà del fumetto più amato dalla sinistra italiana, «Bobo»: «Quelle donne in fila davanti ai seggi non possono farci dimenticare i corpi di tanti civili straziati dalle bombe...».
La memoria. «Io, in queste ore, cerco di averne - dice Furio Colombo , direttore dell’ Unità - e mi chiedo: era possibile eliminare Saddam senza intervenire militarmente? Era possibile non credere alle bugie che ci raccontarono, pur di scatenare la guerra, Bush, Blair e Berlusconi?».
UNA NUOVA MOZIONE? - A lanciarla è Fausto Bertinotti: «Saranno i gruppi parlamentari a deciderlo, ma io la presenterei: i soldati devono rientrare subito». Ammette il segretario di Rifondazione comunista: «Ogni volta che si va alle urne è un fatto positivo. Però con la guerra e il terrorismo il voto non è libero». Risponde subito il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio: «Sono assolutamente favorevole». Sul rientro «immediato» pensano la stessa cosa anche i Comunisti italiani e la sinistra diessina, a partire da Pietro Folena.
[...]
Sestopotere.com Martedì 1/2/2005 (11:19)
MODENA
AMATE IL CINEMA? A CARPI PER VOI C’E’ UN CORSO DI SCENEGGIATURA
(Sesto Potere) - Carpi - 31 gennaio 2005 - L’assessorato alle Politiche culturali del Comune di Carpi, la Biblioteca Comunale, la Videoteca Comunale, il Centro giovani Mac’è in collaborazione con la Libreria La Fenice propongono per il 2005 la prima edizione di un Corso di sceneggiatura, inserito nell’ambito del progetto Carpi Effetto Cinema.
Il corso si svolgerà il sabato pomeriggio da marzo a dicembre alla Sala dei Cimieri dell’Archivio storico comunale di Palazzo dei Pio e sarà tenuto da Chiara Laudani, sceneggiatrice e docente presso la Scuola Holden di Torino. Al corso (nel cui programma di lezioni teoriche e di momenti laboratoriali saranno parte integrante anche sette seminari tenuti da scrittori, registi, sceneggiatori e critici cinematografici) saranno ammesse al massimo venti persone di età compresa fra i 18 e i 35 anni. Lidia Ravera, Bruno Fornara, Sandro Petraglia, il regista Marco Bellocchio sono alcuni dei nomi dei prestigiosi relatori che si succederanno durante gli incontri. In particolare le due lezioni seminariali tenute dal critico cinematografico Bruno Fornara dal 15 al 17 aprile e dal 28 al 30 ottobre saranno ad ingresso libero.
Al modulo di iscrizione dovranno essere allegati il testo di un soggetto cinematografico (massimo cinque cartelle di lunghezza) e un breve curriculum. Le domande di ammissione dovranno pervenire entro sabato 5 marzo alla segreteria del corso, alla Biblioteca comunale. La partecipazione al corso prevede un costo di 250 euro da versare all’atto dell’iscrizione: al termine del programma verrà rilasciato un Attestato di frequenza. Le iscrizioni ai seminari, aperti anche a venti uditori esterni, verranno invece raccolte alla Libreria La Fenice di via Mazzini 15, a partire dal 4 aprile.
MODENA
AMATE IL CINEMA? A CARPI PER VOI C’E’ UN CORSO DI SCENEGGIATURA
(Sesto Potere) - Carpi - 31 gennaio 2005 - L’assessorato alle Politiche culturali del Comune di Carpi, la Biblioteca Comunale, la Videoteca Comunale, il Centro giovani Mac’è in collaborazione con la Libreria La Fenice propongono per il 2005 la prima edizione di un Corso di sceneggiatura, inserito nell’ambito del progetto Carpi Effetto Cinema.
Il corso si svolgerà il sabato pomeriggio da marzo a dicembre alla Sala dei Cimieri dell’Archivio storico comunale di Palazzo dei Pio e sarà tenuto da Chiara Laudani, sceneggiatrice e docente presso la Scuola Holden di Torino. Al corso (nel cui programma di lezioni teoriche e di momenti laboratoriali saranno parte integrante anche sette seminari tenuti da scrittori, registi, sceneggiatori e critici cinematografici) saranno ammesse al massimo venti persone di età compresa fra i 18 e i 35 anni. Lidia Ravera, Bruno Fornara, Sandro Petraglia, il regista Marco Bellocchio sono alcuni dei nomi dei prestigiosi relatori che si succederanno durante gli incontri. In particolare le due lezioni seminariali tenute dal critico cinematografico Bruno Fornara dal 15 al 17 aprile e dal 28 al 30 ottobre saranno ad ingresso libero.
Al modulo di iscrizione dovranno essere allegati il testo di un soggetto cinematografico (massimo cinque cartelle di lunghezza) e un breve curriculum. Le domande di ammissione dovranno pervenire entro sabato 5 marzo alla segreteria del corso, alla Biblioteca comunale. La partecipazione al corso prevede un costo di 250 euro da versare all’atto dell’iscrizione: al termine del programma verrà rilasciato un Attestato di frequenza. Le iscrizioni ai seminari, aperti anche a venti uditori esterni, verranno invece raccolte alla Libreria La Fenice di via Mazzini 15, a partire dal 4 aprile.
Per informazioni:
Biblioteca comunale, telefono 059 649952,
e-mail: biblioteca@carpidiem.it;
Videoteca comunale telefono 059 649926,
e-mail: videoteca@carpidiem.it;
Centro giovani Mac’è, telefono 059 649271.
(Sesto Potere)
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