Corriere della Sera 16.3.03
LE SUE PAROLE FERMA CONVINZIONE DELLA SUPERIORITÀ DELL’ARTE MA ANCHE PENSIERI INCOERENTI, DA PERSONALITÀ SCHIZOFRENICA
«Non parlatemi dei cubisti: cercano i mezzi, non la vita che li utilizza»
Francesca Basso
Sicuro del proprio valore e con un’alta concezione dell’arte. Fin da ragazzo Amedeo Modigliani, dall’aria un po’ sdegnosa e dalle maniere fredde, sapeva cosa voleva. Riflessivo e intellettuale, nel 1901, appena diciassettenne, scrive all’amico Oscar Ghiglia a proposito degli artisti: «Noi (scusa il noi) abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale. Il tuo dovere è di non consumarti mai nel sacrificio, il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno». L’arte viene prima di ogni cosa, come dimostra il lavoro di ricerca delle sue parole realizzato in questi anni da Marc Restellini. Continua Modigliani: «L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre ad abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi. Abituati a mettere i tuoi bisogni estetici al di sopra dei doveri degli uomini». Fin qui, niente di nuovo. Gli artisti da sempre hanno rivendicato la propria eccezionalità. Ma Modigliani, come sottolineava il medico-amico Paul Alexandre, «possedeva già, radicata in sé, la certezza del proprio valore. Sapeva di essere un iniziatore, non un epigono». Perché Modì sentiva che la sua arte veicolava un messaggio. «Stiamo costruendo un mondo nuovo utilizzando forme e colori - disse una volta l’artista al pittore Léopold Survage - ma è il pensiero il padrone di questo mondo nuovo». Per Restellini ci troviamo di fronte non a un pittore maledetto come ce lo ha tramandato la tradizione ma a un intellettuale «metafisico-spirituale». E il titolo dell’esposizione, che è ripreso da un messaggio che l’artista scrisse il 6 maggio 1913 ad Alexandre - «La felicità è un angelo dal volto severo. Il resuscitato» - punta l’accento proprio su questo aspetto.
Non solo, per Restellini, Modigliani aveva una personalità che presentava cenni di schizofrenia, messi in evidenza dalla sua introspezione malsana, dal rapporto inadeguato con il mondo esterno e dal suo senso di superiorità sugli altri. Il suo comportamento sconsiderato, dal rifiuto di eventuali lavori che gli avrebbero garantito la sopravvivenza all’apparente sicumera, ne sarebbe una prova così come la frase un po’ incoerente riportata in un album di disegni del 1907: «Ciò che cerco non è il reale né l’irreale, ma l’Inconscio, il mistero della Spontaneità della Razza» (dove non è chiara la seconda parte, in cui egli conia il neologismo francese Instinctivité e non si comprende se si riferisca al genere umano o alla razza ebraica).
La ricerca artistica di Modigliani aveva l’unico scopo, secondo Restellini, di creare la figura ideale, quella che permette l’introspezione più profonda attraverso una fisionomia anonima e inespressiva. Scriveva il pittore livornese: «È l’essere umano che mi interessa. Il volto è la suprema creazione della natura. Me ne servo senza sosta».
E proprio lo studio della figura lo ha legato alla ricerca estetica dell’avanguardia parigina, che egli tuttavia non frequentò. Anche la sua fase cubista fu, in realtà, «cubisteggiante». Lo si evince dalle stesse parole dell’artista all’amico Survage: «Non parlarmi dei cubisti; cercano soltanto i mezzi senza preoccuparsi della vita che li utilizza. Il genio deve penetrarla immediatamente».
«L’uomo sprigioni nuovi desideri dalla sua energia. Sennò è un borghese»
Corriere della Sera 16.3.03
Amava le donne e sapeva scorgere il loro destino
di Ulderico Munzi
L a personalità di Modigliani ha suggestionato per il senso sfuggente, e magico insieme, attribuito a ogni tratto: fisico, biografico, poetico. Anna Achmatova, che arriva a Parigi in viaggio di nozze nel 1910, scrive di lui: «Aveva la testa di Antinoo e gli occhi dalle scintille d’oro» (un’enfasi lirica che si insinua fra altre e contrastanti iconografie, che evocano il dandy, ma anche la dolente spettralità del «seduttore consumato dall’alcol e dalle droghe»). Anche la sua biografia sfuma, a volte, nell’incertezza (la data di nascita, l’inserimento nella grande avventura artistica di Montparnasse). Se poi ci si addentra nel discorso conoscitivo-ideativo (i dipinti, le sculture, i disegni su carta) il rapporto di causa ed effetto ci appare come un prisma enigmatico. Penso che ciò sia dovuto ad un’arcana identità che collega alcuni geni visionari che hanno subito una morte precoce più o meno alla stessa età. Modigliani, scomparso a 36 anni, come il Parmigianino, come Raffaello (o, in letteratura, se spostiamo, non di molto, in avanti la data, D. H. Lawrence). Cos’hanno in comune questi artisti, oltre a una prodigiosa produzione, quasi la vita abbia voluto compensare la sua brevità? Hanno, prima ancora di un’arte espressiva privilegiata, l’intima arte del presentimento. Da qui deriva, fortissimo, il loro mistero. Presentimento di ciò che il tempo riserva. E qui potremmo citare Borges quando, rovesciando il metodo di Plotino, comincia col ricordare le oscurità inerenti al tempo: mistero metafisico, naturale, che deve precedere l’eternità, la quale è figlia degli uomini. Soffermiamoci sugli spunti più semplici, ad esempio sulla singolarità delle figure femminili dipinte da Modigliani: quei colli lunghi, e le teste oblunghe, e la loro sensualità incisiva e perplessa, che sembra offrire se stessa e, insieme, provare timore per il proprio futuro. Figurativamente, le forme sono desunte dall’arte africana, che suggestionò il pittore. Ma, andando oltre, si può sostenere che Modigliani (come il Parmigianino, Raffaello, ecc.) sapeva vedere, con un potere medianico, al di là dell’apparenza delle sue donne, addirittura nel loro destino. Pensiamo a una delle donne più amate: Jeanne Hébuterne. Le sue foto ci mostrano una carnagione scura e un naso largo; nel ritratto del pittore, invece, la figura è pallida e col naso affilato. Modigliani sembra cogliere l’intima corruzione dei tessuti, delle cellule. Jeanne, incinta del secondo figlio e prossima al parto, si getta da un quinto piano il 26 gennaio 1920, appena un giorno dopo la morte dell’artista. Una fatalità sconvolgente cade su altre due donne molto amate da Modigliani. Simone Thirioux, che nel ’17 ebbe un figlio dal pittore, muore di tubercolosi nei primi anni Venti. Una terza amante, Beatrice Hastings, si suiciderà a Londra. La femminilità «dai colli lunghi» ha dunque l’inebriante languore della dolcezza del vivere amoroso e, al tempo stesso, l’amaro languore della fine. L’arte del presentimento corrisponde alle parole sibilline di Leonardo ricordate da Freud: «È piena d’infinite ragioni che non furono mai in isperienza». Ma furono, eccome, nella percezione medianica. Con la perentorietà del colpo d’occhio in cui si rovescia l’inconscio. I capolavori di Modigliani nascono da un’aggregazione di passato, presente e avvenire. E il ricordo va alle notti in cui Modigliani posava una candela accesa sopra ogni sua scultura per ottenerne l’effetto di un tempio primitivo. Non sotto l’effetto dell’hashish, come dice la leggenda. Ma per quella possessione di mistero che proiettava l’artista in una dimensione del tempo totalmente estranea al tempo oggettivo della logica.
Come Raffaello e Parmigianino, l’artista livornese possedeva la rara arte del presentimento: da qui deriva il suo mistero
Corriere della Sera 16.3.03
VITA D’ARTISTA I BAR, GLI AMORI, L’INDIGENZA: MODIGLIANI SI IMMERSE NELLA BOHÈME PARIGINA
A Montmartre, tra amici e fantasmi
Ulderico Munzi
Dopo una notte di pioggia la Montmartre dei tempi di Modigliani respirava a pieni polmoni. Dall’alto del Sacré-Coeur, Parigi era come distesa sotto lo sguardo del pittore che vi era arrivato nel 1906: un vestito di velluto, una camicia di tela bianca, un foulard rosso intorno al collo, una scatola di colori e pennelli e, nelle tasche, la Divina Commedia di Dante e Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Parigi era la sublime accademia del mondo dell’arte. E a Montmartre, che era uno dei suoi tanti «villaggi», abitavano, fianco a fianco, la bohème di scrittori e poeti e la bohème dei pittori. La città della diplomazia e degli affari, la capitale della Terza Repubblica, era come una dimensione diversa, estranea e talvolta ostile.
Lo sguardo del giovane pittore toscano poteva soffermarsi su un rutilante Picasso, che un giorno gli doveva manifestare la sua amicizia, su Van Dongen, Duchamp, Metzinger, Picabia, Severini e Bucci che si dividevano un atelier della rue Ballu. E poi capitava di vedere Renoir che conservava sempre il suo indirizzo nella rue Caulaincourt e anche Degas che stava nella rue de Laval.
Fu Anselmo Bucci che, passando davanti al piccolo negozio della poetessa inglese Laura Wylda, scoprì Modigliani: «Chi ha disegnato - chiese - quei tre volti femminili esangui e allucinati?». E qualche tempo dopo, diventati amici, Amedeo e Anselmo trovavano rifugio dal freddo in fondo al Café Vachette del Quartiere Latino, dove disegnavano e ascoltavano le prime orchestre jazz. Si diceva: «A Montmartre l’uomo non è un artista, ma un’opera d’arte». Lo studio di Modì, come lo chiamavano i francesi (e che profetica assonanza con la parola francese maudit che significa maledetto), si trovava nella rue Lepic. Piccolissimo. Si scorgeva una serra piena di fiori. Assieme a Severini si ritrovavano al Lapin Agile e il vino li portava verso lidi che solo pittori e poeti possono conoscere. Ai due italiani si unì un poeta, Max Jacob, che amava l’occultismo e che portò Picasso al Lapin Agile. Max e Amedeo avevano strane affinità anche perché percepivano, disse Picasso, il soffio dei fantasmi.
Fu Elvira, una modella dalle labbra sensuali e dagli occhi neri, figlia di un marinaio spagnolo e di una prostituta, che iniziò Modì alla droga. L’arte e l’indigenza, il bene e il male, nella Parigi di allora erano così intrecciati da confondersi in una specie di odissea. Modigliani non aveva più un soldo, moriva di fame, si trascinava nelle strade, mentre Montmartre continuava ad accogliere nomi sconosciuti all’arte ufficiale come Braque e Utrillo. Amedeo si legò d’amicizia soprattutto con quest’ultimo, lo inteneriva perché i bambini lo prendevano a sassate, come racconta nella biografia di Modigliani lo storico e critico d’arte Christian Parisot.
E dopo la droga venne l’assenzio. Il pittore ne aveva bisogno per calarsi nell’abisso della propria anima. E assieme a Utrillo si aggirava cantando nella notte di Montmartre. Nel 1910 Montparnasse cominciò ad attirare gli artisti, addio Lapin Agile: La Rotonde e Le Dôme divennero i loro ritrovi. S’apre il sipario sui grandi amori di Modigliani. Ecco che cede al fascino della poetessa russa Anna Gorenko, meglio conosciuta come Anna Achmatova. Sono i giorni d’un luogo magico chiamato La Ruche, l’alveare dell’arte, dove quegli uomini che non sapeva d’essere meravigliosi aspettavano che Dio provvedesse ai loro bisogni. Amedeo incontrò Cendrars, Chagall, Zadkine. Modì e Zadkine andavano a turno a chiedere l’elemosina e le donne danzavano nude nella casa di Van Dongen.
Ma per Modigliani l’esistenza era sempre sull’orlo del precipizio. Una sera, a La Rotonde, Ardengo Soffici lo vide avanzare declamando versi e vendendo disegni. Il suo volto era torturato e violento. Nel 1914 il legame con la scrittrice Béatrice Hastings sembrò aprire una speranza. Amedeo le recitava La Vita Nova e tutti dissero che s’era avviato verso una buona strada. Béatrice lo abbandonò nel 1917. E così Modì tornò al suo lento suicidio con l’alcol e la droga. Forse non aveva più voglia di vivere, la sua esistenza era un alternarsi mentale di luce e di buio. C’era un «tarlo», una specie di squilibrio mentale, che aveva tormentato per generazioni diversi membri della sua famiglia.
Ormai gironzolava nei cimiteri recitando I Canti di Maldoror di Lautréamont. La morte, sotto forma di tubercolosi, aveva fretta di possederlo. E lui, inconsciamente, voleva raggiungerla. Nessuno lo aveva veramente capito, tranne Jeanne Hébuterne, ultima compagna, con la quale, si disse, aveva stretto un patto: se muoio, devi morire con me.
Nella casa al numero 8 della rue de la Grande Chaumière, affittata per la coppia dal gallerista Zborowski, che cominciava a vendere all’estero i quadri di Amedeo, c’era fino a pochi anni fa una targa con scritto Atelier Modigliani. La scala era stretta e ripida, il luogo squallido. Nelle ore estreme Modigliani fu trovato su una panchina. Era senza cappotto, sotto una pioggia gelida. Delirava: «Sto aspettando una nave che mi porterà in un paese miracoloso». Fu portato a casa dove Jeanne, per riscaldarsi, aveva bruciato tutta la legna che aveva potuto trovare, persino le sedie.
Il pittore era in coma. Spirò il 24 gennaio 1920 in un ospedale dei poveri della rue Jacob che oggi non esiste più. Fu trasportato in processione al cimitero Père-Lachaise, divisione 96. C’erano Picasso, Soutine, Léger, Lipchitz, Severini, Ortiz de Zarate, Derain, Vlaminck Foujita, Utrillo, Jacob, Salmon. Nevicava. Un rabbino lesse la preghiera. E l’indomani Jeanne, incinta al nono mese, si buttò dalla finestra.
Con Severini frequentava il Lapin Agile, dove conobbe Picasso e trovò affinità esoteriche col poeta Max Jacob. L’incontro con la modella Elvira che lo iniziò alla droga. Affezionato a Utrillo che veniva preso a sassate dai bambini. Poi l’esodo nei locali di Montparnasse. Per l’amante Beatrice declamava Dante.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 16 marzo 2003
Corriere della Sera 16.3.03
ANCHE NEI RIFORMATORI Psicosi e depressione per la maggioranza dei giovani
La prestigiosa rivista Archivies of General Psychiatry ha appena pubblicato un altro studio degli psichiatri dell'Università di Chicago su 1829 reclusi con età fra 10 e 18 anni. E' risultato che le malattie mentali affliggono anche chi sta in riformatorio, costituendo un grosso problema per il sistema giudiziario e, a fine pena, per i servizi d'igiene mentale della sanità pubblica: una «bomba a tempo» (come l'ha chiamata ai microfoni della Bbc l'ispettore generale delle carceri britanniche sir David Ramsbotham), che va disinnescata finché questi giovani possono essere curati e seguiti. Senza contare i cosiddetti disturbi della condotta, pressoché scontati negli ospiti dei riformatori: quasi tre quarti delle ragazze e due terzi dei ragazzi presentano disturbi psichici. Metà sono dediti all'abuso di sostanze (alcol o droghe) e più del 40% presenta un disturbo da comportamento distruttivo. Assai comuni sono anche le turbe dell'umore: oltre il 20% delle ragazze soffre di depressione maggiore e, particolarmente nelle giovani bianche non ispaniche, i disturbi mentali in generale crescono con l'aumentare dell'età, specialmente dopo i 13 anni.
Secondo uno studio pubblicato a novembre sul British Journal of Psichiatry , il disturbo più comune fra i detenuti è la psicosi, soprattutto fra 16 e 20 anni e dopo i 40, in particolare fra chi è rimasto per un po' senza casa. A rischio di psicosi sono anche i detenuti che hanno cominciato ad abusare di amfetamine, cannabis e cocaina prima dei 16 anni, mentre gli eroinomani sembrano, inaspettatamente, esserne protetti.
ANCHE NEI RIFORMATORI Psicosi e depressione per la maggioranza dei giovani
La prestigiosa rivista Archivies of General Psychiatry ha appena pubblicato un altro studio degli psichiatri dell'Università di Chicago su 1829 reclusi con età fra 10 e 18 anni. E' risultato che le malattie mentali affliggono anche chi sta in riformatorio, costituendo un grosso problema per il sistema giudiziario e, a fine pena, per i servizi d'igiene mentale della sanità pubblica: una «bomba a tempo» (come l'ha chiamata ai microfoni della Bbc l'ispettore generale delle carceri britanniche sir David Ramsbotham), che va disinnescata finché questi giovani possono essere curati e seguiti. Senza contare i cosiddetti disturbi della condotta, pressoché scontati negli ospiti dei riformatori: quasi tre quarti delle ragazze e due terzi dei ragazzi presentano disturbi psichici. Metà sono dediti all'abuso di sostanze (alcol o droghe) e più del 40% presenta un disturbo da comportamento distruttivo. Assai comuni sono anche le turbe dell'umore: oltre il 20% delle ragazze soffre di depressione maggiore e, particolarmente nelle giovani bianche non ispaniche, i disturbi mentali in generale crescono con l'aumentare dell'età, specialmente dopo i 13 anni.
Secondo uno studio pubblicato a novembre sul British Journal of Psichiatry , il disturbo più comune fra i detenuti è la psicosi, soprattutto fra 16 e 20 anni e dopo i 40, in particolare fra chi è rimasto per un po' senza casa. A rischio di psicosi sono anche i detenuti che hanno cominciato ad abusare di amfetamine, cannabis e cocaina prima dei 16 anni, mentre gli eroinomani sembrano, inaspettatamente, esserne protetti.
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