Repubblica 7.5.05Noi, figli della resistenzal'eccessiva epica antifascista anni '50/'60 e i nemici di oggiVittorini e il suo passato fascistaIl grande pericolo della zona grigiaALBERTO ASOR ROSAQuand'ero giovane (più o meno fra cinquanta e quarant'anni fa: fine anni '50, metà anni '60), la mia generazione cominciò a non poterne più delle celebrazioni antifasciste e resistenziali. Intendiamoci: insofferenze, se non esigue, certo molto, molto minoritarie; le quali tuttavia avrebbero avuto qualche influenza sullo sviluppo successivo delle idee e degli eventi. Non riuscivamo a sopportare, più che i fatti in sé (il fuoriuscitismo, la lotta al fascismo durante il ventennio, l'insurrezione armata contro i nazisti e i fascisti), l'ideologia che c'era cresciuta sopra: l'esaltazione, soprattutto da parte comunista, del carattere rivoluzionario e storicamente «conclusivo» di quell'esperienza; l'enfatizzazione della natura felicemente compromissoria e (per noi) falsamente unitaria dell'alleanza democratica (il Cln), che ne era stato lo sbocco politico più conseguente.
Avevamo in testa altri modelli, cui non vale la pena di richiamarsi qui dettagliatamente. Fatto sta che, a partire da quella insofferenza, alcune operazioni di approfondimento critico furono tentate, e in questo approccio analitico e nei suoi risultati va cercato per quanto mi riguarda il filo di un discorso che lega quel lontano passato a questo presente.
Per esempio, scoprimmo allora, contro il parere di un grande maestro come Norberto Bobbio, che era esistita una larga e seria cultura fascista; e che dunque, se questo era accaduto, doveva essere stato necessario che il fascismo (prima in Italia, poi in Europa) fosse stato un processo profondo, radicato e ramificato negli strati più significativi della società, - non l'epifenomeno transitorio, di cui altri grandi intellettuali del tempo avevano parlato. Scoprimmo inoltre (noi, allora) che una parte consistente della più giovane generazione intellettuale antifascista (Vittorini, Pratolini, Bilenchi, ma non solo) era stata convintamente fascista nel tratto di ventennio che le era accaduto di vivere e che aveva in seguito fatto poca o nessuna autocritica; e che molti altri, più adulti e consapevoli di loro, pur non essendo stati fascisti, non erano stati alieni da debolezze, compromessi e compiacenze nei confronti del regime (come del resto è destinato ad accadere in qualsiasi altro sistema totalitario). E che dunque, nel rifiuto e nel trauma seguiti alla Liberazione, erano sopravvissute necessariamente continuità e contiguità, compromessi e censure, i quali nella zona grigia, che rapidamente s'era creata dopo i giorni della lotta e del riscatto, s'allargavano a macchia d'olio, determinando un persistente e fastidioso rumorio di fondo. Elio Vittorini, alla discoperta, esposta in modo forse poco generoso, del suo passato di militante fascista, non aveva saputo che replicare (imbarazzato, direi): «Il fatto è che si usciva dall'utero sozzo ch'era la storia di allora, ch'era l'eredità di quel momento. Da quell'utero sozzo non potevamo che uscire populisti» (Rinascita, suppl. n. 4, aprile 1965).
È esistito dunque un revisionismo di sinistra prima di quello di destra; il primo (mi pare di poter dire) enormemente più serio e responsabile del secondo, del quale (a parte il miserabile calcolo politico cui il più delle volte si ispira) si potrebbe sostenere al minimo che è completamente fuori fase storica, ossia anacronistico, ossia: non dice davvero nulla di più di quel che sapevamo già da vari decenni e lo dice fuori tempo massimo, quando le questioni sono ormai altre. Ma vediamo.
Cosa resta di quel nostro (mio) anti-antifascismo di allora? In primo luogo, mi pare il rifiuto del carattere onnicomprensivo e onnigiustificante dell'ideologia antifascista; in un secondo luogo, la volontà di leggere in maniera critica qualsiasi avvenimento della nostra storia, comprese la Resistenza e la Liberazione; infine, il nocciolo duro dell'analisi, e cioè la persuasione che tra il ventennio fascista e il dopoguerra repubblicano una quantità di fili erano rimasti tesi e ininterrotti. Per il resto, la prova dei trent'anni successivi è stata durissima.
Sperimentato drammaticamente che la formula politica resistenziale non era ripetibile (fallimento del «compromesso storico», messo a terra dall'offensiva congiunta di forze politiche e sociali conservatrici, di poteri occulti e del terrorismo rosso, grottesca e tragica deformazione della critica da sinistra all'antifascismo), abbiamo assistito al risorgere a poco a poco e all'affermarsi finale (per ora) di tutte quelle forze, sociali e politiche, che, invece di riflettere seriamente sui limiti delle predette continuità resistenziali, ne rigettavano o semplicemente ne ignoravano il tentativo di discontinuità, - l'ipotesi di «salto», insomma, - da cui quell'esperienza in qualche modo era stata contraddistinta.
Ne veniva per me dolorosamente confermata l'ipotesi che la società italiana (sì, proprio la società, prima che la cultura e il sistema politico), in condizioni di crisi acuta avrebbe potuto esprimere di nuovo i germi tutt'altro che riassorbiti di una vocazione decisionistica, autoritaria e populistica, se non proprio fascistica, come prima e durante il ventennio. La Resistenza, invece che una lotta di popolo per restituire all'Italia le perdute caratteristiche democratiche, diventava o un trascurabile incidente della storia o, al più, la manifestazione «di parte» di una più ampia «guerra civile» (formula quanto mai incauta e per giunta, almeno in Italia, del tutto infondata storicamente), ai cui protagonisti, come si dice oggi, andavano riconosciuti (alla fin fine e come minimo) eguale amor di patria e un'uguale dignità di combattenti.
Questo è l'equivoco politico-culturale, nel quale oggi siamo ancora immersi fino al collo. La negazione del carattere fondativo dell'esperienza resistenziale trascina con sé tutto il resto: il disprezzo per la democrazia, tanto più quanto più è partecipata: la volontà di snaturare la Costituzione, considerata il frutto indecente di quel tentativo di «salto» pararivoluzionario; una concezione malata (strumentale fino ai limiti della disonestà personale) della ricerca intellettuale e culturale. Questo pasticcio assume poi varie forme.
La Lega spregia e respinge della Resistenza l'ispirazione unitaria e il legame con la storia passata d'Italia: la partigianeria non operò per questa o quella valle ma per l'insieme, non rompendo ma inverando a livello popolare l'elitistica eredità risorgimentale. Quanto a An, non nego che Fini si possa definire attualmente non fascista. Tuttavia, egli non può dirsi in nessun modo favorevole alla Resistenza e suo, seppure postumo, sostenitore, non solo perché, se lo facesse, perderebbe tre quarti dei suoi seguaci, fra i quali i fascisti autentici non sono ancora minoranza, ma perché è nella sua cultura adottare il compromesso di oggi ma non le sue imprescindibili premesse di ieri (vedi Fiuggi e addentellati successivi).
Ma, come al solito, il Cavaliere svetta su tutti, è il vero e riconosciuto simbolo ed eroe di questo pezzo della società italiana, cresciuto, non dimentichiamolo, nello sfascio (lungo, tormentoso, estenuante) della prima Repubblica. Nell'impossibilità (forse nella superfluità) di un esame più complessivo delle sue posizioni e dichiarazioni, mi limiterò a concentrarmi su di una sua «frasetta», tanto più significativa in quanto pronunciata nei giorni dell´ascesa e del trionfo e sfuggita, se non erro, finora all'analisi sia dei letterati sia dei politici. Il racconto che vado a riepilogare è contenuto in una pubblicazione il cui titolo è già di per sé rappresentativo dell'esemplarità che i suoi anonimi autori vollero attribuirgli: Una storia italiana. Apparve poco prima delle elezioni politiche del 2001 e gli analisti sostennero che il suo carattere smaccatamente apologetico contribuì a fargliele vincere. All'inizio del racconto è però il Cavaliere in prima persona (virgolettato e corsivato) a parlare di sé e a narrare dei suoi anni infantili in coincidenza con la grande crisi aperta con l´8 settembre 1943. Racconta il Cavaliere: «Mio padre era militare al momento della disfatta. I tedeschi avevano iniziato la caccia al soldato italiano e lui si fece convincere da alcuni suoi amici a riparare con loro in Svizzera». Segue la storica «frasetta»: «Fece la scelta giusta. Salvò la sua vita e salvò il futuro di tutti noi».
Credo che raramente nelle scritture letterarie mi sia capitato di trovare racchiusa in una proposizione tanto breve significati tanto vasti e profondi. Il Cavaliere non è mai andato alle celebrazioni del 25 aprile (e farebbe bene a non andarci mai), perché, se tutti i giovani italiani avessero fatto come il suo babbo, la Resistenza non ci sarebbe mai stata ma tante, tantissime famiglie italiane avrebbero potuto pensare più tranquillamente al loro futuro, non importa naturalmente se sotto il tallone tedesco e fascista oppure imbellamente «liberate» come bestiame inerme dalle truppe alleate. La Resistenza, dunque, «giustamente» non lo riguarda, anzi, se suo padre vi avesse partecipato, lui molto probabilmente non avrebbe avuto Mediaset.
Torniamo al generale. Fra i due acerrimi e incomponibili contendenti, gli eredi della Resistenza e quelli di Salò (incomponibili, ma ambedue, per usare la formula berlusconiana, «scesi in campo»), s'è allargata in questi ultimi anni la grande zona grigia dei «fece la scelta giusta». È questo il più grande nemico di oggi e di domani. Forse l'antifascismo non costituisce più una categoria a livello strettamente politico (alla pari di anticomunismo), ma certo esiste e funziona ancora benissimo la cultura del «salto» resistenziale e della legalità repubblicana: due universi che non si possono separare, perché vivono tuttora in funzione l'uno dell'altro, e chi li separa finisce per attentare all'unità del processo storico da cui siamo nati e nel cui solco intendiamo restare per non rischiare snaturamenti paurosi. Insomma: il nemico ha cambiato volto, ma la Resistenza non ha ancora raggiunto tutti i suoi obbiettivi, anzi, nel frattempo altri nuovi le si sono parati davanti. Dunque continua.