domenica 8 maggio 2005

neurologi Usa e depressione

Ansa 8.5.05
Cervello: gene controlla-umore può raddoppiare depressione
Ricerca Usa su serotonina e suoi effetti

(ANSA) - ROMA, 8 MAG - Il gene che controlla l'ormone legato all'umore, la serotonina, puo' far raddoppiare il rischio di depressione, rivela una ricerca Usa. L'ipotesi e' che livelli di serotonina anomali influenzino il funzionamento dei centri nervosi che controllano la paura e le emozioni negative. Pare che un difetto del gene che controlla il livello di serotonina nel cervello (5-HTTLPR) causi anomalie funzionali o strutturali che si riscontrano nel cervello dei depressi.

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Apcom 8.5.05
MEDICINA
FORSE SCOPERTE LE BASI FISIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE
Alla base ci sarebbe un'alterazione genetica

Roma, 8 mag. (Apcom) - La depressione avrebbe origine da cambiamenti fisiologici del cervello, causati, come rivela una ricerca che sarà pubblicata sul numero di giugno di Nature Neuroscience, da un gene alterato. Secondo lo studio fatto da Daniel R. Weinberger, National Institute of Mental Health, NIH, Bethesda, MD, USA, persone sane, portatrici di questo gene, sarebbero più esposte alla depressione ed avrebbero un'alterazione dell'attività dei circuiti cerebrali coinvolti nelle emozioni.
Weinberger, insieme ai suoi colleghi avrebbe scoperto, grazie anche all'uso di metodiche di imaging cerebrale, un'associazione tra un alto rischio di cadere nella depressione, con la presenza di una mutazione di un gene che controlla i livelli cerebrali della serotonina, un ormone che sembra avere un ruolo importante nella regolazione dell'umore. Di conseguenza, secondo i ricercatori, le persone che sono portatrici di questa forma mutata, sono maggiormente esposte a sviluppare questa patologia soprattutto se in condizioni di stress o se hanno vissuto o stanno vivendo esperienze di vita traumatiche.
Ma come è arrivato a questa conclusione Weinberger? Da studi precedenti fatti su persone depresse si era visto, grazie alla RMI, che il loro cervello mostrava cambiamenti fisiologici piuttosto anomali, che non si sapeva se erano da attribuire alla depressione o se, invece, fossero già presenti prima della sua comparsa. Weinberger ha voluto verificare come stavano realmente le cose. Ha reclutato un centinaio di pazienti apparentemente sani, che non avevano mai avuto problemi di depressione e li ha sottoposti ad indagini con la RMI. Alla fine ha potuto constatare, facendo anche altre analisi di laboratorio, che nel campione indagato, le persone portatrici del gene alterato, mostravano anche una riduzione del volume cerebrale e una comunicazione difettosa, in diverse regioni del cervello, dei circuiti cerebrali deputati al controllo delle risposte emotive negative.
Questi risultati, sottolineano gli scienziati, suggeriscono l'importante ruolo dei geni nel determinare la conformazione e la funzionalità del cervello, che a loro volta contribuiscono alle variazioni individuali del temperamento e della vulnerabilità di problemi dell'umore.
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Bertinotti contro Bush

APCOM 8.5.05
9 MAGGIO 1945
BERTINOTTI: INTOLLERABILE LA DENUNCIA DI BUSH DI YALTA
Per giustificare guerra in Iraq sminuisce la vittoria dell'umanità

Roma, 8 mag. (Apcom)- "Si celebra in molti Paesi la liberazione dal nazi-fascismo. A sessant'anni da quell'avvenimento che ha cambiato il mondo resta irrisolta proprio ciò che allora sembrava conquistata per sempre: la pace". E' quanto afferma il segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti.
"Di fronte a questo dramma del mondo contemporaneo - aggiunge Bertinotti - appare intollerabile la denuncia di Bush degli accordi di Yalta. Quasi che per giustificare la guerra in Iraq si debba mettere in discussione proprio il senso di quella vittoria dell'umanità".
"Ora siamo oltre Yalta - prosegue il leader di Rifondazione comunista - ma invece che in un mondo di pace, sotto l'egida di un'Onu rinnovata, siamo in guerra. Perciò sentiamo forte la necessità di un contributo dell'Italia alla pace. Per questo bisogna tornare al senso profondo e inequivoco del ripudio della guerra sancito dall'art.11 della Costituzione".
Il ritiro delle truppe italiane dall'Ira, conclude Bertinotti, è una "necessità".

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il popolo sovietico, non Stalin, vinse la guerra

Il Mattino 8.5.05
«Stalin? Solo un simbolo: a vincere fu il popolo sovietico»
g.d’am.


Mosca. «Il 9 maggio 1945 fu una festa incredibile». L’accademico Sigurd Schmidt, figlio del celebre esploratore polare Otto, ricorda quel giorno di 60 anni fa come se fosse ieri. «Non si riusciva a riconoscere Mosca – racconta l’ottantrenne storico di fama mondiale, uno dei membri più influenti dell’intellighentzia russa -. Tutti si baciavano, si abbracciavano. Non si poteva quasi percorrere la Piazza Rossa. I reduci dal fronte e i tanti stranieri, soprattutto britannici, nostri alleati, venivano portati in trionfo. Noi studenti organizzammo una manifestazione che passò davanti alle ambasciate amiche, francese, inglese, americana. Certo per molti non era una festa: tante sono state le perdite».
Ben 27 milioni sono stati i morti sovietici: il doppio delle perdite di tutti gli Alleati. Che significato ha questa pagina nella storia russa?
«Enorme. La vittoria sul nazismo ha salvato il Paese dall’occupazione e dalla distruzione del suo patrimonio culturale. I piani dei tedeschi prevedevano di eliminare la cultura slava e russa dopo quella ebraica. Poi, in secondo luogo, abbiamo recuperato l’orgoglio perso: il ruolo dell’Urss è stato fondamentale nel trionfo alleato. Sono dispiaciuto che all’estero, ora, le nuove generazioni abbiano visioni diverse. I sovietici hanno liberato Berlino ed hanno sofferto più di tutti delle conseguenze della guerra. Per un breve periodo, circa un anno, l’intellighentzia, ritornata in patria dopo il conflitto, sperò in un nuovo corso, più liberale. Fu, però, un’illusione temporanea».
Stalin e la vittoria. Tante sono oggi le polemiche.
«Il suo fu un ruolo più psicologico che reale. In lui milioni di persone credevano. Era come un garante del successo. In realtà, Stalin era responsabile per non aver preparato il Paese alla guerra. L’avevano avvertito, ma lui fece eliminare i migliori quadri delle Forze armate. Dunque la vittoria fu del popolo sovietico. La guerra fu un enorme evento psicologico dopo la repressione. La gente era impaurita ed aveva perso la fiducia nel socialismo, che mostrava il volto del totalitarismo. Ma con la guerra, la difesa della patria venne posta sopra a tutto. Vi furono dei figli di ”nemici del popolo“, alcuni li conobbi io personalmente, che si fecero mandare al fronte per mostrare che la loro famiglia era composta da patrioti».
Ma non è in corso oggi in Russia una pericolosa revisione storica?
«In Russia si è giustamente tornati a parlare di Stalin. Per la generazione della guerra, per quelli che sono andati a morire in suo nome, Stalin ha rappresentato qualcosa di importante nonostante i suoi crimini».
L’accademico Afanasiev, uno dei promotori della perestrojka, accusa il potere di imporre una propria visione storica, basata sui concetti di nazione, slavofilia, ortodossia. Cosa ne pensa?
«Quella di Afanasiev è una visione legata a determinati circoli politici. In realtà dagli anni Ottanta in Russia si possono esprimere benissimo opinioni diverse da quelle ufficiali. E Afanasiev tranquillamente può pubblicare articoli contro Putin».

pubblicate le lezioni di Basilea di Nietzsche

La Sicilia 8.5.05
Università, le lezioni inedite di Nietzsche
A. G.

«I filosofi preplatonici» di F. Nietzsche, volume curato dall'ordinario di Storia della Filosofia, Piero Di Giovanni, e presentato al pubblico da Aniello Montano dell'Università di Salerno e da Domenico Fazio dell'Università di Lecce è stato presentato ieri in un noto albergo di via Roma. Si tratta delle lezioni inedite che Nietzsche tenne a Basilea negli anni giovanili e che adesso vengono riproposti in una seconda edizione che l'autore ha realizzato per la casa editrice Laterza . Al convegno ha partecipato anche il giornalista-scrittore Claudio Zarcone, che ha affrontato il tema: «Nietzsche, delle molteplici strade». «Oggi viene riproposto - spiega Di Giovanni - questo testo , con delle novità essenziali:il nuovo saggio introduttivo riveduto e ampliato, note critiche aggiunte al testo delle lezioni di Nietzsche e il trasferimento a pie' di pagina delle citazioni di frammenti dei filosofi preplatonici, più le citazioni dei saggi consultati dallo stesso Nietzsche. I greci, con quella curiosità di fondo che li spingeva a interrogarsi sulla natura del mondo, tesero, attraverso la filosofia, a sfuggire all'occhio impigrito delle tenebre e non è occasionale che ancora oggi i filosofi preplatonici vengano riconosciuti universalmente «indagatori straordinari» e degni «rappresentanti del genio greco». «Di Giovanni, interprete attento delle dinamiche culturali dei nostri tempi - conclude Zarcone - fa un salto nel passato con uno dei pensatori più controversi, per dimostrarci, qualora ce ne fosse bisogno, che il passato ci è sempre contemporaneo la parola ha una grande potenza disvelatrice ecco perché la "perfidia" del linguaggio di Nietzsche, le sue metafore, i traslati, ci permettono di guardare al molteplice e alle sue insidie con "mille occhi" consentendoci così di affrontare il molteplice stesso, ovvero la maledizione del divenire».

Don Chisciotte, secondo Erri De Luca

Il Mattino 8.5.05
Don Chisciotte il visionario

Una domenica con Erri De Luca al Salone di Torino: lo scrittore napoletano, appena rientrato dall’Himalaya, terrà una conferenza sul tema del sogno, leit-motiv della Fiera. De Luca parlerà su «Don Chisciotte l’invincibile», omaggio a Cervantes.
Erri De Luca: Delle due volte che ho letto le avventure di Don Chisciotte, non ricordo il racconto di un suo sogno. Il titolo di sognatore, a mia memoria almeno, non gli si addice. La sua tempra è di quelle che esauriscono il necessario sfogo di sognare senza chiudere gli occhi, in stato di veglia, coi sensi ben presenti. Dorme poco e la sua insonnia brulica di visioni, incantesimi, apparizioni, insomma il repertorio della febbre. Il sognatore il sogno lo subisce, ma pure quando è atroce e lo minaccia a morte, ne esce illeso con un provvidenziale colpo di risveglio. Al contrario, Chisciotte è un visionario, uno che sta in piena realtà sensibile con la vocazione di agire per correggerla. Dove si parla di sognatori e sogni, lui è clinicamente fuori posto. Altra diceria che non lo riguarda è l’utopia, ingegneria che predica con petulanza un altrove migliore, un luogo venturo di minuziosa e molesta perfezione. La «Repubblica» di Platone manda al potere i filosofi ed espelle dalla città i poeti. L’utopia, progetto di felicità forzate, esclude la realtà e fonda fuori di esse la sua disciplinata città futura. Chisciotte, predicando di essere venuto a ristabilire l’epopea dei cavalieri erranti, compie la sua missione subito e dappertutto, la vuole realizzata sul posto e sul momento, qui ora, appena se ne presenti il caso e l’avventura. Non coltiva giardini recintati, batte le strade del suo tempo per riparare i torti. Li riconosce anche sotto i molti travestimenti, si lancia magro e solitario contro le sopraffazioni. Chisciotte vuole smascherare, sa che il suo nemico si camuffa: se gigantesco, si traveste da mulino a vento, se rapitore di fanciulle, prende aspetto di una cerimonia religiosa che trasporta una statua di madonna. Il mondo a lui dinnanzi, sta sotto un incantesimo che a lui spetta svelare, dissipare. Né sognatore, né utopista, Chisciotte, l’invincibile che non ne vince una, resta invincibile perché da nessuna sconfitta annientato, anzi da ogni sconfitta resuscitato per battersi di nuovo. Fosse risorto, riscritto oggi, Chisciotte vedrebbe nei soldati spediti in Irak in missione di pace, una forza di guerra in casa d’altri. Vedrebbe sotto il nome ospitale di «Centri di prima accoglienza», recinti fuorilegge per rinchiudere stranieri di passaggio. Vedrebbe nella chiusura del processo per la strage di Milano del 1969, un’assoluzione dello Stato di allora che imbrogliò le indagini e le carte, più che il proscioglimento di tre esecutori decrepiti e al sicuro. Chisciotte il visionario sarebbe fuori da ogni schieramento e non si farebbe rinchiudere nel padiglione letterario dei sognatori e degli abbindolati da utopia. Infine non avrebbe, così come non ha, uno straccio di scrittore che lo canti di nuovo.

Asor Rosa

Repubblica 7.5.05
Noi, figli della resistenza
l'eccessiva epica antifascista anni '50/'60 e i nemici di oggi
Vittorini e il suo passato fascista
Il grande pericolo della zona grigia
ALBERTO ASOR ROSA

Quand'ero giovane (più o meno fra cinquanta e quarant'anni fa: fine anni '50, metà anni '60), la mia generazione cominciò a non poterne più delle celebrazioni antifasciste e resistenziali. Intendiamoci: insofferenze, se non esigue, certo molto, molto minoritarie; le quali tuttavia avrebbero avuto qualche influenza sullo sviluppo successivo delle idee e degli eventi. Non riuscivamo a sopportare, più che i fatti in sé (il fuoriuscitismo, la lotta al fascismo durante il ventennio, l'insurrezione armata contro i nazisti e i fascisti), l'ideologia che c'era cresciuta sopra: l'esaltazione, soprattutto da parte comunista, del carattere rivoluzionario e storicamente «conclusivo» di quell'esperienza; l'enfatizzazione della natura felicemente compromissoria e (per noi) falsamente unitaria dell'alleanza democratica (il Cln), che ne era stato lo sbocco politico più conseguente.
Avevamo in testa altri modelli, cui non vale la pena di richiamarsi qui dettagliatamente. Fatto sta che, a partire da quella insofferenza, alcune operazioni di approfondimento critico furono tentate, e in questo approccio analitico e nei suoi risultati va cercato per quanto mi riguarda il filo di un discorso che lega quel lontano passato a questo presente.
Per esempio, scoprimmo allora, contro il parere di un grande maestro come Norberto Bobbio, che era esistita una larga e seria cultura fascista; e che dunque, se questo era accaduto, doveva essere stato necessario che il fascismo (prima in Italia, poi in Europa) fosse stato un processo profondo, radicato e ramificato negli strati più significativi della società, - non l'epifenomeno transitorio, di cui altri grandi intellettuali del tempo avevano parlato. Scoprimmo inoltre (noi, allora) che una parte consistente della più giovane generazione intellettuale antifascista (Vittorini, Pratolini, Bilenchi, ma non solo) era stata convintamente fascista nel tratto di ventennio che le era accaduto di vivere e che aveva in seguito fatto poca o nessuna autocritica; e che molti altri, più adulti e consapevoli di loro, pur non essendo stati fascisti, non erano stati alieni da debolezze, compromessi e compiacenze nei confronti del regime (come del resto è destinato ad accadere in qualsiasi altro sistema totalitario). E che dunque, nel rifiuto e nel trauma seguiti alla Liberazione, erano sopravvissute necessariamente continuità e contiguità, compromessi e censure, i quali nella zona grigia, che rapidamente s'era creata dopo i giorni della lotta e del riscatto, s'allargavano a macchia d'olio, determinando un persistente e fastidioso rumorio di fondo. Elio Vittorini, alla discoperta, esposta in modo forse poco generoso, del suo passato di militante fascista, non aveva saputo che replicare (imbarazzato, direi): «Il fatto è che si usciva dall'utero sozzo ch'era la storia di allora, ch'era l'eredità di quel momento. Da quell'utero sozzo non potevamo che uscire populisti» (Rinascita, suppl. n. 4, aprile 1965).
È esistito dunque un revisionismo di sinistra prima di quello di destra; il primo (mi pare di poter dire) enormemente più serio e responsabile del secondo, del quale (a parte il miserabile calcolo politico cui il più delle volte si ispira) si potrebbe sostenere al minimo che è completamente fuori fase storica, ossia anacronistico, ossia: non dice davvero nulla di più di quel che sapevamo già da vari decenni e lo dice fuori tempo massimo, quando le questioni sono ormai altre. Ma vediamo.
Cosa resta di quel nostro (mio) anti-antifascismo di allora? In primo luogo, mi pare il rifiuto del carattere onnicomprensivo e onnigiustificante dell'ideologia antifascista; in un secondo luogo, la volontà di leggere in maniera critica qualsiasi avvenimento della nostra storia, comprese la Resistenza e la Liberazione; infine, il nocciolo duro dell'analisi, e cioè la persuasione che tra il ventennio fascista e il dopoguerra repubblicano una quantità di fili erano rimasti tesi e ininterrotti. Per il resto, la prova dei trent'anni successivi è stata durissima.
Sperimentato drammaticamente che la formula politica resistenziale non era ripetibile (fallimento del «compromesso storico», messo a terra dall'offensiva congiunta di forze politiche e sociali conservatrici, di poteri occulti e del terrorismo rosso, grottesca e tragica deformazione della critica da sinistra all'antifascismo), abbiamo assistito al risorgere a poco a poco e all'affermarsi finale (per ora) di tutte quelle forze, sociali e politiche, che, invece di riflettere seriamente sui limiti delle predette continuità resistenziali, ne rigettavano o semplicemente ne ignoravano il tentativo di discontinuità, - l'ipotesi di «salto», insomma, - da cui quell'esperienza in qualche modo era stata contraddistinta.
Ne veniva per me dolorosamente confermata l'ipotesi che la società italiana (sì, proprio la società, prima che la cultura e il sistema politico), in condizioni di crisi acuta avrebbe potuto esprimere di nuovo i germi tutt'altro che riassorbiti di una vocazione decisionistica, autoritaria e populistica, se non proprio fascistica, come prima e durante il ventennio. La Resistenza, invece che una lotta di popolo per restituire all'Italia le perdute caratteristiche democratiche, diventava o un trascurabile incidente della storia o, al più, la manifestazione «di parte» di una più ampia «guerra civile» (formula quanto mai incauta e per giunta, almeno in Italia, del tutto infondata storicamente), ai cui protagonisti, come si dice oggi, andavano riconosciuti (alla fin fine e come minimo) eguale amor di patria e un'uguale dignità di combattenti.
Questo è l'equivoco politico-culturale, nel quale oggi siamo ancora immersi fino al collo. La negazione del carattere fondativo dell'esperienza resistenziale trascina con sé tutto il resto: il disprezzo per la democrazia, tanto più quanto più è partecipata: la volontà di snaturare la Costituzione, considerata il frutto indecente di quel tentativo di «salto» pararivoluzionario; una concezione malata (strumentale fino ai limiti della disonestà personale) della ricerca intellettuale e culturale. Questo pasticcio assume poi varie forme.
La Lega spregia e respinge della Resistenza l'ispirazione unitaria e il legame con la storia passata d'Italia: la partigianeria non operò per questa o quella valle ma per l'insieme, non rompendo ma inverando a livello popolare l'elitistica eredità risorgimentale. Quanto a An, non nego che Fini si possa definire attualmente non fascista. Tuttavia, egli non può dirsi in nessun modo favorevole alla Resistenza e suo, seppure postumo, sostenitore, non solo perché, se lo facesse, perderebbe tre quarti dei suoi seguaci, fra i quali i fascisti autentici non sono ancora minoranza, ma perché è nella sua cultura adottare il compromesso di oggi ma non le sue imprescindibili premesse di ieri (vedi Fiuggi e addentellati successivi).
Ma, come al solito, il Cavaliere svetta su tutti, è il vero e riconosciuto simbolo ed eroe di questo pezzo della società italiana, cresciuto, non dimentichiamolo, nello sfascio (lungo, tormentoso, estenuante) della prima Repubblica. Nell'impossibilità (forse nella superfluità) di un esame più complessivo delle sue posizioni e dichiarazioni, mi limiterò a concentrarmi su di una sua «frasetta», tanto più significativa in quanto pronunciata nei giorni dell´ascesa e del trionfo e sfuggita, se non erro, finora all'analisi sia dei letterati sia dei politici. Il racconto che vado a riepilogare è contenuto in una pubblicazione il cui titolo è già di per sé rappresentativo dell'esemplarità che i suoi anonimi autori vollero attribuirgli: Una storia italiana. Apparve poco prima delle elezioni politiche del 2001 e gli analisti sostennero che il suo carattere smaccatamente apologetico contribuì a fargliele vincere. All'inizio del racconto è però il Cavaliere in prima persona (virgolettato e corsivato) a parlare di sé e a narrare dei suoi anni infantili in coincidenza con la grande crisi aperta con l´8 settembre 1943. Racconta il Cavaliere: «Mio padre era militare al momento della disfatta. I tedeschi avevano iniziato la caccia al soldato italiano e lui si fece convincere da alcuni suoi amici a riparare con loro in Svizzera». Segue la storica «frasetta»: «Fece la scelta giusta. Salvò la sua vita e salvò il futuro di tutti noi».
Credo che raramente nelle scritture letterarie mi sia capitato di trovare racchiusa in una proposizione tanto breve significati tanto vasti e profondi. Il Cavaliere non è mai andato alle celebrazioni del 25 aprile (e farebbe bene a non andarci mai), perché, se tutti i giovani italiani avessero fatto come il suo babbo, la Resistenza non ci sarebbe mai stata ma tante, tantissime famiglie italiane avrebbero potuto pensare più tranquillamente al loro futuro, non importa naturalmente se sotto il tallone tedesco e fascista oppure imbellamente «liberate» come bestiame inerme dalle truppe alleate. La Resistenza, dunque, «giustamente» non lo riguarda, anzi, se suo padre vi avesse partecipato, lui molto probabilmente non avrebbe avuto Mediaset.
Torniamo al generale. Fra i due acerrimi e incomponibili contendenti, gli eredi della Resistenza e quelli di Salò (incomponibili, ma ambedue, per usare la formula berlusconiana, «scesi in campo»), s'è allargata in questi ultimi anni la grande zona grigia dei «fece la scelta giusta». È questo il più grande nemico di oggi e di domani. Forse l'antifascismo non costituisce più una categoria a livello strettamente politico (alla pari di anticomunismo), ma certo esiste e funziona ancora benissimo la cultura del «salto» resistenziale e della legalità repubblicana: due universi che non si possono separare, perché vivono tuttora in funzione l'uno dell'altro, e chi li separa finisce per attentare all'unità del processo storico da cui siamo nati e nel cui solco intendiamo restare per non rischiare snaturamenti paurosi. Insomma: il nemico ha cambiato volto, ma la Resistenza non ha ancora raggiunto tutti i suoi obbiettivi, anzi, nel frattempo altri nuovi le si sono parati davanti. Dunque continua.

furtarelli..?

Corriere della Sera Salute 8.5.05
Non riuscite a dire «no»?
Dovete imparare
Psicologia. Chi acconsente sempre ad ogni richiesta, chi nasconde il proprio dissenso non è una persona «molto gentile»: è piuttosto, qualcuno che non rispetta se stesso.
Per riuscire a dire di no, bisogna allontanarsi dall'identificazione con l'altro e ritrovare la propria autonomia, che non vuol dire egocentrismo, ma capacità di focalizzarsi su se stessi
Gabriella Lotto

Corinne Sweet, Come dire di no, 2004 Armenia Milano

L' autrice individua quattro trappole che ci spingono a dire di sì controvoglia: voler essere gentili; voler essere amati, rispettati, accettati; la paura di perdere amici, amanti, lavoro, famiglia; la sensazione di non avere il diritto di dire di no. Il libro ha le caratteristiche di un manuale pratico. Corinne Sweet, giornalista e coordinatrice di gruppi di counseling, adotta un orientamento cognitivo-comportamentale: è dell'opinione che il modo di agire possa essere modificato intervenendo sui pensieri e invitando il lettore a sperimentare nuovi modelli di comportamento. Come rimedi, prescrive frasi da mandare a memoria come mantra, o esercitazioni in cui si dovrebbe agire "come se". Cioè come se fossimo già sicuri di noi stessi e assertivi fino a quando il nuovo comportamento si rinforza, sovrasta le vecchie abitudini, diventa spontaneo.
Il manuale è ricco di esempi: l'autrice ricostruisce dialoghi tipici in cui si nota l'esito del dire di sì; poi la stessa situazione viene ripetuta, questa volta con l'uso del no.
Scelte
Riguardo alla necessità di modificare il proprio comportamento, commenta: «E' solo una questione di scelta. Se riuscite a fermarvi e a chiedervi "E' questo che voglio?", saprete agire per il meglio dal prossimo minuto».
Ma è davvero facile cambiare? Lella Ravasi Bellocchio, scrittrice e psicanalista junghiana del CIPA (Centro italiano di psicologia analitica), risponde: «Il cambiamento è un processo che dura tutta la vita. Quello vero, interiore, richiede la pazienza di passare attraverso i diversi stadi della trasformazione e l'intelligenza per saper riflettere su di sé».
Per la donna spesso è più difficile dire di no, il motivo?
«La donna - spiega Ravasi Bellocchio- è spesso in conflitto con una parte di sé, il lato materno accogliente, che la spinge a mettersi nei panni dell'altro. Per poter dire di no deve allontanarsi dall'identificazione con l'altro e ritrovare la propria autonomia, che non vuol dire egocentrismo, ma capacità di focalizzarsi su se stessa, avere rispetto verso se stessi». L’eterno dibattito relativo al mettere al primo posto se stessi o gli altri può trovare soluzione in un ragionevole equilibrio mediano.
L'importante è riuscire a scegliere consapevolmente l’atteggiamento da adottare e non sentirsi schiavi della compulsività.
La socio-psicologa Paola Leonardi, fondatrice del Centro Autostima Donna (Milano) ritiene che l'aumento dell'autostima, storicamente carente nella donna, sia un traguardo importante per evitare le trappole del sì. Rinvigoriti dall'autostima, si inizia a credere che il no non porta necessariamente all'abbandono e, se dovesse accadere, avremo fiducia nel fatto che riusciremo a crearci nuovi affetti. «Nel rapporto uomo-donna - aggiunge - ci sono aspettative reciproche che rendono difficile dire di no. Questo è tipico di una relazione tradizionale in cui la divisione dei ruoli è stereotipata».
Passiamo all'infanzia: i "no" dei bambini sono solo capricci? «Nel periodo dei no a oltranza è importante lasciare esprimere il bambino, perché la scoperta di questa nuova difesa dal potere che i "grandi" hanno su di lui segna l'inizio della autodeterminazione, un passo importante nella formazione del senso di sé . Viceversa, è rilevante che il genitore sappia dire di no al bambino, spiegandone le ragioni, per insegnare al figlio ad accettare limiti, regole, per abituarlo alla natura reale e ordinaria del dissenso nell'esistenza».
Conformismo
Il dissenso si affronta quotidianamente, viene naturale pensare che non sia solo un problema dell'individuo, ma abbia anche una dimensione sociale. Michele Stufflesser, psicanalista della SPI (Società psicoanalitica italiana) e primario psichiatra all'ospedale di Sesto San Giovanni (Mi), spiega: «Dire di no è importante per difendersi dal conformismo. Nella nostra società, sempre più competitiva e consumistica, c'è spesso un'adesione acritica a un modello culturale narcisistico. Può essere importante fare l'elogio dell'indignazione, cioè dire di no a quello che sentiamo sbagliato e inaccettabile. C'è un appiattimento delle idee che porta all'indifferenza e all'acquisizione di un pensiero prevalentemente centrato sulla concretezza e sull'esteriorità. Manca lo stimolo per recuperare convinzioni personali».
Ma in che misura si dovrebbe dispensare il sì o il no? «Dire troppi no rende l'individuo rigido, incapace di accettare l'altro diverso da sé. Pronunciare troppi sì, invece, può essere espressione di un atteggiamento psichico onnipotente per cui non esistono limiti e regole» conclude Stufflesser.

Marco Bellocchio e Francesca Calvelli coproduttori di un film su Italo Calvino

La Stampa 8.5.05
A Sanremo si gira un film su Calvino

I «primi quarant’anni» di Italo Calvino. Tra Santiago de Las Vegas, nell’isola di Cuba, dove i suoi genitori, sanremesi, botanici di fama internazionale, si erano trasferiti per lavoro e dove nacque nel 1923 (vi sarebbe tornato nel 1964 per sposare Ester Singer); Sanremo, dove approdò quando aveva solamente un anno, dove visse la sua giovinezza e partecipò alla Resistenza contro il fascismo; Torino la città dove divenne uno scrittore celebre e famoso (protagonista dell’epoca d’oro della Casa Editrice Einaudi); e, infine, Parigi e Roma le città dove avrebbe trascorso i suoi ultimi anni di vita. Sarà dedicato, in gran parte, a questo cruciale periodo della vita di quello che è considerato il maggior scrittore italiano del Novecento (e il più tradotto nel mondo) il film-documentario «L’Isola di Calvino» di Roberto Giannarelli che ne ha curato anche la sceneggiatura insieme a Pierpaolo Andriani. Le riprese inizieranno nel corso di questo mese a Cuba e si sposteranno, gradualmente, a New York, Parigi, Roma, Torino e Sanremo. Il film, realizzato in collaborazione con Raitre e con il sostegno del Comune di Sanremo, dovrebbe essere pronto per il prossimo mese di settembre. Il film è prodotto dalla Fabulafilm di Graziella Bildesheim che lo realizzerà insieme alla Kavac di Marco Bellocchio e Francesca Calvelli.

«biblioterapia»?

Il Tempo 7.5.05
La mente salvata dalla biblioterapia
Percorsi di lettura destinati ad alleviare il disagio psicologico
Un progetto del Ministero dei Beni Culturali per i ragazzi a rischio
di MARINA L. FERRERO

I LIBRI, dei buoni libri, possono rivelarsi delle utili mappe per tracciare dei percorsi interiori anche in chi si ritrovi smarrito, o a disagio nel cercare le proprie coordinate spirituali. La parola scritta diventa un viatico per questo viaggio a volte troppo spaventoso e complesso, dove la destinazione è meno importante, o perlomeno non è l’unico obiettivo, delle esperienze che si fanno strada facendo.. Da questa idea di base nasce il progetto "Librarsi”, che già nel suo slogan sintetizza il senso di leggerezza, da intendersi come liberazione da un peso, che vuole spaziare nelle zone oscure, o meno esplorate dell’uomo. Luciano Scala, direttore generale dei beni Librari e Istituti Culturali per il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali descrive quest’iniziativa che partirà prima dell’estate, probabilmente già dal prossimo giugno: «"Librarsi" è un progetto rivolto a giovani che si trovano in situazioni di disagio psicologico, perché la lettura può essere una buona terapia. Leggere è un modo per confrontare se stessi, per conoscersi meglio, per ampliare i propri orizzonti. Certo, siamo di fronte a un esperimento, però siamo convinti che darà degli ottimi risultati». Il progetto verrà realizzato a Lecce, e vi parteciperanno i nove centri di salute mentale che si trovano sull’intera provincia e che fanno tutti capo all’azienda sanitaria locale di Lecce; parteciperanno inoltre, il centro di psichiatria e psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza ed il centro per i disturbi alimentari. In ciascuno dei nove centri vi saranno 25 persone, utenti della struttura, a cui verranno dati i libri da leggere; a ciascun centro sarà collegato uno scrittore, si tratterà in modo particolare di scrittori locali, almeno sei, e di tre autori noti, soprattutto fra i giovani, come Andrea De Carlo, Erri De Luca, Marco Lodoli e Simona Vinci. Il coordinamento del progetto per quanto riguarda la gestione dei libri sarà a cura di Manni Editori. Scala continua a spiegare, sottolineando con entusiasmo che questo progetto «ha un percorso, un obiettivo ed un’eredità. Ai 25 ragazzi di ogni centro verranno distribuiti i libri, lo stesso testo per tutti, in base a cui verrà fatta una lettura utilizzata nella terapia di gruppo, naturalmente, vi sarà anche la lettura individuale, ed al termine del lavoro vi sarà l’incontro con l’autore, con cui si svolgerà un vero e proprio dibattito, con interviste e tutto ciò che ne segue». I percorsi dureranno complessivamente qualche mese, dopodiché in questi centri si formeranno delle biblioteche permanenti contenenti un centinaio di volumi. Infine, tutto il lavoro relativo all’incontro con l’autore verrà pubblicato su un numero speciale di "Libri e Riviste d’Italia", la pubblicazione della direzione generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali. Un progetto nuovo, sulla scia di una tendenza che da tempo insiste sull’importanza di conoscere se stessi per riuscire ad ottenere l’energia che serve a resistere agli urti della vita, come cantava anni fa Luca Carboni.

Patrizio Roversi per il Sì

L'Unità 7 Maggio 2005
Roversi: «In questo referendum è in gioco la dignità umana»
Parla il «turista per caso», testimonial per il Sì: «Non si può mettere sullo stesso piano la persona con l’embrione, sulla pelle delle donne»
Maria Zegarelli

ROMA È in giro per il mondo, quasi sempre. Per lavoro, che poi è anche una passione. Patrizio Roversi, «velista per caso», mentre prepara la messa in onda del bel programma in scaletta su Rai 3 a giugno e luglio prossimi, pensa a un «giro del mondo in ottanta 80 persone», una sorta di «viaggio in comproprietà». È uno dei testimonial della campagna per il «sì», una proposta a cui ha aderito senza esitazioni. Ma ha voluto pensare lui stesso al testo dello spot.
Cosa dice agli italiani negli spot?
Quello che penso. E cioè che anch’io sono alle prese con il referendum. All’inizio mi sono chiesto di cosa si tratta. cosa mi suggerisce la mia coscienza e, soprattutto, come dovrebbe essere una legge giusta. Mi sono informato, ho letto molto, e ho deciso: quattro sì convinti, perché una legge non può decidere al mio posto, sicuramente.
Roversi, cosa ci dovrebbe essere scritto in una legge che vale per tutti?
Questo è un punto fondamentale. Quando Susy ed io abbiamo deciso, molti anni dopo il matrimonio di avere una figlia, abbiamo avuto una figlia, Zoe, senza problemi. Non so come mi sarei comportato in caso diverso, se avremmo optato per la fecondazione assistita,o all’eterologa se io avessi avuto problemi di sterilità. Forse avrei lasciato fare la natura, avrei detto “lasciamo stare”. Ma al di là di quello che ognuno pensa, delle proprie convinzioni etiche, è importante quello che si può scegliere di fare. Una legge di questo tipo non dovrebbe essere punitiva o imporre un’etica.
La legge riconosce pari dignità a tutti i soggetti interessati, compreso l’embrione. Lei cosa ne pensa?
Non sono un prete, un rabbino, un filosofo, ma ho letto i pareri di religiosi e filosofi. Credo che non si possa mettere sullo stesso piano la dignità di una persona umana e quella di un embrione. Non credo possa avere gli stessi diritti di una donna. perchè sono loro, le donne, le prime a pagare le conseguenze di questa legge. Non voglio fare l’uomo femminista, figurarsi, sto combattendo in prima linea contro le donne da quando ero bambino, ma è talmente evidente la centralità della donna quando si parla di maternità che non può essere una legge a sostituirsi a lei. L’elemento di vera responsabilità, anche di fronte alla fecondazione eterologa è della donna, deve essere lei a decidere. Come le si può imporre un impianto di un embrione malato? Lo trovo di una violenza incredibile.
La ricerca è un altro punto che lei ha voluto toccare nel suo spot...
Mi sembra pazzesco che la ricerca sia bloccata. Il mio medico mi dice: stai attento rischi il diabete. Mio padre ha il Parkinson, che è ereditario. Io seguo il suo cammino e mi preoccupo. Allora vorrei una speranza. Vorrei una ricerca controllata, seria, ma non ingessata.
Lei si dice “conservatore”, ma difende i sì. Perché?
Mi sembra folle limitare la responsabilità altrui. Non capisco come si possa pensare, in base a propri convincimenti religiosi, di imporre ad altri dei comportamenti. Sulla fecondazione, magari la penso come un cattolico, ma non per questo credo che debba essere messo nero su bianco in una legge. Sinceramente non capisco quelli che hanno votato questa legge, soprattutto quelli che appartengono allo schieramento di centro sinistra. La classe politica avrebbe dovuto rappresentarci, facendosi carico di una legge “democratica”.

il prof. Picozzi

Brescia Oggi 7.5.05
CAMPOBASSO. Picozzi al lavoro
L’esperto di Cogne per i delitti di Izzo

Campobasso. Per fare luce sul duplice omicidio della villetta di Ferrazzano - già confessato da Angelo Izzo, ma ancora oscuro in alcuni risvolti del movente - la procura si affida a uno dei periti che si sono occupati del delitto di Cogne. Il criminologo Massimo Picozzi è stato, infatti, nominato consulente e oggi ha effettuato un sopralluogo per un paio d’ore presso la villetta.
Nel luogo dove sono state massacrate Maria Carmela e Valentina Maiorano, la polizia scientifica ha condotto per l’intera giornata una perquisizione. La prima è avvenuta all’interno della casa, ma per non lasciare nulla di intentato, la Scientifica ha continuato a setacciare anche l’area esterna alla villetta di Ferrazzano, utilizzando il «georadar», che consente di rilevare recenti movimenti del terreno, e di individuare qualsiasi indizio possa essere d’aiuto per ricostruire le modalità del duplice delitto. E per verificare fino in fondo l’ipotesi, finora scartata, dell’esistenza di un terzo cadavere. Il raggio delle ricerche è stato esteso fino a 300-400 metri. Con il metal detector è stato scandagliato il sottosuolo, dove potrebbero essere nascoste altre armi. Gli investigatori non intendono lasciare alcun angolo inesplorato, né sul teatro del massacro né nella complessa psicologia dei protagonisti della vicenda. Cercano di capire cosa e perché sia accaduto quel giovedì a Ferrazzano, acquisendo il maggior numero di elementi, sia attraverso i sopralluoghi sia con le deposizioni di Guido Palladino e Luca Palaia, complici di Izzo e, il secondo, anche amante del «massacratore del Circeo».
Una ricostruzione il più possibile esatta e attendibile di come sono andate le cose consentirà ai magistrati di confutare, se necessario, la deposizione che sarà resa da Izzo nei prossimi giorni. È pur vero che quest’ultimo si è spontaneamente dichiarato colpevole dell’omicidio delle due donne; ma è pur vero che, nel 1995, si era autoaccusato di delitti che non aveva commesso.

altruismo

Repubblica Palermo 3.5.05
FILOSOFIA
L'altruismo passa dal corpo
ROSANNA PIRAJNO

Gabriele Piana, autore di Conoscenze e riconoscimento del corpo, è ricercatore di Filosofia morale a Scienze della formazione, e da un corso di Etica sociale in cui ha indagato il tema della "fondazione dell´altruismo" è scaturito l´assunto che è al centro del libro: l´esistenza di un´etica della corporeità dimostra come non si possa essere giusti, dapprima con se stessi e quindi con l´altro da sé, se si trascura di conoscere il proprio corpo, se si evita di sentirne la presenza e di farne il fulcro del proprio essere.
L´altruismo, ovvero il superamento del dualismo io/altro, transita dal riconoscimento della corporeità dell´individuo che proprio la filosofia occidentale tralascia accuratamente di trattare, facendo del corpo di volta in volta la prigione dell´anima come in Platone o l´involucro negato alla conoscenza di sé, come in Cartesio. Sta di fatto che la questione della corporeità ha sofferto di pregiudizi etici tali da divaricarne il percorso rispetto all´anima, cosicché le due entità scisse hanno viaggiato su posizioni di dualismo contrapposto.

strategie nei disturbi psichiatrici

Tempo Medico on line n. 794 7 maggio 2005
Cure primarie estese alla psiche

Un metodo per identificare gli interventi più appropriati
di Monica Oldani

Una delle questioni più complesse nella pratica della medicina generale è senz'altro la gestione dei disturbi psichiatrici. Al medico di famiglia capita spesso di essere il primo filtro o magari il referente principale per una varietà di condizioni che interessano la salute mentale, invece che quella fisica, dei suoi assistiti. E, non di rado, gli capita di trovarsi a corto di strategie decisionali e degli strumenti professionali più idonei ad affrontare una reazione depressiva a un evento traumatico, piuttosto che una situazione di disagio psicosociale o una psicosi.
A mettere alle strette i medici di medicina generale su questo tema si aggiungono i più recenti orientamenti di politica sanitaria, secondo i quali il disturbo psichiatrico di qualunque entità dovrebbe trovare spazio nell'ambito delle cure primarie; al medico curante spetterebbe un ruolo di primo piano nella sua identificazione e nella selezione del trattamento, anche di tipo specialistico. Questa è, per esempio, l'opinione espressa dal National Health Service britannico in risposta ai dubbi sollevati nel 2004 dal Committee on Safety of Medicines sull'opportunità di estendere ai disordini psichici il raggio d'azione della medicina generale. A generare la preoccupazione della commissione, e di riflesso quella di larga parte dell'opinione pubblica del Regno Unito, erano state le prime segnalazioni della possibile pericolosità degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, psicofarmaci molto utilizzati anche dai medici di medicina generale.
"Dalle stime risulta che nove pazienti depressi su dieci hanno come unico riferimento il medico di medicina generale e che circa i due terzi delle vittime di suicidio si rivolgono al curante nelle quattro settimane precedenti" spiegano due editorialisti della School of Medicine di Londra sul British Medical Journal. "Ciononostante, sono almeno la metài casi di depressione che restano nell'ombra o non trovano un'assistenza adeguata nel contesto della medicina generale. E d'altra parte, data la sua prevalenza, è impensabile che la depressione diventi di esclusiva pertinenza specialistica".
Qual è, dunque, la soluzione alle aspettative e alla forte richiesta di una competenza psichiatrica imposte oggi alla medicina generale? Sullo stesso numero della rivista, una metanalisi effettuata da due esperti britannici di strategie sanitarie delle Università di Manchester e di York ha tentato di dare una risposta metodologica al quesito. I ricercatori hanno preso in esame precedenti revisioni sull'efficacia di quattro diversi modelli di intervento mirati a migliorare le capacità gestionali dei generalisti rispetto ai disturbi psichiatrici: il tradizionale addestramento con materiale informativo, linee guida o brevi corsi; l'affiancamento di specialisti per un'attività di formazione continuativa; la collaborazione con specializzandi incaricati di seguire i pazienti e svolgere una funzione di collegamento tra specialisti e curanti; la classica consultazione specialistica.
"Data la qualità variabile degli studi inclusi nelle revisioni non abbiamo trovato prove sufficienti a stabilire in modo definitivo la superiorità di un modello su un altro" affermano. "In generale, i nostri risultati sembrerebbero penalizzare il metodo dell'addestramento, che è il più facilmente praticabile ma il meno efficace, rispetto ai sistemi che prevedono il coinvolgimento attivo degli specialisti nella gestione dei pazienti. Questi ultimi avrebbero un impatto maggiore, ma rischiano di essere molto più costosi e meno accessibili".
La questione resta ancora sospesa, quindi. Ma secondo i due analisti, i modelli concettuali da essi adottati possono essere uno strumento utile per interpretare i risultati delle varie esperienze in un'ottica di politica sanitaria. Per individuare, cioè, tra tutti i possibili interventi di qualificazione delle cure primarie quelli più appropriati in termini di efficacia, efficienza, accessibilità ed equità e per definire in modo preciso il ruolo e il livello d'azione del medico di medicina generale. Il tutto nel rispetto delle esigenze di salute mentale dei loro pazienti e delle relative necessità di trattamento, farmacologico e psicologico"