domenica 9 gennaio 2005

un nuovo Marx?!

articolo21.com 6 gennaio 2004
Toni Negri, secondo Le Novelle Observateur sarebbe il nuovo Marx
Nei giorni scorsi questa notizia è stata pubblicata, quasi sempre con rilievo, da quasi tutti i principali quotidiani nazionali italiani. Fra essi Corriere della Sera, La Stampa e La Repubblica, ma anche Liberazione, La Gazzetta di Parma, La Gazzeta del Mezzogiorno, L'Eco di Bergamo eccetera.
Anche dando per scontata l'autorevolezza della fonte francese, il fenomeno è talmente ampio da suggerire al lettore di riflettere un momento, forse, sui veri significati - magari non subito evidenti o dichiarati - del risalto che è stato dato a questa presunta scoperta di "un genio del pensiero italiano", sedicente "rivoluzionario"? Accanto all'heideggeriano Agamben...
PARIGI, 6 GEN - Tra i 25 «grandi pensatori del mondo intero» ci sono, nel "fuori serie" del Nouvel Observateur dedicato ai 40 anni della testata, due italiani: Toni Negri ,«il nuovo Marx», e Giorgio Agamben, «il pensatore del futuro». Il primo è «figura centrale del rinnovamento del marxismo che fu l'operaismo italiano» che ha «introdotto la categoria dell' operaio sociale come nuovo soggetto rivoluzionario in un mondo dove il soggetto politico è la moltitudine». Il secondo, un filosofo «influenzato da Heidegger» trasforma «il rapporto essere-tempo in una nuova problematica storica, in rottura con ogni forma di continuità lineare e tutti i presupposti teleologici». Il villaggio globale, secondo Nouvel Observateur, comunica poco e male. L'illusione di una comunicazione mondiale virtuale maschera la gabbia linguistica in cui si trovano i pensatori degli altri paesi ed è sempre più difficile sfuggire alla «maledizione di Babele». È per questo che le edizioni della testata francese hanno deciso di pubblicare un elenco ragionato dei pensatori che rappresentano «la coscienza del nostro tempo e i precursori del mondo di domani». Gli altri pensatori sono: il filosofo americano Stanley Cavell, il filosofo senegalese Souleymane Diagne, l'antropologo e sociologo argentino-messicano Nestor Garcia Canclini, lo psicanalista indiano Sudhir Kakar, il filosofo russo Vladimir Kantor, il filosofo portoghese Jose Gil, il filosofo americano Ian Hacking, l'intellettuale brasiliano Candido Mendes, il filosofo sloveno Slavoj Zizek, il filosofo norvegiese Jon Elster, il filosofo di origine ganese Kwame Appiah, il filosofo tedesco Axel Honneth, il filosofo americamo Marrha Nussbaum, l'intellettuale latino-americano Carlos Maria Villas, il filosofo britannico Simon Blackburn, il filosofo canadese Charles Taylor, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, il filosofo americano Richard Rorty, il filosofo irlandese Philip Pettit, il filosofo spagnolo Daniel Innerarity, il filosofo finlandese Jaakko Hintikka, l'economista indo-britannico Amartya Sen e il filosofo americano Michael Walzer.

crimini cattolici
Melloni, lo storico che ha rivelato i fatti
e Tranfaglia sull'Unità

Corriere della Sera 9.1.05
Lo storico che ha rivelato l’esistenza della direttiva pontificia sui bambini ebrei battezzati traccia un bilancio del dibattito e avanza nuovi interrogativi
Il caso Pacelli e la Chiesa, aspettando il gran gesto
di ALBERTO MELLONI


Annunciando il primo volume di Anni di Francia, Agende del nunzio Roncalli , ho citato un frammento inedito di «istruzioni elaborate dal Sant’Uffizio e approvate da Pio XII» sul destino dei bambini ebrei salvati da istituzioni cattoliche francesi, emerso come tanti altri documenti nel paziente lavoro di annotazione di quel tomo, curato da Étienne Fouilloux. Non mi sono dilungato in note filologiche, per sottolineare un solo elemento: e cioè che nella Chiesa, durante e dopo la Shoah, convivono gesti commoventi di cristiana umanità e gesti di gelida burocrazia teologica, che continueranno a intrecciarsi fino al Concilio e dopo, com’è ovvio in un processo storico lungo come quello che separa la voce Antisemitismus del 1933 sul Lexicon für Theologie und Kirche dal discorso di Giovanni Paolo II in Israele nel 2000. Su quell’inedito, come ha scritto padre Giovanni Sale, s’è sviluppato un «civile e appassionato confronto»; ma non è mancata qualche sgradevole provocazione denigratoria (non solo contro i Papi). Alcuni articoli degni del Museo degli Sforzi Inutili si sono impegnati a sostenere che quelle istruzioni erano o giuste o false, o l’uno e l’altro, o che andavano imputate al nunzio Roncalli. Ciò impone alcuni ragguagli critici, a cui aggiungerò un mio punto di vista.
Il dattiloscritto datato 23 ottobre 1946, giorno successivo al rientro del nunzio a Parigi dopo le vacanze, è una delle tipiche note con le quali si trasmettevano gli ordini della Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, della Romana e Universale Inquisizione e dell’Indice dei Libri proibiti, della quale a quel tempo era prefetto il Papa. Per dare ordini il Sant’Uffizio dava sovente mandato al superiore diretto di informare il destinatario, con procedure a tutela del segreto. Talora l’informazione veniva data tacendo al destinatario finale perfino l’origine della decisione («reticito nomine»), talaltra consegnandogli una nota verbale che comunicava la «mente» di Roma. È questa nota che la nunziatura parigina prepara nel 1946. Bisogna avere disistima per la diplomazia vaticana per pensare che le nunziature non sapessero produrre una fedele nota in francese (di cui è rimasta copia al Centre National des Archives de l’Eglise de France di Issy-le-Moulineaux) ad uso dei vescovi. Come suo dovere, Roncalli non ne ha fatto cenno in altra sede.
L’atteggiamento che quel documento raccomanda è diverso da quello che Roncalli aveva assunto nei mesi precedenti. Lo dice una lettera del Fondo Kaplan del Centre de Documentation Juive Contemporaine, a cui facevo cenno: a luglio 1946 il rabbinato di Francia ringraziava il nunzio per la disponibilità a intervenire assicurata al gran rabbino Herzog, di cui era amico da anni, e domandava un passo specifico per 30 bimbi. Herzog aveva scritto a Pio XII il 12 marzo 1946 per richiedere il suo avallo nella restituzione dei piccoli ebrei superstiti alla fede dei padri. Forse già in quelle settimane il Sant’Uffizio aveva elaborato un parere, coerente con la pratica in uso ai tempi del Papa-re, ma che dopo la Shoah suona, come riconosce Vittorio Messori, «disumano». Non sappiamo quando Roncalli ne venga a conoscenza. Forse dopo essere stato interpellato in agosto da due vescovi francesi sui battesimi dei piccoli ebrei, forse dopo aver consultato Roma o aver parlato a lungo col Papa il 27 settembre o dopo aver ricevuto il 17 settembre da monsignor Tardini un dispaccio. Di quest’ultimo atto ignoro il contenuto (le istruzioni e i dispacci di Roncalli del periodo parigino sono le uniche carte di cui fu negata copia sia alla Congregazione per le cause dei Santi, sia ai redattori della Positio historica della causa di Papa Giovanni di cui ebbi il privilegio di essere uno degli autori); non so se Roncalli lo ricevette a Sotto il Monte o lo lesse a Parigi la sera del 22 ottobre 1946, perché la «autorevole fonte» che, pochi giorni dopo il primo articolo del Corriere, lo ha passato al sito VaticanFiles.net (dove un gruppo eterogeneo di studiosi pubblica documenti d’archivio), non l’ha precisato.
Il documento del 1946 aggiunge la forza della fonte storica a qualcosa di noto. E cioè che dopo la Liberazione (lo documenta La Chiesa cattolica e l’Olocausto, di Michael Phayer) c’era nella Chiesa già chi s’interrogava sulla Shoah e chi reagiva con schemi che non ne coglievano la portata epocale. È infatti noto che l’ affaire Finaly, i due bimbi contesi in tribunale, arriva al 1953 e vede i cattolici divisi; e Jules Isaac va a Roma a cercare sostegno contro l’antisemitismo perché spera in qualcosa, anche se nel 1955 non lo trova (come spiegano le lettere apparse su «Sens», la rivista francese dell’amicizia giudeo-cristiana). Così, chi avrà la pazienza di leggere i cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo o i dispacci dei diplomatici citati nel mio L’altra Roma constaterà che la vena del disprezzo antisemita o «antigiudaico» (come s’usa dire, quasi fosse una virtù) dura anche mentre la dichiarazione conciliare Nostra Aetate sta per tagliargli l’erba sotto i piedi, e oltre. Se questo chiarisce i dati, non spiega però gli interrogativi posti da alcune posizioni emerse in un dibattito internazionale quanto mai ampio, il cui coté italiano è stato efficacemente sintetizzato da Adriano Sofri sulla Repubblica . Perché s’è buttato di lato il gran lavoro delle Agende e si è voluto riaprire lo sterile duello fra chi trova nell’atteggiamento di Pio XII una colpa grande quanto l’intero Olocausto e chi ripete ad nauseam argomenti di cui l’intuito politico di Pacelli si sarebbe vergognato? Perché, anziché storicizzare la distanza fra la gelida burocrazia della nota del 1946 e la forza di comunione fra fedi della Chiesa di Giovanni Paolo II, s’è cercato, come ha fatto Avvenire, di trasformare il rilevamento delle differenze in una «contrapposizione» fra pontefici o si è lamentato un clamore al quale s’è dato corda cercando inutilmente un antidoto liquidatorio?
Le ragioni sono molte. E molte sono causate da un fatto noto e reversibile, cioè la chiusura di gran parte degli archivi vaticani del 1922-1939 e di quasi tutti quelli del 1939-1958. Tutti sanno che aprire le carte è lungo e che alcune tappe sono fissate. Ma se la Santa Sede ritrovasse il coraggio con cui Leone XIII nel 1880 squadernò l’Archivio Segreto Vaticano per rispondere al Kulturkampf tedesco, all’anticlericalismo e al desiderio degli eruditi cattolici, se aggiornasse lo zelo di Paolo VI, che nel 1965 iniziò gli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale che traboccavano di nomi di viventi (incluso il suo), se deponesse l’illusione di giovarsi di avvocati arruolati con odiosi privilegi d’accesso alle carte, le provocazioni si spunterebbero e verrebbero alla luce gli intrecci complessi che fanno la storia. Di questo c’è sete: non macchinazioni, micce o capricci, ma sete. È la sete della coscienza collettiva di quest’Europa, che non è solo un infuso di radici, ma anche il frutto dell’orrore con cui essa s’è specchiata nel fumo dei forni crematori, che hanno cambiato per sempre il paesaggio religioso e l’anima del continente.
Un gesto «alla Leone XIII» farebbe bene a tutti. Alla Chiesa, che nel Novecento non è una comparsa, ma un grande mondo. Farebbe bene alla storia, che non dev’essere il tribunale delle requisitorie, ma non può nemmeno ridursi al confessionale dove si assolve chi pronuncia l’atto di dolore o la pagoda dove tutto ciò che è accaduto in altro «contesto» resta muto. C’è sete e bisogno di una ricerca che costruisce con lentezza conoscenze complesse e disomogenee: quasi mai fruibili come tali, ma non inutili. Altri (la stampa, la politica, l’educazione, la morale, l’agiografia) possono trasformarle in linguaggi, pruderie, retoriche, culture. La ricerca storica (sotto lo sguardo della stampa, della politica, della morale, della teologia) elabora invece visioni e revisioni sue, grazie alla disponibilità di grandi agglomerati di fonti, e con questi si confronta.
Le fonti ci hanno detto da tempo che la posizione di Roncalli davanti alla Shoah non assomiglia a quella di un cospiratore, ma neppure s’esaurisce nella replica degli atteggiamenti romani (ne scrissi anni fa nel mio Fra Istanbul Atene e la guerra , così come nella Positio). La ricerca su Pio XII fatica da tempo alla ricerca del crinale che separa ciò che accade «sotto» Pio XII ( I dilemmi e i silenzi di Pio XII , di Giovanni Miccoli, dedica un esemplare capitolo alla situazione in Croazia) e ciò che Pio XII «fa» accadere. E dunque ondeggia, vulnerabile all’apologia odiosa e all’odiosa provocazione. Si prenda proprio il caso degli ebrei grandi e piccini salvati nei conventi: presentarli come la briciola che riequilibra il genocidio è una bestemmia. Bravi preti, frati e suore sono una tessera in un mosaico nel quale altri cattolici sono stati perpetratori, ignavi o vittime. Una tessera che diventa interessante a Roma dove - l’ha detto Andrea Riccardi - nascondere ebrei in certe clausure femminili comportava una trasgressione dietro la quale si immaginava, possedeva o supponeva una dispensa papale. Ma per discernere i fatti e le voci serve un insieme di documenti, e non il naso dell’agiografo.
Quello, a dire il vero, non è stato decisivo nemmeno nel processo di beatificazione di Pio XII, sul quale non è vietato avere opinioni né agli ebrei, né ai cattolici. Un processo non è un crimine, né un dogma, al quale dovrebbero piegarsi preventivamente gli storici, i cattolici e soprattutto gli ebrei, per non ostacolarne lo sviluppo. Quel processo è reso complesso dal segno storico-politico sotto il quale è nato. Papa Montini lo avviò nel novembre 1965 sia per bilanciare la simmetrica causa Roncalli sia per ribadire la insindacabilità dell’atteggiamento vaticano durante la Shoah. Non ci riuscì. Così il lato spirituale del pastor angelicus è rimasto quello di «uno sconosciuto»: è il titolo che «Cristianesimo nella storia» darà alla recensione di Alberigo sul recente Pio XII, diplomatico e pastore di Philippe Chenaux: un libro cauto, ma spietato nel ritrarre un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna, con tutto ciò che ne consegue.
Questo ingarbugliato nodo storico-teologico Giovanni Paolo II lo ha tagliato col «mea culpa» del 2000. Riconoscendo che esistono colpe dei figli della Chiesa, Papa Wojtyla ha spiegato che un cattolicesimo disposto a riconoscere il valore «teologico» del giudizio dell’umanità sui propri errori, non è più scipito, ma più autentico. Un atto ancora gravido di futuro, che fa spazio al sapere storico e insieme richiede di riflettere proprio sulle residuali insinuazioni, sui rigurgiti di disprezzo, sulle autoindulgenze, sui complessi vittimisti che sono riemersi nel corso di questo lungo dibattito, senza esserne la parte principale.
La discussione
Il 28 dicembre il «Corriere» ha pubblicato un documento inedito del settembre 1946, in cui il Sant’Uffizio, con l’avallo del Papa, ordinava di non restituire alle famiglie e alle comunità israelitiche i bambini ebrei battezzati ospitati da istituzioni cattoliche francesi per sottrarli alle persecuzioni naziste La rivelazione ha riacceso la polemica contro la beatificazione di Pio XII da parte di alcuni esponenti del mondo ebraico
Altri osservatori hanno sottolineato che l’atto venne riprodotto in francese e trasmesso da Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, all’epoca nunzio apostolico a Parigi. E c’è anche chi ha messo in dubbio l’autenticità del documento.

Gli interventi
Il documento del Sant’Uffizio pubblicato dal «Corriere» il 28 dicembre ha suscitato un vasto dibattito Sulle nostre colonne sono finora intervenuti Alberto Melloni, Amos Luzzatto, Vittorio Messori, Andrea Tornielli, Peter Gumpel, Giovanni Miccoli, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Anna Foa, Renato Moro, Daniel Jonah Goldhagen, Lucetta Scaraffia, Giorgio Rumi, Ernesto Galli della Loggia
Della vicenda si sono occupate molte testate estere, tra cui «New York Times», «The Guardian», «La Croix», «Washington Times», «Jerusalem Post», «Independent», «Taipei Times», «Le Figaro», «Ha'aretz», «Seattle Times»

L'Unità 7.1.05
Antisemitismo, la Storia del cantastorie
di Nicola Tranfaglia


Così Ernesto Galli della Loggia, in un articolo che incomincia in prima pagina e occupa l’intera pagina 33 della Cultura sul “Corriere della Sera” del 7 gennaio, conclude il suo ragionamento: «Il destino delle minoranze e dei marginalizzati in genere, per esempio,delle popolazioni indigene nelle aree della colonizzazione, delle donne, ovvero l’attenzione per figure come quella del prigioniero, del portatore di handicap, del morente hanno costituito uno spazio via via crescente nella nostra sensibilità e nella nostra cultura, alimentando e confluendo in quell’indirizzo genericamente umanitario che è tra i più tipici e potenti del nostro panorama attuale. Indirizzo che, come il precedente, riguardante l’identità, tende ad essere più o meno consapevolmente applicato con l’effetto di modificarne in modo significativo... ma anche con il pericolo di applicare criteri di oggi a fatti di ieri, di decontestualizzare eventi e protagonisti, di trasformare il giudizio storico in un moralismo fuori del tempo. Così come, mi pare, accada regolarmente ogni volta che viene riaperta la pagina complessa e drammatica del rapporto della Chiesa con i totalitarismi del secolo passato».
Ma qual’é nella sostanza il giudizio storico che Galli contesta alla fine di un dibattito tra storici e archivisti a proposito di un documento della Nunziatura di Parigi tenuta da Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, del 23 ottobre 1946 da cui potrebbe risultare che il Santo Uffizio Vaticano chiedeva ai nunzi e ai vescovi di non restituire alla famiglie i bimbi ebrei ospiti delle istituzioni cattoliche. Direttiva a cui Roncalli, secondo le indiscrezioni su un libro di storia che uscirà l’anno prossimo in Italia, non avrebbe ottemperato?
Galli della Loggia non ritiene di poter accettare un giudizio negativo nei confronti della Chiesa di Pio XII come quello espresso sullo stesso giornale qualche giorno fa dallo storico americano Daniel Jonah Goldhagen e giunge ad affermare che si tratta di un modo di fare storia che applica al passato i nostri criteri morali ed è dunque anacronistico.
E aggiunge che, adottando un simile criterio, anche Natalia Ginzburg che, nella redazione dell’editore Einaudi rifiuta di pubblicare “Se questo é un uomo” di Primo Levi giudicandola opera di scarso valore e interesse o Benedetto Croce che, nel primo dopoguerra, invitava gli ebrei a superare la propria separatezza, possono essere giudicati antisemiti. Ma tutto l’articolo a me pare (come spesso avviene per il suo autore) scoppiettante di polemiche e di battute, ma assai poco consistente e fondato proprio su quel piano dell’interpretazione storica su cui si vorrebbe collocare.
Innanzitutto come si fa a paragonare un errore di giudizio editoriale come fu, senza dubbio, quello di Natalia Ginzburg ai numerosi giudizi di Pio XII sul nazionalsocialismo e sul fascismo italiano per i quali vale la pena richiamare un libro per molti aspetti definitivo come quello di Giovanni Miccoli su I dilemmi e i silenzi di Pio XII.Vaticano, Seconda Guerra Mondiale e Shoa pubblicato nel 2000 da Rizzoli? In quel libro, al termine di un’analisi filologicamente esauriente, Miccoli dava un giudizio delle parole e dell'azione di Pio XII che nulla ha a che vedere con giudizi sommari e superficiali ma che, nello stesso tempo, mette in luce l’inadeguatezza profonda della Chiesa di fronte al terribile massacro. Vale la pena ricordare le parole conclusive del libro di Miccoli: «Mentre la guerra superava per la sua spietata violenza ogni immaginazione e gli errori da elencare diventavano senza fine, coinvolgendo indistintamente militari e civili, i documenti della Santa Sede finiscono a volte col dare l’impressione che sia sempre e solo la guerra - come fatto mostruoso che supera il volere dei singoli - o al più l’umanità nel suo complesso, a subire la chiamata di correo». Non il fascismo e il nazionalsocialismo, in ogni caso.
Quanto al postulato di fondo che caratterizza il megarticolo di Galli della Loggia mi pare altrettanto discutibile (ad esser moderati). L’editorialista del “Corriere della Sera” sostiene - e chi lo ha mai negato? - che il concetto di Olocausto (creato peraltro dai suoi molto amati americani e non dagli storici italiani o europei) è una costruzione storica e che c’è il rischio di applicare al passato criteri e giudizi che si sono formati dopo quel tempo e appartengono al presente. Ma non avviene sempre così nella ricerca storica fatta dagli uomini del presente? È vero oppure no come diceva il vituperato Croce che ogni storia è in un certo senso «storia contemporanea» giacché gli uomini, nell’indagare il passato, sono spinti da domande del loro presente e applicano - né potrebbe essere diversamente - moduli culturali e modi di pensare che non sono di quel passato che pure vogliono riportare alla luce. Da questo elemento non è possibile uscire a meno che si intenda la ricerca storica come mero rispecchiamento del passato e dei suoi modi, del tutto inutile a farci capire il nostro tempo, pura e semplice descrizione di quel che è successo o che a noi pare rilevante, mera operazione filologica fine a sé stessa, povera o affatto priva di giudizi di valore. E non sono stati i maggiori storici del Novecento (da Croce a Volpe a Chabod, per restare in Italia) uomini che hanno tradotto, nelle loro opere storiche, criteri e giudizi del loro presente parlando dell’Italia liberale o di quella fascista?
Ma questi interrogativi a Galli della Loggia non interessano.
Lui che, quando parla del drammatico esperimento storico comunista mondiale si accontenta di applicare le più pesanti e semplicistiche categorie dell’immediato presente berlusconiano, quando, invece, si trova a parlare della Chiesa e dei fascismi preferisce sospendere ogni giudizio e non dire nulla sui silenzi e sui dilemmi di Pio XII.
Possibile che, con la sua brillante intelligenza, non avverta una contraddizione?

un altro -il pù grave?- crimine dei Kennedy
Rosemary, nata nella più importante famiglia cattolica d'America

Corriere della Sera 9.1.05
Addio a Rosemary, la Kennedy imperfetta
A 86 anni è morta in un istituto per disabili la sorella di Jfk. Nel 1941 la lobotomia
di Maria Teresa Cometto


NEW YORK - È stato il più terribile segreto dei Kennedy per decine di anni. Nella saga della dinastia più celebrata d’America, Rosemary è stata prima sepolta viva in un istituto per ritardati mentali, poi - quando la sua esistenza non poteva più essere negata, dopo l’elezione del fratello John alla presidenza degli Stati Uniti - è stata trasformata in un simbolo della munificenza e pietà cattolica della sua famiglia. Nemmeno ora che è morta a 86 anni, la tragica verità su questa donna «diversa», troppo libera e ribelle per i suoi tempi, può essere letta nelle dichiarazioni ufficiali dei fratelli - fra cui il senatore democratico Edward - e delle sorelle. «Rosemary è stata un gioiello che ha brillato per tutta la vita per ogni membro della nostra famiglia - dice il comunicato dei Kennedy -. Fin dalla sua più tenera età, il suo ritardo mentale è stato una continua ispirazione per ognuno di noi e una potente fonte d’impegno a fare tutto il possibile per aiutare le persone disabili a vivere una vita piena e produttiva». Ma la tardiva riabilitazione di Rosemary e i milioni di dollari spesi in suo nome a favore di iniziative caritatevoli non bastano a mettere a tacere la tragica storia, documentata nella biografia non autorizzata «Le donne Kennedy: la saga di una famiglia americana» di Laurence Leamer e messa in scena da Luigi Lunari con il dramma Nel nome del padre (rappresentato nel ’98 a Milano, poi a Tokio, Atene, New York e il prossimo febbraio a Mantova).
Rosemary era nata il 13 settembre 1918 a Boston, terza dei nove figli di Rose e Joseph Kennedy. Non era una bambina come le altre: era mentalmente ritardata, secondo la famiglia. «Aveva qualche leggero problema di sviluppo - sostiene invece il reverendo Rus Cooper-Dowda in un recente articolo su The Daily Voice of the Disability People -. Sua madre Rose lottò per darle una vita normale, affidandola anche a tutor privati». Una dimostrazione della sua vitalità viene dai diari della stessa Rosemary, che racconta la sua partecipazione ai tè e alle feste da ballo, le prove di nuovi vestiti, i suoi viaggi in Europa e una visita alla Casa Bianca di Franklin D. Roosevelt. Ma il suo comportamento non era da perfetta signorina di buona famiglia: aveva scoppi di collera e momenti di ribellione, e crescendo si mostrava incline a una libertà sessuale che terrorizzava il padre. «Rosemary era una donna e c’era paura di gravidanze, malattie, disgrazie», scrive Leamer. «Il padre aveva grandi piani per i fratelli maschi - spiega Cooper-Dowda -. Era soprattutto preoccupato che Rosemary si buttasse nelle braccia di qualche uomo e svergognasse la famiglia».
Così nel 1941, quando Rosemary compì 23 anni, il padre decise di farla operare sottoponendola alla lobotomia, la recisione delle fibre nervose dei lobi del cervello: un intervento a quei tempi piuttosto popolare per «calmare» il comportamento dei «diversi». A Rosemary capitò la stessa sorte dei pazzi lobotomizzati di «Qualcuno volò sul nido del cuculo»: diventò un vegetale e fu rinchiusa fino alla morte nell’istituto Saint Coletta a Jefferson, Wisconsin.
«Prima dell’operazione sapeva cantare, contare, assistere alla messa cattolica, leggere e sbrigarsela con le faccende della vita quotidiana - spiega Cooper-Dowda -. Dopo la lobotomia non poteva fare più alcunché senza essere aiutata. Il che effettivamente le ha impedito di danneggiare gli obiettivi politici della famiglia». Che erano coltivati con smisurata ambizione dal padre Joseph, figlio di un immigrato irlandese e arricchitosi grazie ad azzeccate speculazioni prima del crac del 1929. Ritiratosi miliardario dagli affari, Joseph era diventato un grande finanziatore del partito Democratico, sostenendo l’elezione a presidente di Roosevelt e poi (fino alla sua morte nel ’69) dedicando tutte le sue risorse per la carriera politica dei figli John, Robert ed Edward: il primo eletto alla Casa Bianca nel ’60 (e assassinato nel ’63), il secondo in corsa per la stessa carica nel ’68 (ucciso prima delle elezioni), il terzo tuttora esponente dei Democratici.
Per anni scese il silenzio sull’imbarazzante Rosemary. La famiglia cercò di dire che si era fatta suora di clausura; poi che stava «lavorando» con i minorati mentali. Poi nel ’60 la vera situazione cominciò ad emergere e la sorella minore Eunice iniziò l'opera di riscatto della famiglia: trasformò la fondazione Joseph P. Kennedy, Jr. - creata nel 1946 in onore del primo figlio maschio morto nella seconda guerra mondiale - in un ente benefico a favore dei ritardati mentali; e nel ’68 lanciò le «Olimpiadi Speciali» riservate alle persone con malattie psichiatriche. Dagli anni Ottanta poi Eunice ha coinvolto la sorella in alcuni meeting familiari.
«Era forse l’handicappata più ricca d'America - osserva con ironia Cooper-Dowda -. La sua famiglia avrebbe di certo potuto curarla a casa». Il suo destino suona amaramente in contrasto con la filosofia dichiarata dalla fondazione familiare: «Crediamo che le persone con handicap intellettuali abbiano la capacità di vivere, imparare, lavorare, divertirsi, praticare la fede come chiunque altro, magari con un aiuto per farlo». L'aiuto che Rosemary non ebbe, per colpa dei tempi e dei progetti politici del padre.

Einstein e Margherita Hack, nelle edicole

Domenica, allegato al Sole 24Ore di oggi
pagine 36-37:

E i fisici festeggiano Einstein
Nel 1905 con tre articoli rivoluzionò la nostra visione del mondo. L'Unesco dedica il 2005 ai problemi che ha lasciato irrisolti
Articoli di Bottazzini, Coyud, De Martini, Smolin, Vassallo, e
Ma non è tutto relativo, di Armando Massarenti, a pagina 29
Repubblica, pagine 28-29:
Einstein, i cento anni che sconvolsero il mondo
Nel 1905 il genio tedesco pubblicò cinque articoli
sulla relatività ristretta, una teoria che ha cambiato
per sempre il nostro sapere e la nostra vita. Quello che
è appena cominciato sarà "L'anno Mondiale della Fisica": la comunità scientifica celebra il premio Nobel e continua a verificare in laboratorio
ciò che lui intuì prima di chiunque altro sul pianeta
Articoli di Concita Di Giorgio, Anton Zeilinger, Gabriele Veneziano, Stefano Vitale, Piergiorgio Odifreddi.
l'Unità di oggi, pagina 13:
IL GOVERNO contro le donne
«Sulle donne sono peggio della peggior Dc»
Margherita Hack: «Fecondazione e diritti, il governo impone il suo oltranziamo a tutti gli italiani»
Intervista all'astrofisica: «Una vergogna l'impugnazione del referendum da parte di Palazzo Chigi, è una legge antiliberale e liberticida»
«Sull'aborto il ministro Sirchia vuoe tornare indietro di un secolo: non può imporre la propria morale cattolica all'intero paese. Ognuno si tenga le proprie idee»
«...la Dc di fronte a questi la si rivaluta, immaginavo un cattivo governo ma questo supera ogni limite. Ecco perché dico che se dovessero rivincere non resterebbe che fare la rivoluzione».

in mostra a Roma
I disegni inediti di Sergej Ejzenštejn

Corriere della Sera edizione di Roma 9.1.05
I disegni inediti del regista Sergej Ejzenštejn
di Edoardo Sassi


Il grande cineasta disegnò durante tutta la vita: un po' come Fellini, anche lui, il regista russo Sergej Ejzenštejn (1898-1948), affiancò alla sua attività principale quella di illustratore e disegnatore. Una sterminata produzione grafica in gran parte ancora inedita anche in Russia, di cui Roma ospita una selezione in una mostra allestita nel foyer dell'Auditorium. Titolo della rassegna - che fa parte delle varie manifestazioni del «Russkij Festival» - «La Musica del corpo»: ed è davvero una piacevole sorpresa per il pubblico italiano scoprire questo aspetto del molteplice talento di colui che è stato più volte definito uno dei grandi geni del XX secolo. Fortemente permeato della cultura del suo tempo, Ejzenštejn è evidentemente legato anche nella sua attività pittorica alle principali correnti artistiche dei primi trent'anni del Novecento: futurismo, cubismo e surrealismo si mescolano infatti in un originale tratto in cui spiccano, in particolar modo, alcune consonanze col segno grafico di Picasso e Jean Cocteau. Forte in questi disegni - circa cento quelli esposti a Roma - l'elemento erotico-sessuale (anche se in mostra non ci sono i lavori, numerosissimi, decisamente più spinti e sparsi in varie collezioni private del mondo): una sensualità indiretta che però traspare chiaramente dalla stilizzazione dei corpi e dal tratto di estrema eleganza («Perché i miei disegni - si chiede il regista in un appunto - malgrado la completa assenza dell'aspetto anatomico, sono in grado di provocare in coloro che li guardano quell'eccitazione fisiologica tipicamente umana?»). Curata da Naum Klejman e Mario Sesti, la mostra è realizzata in collaborazione con l'Archivio Statale Russo e oltre ai disegni presenta anche un'interessante sezione storico-documentaria, con carte e foto relative alla vita dell'autore della «Corazzata Potëmkin».
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA,
viale De Coubertin, tel. 06.802411, ingresso gratuito.

Fino al 30 gennai

Bertinotti e il Prc verso i congressi di federazione

l'Unità 9.1.05
La decisione del Leader di Rifondazione di stare a fianco di Prodi e del centrosinistra gli ha messo contro quattro mozioni che invocano solo un accordo politico - elettorale
«Bertinotti deve uscire dalla Gad»
Rc, gli oppositori affilano le armi, ma il segretario ribatte: «Per decidere mi basta il 51%»
di Simone Collini

ROMA. «Per vincere un congresso basta il 51% dei voti». Fausto Bertinotti mostra sicurezza e tranquillità, ma l'accordo stipulato con il centrosinistra prima dell'inizio di una discussione programmatica gli ha messo contro quasi metà partito, tanto che al congresso che Rifondazione comunista farà a Rimini dal 3 al 6 marzo sono state presentate per la prima volta quattro mozioni alternative a quella del segretario. E ora quanto sta avvenendo al vertice dell'Alleanza non lo aiuta nell'operazione avviata quattro mesi fa. Al punto che qualcuno, dentro il Prc, si dice convinto che nei prossimi mesi l'alleanza programmatica e di governo tra Ulivo e Rifondazione, sostenuta oggi da Bertinotti, cederà il posto a un meno vincolante ma più realisticamente praticabile patto politico - elettorale con successivo, in caso di vittoria, appoggio esterno del Prc a un esecutivo di centrosinistra.
Era settembre quando il segretario di Rifondazione comunista e l'ancora presidente della Commissione europea Romano Prodi ricucivano pubblicamente lo strappo prodotto nel '98. I due erano sul palco della festa di Liberazione: il primo parlava della necessità di non ripetere l'esperienza della desistenza sperimentata nel '96 e non escludeva la presenza di ministri del Prc in un futuro governo di centrosinistra; il secondo usava per la prima volta l'espressione «grande alleanza democratica» (Bertinotti qualche settimana prima aveva proposto «Coalizione democratica» al posto dell'indigesto (a militanti e dirigenti Prc) Ulivo. I due poi scendevano dal palco e andavano a cena insieme in uno dei ristoranti della festa, senza dar troppo peso ai fischi ricevuti da Prodi mentre criticava il referendum sulla fecondazione assistita e alla freddezza degli applausi riservati a Bertinotti mentre parlava della necessità di tenere distinto il piano del ritiro delle truppe dall'Iraq dalla richiesta di liberazione degli ostaggi.
Fischi e freddezza si sono poi tradotti in quattro mozioni alternative a quella presentata da Bertinotti per il congresso di marzo e in una perdita di consensi che ha portato la maggioranza, nell'ultima riunione del comitato politico nazionale, a fermarsi a quota 56%. Ora l'Aventino bolognese di Prodi, la tensione all'interno dell'area riformista, la discussione programmatica perennemente rinviata rischiano di far perdere al segretario di Rifondazione comunista ancora più consensi all'interno del suo partito. Anche perché le difficoltà di far decollare l'Alleanza rischiano di non essere risolte entro la prossima settimana, ovvero prima che inizino i congressi di federazione, che decideranno i rapporti di forza dentro il Prc.
La cosiddetta area dell'Ernesto, che fa capo all'ex tesoriere Claudio Grassi, può contare su oltre il 26% dei voti. All'ultimo congresso appoggiò Bertinotti, questa volta l'intesa è mancata. Spiega Grassi, primo firmatario della seconda mozione: «Noi non siamo pregiudizialmente contrari a intese con il centrosinistra. Anzi, a suo tempo abbiamo sostenuto la necessità di un accordo, ma ora c'è stato l'ingreso prima ancora di aver concordato il programma». Sia nella maggioranza che tra gli ex cossuttiani dell'Ernesto non si esclude un accordo in extremis quando si entrerà nel vivo del congresso, anche se al momento il leader del Prc si sente forte abbastanza per andare avanti da solo. «Bertinotti non fa il segretario di sintesi, è per una linea univoca e chiara», spiegano nel suo entourage. E non a caso il voto congressuale è su documenti non emendabili. Grassi una mano potrebbe tenderla, ma non in queste condizioni: «Se si ha una maggioranza risicata non è possibile non tener conto delle altre posizioni».
Le altre posizioni, però, sono tutte contrarie all'entrata di Rifondazione in un governo di centrosinistra. E sia il ritardo sulla discussione programmatica, sia le difficoltà incontrate dal giorno del suo rientro in Italia da Prodi, sulla cui leadership dell'Alleanza Bertinotti ha costruito la sua operazione, rischiano di intaccare anche quel 56% incassato a fine novembre. «Le perplessità rispetto alla svolta di Bertinotti sono in crescita», assicura il capogruppo del Prc a Palazzo Madama Luigi Malabarba. Dall'ultimo congresso il senatore si è progressivamente allontanato dalla maggioranza, fino a presentare una mozione che nelle previsioni dovrebbe ottenere tra il 7 e l'8% dei voti. «Rivendichiamo la continuità con il quinto congresso, che ha sancito la svolta su stalinismo, movimenti e conflitto sociale», spiega l'esponente dell'area Erre, che aggiunge: «Quanto deciso tre anni fa è stato messo in discussione dall'operazione politicista operata dal segretario». L'area Erre, di cui faceva parte Luigi Maitan, è la più moderata tra le anime trotzkiste, che criticano l'operazione avviata da Bertinotti. È sufficiente leggere titolo e premessa delle altre due mozioni trotzkiste per rendersene conto. «Cacciare Berlusconi dal versante dei lavoratori e non dei padroni. Rompere col centrosinistra confindustriale per un polo anticapitalistico autonomo e unitario. Costruire il Prc come partito dell'opposizione di classe», si legge in testa al documento che ha come primo firmatario Marco Ferrando. «Rompere con Prodi, preparare l'alternativa operaia» è il titolo del documento che ha come primo firmatario Claudio Bellotti e si apre definendo la Gad una «gabbia mortale per il Prc».
Malabarba si dice convinto che Bertinotti non potrà rimanere fermo sull'accordo di governo con il centrosinistra se al congresso otterrà una maggioranza più vicina al 50 che al 60%. E anche il 60 potrebbe non bastare per convincere gli iscritti dell'opportunità di far parte di «un esecutivo che non può essere effettivamente di alternativa». Spiega il presidente dei senatori del Prc: «Nel corso dei prossimi mesi, quando si entrerà nel vivo della discussione sul programma, sarà chiaro a tutti che un accordo di governo è impossibile». A quel punto, secondo Malabarba, la via d'uscita per Bertinotti per continuare a guidare saldamente Rifondazione comunista potrà essere soltanto una: «Dare vita a un accordo politico - elettorale basato su questioni che ci uniscono nella battaglia contro Berlusconi e prevedere l'appoggio esterno a un esecutivo di centrosinistra che deve avere una sua forza autosufficiente per governare».
Soluzione di cui Bertinotti, oggi, non vuole neanche sentir parlare. Così come Prodi, del resto. Le primarie, che dovrebbero vedere i due contrapposti e che si dovrebbero svolgere due mesi dopo il congresso di Rifondazione, potrebbero aiutare entrambi: perché darebbero a Prodi una legittimazione che andrebbe a tutto vantaggio di Bertinotti - per stessa ammissione del segretario Prc «un altro candidato leader farebbe saltare tutti gli equilibri fin qui costruiti» - e perché incoronerebbe lo stesso Bertinotti a leader della sinistra alternativa. Il che però potrebbe non bastare a far digerire ai militanti di Rifondazione il ricorso a un meccanismo che, come spiega Grassi, è lontano dalle posizioni del partito, «perché le primarie ono proprie del sistema maggioritario e perché alimentano una personalizzazione della politica che riteniamo sbagliata».

Liberazione 9.1.05
Se Bertinotti disturba
di Piero Sansonetti


C'è una vecchia legge della politica, semplice semplice, che dice così: quando un partito di centro (o un gruppo di partiti di centro) si allea con un partito di sinistra, la politica di questo partito (o di questi partiti) deve spostarsi a sinistra. Viceversa, se questo partito di centro si allea con un partito di destra, la sua politica sarà corretta a destra. E' una legge vecchissima, non solo la conosceva Machiavelli ma la conoscevano anche Cicerone e Pericle. Le politiche di coalizione si basano sempre su questa legge: un'alleanza tra forze diverse comporta una modifica dei programmi. Per esempio, quando nel 1963 la Democrazia cristiana di Fanfani e di Moro (insieme al Pri di La Malfa e al Psdi di Saragat) si alleò coi socialisti di Nenni, la politica del governo ebbe una brusca correzione. Si decise la nazionalizzazione dell'energia elettrica - quindi si avviò una politica opposta a quella, tipicamente conservatrice, delle privatizzazioni - e si istituì la scuola media obbligatoria gratuita e unificata, dando un colpo micidiale alle scuole private e realizzando un principio di uguaglianza di fronte all'istruzione di base, che ha retto poi per 40 anni fino alla riforma Moratti.
Viceversa quando Berlusconi, tra il 1999 e il 2000, trovò un accordo politico per fare coalizione con la Lega nord e per puntare al governo, dovette accettare uno spostamento a destra dell'asse liberale, accogliere persino alcuni elementi di xenofobia nel suo programma, costringere anche alleati moderati, come Casini e Follini, a sottoscrivere idee e piani di governo che, nell'ambito di una diversa alleanza, mai avrebbero accettato.
Tutto questo è chiaro? No. C'è un pezzo del mondo politico di centro e di centrosinistra e una parte consistente dell'intellettualità moderata che non sono disposti a prendere atto di queste elementari e facili regole. Michele Salvati e poi Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", negli ultimi giorni, hanno lanciato l'allarme: se si fa il governo con Bertinotti si rischia di modificare la natura del centrosinistra. Cioè ci si potrebbe trovare nella condizione di dover accettare una politica pacifista, contraria alla flessibilità e alla precarietà sul lavoro, favorevole a una politica "liberale" per l'immigrazione. È un allarme giusto? Non c'è dubbio, sì. È impensabile che se l'Ulivo decide di allearsi con Rifondazione Comunista, questa alleanza non comporti uno spostamento a sinistra sui programmi.
Questo preoccupa molto Panebianco - ma anche Salvati e vari dirigenti centristi dell'Ulivo - pensano che l'operazione "alternanza" al vertice dello Stato sia essenzialmente un'operazione di ricambio del ceto dirigente e non delle politiche. L'idea è semplicissima: la borghesia italiana ha bisogno di un governo che le consenta di recuperare competitività sui mercati, senza modificare i meccanismi dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo bisogna ridurre il costo del lavoro, modificare le relazioni industriali a favore delle aziende, tagliare la spesa pubblica, tenere basso il livello del conflitto sociale. Quale è la formula politica per ottenere questi risultati? Cambia. In alcuni momenti può essere più utile un governo di centrodestra, in altri momenti un governo di centrosinistra. Le politiche di questi governi però devono essere fondamentalmente simili, stabili, continuiste una rispetto all'altra.
Cos'è che fa saltare questo schema, che fin qui ha funzionato perfettamente, anche negli anni '90? L'ingresso nel governo del partito di Rifondazione. C'è un solo modo per risolvere questa contraddizione: eliminare Rifondazione dall'alleanza. Però c'è un problema: se si elimina Rifondazione dall'alleanza si perdono le elezioni, e allora non si può realizzare quel ricambio di gruppi dirigenti che la borghesia auspica, perché non si fida più dei gruppi berlusconiani, troppo egoisti, troppo faziosi,troppo rozzi, troppo chiusi nell'interesse di parte, troppo poco nazionali. A meno che...
A meno che non si fanno saltare tutti gli schemi e si punta su una soluzione centrista che scompagini i due schieramenti. Non c'è dubbio che una parte consistente dell'establishment ha in mente questo disegno. Nei giorni scorsi abbiamo anche indicato il nome di un candidato a gestire un processo politico di questo genere: il professor Mario Monti. Forse è questa la vera partita che si è aperta oggi in Italia. Tra centrosinistra e centrismo. Ed è ancora molto incerta.
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comunicano che la pubblicità del nuovo libro

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MARTEDÌ 28 DICEMBRE

a pag. 13, nella sezione IL MONDO
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nei prossimi giorni

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sarà pubblicata anche una recensione
(non si sa ancora esattamente in che data)
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fecondazione
da domani la Consulta si occupa dell'ammissibilità dei referendum

La Stampa 9 Gennaio 2005
DOMANI AL VIA LA CAMERA DI CONSIGLIO. IN PASSATO, POCHI I QUESITI BOCCIATI DALLA CORTE
Fecondazione, battaglia davanti alla Consulta
È il giorno dei sei «comitati del no».
I referendari forti di milioni di firme

di Francesco Grignetti


ROMA. Saranno almeno sei, i Comitati per il No al referendum sulla fecondazione artificiale che domani scenderanno in campo davanti ai quindici illustri giudici costituzionali, chiamati a motivare le ragioni giuridiche per cui cancellare i quesiti referendari. E poi ci sarà l’Avvocatura dello Stato, che ha avuto mandato dal governo di fare resistenza (il sottosegretario Gianni Letta ha spiegato così: «È un atto dovuto. Per principio il governo è tenuto a difendere l’ordinamento»). Solitario, sul versante opposto, ci sarà invece il solo Comitato promotore. Che però ha la forza di diversi milioni di firme raccolte nei mesi scorsi. Alle 9,30 di domani, dunque, comincia la camera di consiglio, presieduta da Valerio Onida, che dovrà sancire la vita o la morte dei referendum. Negli ultimi anni sono stati dichiarati inammissibili pochissimi quesiti e soltanto quando erano manifestamente «contraddittori» o «disomogenei».
Sarà una lunga giornata di discussione. Un duello di fini giuristi tenuto a porte chiuse. Poi i giudici costituzionali avrebbero tempo, a rigor di legge, fino al 20 febbraio per prendere la loro decisione. Ma siccome il presidente Onida e il vicepresidente Carlo Mezzanotte termineranno il loro mandato novennale alla fine di questo mese (e già il presidente ha indetto un solenne incontro con la stampa per il 20 gennaio) è scontato che l’ammissibilità o meno dei quesiti si conoscerà nel giro di un paio di settimane.
A sostenere le ragioni del referendum saranno i professori Nicolò Zanon, dell’università di Milano, e Tommaso Frosini, dell’università di Sassari. Coordinatore, ma non presente in camera di consiglio, Michele Ainis, preside della facoltà di Giurisprudenza dell’università di Teramo. Contro, per la prima volta nella storia della Consulta, saranno più Comitati: il Movimento per la Vita dell’ex deputato fiorentino Carlo Casini; un Comitato per la tutela della salute della donna rappresentato dal professore napoletano Giuseppe Abbamonte; il Comitato per la Difesa della Costituzione (composto di diversi professori universitari cattolici, da non confondere con l’omonimo comitato di area girotondina); il Comitato per la difesa dell’articolo 75 della Costituzione che si affida alla sapienza giuridica del professor Pitruzzella; il raggruppamento Umanesimo integrale-Comitato per la difesa dei diritti fondamentali della persona; e infine la Consulta nazionale antiusura, associazione privata molto vicina ai vescovi italiani, presieduta da padre Massimo Rastrelli, gesuita napoletano. «Il fiorire delle iniziative spontanee - s’è compiaciuto Carlo Casini - rende evidente che lo slogan radicale, ossessivamente ripetuto negli ultimi mesi, secondo cui tutta la cultura concorderebbe nel ritenere la legge sulla fecondazione artificiale incostituzionale, medievale, proibizionista, è assolutamente privo di fondamento». Pacato ma anche secco era il commento del professore Frosini, in un’intervista a «Il Riformista» di qualche giorno fa: «Se la Corte non ammetterà i quesiti sulla fecondazione, che toccano i diritti fondamentali dell’individuo, per l’istituto stesso del referendum sarà un duro colpo». Quanto alla scelta del governo, contesteranno la logica dell’atto dovuto: «Qui il problema è se impedire o no che si esprimano i cittadini. Non è in discussione la costituzionalità di una legge».
Per il momento, infatti, si discute non del sì è del no, ma se ammettere i quesiti. Cioè se lo svolgimento del referendum non vada ad intaccare «norme a contenuto costituzionalmente necessario». Ad ascoltare, ponderare, e quindi decidere, saranno i quindici giudici costituzionali. Impossibile dire fin d’ora quale sarà il loro orientamento. Salta agli occhi, però, che il presidente Onida abbia scelto come relatori, per scrivere materialmente le sentenze, quasi esclusivamente giudici-giudici, ossia membri della corte eletti da magistrati, non quelli votati dal Parlamento o nominati dal Quirinale. E perciò se sarà il professor Annibale Marini, eletto dal Parlamento il 18 giugno 1997, ad occuparsi del quesito più morbido (il tetto dei tre embrioni nella procreazione medicalmente assistita), saranno poi tre giudici provenienti dalla Cassazione quali Franco Bile (abrogazione totale della legge), Francesco Amirante (limiti alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni) e Alfio Finocchiaro (divieto di fecondazione eterologa) a trattare i temi più scottanti sotto l’aspetto etico-politico. Scelta accorta e evidentemente non casuale. A destra, la Corte costituzionale è guardata con sottile sospetto. Scriveva «Il Foglio», al momento dell’elezioni di Onida alla presidenza: «C’è ancora alla Consulta una sorta di conventio ad excludendum per i giudici che provengono dall’area del centro destra».