sabato 2 aprile 2005

sinistra
SIC!
(tutti - TUTTI!? - nel coro...)

La Stampa 2 Aprile 2005
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE: CRESCIUTO ASSIEME ALLA GLOBALIZZAZIONE, NE HA SEMPRE VISTO I GUASTI
Bertinotti: un Papa militante
primo no global della storia

«Ha mostrato l’altra faccia della sofferenza, del corpo malato
da contrapporre al modello del benessere sotto tutti gli aspetti»
Riccardo Barenghi

ROMA. LA prima domanda che facciamo a Fausto Bertinotti, leader di uno dei pochi partiti comunisti rimasti su piazza in occidente, non è che cosa pensa del Papa che fece crollare il comunismo e del Papa (sempre lui) che non hai mai smesso di denunciare le ingiustizie del sistema che ha vinto, il capitalismo. Quella gliela facciamo dopo.
Prima vorremmo sapere il suo giudizio su questa morte celebrata in diretta mentre il Papa è ancora vivo. E’ giusto, è eticamente giusto?
«Io direi che se la morte viene subita, se qualcuno uccide un altro e questa scena viene ripresa, proiettata, scritta e commentata in diretta, è una violenza intollerabile, lede il principio di umanità. Dovrebbe essere un tabù, l’inviolabilità della sfera privata anche se chi muore è un personaggio pubblico. Ma se un personaggio sceglie di trasformare questo accadimento ordinario (la morte) in un evento, allora il discorso cambia».
E questa è stata la scelta del Papa?
«A me pare di sì, la scelta di voler comunicare una certa interpretazione del mondo che fa della sofferenza, la sofferenza fino alla morte, una parte dell’essenza umana. Parte che invece viene ideologicamente occultata, nascosta, anzi peggio, tradotta in patologia. Il nostro modello è quello del benessere sotto tutti i suoi aspetti, tutti dotati di corpi sani, belli, perfetti, capaci di esibirsi sui cartelloni pubblicitari. Il Pontefice invece mostra l’altra faccia, l’altro corpo. Ma non lo fa per contrapporre un’etica a un’altra, sbaglieremmo se ne dessimo una lettura secolarizzata. Dietro c’è il mistero, c’è Dio. C’è la Croce. E anche in questo senso io considero questo Pontefice un militante».
Anche lui?
«Durante tutto il suo pontificato, Wojtyla ha ingaggiato un corpo a corpo con la modernità. Sia nell’immersione in essa sia nell’inquietudine di fronte a una secolarizzazione erosiva dei valori della religione. Qualsiasi cosa fosse in campo, il Papa l’ha vissuta con lo spirito del militante. Nel bene e nel male».
Fece bene o male a far crollare il comunismo?
«Intanto diciamo che questa è una grande sciocchezza. I Paesi comunisti dell’Est sono crollati per ragioni endogene. Con la sconfitta della Primavera di Praga nel ‘68 si è persa l’ultima occasione per riformare quei regimi. Che si avviarono a un declino che vent’anni dopo li porterà all’implosione, al crollo. Non voglio dire che il ruolo del Pontefice in quel crollo non sia stato importante, anzi lui e la Chiesa aprirono un ombrello di protezione per tutti coloro che all’est si ribellavano. Creando quel sostegno internazionale che era mancato (colpevolmente) ai tempi di Praga. Dico però che quei socialismi realizzati sarebbero crollati anche senza il suo aiuto. Ma subito dopo aver collaborato alla caduta di quel Muro, Wojtyla si è voltato e ha cercato di abbattere l’altro muro, quello che divide la ricchezza dalla povertà, l’eguaglianza dalla ingiustizia. Non ha visto nel crollo del comunismo il trionfo della libertà e della democrazia. Tanto che l’ha definito “un male necessario”».
Contemporaneamente però azzerava la teologia della liberazione, impediva qualsiasi riforma della Chiesa, irrigidiva le posizioni sui diritti civili, le libertà personali, in particolare delle donne. Un Papa integralista?
«La teologia della liberazione l’ha considerata da subito un avversario, ne temeva l’approdo “comunista”. Paradossalmente però, dopo averla messa a tacere, ne ha fatto sua l’ispirazione sociale. In fondo questo Pontefice è figlio del Concilio Vaticano II, quando invece del furto (”non desiderare la roba d’altri”), sotto osservazione della Chiesa finiscono la povertà e l’ingiustizia. Contemporaneamente però ribadisce che “non c’è salvezza senza la Chiesa”, mettendo così l’Istituzione al di sopra di tutto e chiudendola in se stessa e nella sua dottrina conservatrice».
E non ci vede dell’integralismo in tutto questo?
«E’ un termine che non uso, perché non dà conto della sua grande apertura al mondo. La sua forza sta appunto nel non essere catalogabile, non abbiamo una casella in cui possiamo metterlo. Per un verso è integralista, per altri è l’opposto».
Lei ha spesso apprezzato gli interventi papali. A proposito del capitalismo, una volta ha detto che il Papa era più di sinistra di molta sinistra; prima del G8 di Genova, disse che il Pontefice parlava come una tuta bianca (i disobbedienti). Alla vigilia della guerra in Iraq, ha dichiarato che «il Papa è la coscienza del nostro tempo». Non sarà un po’ troppo papista, Bertinotti?
«Io attribuisco a questo Pontefice un merito storico: essere stato un argine contro la possibilità che la guerra preventiva di Bush diventasse un conflitto di civiltà. Insieme al movimento per la pace, lui è stato il freno più consistente a questa deriva. E lo è stato grazie al fatto che non si è schierato “semplicemente” contro la guerra ma anche contro il liberismo. La sua è una denuncia dettata dalla necessità di vivere non solo in pace, ma in quale pace e in quale mondo, con quale sistema sociale, economico, politico. Assomiglia molto ai milioni di persone che denunciano e propongono le stesse cose».
Sta dicendo che il Papa è stato un no global?
«Sempre premettendo che le nostre caselle non funzionano per chi vive un aspetto trascendente che ne guida anche le azioni terrene, direi che questo è un Papa cresciuto assieme alla globalizzazione. Ma non l’ha sposata, non ne ha cantato le lodi semmai ne ha sempre visto i guasti e l’ha contrastata. Dunque sì, secondo me Wojtyla è il primo Papa no global della storia».

i media e il cervello dei bambini

Corriere della Sera 2.4.05
Si adatterebbero al multitasking senza sviluppare il ragionamento
I media cambiano il cervello dei bambini
Ricerca Usa: l'esposizione a tv, radio, web, musica, videogiochi, chat rischia di far sparire il pensiero critico nei più giovani
Alessandra Farkas

NEW YORK (USA) – I bambini americani sono esposti, tutti i giorni, ad una media di 8 ore e mezzo tra televisione, video giochi, musica sugli i-pod, radio, chat room di Internet, tutti fruiti allo spesso tempo, spesso mentre fanno i compiti. Lo rivela uno studio realizzato dalla Kaiser Family Foundation sugli effetti del cosiddetto “multitasking”, il bombardamento multimediale che, secondo gli addetti ai lavori, minaccia gli individui, soprattutto giovani, che compiono più mansioni, contemporaneamente. I dati sono preoccupanti specialmente per quanto riguarda l’abilità di concentramento dei teen-ager.
“Molti psicologi si chiedono se i cervelli dei giovani, ancora in fase di sviluppo, si stiano adattando, riplasmandosi al multi-tasking, - scrive Usa Today, - invece di imparare a pensare in modo critico e ragionato, essenziale in una democrazia”. “La cosa più preoccupante è che non sappiamo con precisione l’effetto che i media hanno sul futuro dei bambini”, mette in guardia David Walsh, psicologo del National Institute on Media and the Family, un’organizzazione senza scopi di lucro di Minneapolis. Gli studi svolti fino ad oggi su campioni di popolazione adulta dimostrano che il cervello lavora meglio se si concentra su un solo compito alla volta, invece che su varie funzioni. “Se un problema richiede molta attenzione, la sua esecuzione mentale diventa particolarmente lenta e difficile se si fa multi-tasking”, spiega Walsh, che propone di realizzare al più presto uno studio per misurare l’effetto del multitasking anche tra i giovanissimi. Secondo gli esperti americani, le troppe attività svolte oggi dai giovani, e gli incessanti stimoli dei mass media, hanno influito sulla crescita nel numero di bambini affetti da ADD, la sindrome della deficienza all’attenzione. “Le diagnosi di ADD sono aumentate in modo spropositato”, mette in guardia la psicologa Susan Ratteree, “molti professori sono convinti che la colpa sia del bombardamento multimediale”.
Ma secondo altri esperti i cervelli dei bambini stanno già cambiando, per permettere loro di compiere più funzioni allo stesso tempo, rendendoli, di fatto, più efficienti di quelli adulti per quanto riguarda la concentrazione. “I punteggi dei test d’intelligenza sono migliorati costantemente dal 1940”, afferma Sam Goldstein, professore di neuro-psicologia all’università di Utah, “questa metamorfosi graduale ha reso le nuove generazioni più intelligenti delle precedenti”. Un altro studio, sempre della Kaiser Family Foundation, dimostra inoltre che l’uso dei computer e la televisione non influiscono negativamente sul profitto scolastico. Ma l’ultima parola su questo tema che interessa tutti i genitori, non solo americani, potrebbe venire dal Congresso Usa. Che il mese scorso ha introdotto una legislazione bipartisan che assegna un totale di 100 milioni di dollari, durante un periodo di sei anni, alle ricerche per esplorare gli effetti dei media sullo sviluppo mentale, psicologico e sociale dei bambini.

Munch

La Stampa TuttoLibri 2.4.05
Munch, ossessioni
Lea Mattarella

«NON si dipingeranno più interni con gente che legge o donne che lavorano a maglia, si dipingeranno uomini che vivono, respirano e sentono, che soffrono e che amano...La gente comprenderà che vi è qualcosa di sacro e si leverà il cappello come fosse in chiesa». La dichiarazione di poetica è di Edvard Munch e la dice lunga sul suo destino di pittore di urla, angosce, malinconie, gelosie, disperazioni e paure, come recitano i titoli di alcuni suoi celeberrimi dipinti. Uomini che soffrono e che amano: eccone raccolti un nutrito gruppo in questa mostra romana curata da Øivind Storm Bjerke. In tutto un centinaio di opere tra olii, disegni e grafiche (catalogo Skira). Ci sono tutti i suoi temi prediletti, quelli su cui torna continuamente nel corso degli anni e che gli fanno precorrere molti aspetti dell'Espressionismo. La sua pittura deriva dall'esperienza individuale. Edvard non dimentica mai il suo tragico esordio nel mondo. «I miei quadri sono i miei diari» dice. E il racconto dei suoi primi anni di vita è scandito dalla morte: la madre e la sorella se le porta via la tisi, mentre per lui comincia un'esistenza in cui si sente un sopravvissuto, uno scampato. «Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l'infelicità di allora… Così vissi coi morti». Quando, nel 1880, decide di diventare pittore i suoi defunti se li porta sulle tele. Diventano spettri, fantasmi, visioni. Il dolore, il senso della perdita sembrano invadere tutto il suo immaginario. Volti lividi, sguardi allucinati, spazi che risucchiano e in cui sembra impossibile mantenere un equilibrio stabiliscono le coordinate di uno stile che diventa icona del malessere novecentesco. Tutto comincia a Löten, un piccolo borgo vicino Oslo (che allora si chiamava Christiania), dove Munch nasce nel 1863. Ma poi fondamentali sono i soggiorni a Parigi (il primo è del 1889). Significano scoperta dell'Impressionismo, ovviamente, ma anche conferma della predilezione per Paul Gauguin che aveva già visto in Norvegia nel 1883. Due passioni che messe in pratica significano luce e linea. La luminosità farà una breve apparizione, documentata in mostra da opere come Giovane donna sulla spiaggia, quasi un omaggio a Monet, o il Paesaggio di Nizza, tipico approccio dell'uomo del Nord alla natura mediterranea. Poi, per Munch, a rischiarare è più la luna che il sole del Sud. E il paesaggio arriva a diventare quasi un'astrazione, irradiato come un'onda da arabeschi e linee. Quel capolavoro di incastri che è il Chiaro di luna del Museo di Oslo, datato 1895, mostra come la linea per questo pittore non sia soltanto convulsa e concitata ma possa assumere anche un carattere più decorativo, meno tragico. Laddove invece questa interpreta il dramma in tutta la sua pienezza è in Disperazione, con quelle spirali blu e rosse, «sangue e lingue di fuoco» le chiama lui, che circondano il rassegnato protagonista. O nella litografia L'Urlo, derivazione dal suo quadro più celebre e più spaventoso, marchio della sofferenza dell'uomo contemporaneo, sottratto dal Museo di Oslo ormai diversi mesi fa e non ancora ritrovato. In quest'opera la linea che si contorce sul fondo è quasi la visualizzazione della voce della figura in primo piano: il suo grido si confonde con quello della natura. In poche parole non c'è scampo. Munch è un pittore ossessivo: pochi soggetti continuamente ribaditi. Sempre imbevuti di stati d'animo sofferenti. Morte e malattia la fanno da padrone. C'è la madre che ha appena partorito un bambino condannato da un male che diventa la sua unica Eredità. C'è la stanza della malata che sembra quasi una scena teatrale (tra le amicizie del pittore ci sono Ibsen e Strindberg) e poi, in diverse occasioni, ecco la Bambina malata, autobiografico poiché si tratta della sorella Sophie. Nella versione esposta in questa occasione tutto allude alla catastrofe. La pittura è leggera, accennata, convulsa, graffiata. I colori sono gelidi, stridenti. E, come sempre accade in Munch, c'è questo aspetto di «non finito» che inquieta e stravolge. «Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto». La sua pittura si nutre di memorie e queste non sono mai rasserenanti. Per dire: la salvezza, il riscatto non li trovi neanche nell'amore. Le donne di Munch sono sempre fatali. Il bacio per lui è qualcosa che inghiotte; se qualcuno ti abbraccia è un Vampiro; l'eros è l'abbandono del sé ma non certo per incontrare l'altro; la Pubertà è la perdita dell'innocenza sotto l'ombra di un minaccioso fallo. Negli ultimi anni della sua vita, dopo un ricovero in una clinica psichiatrica, l'artista vive sempre più isolato. I suoi quadri sono le uniche «guardie del corpo». Quando muore, nel 1944, li lascia alla città di Oslo. Molti sono in cattive condizione perché lui non si è mai curato della loro conservazione. Li ha semplicemente «gettati nell'esistenza». Anche in questo erano il suo specchio.
Liberazione 1.4.05
Ingrao a tu per tu con Ciampi: "Sulla guerra sta sbagliando"
di Castalda Musacchio

«Vorrà essere paziente, signor presidente della Repubblica, se sono un po' noioso e torno sull'articolo 11 della Costituzione. Ma mi sentirei un bugiardo se non dicessi che nel mondo si sta affermando la quasi legittimità della guerra e questo mi spaventa». La sala della Lupa è gremita fino all'inverosimile. Ingrao parla guardando direttamente negli occhi il Presidente Ciampi che è lì, seduto in prima fila, e che lo ascolta immobile. Ciò che colpisce è quel rispettoso silenzio che non si può che tenere di fronte a chi rappresenta una "parte del novecento", un protagonista della politica e della storia. Pietro Ingrao ha compiuto novanta anni. E non sembra affatto stanco di "fare" politica.

Ieri il suo compleanno è stato celebrato alla camera dei deputati. A dare inizio alla commemorazione il presidente della camera Casini che ha rivolto il suo benvenuto prima al segretario di Rifondazione poi a Ciampi. Una gaffe? Ingrao al suo novantesimo anno di vita ha di nuovo compiuto una scelta "disobbediente", controcorrente, quella di iscriversi a Rifondazione. Sarà per questo che viene da pensare che forse Casini quella gaffe - se è una gaffe - l'abbia fatta deliberatamente. E nella sala che ospitò per primi i deputati che fecero in anni bui la scelta dell'"Aventino" risuonano i toni intensi di parole pronunciate di fronte a chi "sa", un "patriarca" lo chiama l'amico Mario Tronti. Sì, Pietro Ingrao anche ieri seduto apparentemente distante, schivo anche nel giorno dei suoi festeggiamenti, appare come un vero "patriarca" della politica con la p maiuscola.

Persino ieri - di fronte a Ciampi, ad Amato e a D'Alema, a Fassino e a Rodotà, alla presenza del presidente della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, ad amici come Valentino Parlato, a segretari come Fausto Bertinotti - non ha mancato di offrire a tutti una lezione di passione civile. Non si può che leggere così quell'accorato e polemico appello alla pace rivolto a Ciampi. Sarà forse questa la caratteristica che lo contraddistingue. Una caparbietà reale che lo ha accompagnato in tutti questi novanta anni.

«Un uomo - dice di lui Casini - che rappresenta un modello di indipendenza di giudizio». «Nell'esperienza di presidente della Camera, seguita a quella di presidente del gruppo comunista, Pietro Ingrao ha portato tutto se stesso». «Vi ha portato innanzitutto - sostiene ancora il presidente della Camera - la sua visione forte e intransigente della centralità del Parlamento, radicata nel primato della sovranità popolare: la "via maestra" indicata dalla Costituzione, come egli ebbe a ricordare nel suo discorso di insediamento». L'omaggio è a un comunista «rimasto fedele a quell'idea».

Fu proprio nel periodo in cui Ingrao fu presidente della Camera (dal 1976 al 1979) che «l'idea della centralità del Parlamento - richiamata ancora da Casini - assunse sostanza e spessore attraverso la custodia attenta delle prerogative parlamentari nel quadro dell'equilibrio tracciato dalla Carta costituzionale». Quella Carta su cui in questi ultimi giorni si è tanto infierito.

Ingrao li rievoca a sua volta quegli anni «durissimi e sanguinosi». Anni richiamati alla mente dal leader che allora dovette compiere scelte sofferte come fu per il rapimento di Aldo Moro. «Non seppi far nulla - dice alle lacrime - per salvarlo, e questa fu la tragedia che segnò quel mio mandato».

Sono momenti toccanti. E' come se la platea percepisse il peso della storia vissuta. «Io - ricorda Ingrao - avevo una grande stima di Moro e sapevo quello che lui poteva rappresentare per la sorte del Paese. Quando mi scrisse una delle sue lettere non riuscii a trovare la forza, non so se ho sbagliato, a dire: "Ma sì, trattiamo"...». Finì così quella legislatura. «Sentivo - dice ancora - che c'era qualcosa di grande che stava investendo non solo il mio partito e la sinistra ma il mondo in cui vivevo». Un mondo che oggi viene violentato da una guerra ritenuta persino legittima.

L'ultimo augurio Ingrao lo riserva all'Europa e al mondo. «Spero - conclude - che questo parlamento sappia costruire questo domani difficile, garantire agli italiani la libertà della rappresentanza, mettere fine ai massacri e salvare la pace».

L'anziano leader ha parlato. L'aula lo applaude. Casini gli regala il campanellino che è solito usare il presidente della Camera. Ingrao sorride: «Lo regalerò ai miei nipotini che ci giocheranno». Poi nell'allontanarsi saluta Bertinotti. «Sempre sugli attenti, segretario...». E aggiunge: «Ma come debbo chiamarti? Presidente, segretario, come posso chiamarti?». Bertinotti commosso, risponde. «Per me è inimmaginabile che io sia il tuo segretario, penso che tu sappia la grandezza del tuo gesto». Alla fine delle celebrazioni, quando l'aula si svuota, restano solo le emozioni e quelle parole intrise di vera passione politica.

Liberazione 1.4.05
Se la sinistra vince...
Rina Gagliardi

Ci siamo: tra tre giorni esatti sapremo. Ma sapremo che cosa? Chi ha vinto e chi ha perso le elezioni regionali, naturalmente. Salvo la scontata diatriba - già iniziata anche questa volta - sul valore politico d'insieme di questo appuntamento. Andiamo al sodo: ventotto milioni di votanti in contemporanea prefigurano comunque un rilevante fatto politico nazionale. E andiamo ancora di più al sodo: se in Puglia l'Unione capeggiata da Nichi Vendola ce la farà a vincere, questo sarà l'evento di gran lunga più rilevante e significativo di queste elezioni. Il segnale clamoroso della svolta possibile, di un "cambio" che va ben oltre la sconfitta delle destre e del berlusconismo. Spirito di parte? Ma no. Dalla Puglia arrivano segnali per noi confortanti: in queste ore, per esempio, nell'entourage di Fitto cresce la paura. E Silvio Berlusconi (che in fatto di fiuto non è secondo a nessuno) non andrà a soccorrere il suo governatore, nonostante gli appelli ripetuti. In breve: se questa nostra speranza troverà il conforto della realtà, nessuno, neppure Giovanni Sartori, potrà negare alle regionali 2005 il valore di un tournant quasi storico. Ma vediamo, appunto, il quadro complessivo, e i criteri di valutazione a cui converrà attenerci.

La posta in gioco più ovvia è quella dei Governi regionali. Un calcolo più politico che numerico (la Lombardia e il suo Governatore pesano evidentemente molto di più del piccolo Molise), anche se, alla fine, avranno il loro peso anche le nude cifre: attualmente la destra è al potere in 8 delle 14 regioni in cui si vota. E domani?

Date per scontate, giust'appunto, la riconferma di Formigoni in Lombardia e di Galan in Veneto, e dando per acquisiti i governi rossi (o "rosa") di Toscana, Emilia, Umbria, Marche, Campania, la partita vera si concentra nelle regioni davvero in bilico: oltre che la già nominata Puglia, esse sono soprattutto Lazio, Piemonte e Calabria. Tutte Regioni governate, in questi ultimi cinque anni, dal centrodestra. Tutte zone ad alto rischio, per i Governatori uscenti.

Al centro di questo rischio, c'è, notoriamente, Francesco Storace: alla vigilia, e prima della telenovela Mussolini, tutti lo davano per vincitore strasicuro, ora, quantomeno, domina l'incertezza. Il leader della destra sociale, non per caso, ha battuto indefessamente le parrocchie di Roma e del Lazio, alla ricerca del voto cattolico, quello che potrebbe "fare la differenza". Proprio ieri, ha incassato il voto di Andreotti: un voto che, in altre epoche, avrebbe spostato da solo qualche centinaia di migliaia di consensi. Chi può dire quanto vale oggi lo schieramento del prestigioso ex-presidente del consiglio, così amato e perfino rimpianto da tanta sinistra? Intanto, Berlusconi e tutti i leader del centrodestra puntano tutto proprio sul Lazio, chiudendo oggi a Roma la campagna elettorale con una megamanifestazione al Palasport. Segno che, forse, in un'altra regione-chiave, il Piemonte, l'ago della bilancia sta spostandosi a favore di Mercedes Bresso. Se la candidata ambientalista si affermerà, vorrà dire che il «vento del Nord» alla rovescia, quello evocato nel 2001 da Umberto Bossi, ha cominciato a risoffiare nella direzione giusta.

Il secondo paradigma del voto (ma forse non in ordine di importanza) sarà la sua "cifra" politica: la sua funzione, per dirla con una formula sintetica, di "Grande Primaria", ovvero di manifestazione degli umori profondi del paese, anche e soprattutto in vista delle decisive elezioni politiche del 2006. Un dato che potrà essere letto solo nel quadro d'insieme, nei vari possibili raffronti e confronti, nell'equilibrio tra l'una e l'altra forza. Qui, alla faccia del maggioritario, a destra come a sinistra, conteranno soprattutto il "come", il "dove" e infine anche il "quanto". Qui, la lista unitaria dell'Ulivo vivrà la sua vera e propria "prova d'appello" e si conteranno, rispettivamente, Ds e Margherita. Per quest'ultima, in particolare, che si presenta da sola nelle regioni in cui può puntare al massimo, varrà quella sorta di vero e proprio laboratorio alla rovescia che è la Calabria, dove è in corso, scusate il bisticcio, una corsa al trasformismo così intensa che non sarà facile per nessuno capire, il 4 aprile, chi ha davvero vinto
E, last but not least, si tratterà di valutare - spassionatamente - la forza della sinistra d'alternativa, della sinistra-sinistra, della sinistra tout court. Vorrà pur dire qualcosa se i candidati "centristi" dell'Unione avranno risultati meno soddisfacenti dei candidati più radicali (e radicati). E vorrà pur dire qualcosa - non solo a noi ma a tutta la politologia - se Rifondazione comunista otterrà un buon risultato - diciamo, un risultato non inferiore e magari un po' migliore rispetto a quello delle ultime europee. Mai come in questo caso, insomma, il Prc svolge una funzione politica generale, non solo perché è l'unica forza politica di una certa consistenza che è presente come tale in tutto il territorio nazionale, ma perché può diventare il punto di riferimento, politico ed elettorale, di una più vasta area di sinistra e di movimento. Di una speranza di mutamento che va ben oltre la specifica dimensione di un partito, e sta oggi visibilmente muovendo un'area di opinione, anche intellettuale, fino ad ora spesso diffidente. Incrociamo le dita e... pazientiamo ancora un'ottantina di ore.