LIBERTÀ 13.12.03
Una Santa Lucia con Bellocchio
Oggi all'Iris 2000 nuovo abbraccio della città al regista piacentino
Nuovo appuntamento con Marco Bellocchio a Piacenza. Stavolta il regista piacentino di "Buongiorno, notte" presentato alla Mostra di Venezia con grande successo ed in altri festival mondiali, arriva con... Santa Lucia. Alle 18 di oggi infatti reincontrerà la cittadinanza alla multisala Iris 2000 dove era già venuto lo scorso 26 novembre. Parteciperanno all'incontro Dario Squeri, presidente della Provincia che cura l'iniziativa, e critici cinematografici come Paola Malanga, Tullio Masoni, che ha curato la recente mostra artistica di Bellocchio allo Spazio Edison di Parma, Enrico Nosei, direttore della Cineteca Italiana di Milano, Emanuela Martini e Lorenzo Pellizzari di di Ciak. L'appuntamento sarà un'altra occasione per parlare di Bellocchio, della sua vita, del suo cinema, della sua Piacenza e si proietterà un video, realizzato dalla Provincia (ne è regista Roberto Dassoni), sui contenuti e i significati della produzione di Bellocchio. Accompagnerà i piacentini verso la sala cinematografica di inizio Corso una multivisione di foto, prese dalla vita e dai lavori del regista, proiettate direttamente sui palazzi di un lato di Piazza Cavalli, a formare un “sentiero” di immagini che suggerisca la coralità dell'omaggio e a rappresenti, simbolicamente, l'abbraccio e l'orgoglio di Piacenza. «L'iniziativa vuole essere - ha detto Squeri - presentandola qualche giorno fa - un modo per dire grazie, a nome della nostra comunità, ad un grande piacentino che non ha mai rinnegato le sue radici e che ha illustrato la sua terra sia con un'attività artistica di grande rilievo, sia con una esperienza umana che si è sempre connotata per la coerenza e per la difesa della libertà».
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Corriere della Sera 13.12.03
CINEMA / «A viso scoperto»
Dalla mattina a mezzanotte i film italiani sul terrorismo
Milano. Una maratona cinematografica è in programma oggi nella Sala Settecento all’Auditorium, dalle 10 a mezzanotte con ingresso libero, sotto il titolo «A viso scoperto: autori, film italiani, terrorismo». Il progetto, in collaborazione con Cinecittà Holding, è curato da Mimmo Calopresti e Mario Sesti. Sono sei le pellicole in programma: «Colpire al cuore» del 1983 (nella foto, Laura Morante) di Gianni Amelio, «Segreti, segreti» (1984) di Giuseppe Bertolucci, «Roma, Paris, Barcellona» (1989) di Paolo Grassini e Italo Spinelli, «La seconda volta» (1995) di Mimmo Calopresti, «La mia generazione» (1996) di Wilma Labate, «Vite in sospeso» di Marco Turco (1998). Alla presentazione, ci saranno fra gli altri il sindaco Walter Veltroni, Mario Martone, Marco Bellocchio, Silvio Orlando, Luigi Lo Cascio, Ennio Fantastichini e Claudio Amendola.
Attraverso le immagini, sarà offerto al pubblico uno spaccato sul modo nel quale il cinema italiano, fino dagli anni Ottanta, ha guardato con attenzione alla lacerazione politica e sociale più profonda e sanguinosa che la nostra società abbia conosciuto dalla fine della guerra ad oggi: il terrorismo. Autori, giornalisti, attori accompagneranno la proiezione di film che dimostrano come l'ideologia della violenza possa essere osservata con intelligenza, determinazione, fermezza, tenerezza, pietà. Nel foyer verrà proiettato, insieme a materiali di documentazione dell'epoca, «Nome di battaglia Bruno» di Bruno Bigoni.
PARCO DELLA MUSICA dalle ore 10 a mezzanotte, viale De Coubertin 15,
tel. 06.80242350
Il Messaggero 12.12.03
“Roma film festival”, un inno a Cinecittà lungo 80 film
di ROBERTA BOTTARI
Un inno a Cinecittà, ospiti come Abel Ferrara, ottanta film, quattro anteprime, eventi speciali e retrospettive: il Roma Film Festival ha molto da offrire. L’ottava edizione di questa manifestazione, presentata in Campidoglio dall’assessore Borgna, è dedicata alla storia degli studios romani, che dal 1937 ospitano i grandi maestri. Per questo ci sarà anche Abel Ferrara: l’assai dibattuto regista americano girerà a Cinecittà (all’inizio del prossimo anno) Go Go Hotel. E nel cast ha voluto Asia Argento e Harvey Keitel. Ferrara presenterà anche un ritratto che gli ha dedicato il regista franco-iraniano Rafi Pitts, dal titolo "Abel Ferrara: not guilty". Il Festival (dal 15 al 22 dicembre fra i cinema Nuovo Olimpia e Quattro Fontane ) è presieduto da Adriano Pintaldi e ha come tema “il mito e il luogo”, cioè lo spazio reale e immaginario, il paesaggio e il set.
La retrospettiva “Viva Cinecitta!”, come ha dichiarato Pintaldi, «era obbligatoria, dopo che negli anni scorsi sono state presentate le monografie di maestri come Monicelli e Bertolucci». Fra i titoli della retrospettiva, "Dora Nellson" di Mario Soldati, "Scipione l'africano", "Fuga a due voci" di Carlo Ludovico Bragaglia (film caduto nell’oblio), "La ricotta" di Pier Paolo Pasolini, "Gangs of New York" di Scorsese. Quattro le anteprime: "The five obstructions" - Le cinque variazioni di Lars Von Trier e Jorgen Leth, "In America" di Jim Sheridan, "The Tulse Luper Suitcases - Episode 3 Antwerp" di Peter Greenaway e "Baramnam Gajok" di Sang-soo Im. Nelle sette sezioni del Festival non manca un tributo a Marco Bellocchio, con un incontro dopo la proiezione di "La religione della storia" e "Sogni infranti", due documentari sugli anni di piombo [giovedì 18 all Nuovo Olimpia?] e un omaggio a Vittorio De Seta. Nella sezione ufficiale si segnalano i catalani Joaquim Jordà e Marc Recha, gli italiani Tonino De Bernardi (con "Serva e padrona") e Corso Salani, i maestri Alexandr Sokurov e Joao Cesar Monteiro, gli sperimentali Jean Jaques Rousseau e registi delle precedenti edizioni come Vincent Dieutre e Margarida Gil.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 14 dicembre 2003
Marco Bellocchio festeggiato ieri sera a Piacenza
Libertà 14.12.03
MULTISALA IRIS
Il regista, presente con la famiglia, omaggiato dalla Provincia con un riuscito gala
Bellocchio: il grazie di Piacenza
Video di Dassoni, parole, emozioni e premi: una vera festa
di Oliviero Marchesi
Dicono che sia stata proprio un'improvvisata, come quando si prepara una festa a un amico senza dirgli nulla in anticipo e attirandolo sul posto con vaghi pretesti. Se così è, il regalo che una Provincia di Piacenza improvvisatasi Santa Lucia ha fatto ieri pomeriggio a Marco Bellocchio è riuscito decisamente bene, a giudicare dalla sorpresa vera (e anche dalla contentezza) che si leggeva in faccia al festeggiato. Soprattutto perché il regalo era bello davvero: un incontro fra il regista e il pubblico della sua Piacenza alla Multisala Iris (in una gremita Sala Europa) per la proiezione di "Buongiorno, Marco": un video su di lui commissionato dalla Provincia e girato dal giovane regista concittadino Marco Dassoni col montaggio di Davide Signaroldi (il titolo cita quello di "Buongiorno notte", l'ultimo, fortunatissimo film di Bellocchio sul caso Moro). "Buongiorno, Marco" non è solo un bel film, ma è un lavoro che tutti gli studiosi di cinema interessati alla figura di Bellocchio dovrebbero vedere. Questo perché riesce a parlare del grande cineasta in modo realmente inedito: e lo fa esplorando i luoghi della sua infanzia e adolescenza (non tanto la Piacenza degli inverni in collegio, quando la Bobbio delle vacanze estive e degli anni avventurosi) per contestualizzare la sua opera, giustapponendo frammenti dei suoi film (in un'emozionante, vertiginosa carrellata ci sono praticamente tutti i lungometraggi da "I pugni in tasca" a "Buongiorno, notte", col domestico "Vacanze in Valtrebbia" a fare da filo conduttore) alle facce e ai ricordi di chi lo conosce bene. Ci sono i fratelli (Piergiorgio, Alberto, Violetta e Letizia), l'attore-feticcio Gianni Schicchi (in gran forma), gli amici Beppe Ciavatta, Sandro Ballerini, Anna Bianchi, Giancarlo e Tilde Cella, Gilda Levi Minzi, Aldo Galleti, ciascuno con le sue memorie. Ci sono i bei versi di Lucia Cerri (elogiati da Bellocchio) e la voce narrante di Rita Nigrelli. C'è la meravigliosa, struggente musica appenninica e partigiana degli Enerbia. Luce in sala, applausi. «Gli avevo detto solo che lo avremmo invitato per una bicchierata» ammicca il presidente della Provincia Dario Squeri, maestro di cerimonie della serata, che invita accanto a sé quattro critici cinematografici, ciascuno dei quali rende omaggio a Bellocchio con rapide notazioni estetiche e soprattutto con aneddoti: Tullio Masoni, Enrico Nosei, Emanuela Martini e Lorenzo Pellizzari (che pronuncia un'autocritica deliziosa: «Lo ammetto: stroncai "I pugni in tasca". Ma c'era un motivo profondo: il film è un incitamento al matricidio e io, all'epoca, nutrivo una forte propensione per quel delitto»). E poi parla lui, l'Omaggiato, lieto e davvero senza parole: «Ringrazio tutti - riesce a dire - e faccio i complimenti all'autore di questo video. Su di me era già stato realizzato un documentario, a ridosso della presentazione a Venezia di "Buongiorno, notte", ma era troppo serio: questo, per la strada che ha scelto, è più bello». Il finale della cerimonia, mentre i presenti fanno ressa al buffet, è un tenero tourbillon di festeggiamenti, come accade nelle rimpatriate ben riuscite. C'è la consegna al regista, da parte del vicesindaco di Bobbio Sergio Bellocchio (parenti? «Sì, alla lontana»), di una targa da parte dell'associazione disabili Lusai per il film collettivo "Tutti o nessuno (meglio noto come "Matti da slegare") girato con Rulli e Petraglia nel 1975. C'è la “foto di famiglia” di Marco coi fratelli. E ci sono le evasive confidenze che il maestro fa su due progetti registici in corso. Il primo è il "Rigoletto" che, in una produzione della Fondazione Toscanini, andrà in scena a marzo al nostro Municipale (e che sembra sia stato già “venduto” a teatri stranieri, interessati a metterlo in scena). «Presto - dice - dovrò affrontare in modo definitivo il problema della messa in scena di questo "Rigoletto". Posso comunque confermare che sarà una regia senza stravolgimenti». Il secondo è "Il regista di matrimoni", il nuovo film: «Ho lavorato molto al soggetto - dice il regista - ma per ora non posso anticipare nulla, se non che si è fatta più concreta la mia speranza di avere come protagonista Sergio Castellitto: sarebbe bellissimo tornare a girare insieme dopo "L'ora di religione"».
(c) 1998-2002 - LIBERTÀ
MULTISALA IRIS
Il regista, presente con la famiglia, omaggiato dalla Provincia con un riuscito gala
Bellocchio: il grazie di Piacenza
Video di Dassoni, parole, emozioni e premi: una vera festa
di Oliviero Marchesi
Dicono che sia stata proprio un'improvvisata, come quando si prepara una festa a un amico senza dirgli nulla in anticipo e attirandolo sul posto con vaghi pretesti. Se così è, il regalo che una Provincia di Piacenza improvvisatasi Santa Lucia ha fatto ieri pomeriggio a Marco Bellocchio è riuscito decisamente bene, a giudicare dalla sorpresa vera (e anche dalla contentezza) che si leggeva in faccia al festeggiato. Soprattutto perché il regalo era bello davvero: un incontro fra il regista e il pubblico della sua Piacenza alla Multisala Iris (in una gremita Sala Europa) per la proiezione di "Buongiorno, Marco": un video su di lui commissionato dalla Provincia e girato dal giovane regista concittadino Marco Dassoni col montaggio di Davide Signaroldi (il titolo cita quello di "Buongiorno notte", l'ultimo, fortunatissimo film di Bellocchio sul caso Moro). "Buongiorno, Marco" non è solo un bel film, ma è un lavoro che tutti gli studiosi di cinema interessati alla figura di Bellocchio dovrebbero vedere. Questo perché riesce a parlare del grande cineasta in modo realmente inedito: e lo fa esplorando i luoghi della sua infanzia e adolescenza (non tanto la Piacenza degli inverni in collegio, quando la Bobbio delle vacanze estive e degli anni avventurosi) per contestualizzare la sua opera, giustapponendo frammenti dei suoi film (in un'emozionante, vertiginosa carrellata ci sono praticamente tutti i lungometraggi da "I pugni in tasca" a "Buongiorno, notte", col domestico "Vacanze in Valtrebbia" a fare da filo conduttore) alle facce e ai ricordi di chi lo conosce bene. Ci sono i fratelli (Piergiorgio, Alberto, Violetta e Letizia), l'attore-feticcio Gianni Schicchi (in gran forma), gli amici Beppe Ciavatta, Sandro Ballerini, Anna Bianchi, Giancarlo e Tilde Cella, Gilda Levi Minzi, Aldo Galleti, ciascuno con le sue memorie. Ci sono i bei versi di Lucia Cerri (elogiati da Bellocchio) e la voce narrante di Rita Nigrelli. C'è la meravigliosa, struggente musica appenninica e partigiana degli Enerbia. Luce in sala, applausi. «Gli avevo detto solo che lo avremmo invitato per una bicchierata» ammicca il presidente della Provincia Dario Squeri, maestro di cerimonie della serata, che invita accanto a sé quattro critici cinematografici, ciascuno dei quali rende omaggio a Bellocchio con rapide notazioni estetiche e soprattutto con aneddoti: Tullio Masoni, Enrico Nosei, Emanuela Martini e Lorenzo Pellizzari (che pronuncia un'autocritica deliziosa: «Lo ammetto: stroncai "I pugni in tasca". Ma c'era un motivo profondo: il film è un incitamento al matricidio e io, all'epoca, nutrivo una forte propensione per quel delitto»). E poi parla lui, l'Omaggiato, lieto e davvero senza parole: «Ringrazio tutti - riesce a dire - e faccio i complimenti all'autore di questo video. Su di me era già stato realizzato un documentario, a ridosso della presentazione a Venezia di "Buongiorno, notte", ma era troppo serio: questo, per la strada che ha scelto, è più bello». Il finale della cerimonia, mentre i presenti fanno ressa al buffet, è un tenero tourbillon di festeggiamenti, come accade nelle rimpatriate ben riuscite. C'è la consegna al regista, da parte del vicesindaco di Bobbio Sergio Bellocchio (parenti? «Sì, alla lontana»), di una targa da parte dell'associazione disabili Lusai per il film collettivo "Tutti o nessuno (meglio noto come "Matti da slegare") girato con Rulli e Petraglia nel 1975. C'è la “foto di famiglia” di Marco coi fratelli. E ci sono le evasive confidenze che il maestro fa su due progetti registici in corso. Il primo è il "Rigoletto" che, in una produzione della Fondazione Toscanini, andrà in scena a marzo al nostro Municipale (e che sembra sia stato già “venduto” a teatri stranieri, interessati a metterlo in scena). «Presto - dice - dovrò affrontare in modo definitivo il problema della messa in scena di questo "Rigoletto". Posso comunque confermare che sarà una regia senza stravolgimenti». Il secondo è "Il regista di matrimoni", il nuovo film: «Ho lavorato molto al soggetto - dice il regista - ma per ora non posso anticipare nulla, se non che si è fatta più concreta la mia speranza di avere come protagonista Sergio Castellitto: sarebbe bellissimo tornare a girare insieme dopo "L'ora di religione"».
(c) 1998-2002 - LIBERTÀ
Caspar David Friedrich (1774-1840)
Corriere della Sera 14.12.03
IL RITRATTO UN ARTISTA INQUIETANTE CHE HA INCARNATO IL DRAMMA DELL’EROE ROMANTICO
Le cime tempestose del giovane Friedrich
di Franco Fanelli
«Friedrich è un paesaggista molto poetico e singolare. La sua natura genuinamente meravigliosa mi ha colpito nel profondo, sebbene molto del suo essere mi sia rimasto oscuro. Quello stato d’animo e quell’eccitamento religioso che hanno da poco ripreso ad animare il nostro mondo tedesco, e una mestizia solenne, Friedrich cerca di esprimerli con finezza in soggetti paesaggistici. Un simile intento gli ha procurato molti amici e, cosa ancora più comprensibile, molti oppositori». Così lo scrittore Ludwig Thieck descrive una sua visita nello studio di Caspar David Friedrich (1774-1840). Lo avrà sorpreso al cavalletto, in quella stanza spoglia dominata da un finestrone a strombo che appare in un suo celebre dipinto. Friedrich gli avrà spiegato che cosa cercava con la pittura e qual era la sua formula: «Chiudi l’occhio fisico per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito». Difficile da capire, in una fase in cui il paesaggio era ancora considerato un genere secondario e i grandi contenuti politici, storici, sociali o religiosi erano affidati alla pittura di figure. Friedrich, in tal senso, era un «trasgressore», un ruolo riconosciutogli anche da Goethe: «... È pur sempre l’unico ad aver cercato di esprimere un significato mistico-religioso in dipinti e disegni di paesaggi».
Dipinse mari in tempesta e naufragi, lande spettrali e vedute urbane, ma il suo elemento era la montagna, luogo mentale e simbolico di tutta l’età romantica. Cime tempestose e baratri sono il teatro in cui vanno in scena la «mestizia solenne» e i «turbamenti religiosi» che tramutano il rampollo di una severa famiglia protestante di commercianti di sapone e candele, l’ex allievo dell’Accademia di Copenaghen e che poi sceglie Dresda come residenza per le ricchezze artistiche della città, in uno dei giganti del Romanticismo tedesco.
Friedrich incarna il dramma dell’eroe romantico, il cui tormento personale si intreccia con i drammi del suo tempo, la psicologia si identifica con la storia. E la storia racconta di una Germania debole perché divisa, umiliata dalle truppe di Napoleone, che nel 1806 sfilano sotto le finestre dello studio del pittore. Per chi, come lui, è un fervente irredentista, l’eroe nazionale è Arminio, il barbaro che fu capace di battere le legioni di Augusto e di redimere la Germania contaminata dagli invasori. Nello stesso atelier di Friedrich, nel 1808, ne canta le gesta il poeta Heinrich von Kleist, in una delle prime letture del suo dramma dedicato al vincitore dei romani. Poco prima un quadro di Friedrich, "Croce in montagna" aveva scosso non solo la critica ma anche la coscienza politica del suo Paese: la grande croce che domina il dipinto era un chiaro riferimento a quella che il poeta Ernst Moritz Arndt aveva indicato come monumento nazionale dei tedeschi finalmente liberi. Tutta la pittura dell’artista tedesco sarà percorsa da questa tensione politica e spirituale. Come l’"Ortis" di Foscolo, il pittore di Dresda capisce presto che il sogno della Rivoluzione francese ha generato un mostro, la dittatura napoleonica; né sarà meglio il dopo, la Germania della Restaurazione e di Metternich, bigotta e repressiva.
Allora saranno i tempi del "Naufragio della Speranza", un quadro-simbolo del Romanticismo, concepito da Friedrich nel 1823: la banchisa polare si chiude intorno alla chiglia di una nave e la stritola; la natura, ancora una volta, prevale con la sua brutalità sui progetti e le utopie dell’uomo. Si trattava di una potente allegoria, portatrice di un messaggio universale ma forse, anche, di una drammatica reminiscenza privata, quella del fratello Johann Christoffer annegato nel 1787 proprio per salvare il piccolo Caspar Friedrich dall’annegamento in un lago ghiacciato.
Troppo inquietante per piacere, quel capolavoro non scampò alle ironie della critica: «Spero che il ghiaccio si sciolga», scrisse qualcuno quando l’opera venne esposta.
Il suo ruolo di precursore di tanta pittura moderna, tuttavia, non gli impedì di conoscere un certo successo: fra i suoi estimatori, lo zar Nicola e il principe ereditario Federico Guglielmo di Prussia che lo onoravano delle sue visite. Friedrich, infatti, non si mosse quasi mai da Dresda. Gli bastavano gli echi delle coste baltiche per concepire dipinti di angosciosa modernità come "Monaco sulla spiaggia"; e gli fu sufficiente il viaggio di nozze, nel 1818, sull’isola di Rugen, per ritrarne le «Bianche scogliere», quasi un idillio in mezzo a una produzione squassata da tempeste marine o dominata dalla terribilità di quei monti che Friedrich visitava in rapide escursioni.
Non compì neppure il fatidico viaggio in Italia, anche perché non era un idolatra dell’antico. Scriveva: «Il celebrato gusto artistico del nostro tempo dovrebbe dunque consistere nell’imitare un’epoca precedente, per quanto splendida sia?». Ma chissà che cosa avrebbe pensato di tutti quegli artisti che da lui hanno ripreso idee e iconografie. Tra di loro, in tempi recenti, due suoi connazionali. Anselm Kiefer, negli anni Ottanta, è tornato sul mito dell’artista-eroe e di Arminio, il cui spirito, in un quadro di Friedrich, giace nelle viscere di una montagna. Hans Haacke alla Biennale di Venezia del 1995 ha tramutato il pavimento del padiglione della Germania in un disastroso «mare dei ghiacci», dominato, in fondo, dalla croce uncinata. Anche il mondo del cinema ha reso omaggio alla visionarietà di Friedrich: nei "Duellanti" di Ridley Scott, il contendente sconfitto ma irriducibile, il generale Feraud, conclude la malinconica passeggiata che segna la fine del film su una roccia da cui scruta un paesaggio immenso e velato, chiara citazione di "Viandante sul mare di nebbia". È forse il più noto quadro di Friedrich, dipinto nel 1818. È "L’Infinito" di Friedrich. Pochi mesi dopo, Giacomo Leopardi avrebbe composto il suo.
Corriere della Sera 14.12.03
LO SCENARIO GLI ARTISTI STUDIAVANO I PAESAGGI COME SCIENZIATI. MA POI CEDEVANO ALL’EMOTIVITÀ
Quando la natura fu rapita dal sentimento
di Francesca Bonazzoli
Quando Lorenzo Ghiberti scrisse i "Commentari", nel sesto decennio del Quattrocento, fece una sintesi dei trattati di Alhazen, Bacone, Pecham e Witelo, ovvero del sapere scientifico medievale. Dopo aver acquisito la fama con i rilievi prospettici della seconda porta del Battistero di Firenze, Ghiberti voleva dimostrare che l’artista non era un semplice artigiano (lui stesso nasceva come orafo), ma il detentore di profonde conoscenze intellettuali e filosofiche. Relegato dalla divisione medievale fra coloro che praticavano le «arti meccaniche», l’artista che avesse saputo di grammatica, geometria, filosofia, medicina, astrologia, ottica, storia, anatomia e aritmetica, avrebbe potuto mettersi sullo stesso livello di chi padroneggiava le «arti liberali», soprattutto la poesia. Dopo Ghiberti, anche Leon Battista Alberti, Brunelleschi, Piero della Francesca, Leonardo, scrissero libri di ottica e prospettiva.
Arte e scienza, dunque, sono andate a braccetto almeno da quando l’arte abbandonò la dimensione ultraterrena dei fondi oro per quella storica, utilizzando prospettiva e volume.
Leonardo, però, è stato il primo ad individuare il fascino dell’eccezione. La precisione delle sue osservazioni scientifiche soccombeva spesso sotto la pressione della fantasia: gli studi sulle acque, per esempio, si trasformavano presto in un immaginifico diluvio universale; le rupi sullo sfondo della "Vergine delle rocce" evocavano un misterioso paesaggio lunare.
È vero, dunque, che i pittori studiavano o scrivevano di ottica e prospettiva, che sezionavano i cadaveri per decifrare l’anatomia del corpo umano, ma poi si lasciavano trascinare dalla propria emotività.
Nei saggi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, raccolti nel 1956 sotto il titolo di "Arte e illusione", lo storico dell’arte Ernst Gombrich riporta un significativo episodio raccontato dall’illustratore tedesco Ludwig Richter. Un giorno, intorno al 1820, l’artista si era trovato a Tivoli con un gruppo di amici a dipingere dal vero il paesaggio e la cascata. Dopo qualche tempo era sopraggiunta una comitiva di pittori francesi. Quando alla sera i lavori furono messi a confronto, ognuno risultava diverso dall’altro nonostante tutti i pittori si fossero sforzati di essere fedeli all’originale.
L’episodio è rivelatore e si può affermare che proprio quando, nella seconda metà del Settecento, si diffuse la pratica di dipingere all’aperto, pratica che avrebbe dovuto garantire una maggiore «scientificità», l’osservazione del paesaggio si trasformò in sentimento del paesaggio. Per esempio, nonostante l’inglese Wright of Derby (1734-1797) frequentasse il cenacolo di industriali e scienziati membri della Lunar Society di Birmingham, quando si trovò a dipingere l’"Eruzione del Vesuvio", non potè trattenersi dal pigiare sul pedale «gotico» ammassando nel cielo enormi cumuli di nubi nere dietro le quali si affacciava una luna che rifletteva il suo spettrale lucore sul mare mentre, in primo piano, piccole figure nere portavano via i morti.
D’altra parte, nel 1757, il suo connazionale Edmund Burke, pubblicava il saggio "Ricerca filosofica sulle origini delle nostre idee del Sublime e del Bello", in cui, di fatto, in piena età dei Lumi, anticipava l’estetica romantica. Il Bello non stava più nell’ordine e nella regolarità, nel decoro e nella convenienza. Il sublime era nel contrasto fra l’incommensurabile e inconoscibile potenza della natura e la debole ragione dell’uomo; nell’irregolare, nella meraviglia, nel mito e nel mistero.
Questo sentimento della natura era percepito soprattutto nel Nord Europa dove si diffondeva l’attitudine a divinizzare la vita e celebrare la figura dell’uomo eroe. Il passaggio delle Alpi e del Gottardo per raggiungere l’Italia durante il Grand Tour, diventava un momento di «formazione», quella che Goethe, nel Faust, chiama la «Bildung». L’inglese Robert Cozens e, successivamente il connazionale William Turner, viaggiavano sempre con l’album da disegno e la scatola degli acquerelli in tasca per fissare dal vivo lo spettacolo della natura, ma quando dipingevano, trascendevano il dato realistico e si lasciavano incantare dai fenomeni atmosferici e luministici.
Negli stessi anni, invece, gli artisti italiani e soprattutto i francesi che venivano a studiare all’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, sviluppavano tutt’altra attitudine rispetto ai colleghi del Nord: invece di cogliere gli effetti notturni, i temporali e gli orridi, semplificavano la composizione del quadro in uno schema ordinato e razionale di chiari e di scuri, di forme geometriche che escludevano l'aneddotico, il dettaglio e il sentimentale. Era il nuovo gusto neoclassico che Diderot riassumeva con la formula «dipingere come si parla a Sparta», ovvero in modo laconico, con poche frasi, secondo la parola d’ordine «ordre, calme, clarté». Le vedute di Louis Gauffier, Jean-Germain Drouais, Pierre-Henri de Valenciennes, sono visioni mentali che ricostruiscono i rigorosi rapporti geometrici della natura.
Sembra un facile schema fra Nord e Sud, eppure, anche a distanza di un secolo, la montagna Sainte-Victoire dipinta da Cézanne restava un esercizio di stile, di studio della luce e dei volumi, mentre le alte pareti di rocce e i dirupi che Böcklin dipingeva, vibravano di una materia paurosa e oscura, nei cui anfratti si insinuavano l’ombra e il mistero.
Corriere della Sera 14.12.03
LE OPERE DAL RINASCIMENTO AI CONTEMPORANEI L’ESPRESSIONE DI UN IDEALE DI BELLEZZA SCOMPOSTA
L’arte e la scienza ai piedi delle rocce
di Martina Zambon
«Queste grandi cattedrali della terra / con i loro cancelli di roccia, pavimenti di nuvole / cori di torrenti e di pietre, altari di neve, e volte di porpora attraversate da una disseminazione di stelle...», scrive John Ruskin in "Modern Painters, IV" nel 1856. Nella metafora di un’architettura di roccia e neve, Ruskin cristallizza lo sguardo di chi, come lui, fu soggiogato dall’immensità silente delle Alpi. A dispetto dei multicolori snowboard e delle mises da sci fosforescenti, il sentimento di chi non ha saputo resistere all’attrazione vertiginosa dei sentieri impervi resta immutato. «Questa mostra racconta del rapporto fra grandi artisti e la montagna - spiega Anna Ottani Cavina, curatrice dell’evento di Rovereto - nei momenti in cui la montagna è stata fonte di ispirazione interiore prima che artistica».
L’ambiziosa rassegna «Montagne - Arte, scienza, mito» è stata progettata dal Mart in occasione del suo primo anno di attività. Ambiziosa e difficile: il poliedrico contenitore artistico trentino, decentrato rispetto alla geografia espositiva «che conta», decide di ammirare lo splendido panorama alpino che circonda il Museo attraverso gli occhi di centinaia d’artisti. Non manca, è vero, un’articolata sezione dedicata ai canyons americani, alle rocce rosse e sconfinate che rappresentano, nel corso dell’800 il mito dell’Ovest, il Far west dell’espansione degli Stati Uniti. È innegabile (e voluto) che la parte del leone sia, però, delle Alpi. È dalle Alpi che parte la riscossa di un ideale di bellezza altro, antitetico ai canoni di armonia ed equilibrio cullati dalle acque del Mediterraneo. Proprio a partire dagli artisti, spesso provenienti dal nord Europa e per questo meno permeati degli italiani dagli stilemi della bellezza classica si elabora un ideale di bellezza scomposta, tragica, selvaggia quanto i crinali alpini. Da qui si articola una rassegna ampia e dai molteplici piani di lettura secondo due direttrici principali, la storia dell’arte e la scienza.
Bandite le rappresentazioni oleografiche e rarefatte le presenze umane nella opere esposte, si è puntato sul fattore della conoscenza, a partire da Leonardo, di cui è esposto il "Trattato della pittura", nella trascrizione di Francesco Melzi della metà del XVI secolo. La montagna che ne esce è quella stilizzata in frammenti rocciosi quasi astratti delle prime rappresentazioni medievali fino alla montagna conosciuta scientificamente. «Abbiamo scommesso su di una mostra "alta" - conclude Cavina -. Il Mart ha una forte vocazione al contemporaneo e sorprendentemente la montagna silenziosa, un’idea meno aneddotica, emerge proprio dalle opere del secolo scorso, da Cézanne con la "Sainte-Victoire" a Kandinskij e Segantini, ma anche da Schifano a Eliasson». La montagna, sinfonia grandiosa nella musica di Richard Strauss ma anche nucleo fondante del percorso interiore di Castorp, antieroe della "Montagna Incantata" di Thomas Mann che inizia il suo romanzo con «Nessuno, tanto meno il giovane Castorp, poteva pensare di ritornare dal viaggio verso la montagna tal quale era partito e riprendere la vita al punto in cui aveva dovuto lasciarla».
Frutto della collaborazione fra il Mart, l’Università di Trento, il Museo di Scienze Naturali di Trento e le Raccolte d’Arte del Castello del Buonconsiglio, la mostra, curata da Anna Ottani Cavina (arte) e Paola Giacomoni (scienza), allinea duecentocinquanta dipinti e alcune sculture provenienti dal Musée du Louvre di Parigi, dalla Tate Gallery di Londra, dal British Museum dalla National Gallery of Art di Washington, dall’Hermitage di San Pietroburgo, dalla Nasjonalgaleriet di Oslo, fra gli altri. In esposizione anche duecento tra libri antichi, carte geografiche, strumenti scientifici, minerali, modelli d’epoca, stampe, dipinti e disegni.
Progettata secondo un percorso non lineare, l’esposizione si sofferma sui momenti salienti della storia della montagna dipinta e rappresentata: il Rinascimento, poi l’età del Sublime e del Romanticismo, gli anni fra ’800 e ’900 e il contemporaneo. Nella sezione dedicata a ’400 e ’500 ritroviamo anche Piero di Cosimo e il Giambologna; per il Settecento, sotto l’egida della riflessione estetica di Edmund Burke e di Emmanuel Kant, sono esposti i dipinti di Caspar Wolf, Caspar David Friedrich, J. M. William Turner, Wright of Derby, John Martin, Arnold Böcklin, per l'epica americana di Albert Bierstadt e Frederic Edwin Church. I simbolisti di fine ’800, Leonardo Bistolfi, Giovanni Segantini, Ferdinand Hodler, Félix Vallotton, Gustave Moreau, propongono la loro visione onirica e visionaria della montagna.
Dopo lo spartiacque segnato da Cézanne, sopraggiungono Edvard Munch, Vasilj Kandinskij, Alexei von Jawlensky e Ernst Ludwig Kirchner. Nel secondo dopoguerra le posizioni si estremizzano, dolorosamente, nell’opera di Kurt Schwitters, nelle pastose matericità di Jean Dubuffet, nella disincantata e pungente ironia di Andy Warhol. Gli ultimi decenni sono rappresentati da Salvatore Scarpitta, Mario Merz e Amish Fulton, Gerhard Richter, Ed Ruscha, Enzo Cucchi e Georg Baselitz. Gli anni ’90 si fanno portatori di una coscienza ambientalista ormai matura che denuncia la violazione della natura montana e l’impossibilità a vivere pienamente la montagna a causa, forse, di snowboard multicolori e tute da sci fluorescenti. La raccontano Anish Kapoor, Andreas Gursky, Walter Niedermayr, Elisa Sighicelli, Olafur Eliasson. In mostra anche «L’echo» il video vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di quest’anno realizzato dalla lussemburghese Su-Mei Tse.
IL RITRATTO UN ARTISTA INQUIETANTE CHE HA INCARNATO IL DRAMMA DELL’EROE ROMANTICO
Le cime tempestose del giovane Friedrich
di Franco Fanelli
«Friedrich è un paesaggista molto poetico e singolare. La sua natura genuinamente meravigliosa mi ha colpito nel profondo, sebbene molto del suo essere mi sia rimasto oscuro. Quello stato d’animo e quell’eccitamento religioso che hanno da poco ripreso ad animare il nostro mondo tedesco, e una mestizia solenne, Friedrich cerca di esprimerli con finezza in soggetti paesaggistici. Un simile intento gli ha procurato molti amici e, cosa ancora più comprensibile, molti oppositori». Così lo scrittore Ludwig Thieck descrive una sua visita nello studio di Caspar David Friedrich (1774-1840). Lo avrà sorpreso al cavalletto, in quella stanza spoglia dominata da un finestrone a strombo che appare in un suo celebre dipinto. Friedrich gli avrà spiegato che cosa cercava con la pittura e qual era la sua formula: «Chiudi l’occhio fisico per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito». Difficile da capire, in una fase in cui il paesaggio era ancora considerato un genere secondario e i grandi contenuti politici, storici, sociali o religiosi erano affidati alla pittura di figure. Friedrich, in tal senso, era un «trasgressore», un ruolo riconosciutogli anche da Goethe: «... È pur sempre l’unico ad aver cercato di esprimere un significato mistico-religioso in dipinti e disegni di paesaggi».
Dipinse mari in tempesta e naufragi, lande spettrali e vedute urbane, ma il suo elemento era la montagna, luogo mentale e simbolico di tutta l’età romantica. Cime tempestose e baratri sono il teatro in cui vanno in scena la «mestizia solenne» e i «turbamenti religiosi» che tramutano il rampollo di una severa famiglia protestante di commercianti di sapone e candele, l’ex allievo dell’Accademia di Copenaghen e che poi sceglie Dresda come residenza per le ricchezze artistiche della città, in uno dei giganti del Romanticismo tedesco.
Friedrich incarna il dramma dell’eroe romantico, il cui tormento personale si intreccia con i drammi del suo tempo, la psicologia si identifica con la storia. E la storia racconta di una Germania debole perché divisa, umiliata dalle truppe di Napoleone, che nel 1806 sfilano sotto le finestre dello studio del pittore. Per chi, come lui, è un fervente irredentista, l’eroe nazionale è Arminio, il barbaro che fu capace di battere le legioni di Augusto e di redimere la Germania contaminata dagli invasori. Nello stesso atelier di Friedrich, nel 1808, ne canta le gesta il poeta Heinrich von Kleist, in una delle prime letture del suo dramma dedicato al vincitore dei romani. Poco prima un quadro di Friedrich, "Croce in montagna" aveva scosso non solo la critica ma anche la coscienza politica del suo Paese: la grande croce che domina il dipinto era un chiaro riferimento a quella che il poeta Ernst Moritz Arndt aveva indicato come monumento nazionale dei tedeschi finalmente liberi. Tutta la pittura dell’artista tedesco sarà percorsa da questa tensione politica e spirituale. Come l’"Ortis" di Foscolo, il pittore di Dresda capisce presto che il sogno della Rivoluzione francese ha generato un mostro, la dittatura napoleonica; né sarà meglio il dopo, la Germania della Restaurazione e di Metternich, bigotta e repressiva.
Allora saranno i tempi del "Naufragio della Speranza", un quadro-simbolo del Romanticismo, concepito da Friedrich nel 1823: la banchisa polare si chiude intorno alla chiglia di una nave e la stritola; la natura, ancora una volta, prevale con la sua brutalità sui progetti e le utopie dell’uomo. Si trattava di una potente allegoria, portatrice di un messaggio universale ma forse, anche, di una drammatica reminiscenza privata, quella del fratello Johann Christoffer annegato nel 1787 proprio per salvare il piccolo Caspar Friedrich dall’annegamento in un lago ghiacciato.
Troppo inquietante per piacere, quel capolavoro non scampò alle ironie della critica: «Spero che il ghiaccio si sciolga», scrisse qualcuno quando l’opera venne esposta.
Il suo ruolo di precursore di tanta pittura moderna, tuttavia, non gli impedì di conoscere un certo successo: fra i suoi estimatori, lo zar Nicola e il principe ereditario Federico Guglielmo di Prussia che lo onoravano delle sue visite. Friedrich, infatti, non si mosse quasi mai da Dresda. Gli bastavano gli echi delle coste baltiche per concepire dipinti di angosciosa modernità come "Monaco sulla spiaggia"; e gli fu sufficiente il viaggio di nozze, nel 1818, sull’isola di Rugen, per ritrarne le «Bianche scogliere», quasi un idillio in mezzo a una produzione squassata da tempeste marine o dominata dalla terribilità di quei monti che Friedrich visitava in rapide escursioni.
Non compì neppure il fatidico viaggio in Italia, anche perché non era un idolatra dell’antico. Scriveva: «Il celebrato gusto artistico del nostro tempo dovrebbe dunque consistere nell’imitare un’epoca precedente, per quanto splendida sia?». Ma chissà che cosa avrebbe pensato di tutti quegli artisti che da lui hanno ripreso idee e iconografie. Tra di loro, in tempi recenti, due suoi connazionali. Anselm Kiefer, negli anni Ottanta, è tornato sul mito dell’artista-eroe e di Arminio, il cui spirito, in un quadro di Friedrich, giace nelle viscere di una montagna. Hans Haacke alla Biennale di Venezia del 1995 ha tramutato il pavimento del padiglione della Germania in un disastroso «mare dei ghiacci», dominato, in fondo, dalla croce uncinata. Anche il mondo del cinema ha reso omaggio alla visionarietà di Friedrich: nei "Duellanti" di Ridley Scott, il contendente sconfitto ma irriducibile, il generale Feraud, conclude la malinconica passeggiata che segna la fine del film su una roccia da cui scruta un paesaggio immenso e velato, chiara citazione di "Viandante sul mare di nebbia". È forse il più noto quadro di Friedrich, dipinto nel 1818. È "L’Infinito" di Friedrich. Pochi mesi dopo, Giacomo Leopardi avrebbe composto il suo.
Corriere della Sera 14.12.03
LO SCENARIO GLI ARTISTI STUDIAVANO I PAESAGGI COME SCIENZIATI. MA POI CEDEVANO ALL’EMOTIVITÀ
Quando la natura fu rapita dal sentimento
di Francesca Bonazzoli
Quando Lorenzo Ghiberti scrisse i "Commentari", nel sesto decennio del Quattrocento, fece una sintesi dei trattati di Alhazen, Bacone, Pecham e Witelo, ovvero del sapere scientifico medievale. Dopo aver acquisito la fama con i rilievi prospettici della seconda porta del Battistero di Firenze, Ghiberti voleva dimostrare che l’artista non era un semplice artigiano (lui stesso nasceva come orafo), ma il detentore di profonde conoscenze intellettuali e filosofiche. Relegato dalla divisione medievale fra coloro che praticavano le «arti meccaniche», l’artista che avesse saputo di grammatica, geometria, filosofia, medicina, astrologia, ottica, storia, anatomia e aritmetica, avrebbe potuto mettersi sullo stesso livello di chi padroneggiava le «arti liberali», soprattutto la poesia. Dopo Ghiberti, anche Leon Battista Alberti, Brunelleschi, Piero della Francesca, Leonardo, scrissero libri di ottica e prospettiva.
Arte e scienza, dunque, sono andate a braccetto almeno da quando l’arte abbandonò la dimensione ultraterrena dei fondi oro per quella storica, utilizzando prospettiva e volume.
Leonardo, però, è stato il primo ad individuare il fascino dell’eccezione. La precisione delle sue osservazioni scientifiche soccombeva spesso sotto la pressione della fantasia: gli studi sulle acque, per esempio, si trasformavano presto in un immaginifico diluvio universale; le rupi sullo sfondo della "Vergine delle rocce" evocavano un misterioso paesaggio lunare.
È vero, dunque, che i pittori studiavano o scrivevano di ottica e prospettiva, che sezionavano i cadaveri per decifrare l’anatomia del corpo umano, ma poi si lasciavano trascinare dalla propria emotività.
Nei saggi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, raccolti nel 1956 sotto il titolo di "Arte e illusione", lo storico dell’arte Ernst Gombrich riporta un significativo episodio raccontato dall’illustratore tedesco Ludwig Richter. Un giorno, intorno al 1820, l’artista si era trovato a Tivoli con un gruppo di amici a dipingere dal vero il paesaggio e la cascata. Dopo qualche tempo era sopraggiunta una comitiva di pittori francesi. Quando alla sera i lavori furono messi a confronto, ognuno risultava diverso dall’altro nonostante tutti i pittori si fossero sforzati di essere fedeli all’originale.
L’episodio è rivelatore e si può affermare che proprio quando, nella seconda metà del Settecento, si diffuse la pratica di dipingere all’aperto, pratica che avrebbe dovuto garantire una maggiore «scientificità», l’osservazione del paesaggio si trasformò in sentimento del paesaggio. Per esempio, nonostante l’inglese Wright of Derby (1734-1797) frequentasse il cenacolo di industriali e scienziati membri della Lunar Society di Birmingham, quando si trovò a dipingere l’"Eruzione del Vesuvio", non potè trattenersi dal pigiare sul pedale «gotico» ammassando nel cielo enormi cumuli di nubi nere dietro le quali si affacciava una luna che rifletteva il suo spettrale lucore sul mare mentre, in primo piano, piccole figure nere portavano via i morti.
D’altra parte, nel 1757, il suo connazionale Edmund Burke, pubblicava il saggio "Ricerca filosofica sulle origini delle nostre idee del Sublime e del Bello", in cui, di fatto, in piena età dei Lumi, anticipava l’estetica romantica. Il Bello non stava più nell’ordine e nella regolarità, nel decoro e nella convenienza. Il sublime era nel contrasto fra l’incommensurabile e inconoscibile potenza della natura e la debole ragione dell’uomo; nell’irregolare, nella meraviglia, nel mito e nel mistero.
Questo sentimento della natura era percepito soprattutto nel Nord Europa dove si diffondeva l’attitudine a divinizzare la vita e celebrare la figura dell’uomo eroe. Il passaggio delle Alpi e del Gottardo per raggiungere l’Italia durante il Grand Tour, diventava un momento di «formazione», quella che Goethe, nel Faust, chiama la «Bildung». L’inglese Robert Cozens e, successivamente il connazionale William Turner, viaggiavano sempre con l’album da disegno e la scatola degli acquerelli in tasca per fissare dal vivo lo spettacolo della natura, ma quando dipingevano, trascendevano il dato realistico e si lasciavano incantare dai fenomeni atmosferici e luministici.
Negli stessi anni, invece, gli artisti italiani e soprattutto i francesi che venivano a studiare all’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, sviluppavano tutt’altra attitudine rispetto ai colleghi del Nord: invece di cogliere gli effetti notturni, i temporali e gli orridi, semplificavano la composizione del quadro in uno schema ordinato e razionale di chiari e di scuri, di forme geometriche che escludevano l'aneddotico, il dettaglio e il sentimentale. Era il nuovo gusto neoclassico che Diderot riassumeva con la formula «dipingere come si parla a Sparta», ovvero in modo laconico, con poche frasi, secondo la parola d’ordine «ordre, calme, clarté». Le vedute di Louis Gauffier, Jean-Germain Drouais, Pierre-Henri de Valenciennes, sono visioni mentali che ricostruiscono i rigorosi rapporti geometrici della natura.
Sembra un facile schema fra Nord e Sud, eppure, anche a distanza di un secolo, la montagna Sainte-Victoire dipinta da Cézanne restava un esercizio di stile, di studio della luce e dei volumi, mentre le alte pareti di rocce e i dirupi che Böcklin dipingeva, vibravano di una materia paurosa e oscura, nei cui anfratti si insinuavano l’ombra e il mistero.
Corriere della Sera 14.12.03
LE OPERE DAL RINASCIMENTO AI CONTEMPORANEI L’ESPRESSIONE DI UN IDEALE DI BELLEZZA SCOMPOSTA
L’arte e la scienza ai piedi delle rocce
di Martina Zambon
«Queste grandi cattedrali della terra / con i loro cancelli di roccia, pavimenti di nuvole / cori di torrenti e di pietre, altari di neve, e volte di porpora attraversate da una disseminazione di stelle...», scrive John Ruskin in "Modern Painters, IV" nel 1856. Nella metafora di un’architettura di roccia e neve, Ruskin cristallizza lo sguardo di chi, come lui, fu soggiogato dall’immensità silente delle Alpi. A dispetto dei multicolori snowboard e delle mises da sci fosforescenti, il sentimento di chi non ha saputo resistere all’attrazione vertiginosa dei sentieri impervi resta immutato. «Questa mostra racconta del rapporto fra grandi artisti e la montagna - spiega Anna Ottani Cavina, curatrice dell’evento di Rovereto - nei momenti in cui la montagna è stata fonte di ispirazione interiore prima che artistica».
L’ambiziosa rassegna «Montagne - Arte, scienza, mito» è stata progettata dal Mart in occasione del suo primo anno di attività. Ambiziosa e difficile: il poliedrico contenitore artistico trentino, decentrato rispetto alla geografia espositiva «che conta», decide di ammirare lo splendido panorama alpino che circonda il Museo attraverso gli occhi di centinaia d’artisti. Non manca, è vero, un’articolata sezione dedicata ai canyons americani, alle rocce rosse e sconfinate che rappresentano, nel corso dell’800 il mito dell’Ovest, il Far west dell’espansione degli Stati Uniti. È innegabile (e voluto) che la parte del leone sia, però, delle Alpi. È dalle Alpi che parte la riscossa di un ideale di bellezza altro, antitetico ai canoni di armonia ed equilibrio cullati dalle acque del Mediterraneo. Proprio a partire dagli artisti, spesso provenienti dal nord Europa e per questo meno permeati degli italiani dagli stilemi della bellezza classica si elabora un ideale di bellezza scomposta, tragica, selvaggia quanto i crinali alpini. Da qui si articola una rassegna ampia e dai molteplici piani di lettura secondo due direttrici principali, la storia dell’arte e la scienza.
Bandite le rappresentazioni oleografiche e rarefatte le presenze umane nella opere esposte, si è puntato sul fattore della conoscenza, a partire da Leonardo, di cui è esposto il "Trattato della pittura", nella trascrizione di Francesco Melzi della metà del XVI secolo. La montagna che ne esce è quella stilizzata in frammenti rocciosi quasi astratti delle prime rappresentazioni medievali fino alla montagna conosciuta scientificamente. «Abbiamo scommesso su di una mostra "alta" - conclude Cavina -. Il Mart ha una forte vocazione al contemporaneo e sorprendentemente la montagna silenziosa, un’idea meno aneddotica, emerge proprio dalle opere del secolo scorso, da Cézanne con la "Sainte-Victoire" a Kandinskij e Segantini, ma anche da Schifano a Eliasson». La montagna, sinfonia grandiosa nella musica di Richard Strauss ma anche nucleo fondante del percorso interiore di Castorp, antieroe della "Montagna Incantata" di Thomas Mann che inizia il suo romanzo con «Nessuno, tanto meno il giovane Castorp, poteva pensare di ritornare dal viaggio verso la montagna tal quale era partito e riprendere la vita al punto in cui aveva dovuto lasciarla».
Frutto della collaborazione fra il Mart, l’Università di Trento, il Museo di Scienze Naturali di Trento e le Raccolte d’Arte del Castello del Buonconsiglio, la mostra, curata da Anna Ottani Cavina (arte) e Paola Giacomoni (scienza), allinea duecentocinquanta dipinti e alcune sculture provenienti dal Musée du Louvre di Parigi, dalla Tate Gallery di Londra, dal British Museum dalla National Gallery of Art di Washington, dall’Hermitage di San Pietroburgo, dalla Nasjonalgaleriet di Oslo, fra gli altri. In esposizione anche duecento tra libri antichi, carte geografiche, strumenti scientifici, minerali, modelli d’epoca, stampe, dipinti e disegni.
Progettata secondo un percorso non lineare, l’esposizione si sofferma sui momenti salienti della storia della montagna dipinta e rappresentata: il Rinascimento, poi l’età del Sublime e del Romanticismo, gli anni fra ’800 e ’900 e il contemporaneo. Nella sezione dedicata a ’400 e ’500 ritroviamo anche Piero di Cosimo e il Giambologna; per il Settecento, sotto l’egida della riflessione estetica di Edmund Burke e di Emmanuel Kant, sono esposti i dipinti di Caspar Wolf, Caspar David Friedrich, J. M. William Turner, Wright of Derby, John Martin, Arnold Böcklin, per l'epica americana di Albert Bierstadt e Frederic Edwin Church. I simbolisti di fine ’800, Leonardo Bistolfi, Giovanni Segantini, Ferdinand Hodler, Félix Vallotton, Gustave Moreau, propongono la loro visione onirica e visionaria della montagna.
Dopo lo spartiacque segnato da Cézanne, sopraggiungono Edvard Munch, Vasilj Kandinskij, Alexei von Jawlensky e Ernst Ludwig Kirchner. Nel secondo dopoguerra le posizioni si estremizzano, dolorosamente, nell’opera di Kurt Schwitters, nelle pastose matericità di Jean Dubuffet, nella disincantata e pungente ironia di Andy Warhol. Gli ultimi decenni sono rappresentati da Salvatore Scarpitta, Mario Merz e Amish Fulton, Gerhard Richter, Ed Ruscha, Enzo Cucchi e Georg Baselitz. Gli anni ’90 si fanno portatori di una coscienza ambientalista ormai matura che denuncia la violazione della natura montana e l’impossibilità a vivere pienamente la montagna a causa, forse, di snowboard multicolori e tute da sci fluorescenti. La raccontano Anish Kapoor, Andreas Gursky, Walter Niedermayr, Elisa Sighicelli, Olafur Eliasson. In mostra anche «L’echo» il video vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di quest’anno realizzato dalla lussemburghese Su-Mei Tse.
un operaio
La Repubblica, ed. di Torino 14.12.03
Singolari affermazioni
della psicologa Giani Gallino
lettera di Rosario Cottone
Trovo singolari le affermazioni della psicologa dell'età evolutiva Tilde Giani Gallino in merito all'ultimo fatto di cronaca di corso Rosselli. Riferendosi ai giovani, afferma: «Nessuno è capace di aiutarli!». Io invece, che provengo da una scuola materialista pratica, avendo fatto l'operaio, e teorica, avendo letto i classici del movimento operaio, affermo che non esiste nulla che non si possa cambiare nella pratica, compreso il comportamento degli uomini e delle donne e quindi la loro coscienza. Evidentemente la formazione psicologica della Gallino le impedisce di aver fiducia nel cambiamento, in quanto gli «strumenti psicologici» di cui lei è in possesso non la incoraggiano e non sono utili a tale scopo. Mi piacerebbe sentire il parere di qualche intellettuale di sinistra che del cambiamento del mondo a sentir loro hanno fatto una ragione di vita. Ma quelli, che in passato hanno rischiato il patibolo, oggi purtroppo vanno nei salotti torinesi e, se cercano il contatto col popolo, lo fanno per sistemarsi nei vari consigli o parlamenti
Singolari affermazioni
della psicologa Giani Gallino
lettera di Rosario Cottone
Trovo singolari le affermazioni della psicologa dell'età evolutiva Tilde Giani Gallino in merito all'ultimo fatto di cronaca di corso Rosselli. Riferendosi ai giovani, afferma: «Nessuno è capace di aiutarli!». Io invece, che provengo da una scuola materialista pratica, avendo fatto l'operaio, e teorica, avendo letto i classici del movimento operaio, affermo che non esiste nulla che non si possa cambiare nella pratica, compreso il comportamento degli uomini e delle donne e quindi la loro coscienza. Evidentemente la formazione psicologica della Gallino le impedisce di aver fiducia nel cambiamento, in quanto gli «strumenti psicologici» di cui lei è in possesso non la incoraggiano e non sono utili a tale scopo. Mi piacerebbe sentire il parere di qualche intellettuale di sinistra che del cambiamento del mondo a sentir loro hanno fatto una ragione di vita. Ma quelli, che in passato hanno rischiato il patibolo, oggi purtroppo vanno nei salotti torinesi e, se cercano il contatto col popolo, lo fanno per sistemarsi nei vari consigli o parlamenti
Illuminismo e razzismo
citato al lunedì: il 7.12.03
Domenicale del Sole 24Ore del 7.12.03
Questione di pelle
Il razzismo moderno trova le sue prime fondamentali formulazioni ra i pensatori dell'Illuminismo
E Kant disse: selvaggi senza morale
di Giuseppe Bedeschi
Non c'è bisogno di appoggiarsi alle osservazioni erudite di Cavalli Sforza per rendersi conto che la "razza", come entità tassonomica, è come minimo una nozione non chiara.
Del resto, coloro che hanno creduto nelle "razze" umane non sono mai stati capaci di mettersi d'accordo sul loro numero: al punto che gli splitters hanno trovato opportuno modificarle, mentre i lumpers hanno sostenuto l'esistenza di pochi, ben differenziati, gruppi razziali. Verso la metà del XIX secolo il numero delle "razze" umane poteva variare da due a sessanta, a seconda dell'autore, come già rilevava ironicamente Darwin nell"Origine dell'uomo. E ciò non a caso: la definizione delle "razze", infatti, è assolutamente arbitraria, come sottolinea opportunamente Gianfranco Zanetti nel suo stimolante saggio La retorica della razza (pubblicato sul numero 3, della rivista "Filosofia politica", insieme ad altri «materiali per un lessico politico europeo: ghenos/razza, ai quali facevo riferimento). Può essere utile ricordare a questo proposito - dice ancora Zanetti - che la differenza genetica fra un Africano e un Europeo non è poi molto superiore alla divergenza media tra gli Europei. Le variazioni visibili sono notoriamente fuorvianti: per esempio, il colore della pelle - il fattore più ovvio per le suddivisioni razziali - è molto simile nel caso degli Africani e degli Aborigeni australiani, ma fra i due gruppi la divergenza genetica è massima. L'Europa è relativamente omogenea, ma - con buona pace di Gobineau e seguaci - il continente è il risultato di una mescolanza genetica tra Africa e Asia avvenuta circa trentamila anni fa.
Detto ciò, il punto da spiegare è questo: se la nozione di "razza" non ha solide basi scientifiche («per quel che riguarda l'uomo le razze non esistono» ha dichiarato nel 1972 al College de France l'ematologo Jacques Ruffié), perché mai tale nozione si presenta sempre come dottata di un alone di oggettività, come sostenuta dal supporto indiscutibile di una altrettanto indiscutibile evidenza empirica?
La risposta a questa domanda deve essere cercata nella storia culturale dell'Occidente. In questa storia il concetto di "razza" emerge assai tardi. Esso non è rintracciabile nel pensiero antico. Nel suo bellissmo saggio I "barbari" di Platone e Aristotele, Enrico Berti mostra assai bene, attraverso un attento esame dei testi, che Platone e Aristotele, pur professando la distinzionittra Greci e "barbari", e pur riconoscendo l'esistenza di alcuni fattori "naturali" che possono aver influito su di essa (ad esempio il clima), non attribuiscono mai la superiorità complessiva dei Greci sui "barbari" a quei fattori naturali, bensì a fattori che oggi diremmo di carattere "culturale", quali l'educazione, le leggi, la costituzione politica. È solo con l'espansione europea oltre oceano, a partire dalla scoperta di Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco de Gama nelle Indie nel 1498, che la visione europea del mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento viene investita da una crisi profonda, e la civiltà europea entra in contatto con gruppi umani che non rientrano nella classificazione biblica. Si cerca allora di concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a un'umanità diversa e sino allora sconosciuta.
Su questa concettualizzazione hanno avuto un peso decisivo, naturalmente, il dominio degli Spagnoli sugli Indios trovati in America e la schiavitù dei neri importati dall'Africa. Poi, con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire dalla metà del Seicento, sono state Olanda, Inghilterra e Francia ad assumere un ruolo preminente tanto nel campo dell'espansione coloniale, quanto in quello delle teorie razziali. Queste ultime si impongono con forza anche in alcuni eminenti eappresentanti dell'Illuminismo, e mostrano subito i veleni di cui sono intrise. Così David Hume, in una nota per l'edizione del 1754 dei suoi Essays, presentò in forma condensata gli argomenti tipici del razzismo moderno: egli diceva che i neri erano per natura inferiori, privi di un ingegno superiore, e quindi privi di civiltà. Kant, a sua volta, introdusse in Germania il concetto di "razze", distinguendone quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o indostanica. Il criterio in base al quale egli operava questa distinzione era in primo luogo una caratteristica fisica: il colore della pelle. Ciò però non imediva a Kant di attribuire alle "razze" precisi connotati intellettuali e morali: asseriva infatti l'inferiorità dei neri, perché «i negri d'Africa non possiedono per natura alcun sentimento più elevato della stupidità», e «il negro si colloca infatti al livello più basso tra quelli individuati in termini di diversità razziali». Oppure, trattando delle popolazioni del Nord America, Kant affermava che «tutti questi selvaggi hanno scarso sentimento del bello in senso morale». (Si veda il bel saggio di Maria Lalatta Costerbosa, Kant e la teoria delle razze). Più tardi, poi, sarebbero venute le "teorie" su una "razza" considerata pericolosissima, gli Ebrei, dei quali già nel Settecento un altro eminente filosofo, il Fichte, proponeva l'espulsione dal suolo tedesco.
Questione di pelle
Il razzismo moderno trova le sue prime fondamentali formulazioni ra i pensatori dell'Illuminismo
E Kant disse: selvaggi senza morale
di Giuseppe Bedeschi
Non c'è bisogno di appoggiarsi alle osservazioni erudite di Cavalli Sforza per rendersi conto che la "razza", come entità tassonomica, è come minimo una nozione non chiara.
Del resto, coloro che hanno creduto nelle "razze" umane non sono mai stati capaci di mettersi d'accordo sul loro numero: al punto che gli splitters hanno trovato opportuno modificarle, mentre i lumpers hanno sostenuto l'esistenza di pochi, ben differenziati, gruppi razziali. Verso la metà del XIX secolo il numero delle "razze" umane poteva variare da due a sessanta, a seconda dell'autore, come già rilevava ironicamente Darwin nell"Origine dell'uomo. E ciò non a caso: la definizione delle "razze", infatti, è assolutamente arbitraria, come sottolinea opportunamente Gianfranco Zanetti nel suo stimolante saggio La retorica della razza (pubblicato sul numero 3, della rivista "Filosofia politica", insieme ad altri «materiali per un lessico politico europeo: ghenos/razza, ai quali facevo riferimento). Può essere utile ricordare a questo proposito - dice ancora Zanetti - che la differenza genetica fra un Africano e un Europeo non è poi molto superiore alla divergenza media tra gli Europei. Le variazioni visibili sono notoriamente fuorvianti: per esempio, il colore della pelle - il fattore più ovvio per le suddivisioni razziali - è molto simile nel caso degli Africani e degli Aborigeni australiani, ma fra i due gruppi la divergenza genetica è massima. L'Europa è relativamente omogenea, ma - con buona pace di Gobineau e seguaci - il continente è il risultato di una mescolanza genetica tra Africa e Asia avvenuta circa trentamila anni fa.
Detto ciò, il punto da spiegare è questo: se la nozione di "razza" non ha solide basi scientifiche («per quel che riguarda l'uomo le razze non esistono» ha dichiarato nel 1972 al College de France l'ematologo Jacques Ruffié), perché mai tale nozione si presenta sempre come dottata di un alone di oggettività, come sostenuta dal supporto indiscutibile di una altrettanto indiscutibile evidenza empirica?
La risposta a questa domanda deve essere cercata nella storia culturale dell'Occidente. In questa storia il concetto di "razza" emerge assai tardi. Esso non è rintracciabile nel pensiero antico. Nel suo bellissmo saggio I "barbari" di Platone e Aristotele, Enrico Berti mostra assai bene, attraverso un attento esame dei testi, che Platone e Aristotele, pur professando la distinzionittra Greci e "barbari", e pur riconoscendo l'esistenza di alcuni fattori "naturali" che possono aver influito su di essa (ad esempio il clima), non attribuiscono mai la superiorità complessiva dei Greci sui "barbari" a quei fattori naturali, bensì a fattori che oggi diremmo di carattere "culturale", quali l'educazione, le leggi, la costituzione politica. È solo con l'espansione europea oltre oceano, a partire dalla scoperta di Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco de Gama nelle Indie nel 1498, che la visione europea del mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento viene investita da una crisi profonda, e la civiltà europea entra in contatto con gruppi umani che non rientrano nella classificazione biblica. Si cerca allora di concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a un'umanità diversa e sino allora sconosciuta.
Su questa concettualizzazione hanno avuto un peso decisivo, naturalmente, il dominio degli Spagnoli sugli Indios trovati in America e la schiavitù dei neri importati dall'Africa. Poi, con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire dalla metà del Seicento, sono state Olanda, Inghilterra e Francia ad assumere un ruolo preminente tanto nel campo dell'espansione coloniale, quanto in quello delle teorie razziali. Queste ultime si impongono con forza anche in alcuni eminenti eappresentanti dell'Illuminismo, e mostrano subito i veleni di cui sono intrise. Così David Hume, in una nota per l'edizione del 1754 dei suoi Essays, presentò in forma condensata gli argomenti tipici del razzismo moderno: egli diceva che i neri erano per natura inferiori, privi di un ingegno superiore, e quindi privi di civiltà. Kant, a sua volta, introdusse in Germania il concetto di "razze", distinguendone quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o indostanica. Il criterio in base al quale egli operava questa distinzione era in primo luogo una caratteristica fisica: il colore della pelle. Ciò però non imediva a Kant di attribuire alle "razze" precisi connotati intellettuali e morali: asseriva infatti l'inferiorità dei neri, perché «i negri d'Africa non possiedono per natura alcun sentimento più elevato della stupidità», e «il negro si colloca infatti al livello più basso tra quelli individuati in termini di diversità razziali». Oppure, trattando delle popolazioni del Nord America, Kant affermava che «tutti questi selvaggi hanno scarso sentimento del bello in senso morale». (Si veda il bel saggio di Maria Lalatta Costerbosa, Kant e la teoria delle razze). Più tardi, poi, sarebbero venute le "teorie" su una "razza" considerata pericolosissima, gli Ebrei, dei quali già nel Settecento un altro eminente filosofo, il Fichte, proponeva l'espulsione dal suolo tedesco.
libertà sessuale
La Repubblica 14.12.03
L'Associazione celebra 50 anni di attività. Come cambiano costumi e conoscenze sulla sessualità: il fenomeno del lunedì mattina
In coda per la pillola del giorno dopo
L'Aied: "I medici non la prescrivono, sarà la nostra battaglia"
Il profilattico è l'anticoncezionale più diffuso. Gli aborti sono in netto calo
di DONATELLA ALFONSO
GENOVA -Al lunedì mattina, davanti alle porte dei 24 consultori Aied di tutta Italia c'è sempre una piccola folla di donne e ragazze, con un'unica richiesta: la pillola del giorno dopo, visto che sempre più spesso ospedali, medici di base e ginecologi oppongono una sorta di "obiezione strisciante" alla prescrizione di un farmaco che c'è chi ritiene una pratica abortiva: chi ha avuto un rapporto a rischio durante il weekend, di fronte ad una prescrizione rifiutata rischia così di aspettare oltre 48 ore, riducendo di molto l'efficacia del farmaco. Unica chance, allora, rivolgersi al consultorio, anche se in ritardo, perché al sabato e alla domenica i centri sono chiusi: e l'Aied, l'associazione per l'educazione demografica che ieri ha festeggiato a Genova cinquant'anni di battaglie civili, ha deciso di offrire assistenza legale gratuita alle donne che, a causa della mancata prescrizione della pillola del giorno dopo, saranno costrette a ricorrere all'interruzione di gravidanza. «La pillola del giorno dopo e la fecondazione saranno le nuove frontiere della nostra azione - spiega Luigi Laratta, presidente nazionale dell'Aied - Dal '53, quando la contraccezione in Italia era illegale, ad oggi, se in Italia si sono fatti passi avanti importanti per la contraccezione, molto del merito è nostro. E in un clima di mancanza di laicismo, c'è forte preoccupazione che la legge sulla fecondazione assistita metta in discussione diritti acquisiti, come la legge sull'aborto. Cosa faremo? Sicuramente il massimo dell'informazione, pronti a dare battaglia, a promuovere raccolte di firme e in ogni caso ad essere sempre vicini alle donne». Ventiquattro centri, più di 250 medici, oltre 100 mila visite l'anno, occupandosi di salute fisica e psichica di donne (il 95%) ma anche di uomini: un lavoro costante dal '71, quando la contraccezione in Italia diventò legittima, tante attività sul territorio, colmando le troppe assenze delle istituzioni. Parte ad esempio da Pordenone, come spiega il responsabile Mario Puiatta, l'azione di tutela legale alle donne cui viene impedito di assumere la pillola del giorno dopo; e sui profili legali della contraccezione d'emergenza l'Aied ha preparato anche una pubblicazione inviata ad ordini dei medici e aziende sanitarie, per spiegare che non si tratta di un sistema abortivo ma, visto che interviene prima dell'annidamento dell'ovulo: l'obiezione di coscienza è illegale quanto ingiustificata.
E in un'Italia dai comportamenti laici, con la pillola - in crescita costante - utilizzata ormai dal 22% delle donne in età feconda, con una riduzione delle interruzioni di gravidanza pari al 40% rispetto al 1978, quando la pillola la prendeva solo il 3,2%. Il metodo anticoncezionale più usato rimane però il profilattico, seguito appunto dalla pillola e dal coitus interruptus, (18,6%) che trent'anni fa era invece al primo posto. Ma ci sono ancora tante insicurezze, tanta disinformazione sulla sessualità, specialmente tra i giovanissimi: «Bisogna ricominciare l'educazione sessuale ad ogni generazione» spiega Mercedes Bo, presidente di Aied Genova - Non a caso Aied fa molti corsi nelle scuole». E i dubbi viaggiano on line: adolescenti e giovani adulti, avvezzi a interrogare il monitor più che familiari ed amici, meno che mai medici o insegnanti, riempiono la posta elettronica (aied@aied.it), esprimono dubbi e timori, con domande di un tale candore che, se da un lato fanno sorridere, dall'altro segnalano che il computer è diventato una sorta di confessionale, un non-luogo dove porre anche i quesiti più imbarazzanti perché, tanto, nessuno ti vede. E da queste domande è nato anche un libretto («Scusate? avrei una domanda da farvi») che raccoglie le confidenze di questa generazione così pronta per la tecnologia, così insicura nelle cose più intime.
L'Associazione celebra 50 anni di attività. Come cambiano costumi e conoscenze sulla sessualità: il fenomeno del lunedì mattina
In coda per la pillola del giorno dopo
L'Aied: "I medici non la prescrivono, sarà la nostra battaglia"
Il profilattico è l'anticoncezionale più diffuso. Gli aborti sono in netto calo
di DONATELLA ALFONSO
GENOVA -Al lunedì mattina, davanti alle porte dei 24 consultori Aied di tutta Italia c'è sempre una piccola folla di donne e ragazze, con un'unica richiesta: la pillola del giorno dopo, visto che sempre più spesso ospedali, medici di base e ginecologi oppongono una sorta di "obiezione strisciante" alla prescrizione di un farmaco che c'è chi ritiene una pratica abortiva: chi ha avuto un rapporto a rischio durante il weekend, di fronte ad una prescrizione rifiutata rischia così di aspettare oltre 48 ore, riducendo di molto l'efficacia del farmaco. Unica chance, allora, rivolgersi al consultorio, anche se in ritardo, perché al sabato e alla domenica i centri sono chiusi: e l'Aied, l'associazione per l'educazione demografica che ieri ha festeggiato a Genova cinquant'anni di battaglie civili, ha deciso di offrire assistenza legale gratuita alle donne che, a causa della mancata prescrizione della pillola del giorno dopo, saranno costrette a ricorrere all'interruzione di gravidanza. «La pillola del giorno dopo e la fecondazione saranno le nuove frontiere della nostra azione - spiega Luigi Laratta, presidente nazionale dell'Aied - Dal '53, quando la contraccezione in Italia era illegale, ad oggi, se in Italia si sono fatti passi avanti importanti per la contraccezione, molto del merito è nostro. E in un clima di mancanza di laicismo, c'è forte preoccupazione che la legge sulla fecondazione assistita metta in discussione diritti acquisiti, come la legge sull'aborto. Cosa faremo? Sicuramente il massimo dell'informazione, pronti a dare battaglia, a promuovere raccolte di firme e in ogni caso ad essere sempre vicini alle donne». Ventiquattro centri, più di 250 medici, oltre 100 mila visite l'anno, occupandosi di salute fisica e psichica di donne (il 95%) ma anche di uomini: un lavoro costante dal '71, quando la contraccezione in Italia diventò legittima, tante attività sul territorio, colmando le troppe assenze delle istituzioni. Parte ad esempio da Pordenone, come spiega il responsabile Mario Puiatta, l'azione di tutela legale alle donne cui viene impedito di assumere la pillola del giorno dopo; e sui profili legali della contraccezione d'emergenza l'Aied ha preparato anche una pubblicazione inviata ad ordini dei medici e aziende sanitarie, per spiegare che non si tratta di un sistema abortivo ma, visto che interviene prima dell'annidamento dell'ovulo: l'obiezione di coscienza è illegale quanto ingiustificata.
E in un'Italia dai comportamenti laici, con la pillola - in crescita costante - utilizzata ormai dal 22% delle donne in età feconda, con una riduzione delle interruzioni di gravidanza pari al 40% rispetto al 1978, quando la pillola la prendeva solo il 3,2%. Il metodo anticoncezionale più usato rimane però il profilattico, seguito appunto dalla pillola e dal coitus interruptus, (18,6%) che trent'anni fa era invece al primo posto. Ma ci sono ancora tante insicurezze, tanta disinformazione sulla sessualità, specialmente tra i giovanissimi: «Bisogna ricominciare l'educazione sessuale ad ogni generazione» spiega Mercedes Bo, presidente di Aied Genova - Non a caso Aied fa molti corsi nelle scuole». E i dubbi viaggiano on line: adolescenti e giovani adulti, avvezzi a interrogare il monitor più che familiari ed amici, meno che mai medici o insegnanti, riempiono la posta elettronica (aied@aied.it), esprimono dubbi e timori, con domande di un tale candore che, se da un lato fanno sorridere, dall'altro segnalano che il computer è diventato una sorta di confessionale, un non-luogo dove porre anche i quesiti più imbarazzanti perché, tanto, nessuno ti vede. E da queste domande è nato anche un libretto («Scusate? avrei una domanda da farvi») che raccoglie le confidenze di questa generazione così pronta per la tecnologia, così insicura nelle cose più intime.
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