La Repubblica 20.12.03
Incontro con la regista che prepara "La mia mano destra",
sul rapporto tra gli Schumann e Brahms
"L'amore è politico"
di PAOLO D´AGOSTINI
[...]
Come Bertolucci, Bellocchio, Giordana, Virzì, i suoi film, pur sempre apolitici, riescono a parlare di cose che ci appartengono.
«Me l´hanno rimproverato, in Francia, che non c'è la politica. E io ho pensato a Truffaut. Il racconto è già un atto politico e d'impegno. Quando racconti i sentimenti, quello che cambia dentro di noi. Il più bel giorno della mia vita, raccontare che cosa sono diventati i nostri legami d'amore, cercare amandoci di dirci la verità, ci rappresenta e dunque è necessario come fare un film in cui la politica preme. Del resto la cosa del film di Bellocchio che ti dà i brividi è quando vedi Moro alla fine che cammina sotto la pioggia e tu hai la sensazione che niente al mondo valeva quel costo là».
[...]
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 23 dicembre 2003
Europa e Islam
La Stampa 23 Dicembre 2003
L’INTEGRALISMO ISLAMICO, COLPA DELL’OCCIDENTE: LA PROVOCAZIONE DI CORM
I talebani? Sono nipotini di Hegel
di Jacopo Iacoboni
NON solo lo scontro delle civiltà è una bubbola: la responsabilità della radicalizzazione islamista dell’Oriente è dell’illuminato Occidente. E attenzione, quando leggete «Occidente» dovete pensare in ugual misura alla filosofia classica tedesca, alla rivoluzione dei Lumi, alla politica dell’attuale amministrazione di Washington. I barbuti talebani sono a modo loro pronipoti di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nipoti del disincantato Max Weber e, almeno in parte, figli delle guerre esportatrici di democrazia dei due Bush: George e George W.
La tesi, qui esposta in forma volutamente paradossale, è il Leitmotiv di un libro di Georges Corm (Oriente Occidente. Il mito di una frattura, Vallecchi, pp. 171, e 15), non proprio un fanatico ulema fissato con le fatwa dell’Università Al Azhar del Cairo. Corm è il classico intellettuale arabo laico, un uomo di frontiera lui stesso, uno che è nato e vissuto in una civiltà arabo-musulmana almeno quanto arabo-cristiana e arabo-liberale, che ha studiato a Parigi, è diventato economista e poi ministro delle Finanze del suo paese, e oggi fa il consulente della Banca mondiale. Se fossimo dentro un romanzo non potrebbe essere altri che Abdul Bashur, il coprotagonista laicissimo e smagato della trilogia di Àlvaro Mutis. Ma questo non è un romanzo. Corm semmai è uno che scrive saggi. Quello di cui si parla qui sta facendo discutere la Francia. Non accade tutti i giorni che il laicismo dell’Occidente venga smascherato da un «orientale» popperiano, che propone una «laicizzazione del pensiero laico», un ritorno alla vera laicità. Da cosa è offuscata, nell’Occidente della prima guerra globale, la «vera laicità»?
Risponde Corm: dal «neotribalismo», che a suo dire impazza sull’asse New York-Washington con significative adesioni europee. Può essere spiegato così. Dopo lo choc dell’11 settembre l’Occidente, soprattutto americano ma non solo (Corm cita espressamente i casi di Italia e Spagna), è in preda a una régression ethniciste, un ritorno al tribalismo che accentua la teoria della frattura (altri direbbero: «lo scontro») con l’Oriente. Si rafforzano atavici luoghi comuni di un Occidente «materialista, razionalista e individualista» e un Oriente «mistico, arcaico e irrazionale», oltretutto sempre più tentato dall’avventura jihadista. Quel che è più singolare, secondo Corm, è che questa «regressione» avviene all’insegna della Ragione, della Democrazia, dei Valori occidentali. Un mito da sfatare? Sì, la frattura tra Oriente e Occidente è in realtà mitica, frutto della visione che l’Occidente si è costruito (e oggi sta rafforzando) dell’Oriente. Vecchia storia: da Hegel, che liquidava l’«orientalismo» come pura «oggettivazione» dello spirito (dunque, un momento di passaggio da superare), al «disincanto» weberiano, arrivando magari ai falchi «neocon» Perle, Kristol e Kagan.
Che fare per spazzar via il cliché? Ricetta-Corm: capire che laicità è un «metodo», non un nuovo integralismo. E appartiene tanto all’Occidente quanto all’Oriente. Quello aurorale, secolo XI e XII, come quello della rinascita culturale laica e anticolonialista del Novecento. Quell’Oriente l’abbiamo dimenticato, persi dietro alle barbe dei mullah e al velo di donne che non ci baciano.
L’INTEGRALISMO ISLAMICO, COLPA DELL’OCCIDENTE: LA PROVOCAZIONE DI CORM
I talebani? Sono nipotini di Hegel
di Jacopo Iacoboni
NON solo lo scontro delle civiltà è una bubbola: la responsabilità della radicalizzazione islamista dell’Oriente è dell’illuminato Occidente. E attenzione, quando leggete «Occidente» dovete pensare in ugual misura alla filosofia classica tedesca, alla rivoluzione dei Lumi, alla politica dell’attuale amministrazione di Washington. I barbuti talebani sono a modo loro pronipoti di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nipoti del disincantato Max Weber e, almeno in parte, figli delle guerre esportatrici di democrazia dei due Bush: George e George W.
La tesi, qui esposta in forma volutamente paradossale, è il Leitmotiv di un libro di Georges Corm (Oriente Occidente. Il mito di una frattura, Vallecchi, pp. 171, e 15), non proprio un fanatico ulema fissato con le fatwa dell’Università Al Azhar del Cairo. Corm è il classico intellettuale arabo laico, un uomo di frontiera lui stesso, uno che è nato e vissuto in una civiltà arabo-musulmana almeno quanto arabo-cristiana e arabo-liberale, che ha studiato a Parigi, è diventato economista e poi ministro delle Finanze del suo paese, e oggi fa il consulente della Banca mondiale. Se fossimo dentro un romanzo non potrebbe essere altri che Abdul Bashur, il coprotagonista laicissimo e smagato della trilogia di Àlvaro Mutis. Ma questo non è un romanzo. Corm semmai è uno che scrive saggi. Quello di cui si parla qui sta facendo discutere la Francia. Non accade tutti i giorni che il laicismo dell’Occidente venga smascherato da un «orientale» popperiano, che propone una «laicizzazione del pensiero laico», un ritorno alla vera laicità. Da cosa è offuscata, nell’Occidente della prima guerra globale, la «vera laicità»?
Risponde Corm: dal «neotribalismo», che a suo dire impazza sull’asse New York-Washington con significative adesioni europee. Può essere spiegato così. Dopo lo choc dell’11 settembre l’Occidente, soprattutto americano ma non solo (Corm cita espressamente i casi di Italia e Spagna), è in preda a una régression ethniciste, un ritorno al tribalismo che accentua la teoria della frattura (altri direbbero: «lo scontro») con l’Oriente. Si rafforzano atavici luoghi comuni di un Occidente «materialista, razionalista e individualista» e un Oriente «mistico, arcaico e irrazionale», oltretutto sempre più tentato dall’avventura jihadista. Quel che è più singolare, secondo Corm, è che questa «regressione» avviene all’insegna della Ragione, della Democrazia, dei Valori occidentali. Un mito da sfatare? Sì, la frattura tra Oriente e Occidente è in realtà mitica, frutto della visione che l’Occidente si è costruito (e oggi sta rafforzando) dell’Oriente. Vecchia storia: da Hegel, che liquidava l’«orientalismo» come pura «oggettivazione» dello spirito (dunque, un momento di passaggio da superare), al «disincanto» weberiano, arrivando magari ai falchi «neocon» Perle, Kristol e Kagan.
Che fare per spazzar via il cliché? Ricetta-Corm: capire che laicità è un «metodo», non un nuovo integralismo. E appartiene tanto all’Occidente quanto all’Oriente. Quello aurorale, secolo XI e XII, come quello della rinascita culturale laica e anticolonialista del Novecento. Quell’Oriente l’abbiamo dimenticato, persi dietro alle barbe dei mullah e al velo di donne che non ci baciano.
il padre del razzismo moderno, De Gobineau (1816-1882), in Persia
La Stampa 23 Dicembre 2003
IL VIAGGIO IN ORIENTE DEL CONTE «RAZZISTA»: MOSCHEE, MISERIE E SPLENDORI, PERSONAGGI STRANI, RACCONTATI CON AMMIRAZIONE
Gobineau, nella Persia
dei dervisci furfanti
di Mario Baudino
MENTRE usciva in Francia il libro che lo avrebbe consegnato all’inferno della storia, facendo del suo nome un sinonimo di cattivo maestro, Joseph-Arthur conte di Gobineau se ne stava beatamente in Persia, addetto d’ambasciata inviato là da Napoleone III poco dopo la proclamazione, a Parigi, del Secondo Impero. Il quarantenne aristocratico legittimista, che aveva iniziato la carriera diplomatica come capo di gabinetto di Aléxis de Tocqueville, non amava particolarmente il sovrano, ma aveva un’amicizia totale, nonostante le vedute piuttosto differenti, con il grande liberale.
Guardandoli ora, insieme, in una sorta di cartolina d’epoca, sembrano e il diavolo e l’acqua santa: l’uno bollato per sempre come ideologo del razzismo dopo la pubblicazione del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, l’altro cresciuto sempre più nella considerazione dei posteri come teorico della democrazia. Su qualche punto, però, dovevano intendersi per forza: e possiamo immaginare che il ministro degli Esteri francese leggesse con piacere pagine come quelle che De Gobineau scriveva da Teheran, prendendosela con quanti, in Europa, «hanno considerato i popoli dell’aurora alla stregua di rarità dimenticate in qualche angolo sperduto del mondo», e hanno visto in loro «soltanto dei selvaggi frustrati che si sottomettevano ai depredamenti europei, oppure, se facevano resistenza, dei sanguinari».
Era accaduto che nel corso della missione il reazionario attaché d’ambasciata si era innamorato della Persia, del suo sfarzo selvaggio e della pur notevole quantità di caos che rilevava giorno per giorno, della sua cultura, del grande passato e del presente, che riteneva altamente interessante. De Gobineau, nel resoconto di questa avventura, pubblicato nel 1859 col titolo Trois ans en Asie, usa fatalamente il termine «razza», che al lettore moderno non può non ripugnare, ma almeno nei confronti dei persiani non dimostra inclinazioni «razziste». Tanto vale provare a leggerselo, devono aver pensato all’editrice Medusa di Milano. E sfidando un certo scandalo hanno pubblicato il libro in una bella tradizione italiana, dal titolo Viaggio in Persia, con una prefazione di Franco Cardini.
Lo storico, con una punta di provocazione, esordisce citando un non identificato collega intento a chiedergli, strabiliato: «Davvero vuoi scrivere una cosa su De Gobineau? Sei matto?... Di certe cose non si parla e basta. Almeno, se proprio devi scriverle, metti le mani avanti: dinne subito male». Confessiamo che ci piacerebbe moltissimo conoscere il nome del virtuoso intellettuale, destinato tuttavia, sembra, a rimanere un piccolo mistero. Ma è certo che parlare di un «maledetto» come De Gobineau può provocare esecrazione. Giustificata? Secondo Cardini no, anzi. Il conte è stato «espulso dalla porta d’ingresso \ per colpe in gran parte non sue». In effetti il suo razzismo aveva una tradizione alle spalle, che arrivava fino ai padri dell’Illuminismo, e alla scoperta grazie al contatto con la civiltà indiana che si poteva immaginare una comune origine per le popolazioni da allora chiamate «indoeuropee», insomma la gran maggioranza dei «bianchi».
Ora, dato che anche i persiani facevano parte di questa famiglia, forse non dovrebbe stupire l’atteggiamento di apertura che il conte dimostra nei loro confronti. Ma va anche detto che la sua teoria sulla decadenza delle civiltà a causa del mischiarsi della «razze» (è questa l’idea guida del suo saggio «maledetto»: anche se bisogna aggiungere che riteneva il processo inevitabile, e non pensò mai a mezzi per ristabilire ipotetiche «purezze») non influenza il diario di viaggio. De Gobineau ammira le rovine di Persepoli e le grandi moschee, ma anche lo stato di degrado delle zone intorno ai monumenti. Gli piacciono i mucchi di mattoni e di scarti che non deturpano affatto, secondo lui, i tessuti urbani; adora i baffoni di Nasreddin Sha, giovane imperatore persiano, che gli ricordano irresistibilmente «quelli del re di Sardegna».
Gli piacciono la pompa di corte, i diademi e le pietre preziose, e anche l’interesse del popolo per la propria storia, le piccole assemblee spontanee di analfabeti che si creano per strada intorno a qualcuno intento a leggere un libro ad alta voce. Soprattutto sembra estasiato dal feroce individualismo che riconosce nella gente del bazar. Infila aneddoti raccolti chissà dove, come quello sul fallimento della «guerra santa» proclamata - a malincuore - contro la minaccia inglese, nel 1865, e per di più su suggerimento di un consigliere armeno-cattolico. Il suo spirito legittimista, qui, trova di che deliziarsi. Descrive le chiacchiere del bazar, dove nessuno ha la minima intenzione di impegnarsi temendo «di vedere la canaglia armarsi e attraversare la città, come avviene da noi quando la patria viene dichiarata in pericolo, con tutti gli inconvenienti che comporta la comparsa di questo tipo di difensori», l’indifferenza «della plebaglia», i lazzi contro i predicatori e infine lo squagliarsi generale.
Alla fine, il «razzista» De Gobineau deve pur far ricorso all’ideologia, promettendo che «l’analisi della composizione etnica del sangue di questo popolo» spiegherà il motivo per cui «il tempo ha impresso questa direzione scettica e fredda all’intera nazione». Ma questo tributo alle proprie (e altrui) convinzioni non gli impedisce di scrivere un bellissimo diario, di godersi la Persia ottocentesca e di riuscire ancora, a distanza di anni, a comunicarcene il piacere, narrandoci i fuochi d’artificio nella città santa di Qom o magari la storia di una derviscio un po’ furfante che inganna un principe credulone proponendogli in moglie una fata. A libro finito, che cosa resta di questo innominabile De Gobineau? Cardini lo mette tra coloro che «fecero grande» l’Ottocento e si spensero uno alla volta allo scoccare del secolo (il conte morì a Torino nel 1882). L’affermazione è impegnativa, si può discutere. Ma questo «Viaggio in Persia» dimostra che ci sono ancora buoni motivi per «parlare di certe cose». Nonostante il panico dell’ignoto accademico citato nella prefazione.
IL VIAGGIO IN ORIENTE DEL CONTE «RAZZISTA»: MOSCHEE, MISERIE E SPLENDORI, PERSONAGGI STRANI, RACCONTATI CON AMMIRAZIONE
Gobineau, nella Persia
dei dervisci furfanti
di Mario Baudino
MENTRE usciva in Francia il libro che lo avrebbe consegnato all’inferno della storia, facendo del suo nome un sinonimo di cattivo maestro, Joseph-Arthur conte di Gobineau se ne stava beatamente in Persia, addetto d’ambasciata inviato là da Napoleone III poco dopo la proclamazione, a Parigi, del Secondo Impero. Il quarantenne aristocratico legittimista, che aveva iniziato la carriera diplomatica come capo di gabinetto di Aléxis de Tocqueville, non amava particolarmente il sovrano, ma aveva un’amicizia totale, nonostante le vedute piuttosto differenti, con il grande liberale.
Guardandoli ora, insieme, in una sorta di cartolina d’epoca, sembrano e il diavolo e l’acqua santa: l’uno bollato per sempre come ideologo del razzismo dopo la pubblicazione del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, l’altro cresciuto sempre più nella considerazione dei posteri come teorico della democrazia. Su qualche punto, però, dovevano intendersi per forza: e possiamo immaginare che il ministro degli Esteri francese leggesse con piacere pagine come quelle che De Gobineau scriveva da Teheran, prendendosela con quanti, in Europa, «hanno considerato i popoli dell’aurora alla stregua di rarità dimenticate in qualche angolo sperduto del mondo», e hanno visto in loro «soltanto dei selvaggi frustrati che si sottomettevano ai depredamenti europei, oppure, se facevano resistenza, dei sanguinari».
Era accaduto che nel corso della missione il reazionario attaché d’ambasciata si era innamorato della Persia, del suo sfarzo selvaggio e della pur notevole quantità di caos che rilevava giorno per giorno, della sua cultura, del grande passato e del presente, che riteneva altamente interessante. De Gobineau, nel resoconto di questa avventura, pubblicato nel 1859 col titolo Trois ans en Asie, usa fatalamente il termine «razza», che al lettore moderno non può non ripugnare, ma almeno nei confronti dei persiani non dimostra inclinazioni «razziste». Tanto vale provare a leggerselo, devono aver pensato all’editrice Medusa di Milano. E sfidando un certo scandalo hanno pubblicato il libro in una bella tradizione italiana, dal titolo Viaggio in Persia, con una prefazione di Franco Cardini.
Lo storico, con una punta di provocazione, esordisce citando un non identificato collega intento a chiedergli, strabiliato: «Davvero vuoi scrivere una cosa su De Gobineau? Sei matto?... Di certe cose non si parla e basta. Almeno, se proprio devi scriverle, metti le mani avanti: dinne subito male». Confessiamo che ci piacerebbe moltissimo conoscere il nome del virtuoso intellettuale, destinato tuttavia, sembra, a rimanere un piccolo mistero. Ma è certo che parlare di un «maledetto» come De Gobineau può provocare esecrazione. Giustificata? Secondo Cardini no, anzi. Il conte è stato «espulso dalla porta d’ingresso \ per colpe in gran parte non sue». In effetti il suo razzismo aveva una tradizione alle spalle, che arrivava fino ai padri dell’Illuminismo, e alla scoperta grazie al contatto con la civiltà indiana che si poteva immaginare una comune origine per le popolazioni da allora chiamate «indoeuropee», insomma la gran maggioranza dei «bianchi».
Ora, dato che anche i persiani facevano parte di questa famiglia, forse non dovrebbe stupire l’atteggiamento di apertura che il conte dimostra nei loro confronti. Ma va anche detto che la sua teoria sulla decadenza delle civiltà a causa del mischiarsi della «razze» (è questa l’idea guida del suo saggio «maledetto»: anche se bisogna aggiungere che riteneva il processo inevitabile, e non pensò mai a mezzi per ristabilire ipotetiche «purezze») non influenza il diario di viaggio. De Gobineau ammira le rovine di Persepoli e le grandi moschee, ma anche lo stato di degrado delle zone intorno ai monumenti. Gli piacciono i mucchi di mattoni e di scarti che non deturpano affatto, secondo lui, i tessuti urbani; adora i baffoni di Nasreddin Sha, giovane imperatore persiano, che gli ricordano irresistibilmente «quelli del re di Sardegna».
Gli piacciono la pompa di corte, i diademi e le pietre preziose, e anche l’interesse del popolo per la propria storia, le piccole assemblee spontanee di analfabeti che si creano per strada intorno a qualcuno intento a leggere un libro ad alta voce. Soprattutto sembra estasiato dal feroce individualismo che riconosce nella gente del bazar. Infila aneddoti raccolti chissà dove, come quello sul fallimento della «guerra santa» proclamata - a malincuore - contro la minaccia inglese, nel 1865, e per di più su suggerimento di un consigliere armeno-cattolico. Il suo spirito legittimista, qui, trova di che deliziarsi. Descrive le chiacchiere del bazar, dove nessuno ha la minima intenzione di impegnarsi temendo «di vedere la canaglia armarsi e attraversare la città, come avviene da noi quando la patria viene dichiarata in pericolo, con tutti gli inconvenienti che comporta la comparsa di questo tipo di difensori», l’indifferenza «della plebaglia», i lazzi contro i predicatori e infine lo squagliarsi generale.
Alla fine, il «razzista» De Gobineau deve pur far ricorso all’ideologia, promettendo che «l’analisi della composizione etnica del sangue di questo popolo» spiegherà il motivo per cui «il tempo ha impresso questa direzione scettica e fredda all’intera nazione». Ma questo tributo alle proprie (e altrui) convinzioni non gli impedisce di scrivere un bellissimo diario, di godersi la Persia ottocentesca e di riuscire ancora, a distanza di anni, a comunicarcene il piacere, narrandoci i fuochi d’artificio nella città santa di Qom o magari la storia di una derviscio un po’ furfante che inganna un principe credulone proponendogli in moglie una fata. A libro finito, che cosa resta di questo innominabile De Gobineau? Cardini lo mette tra coloro che «fecero grande» l’Ottocento e si spensero uno alla volta allo scoccare del secolo (il conte morì a Torino nel 1882). L’affermazione è impegnativa, si può discutere. Ma questo «Viaggio in Persia» dimostra che ci sono ancora buoni motivi per «parlare di certe cose». Nonostante il panico dell’ignoto accademico citato nella prefazione.
il Dalai Lama
L'Espresso on line
Parla il Dalai Lama:
Obiettivo felicità
Nell'era della globalizzazione il modo migliore per farsi i propri interessi è interessarsi agli altri. Perché l'altruismo ci farà bene.
Intervista di Piero Verni
Guerre religiose, terrorismo internazionale, scontro tra civiltà, globalizzazione, espansione della superpotenza cinese. Il Dalai Lama, leader in esilio del popolo tibetano, per la sua particolare posizione di capo politico e spirituale si trova in questo periodo al centro di molte delle grandi questioni internazionali. In questa intervista a "L'espresso" spiega la sua posizione, la sua ricetta e le sue speranze per il 2004.
Afghanistan, Iraq, terrorismo; legittimità della guerra preventiva ed esportazione della democrazia con le armi. Qual è l'opinione del Dalai Lama su questi temi così caldi?
"Il terrorismo è un problema gravissimo, il principale problema di questi giorni. E certo dobbiamo trovare dei metodi per contrastarlo. Ma reagire alla violenza con altra violenza non mi pare una buona soluzione. È difficile che da una simile scelta possano derivare degli effetti positivi.
Quando parliamo di terrorismo dobbiamo anche comprendere cosa c'è alla base di scelte così estreme. A me pare che per lo più vi siano degli atteggiamenti di paura, di ostilità preconcetta, di disadattamento, le cui cause possono essere molteplici. Ma quali che siano, reagire a tutto ciò con un'altra violenza non credo possa portare a una soluzione effettiva del problema. Anzi, il più delle volte innesca una spirale del terrore che non è di alcun beneficio. Ovviamente mi rendo conto che solo l'amore e la compassione non sono sufficienti, ma bisogna impostare un lavoro serio per far fronte al terrorismo. Ma dovremmo cominciare a cambiare prospettiva e mettere al centro delle nostre azioni l'idea del dialogo, della non violenza, della riconciliazione. Non bastano nemmeno le dimostrazioni, le proteste, ma si deve fare qualche cosa di concreto ed effettivo che dia corpo a queste idee".
Vale a dire?
"Impegnarsi per mettere in pratica queste idee nei nostri comportamenti quotidiani, far diventare noi stessi, le nostre azioni, un'alternativa credibile. Essere un esempio concreto del fatto che esiste una via d'uscita che non sia la guerra o gli attentati. Non si può continuare in questa spirale di violenze contrapposte: è indispensabile creare un clima di fiducia reciproca e fare ogni sforzo per riuscire a risolvere i grandi problemi politici ed economici che sono sull'agenda della politica internazionale in una dimensione pacifica, di reciproco rispetto e tolleranza. Così, forse, riusciremo a superare i sentimenti di collera e di odio che purtroppo oggi si manifestano con questa allarmante frequenza".
È quella "Politica della Gentilezza" di cui lei parla da molti anni?
"Che ci piaccia o meno abitiamo tutti sullo stesso pianeta e facciamo tutti parte della medesima famiglia umana. Europei o asiatici, americani o africani, ricchi o poveri, uomini o donne, credenti o non credenti. In ultima analisi ognuno di noi è un essere umano come tutti gli altri. E tutti noi, tutti gli esseri umani, desideriamo essere felici e non provare dolore. E tutti possediamo l'identico diritto a questa felicità, a questa assenza di dolore. Fino a pochi decenni or sono, esistevano delle nazioni che potevano vivere in parziale o totale isolamento. Oggi non esistono più. Sotto ogni aspetto, politico, economico, culturale, ecologico. Quello che avviene in una determinata parte del mondo, magari remota e poco accessibile, si ripercuote subito in tutto il pianeta. Le informazioni viaggiano alla velocità della luce, radio, televisioni, mass-media, Internet le trasmettono in un baleno ovunque... È il villaggio globale o, se preferisce, la teoria dell'interdipendenza buddista: tutto quello che noi facciamo interagisce con gli altri e tutto quello che fanno gli altri interagisce con noi. Quindi in questa situazione di interdipendenza il modo più conveniente di fare i nostri interessi è di avere presenti anche quegli degli altri. In questo contesto ritengo che si debba fare ricorso alla compassione, all'altruismo, all'amore che sono i migliori strumenti per operare nel mondo e per il mondo la "Politica della Gentilezza".
Lei parla di egoismo ed altruismo come chiavi per capire e affrontare il presente, compresa la grande politica internazionale. Non è un po' semplicistico?
"L'egoismo è una delle malattie peggiori dei nostri tempi. Ci rende il cuore piccolo e crea le condizioni per una vita peggiore per noi e per gli altri. Questo non lo dovremmo dimenticare mai. La compassione, l'altruismo, il buon cuore non sono unicamente nobili sentimenti di cui trae vantaggio il nostro prossimo. Sono stati mentali, condizioni mentali di cui beneficiamo anche noi stessi. Una persona altruista e compassionevole è in genere una donna o un uomo più felice, più sereno. Del resto è la stessa scienza a sostenerlo, non solo i lama del Tibet. In questi ultimi anni ho avuto modo di parlare con molti scienziati e tutti mi hanno detto che coloro che vivono un'esistenza basata su tali sentimenti sono di solito anche individui più sani da un punto di vista fisico perché le tensioni prodotte da un eccesso di competitività, che a sua volta si basa su di una prospettiva egotica, sono dannose sia per il corpo sia per la mente".
Torniamo al terrorismo: spesso è di matrice religiosa...
"Il buddismo, il cristianesimo, l'Islam, tutte le vie spirituali hanno il medesimo fine: essere uno strumento a disposizione degli esseri umani per raggiungere la felicità, la pace interiore e l'armonia. Quando invece, in nome di un'ideale religioso, si persegue l'odio, l'intolleranza, si perseguita il diverso, colui che non la pensa come te, credo che non ci sia più alcuna traccia di spiritualità in queste idee e di religioso sia rimasto solo il nome. Quando agiscono in questo modo, un modo che non ha alcun punto di contatto con l'autentica spiritualità, allora le religioni sono veramente, come diceva Karl Marx, una sorta di oppio dei popoli...".
Fa un po' specie sentire il Dalai Lama che cita Marx...
"Un conto è il marxismo e un conto sono le differenti forme di comunismo che si sono realizzate concretamente. Certo, alcune teorizzazioni del marxismo come la concezione del partito unico e della dittatura del proletariato mi trovano contrario in quanto sono un convinto assertore della democrazia e dei diritti civili. Così come sono in completo disaccordo con l'uso della violenza intesa come strumento per portare avanti la lotta di classe. Però vi è un aspetto del marxismo a cui, come dire, mi sento piuttosto vicino: l'aspirazione a una certa uguaglianza degli esseri umani, l'idea che tutti dovrebbero avere almeno una condizione economica dignitosa, che esista un livello di povertà e indigenza sotto il quale non si dovrebbe mai scendere. E l'idea che, per realizzare tutto questo, chi ha molto dovrebbe sacrificare parte delle sue ricchezze per dare a chi non ha nulla. Trovo che vi sia qualcosa di etico in questa attitudine. Qualcosa di etico che ha delle consonanze profonde con il buddismo Mahayana e con il mio personale modo di sentire. Ovviamente questa eticità viene calpestata se, in suo nome, si compiono violenze e privazioni delle libertà e dei diritti umani dei popoli e delle persone, se in suo nome si uccide, si tortura, si opprime, come purtroppo è avvenuto in molte occasioni in cui i partiti comunisti sono andati al potere".
Che cosa pensa della politica dell'amministrazione Bush che ritiene, in accordo con l'ideologia neo-conservatrice, che la superpotenza Usa debba svolgere un ruolo guida nel mondo?
"Parlando in generale dobbiamo ammettere che oggi gli Stati Uniti sono l'unica superpotenza rimasta e quindi hanno delle maggiori responsabilità. Certamente l'America non è uno Stato dittatoriale. Ha un governo eletto democraticamente e da sempre la democrazia fa parte dello stile di vita degli americani, quindi credo che l'America abbia una grande responsabilità da questo punto di vista. Certo non sempre i governi americani compiono le scelte migliori ma questo fa parte della dimensione democratica. C'è anche la libertà di sbagliare (ride)".
Qual è la sua opinione sul fenomeno della globalizzazione, che tante critiche sta suscitando nel mondo, specialmente nel Terzo mondo?
"Se con il termine globalizzazione intendiamo che questo pianeta è divenuto più piccolo e, ad esempio, ci vestiamo tutti nello stesso modo e tante cose sono divenute universali, beh, non mi sembra che in questo ci sia niente di tragico o particolarmente sbagliato. Ma quando globalizzazione significa che dei poteri economici forti si espandono a danno delle economie dei paesi più piccoli e meno potenti, allora la trovo assolutamente sbagliata e pericolosa. Il dominio di pochi gruppi economici è un vero errore. Credo che ogni nazione, ogni individuo dovrebbe avere la possibilità di sviluppare liberamente la propria economia. Quindi, questo secondo tipo di globalizzazione, dovrebbe essere contrastata perché, anziché diminuirlo, accresce sempre più il divario tra ricchi e poveri. È una situazione malsana. Perfino all'interno di una stessa nazione a volte accade una cosa del genere. I grandi gruppi strangolano quelli piccoli. Quando le differenze economiche crescono oltre misura, siamo davanti non solo a un qualcosa di sbagliato dal punto di vista morale, ma anche a una situazione che a livello sociale sarà prima o poi fonte di ogni sorta di problemi. Anche nella vita economica, come in quella interiore, dovrebbero esserci equilibrio ed armonia".
In Europa sembra montare un senso di allarme, perfino di paura, nei confronti del crescente potere - soprattutto economico - della Cina. Lei ritiene giustificati questi timori?
"La Cina è la nazione più popolosa del mondo. Mi sembra che, insieme ai notevoli cambiamenti economici che sono avvenuti nell'ultimo decennio all'interno della Repubblica Popolare Cinese, oggi nella società civile di quel paese cresca una domanda di maggiori libertà. E credo che anche la stessa leadership cinese, molto consapevolmente, voglia andare verso quella direzione... E questo mi sembra uno sviluppo positivo. Ritengo che anche loro sappiano bene che per un regime autoritario non c'è futuro, però hanno paura che dei cambiamenti troppo repentini possano determinare una situazione di caos, di disordine come nella ex Unione Sovietica. O, peggio ancora, che si possa giungere a un vero e proprio bagno di sangue. Quindi penso che un approccio cauto al cambiamento sia giusto, comprensibile".
A proposito di incontro tra Asia ed Europa, un altro fenomeno evidente è la diffusione in Occidente del buddismo. Quali differenze e quali analogie vede tra buddismo e cristianesimo?
"La maggior differenza tra buddismo e cristianesimo risiede nella concezione di un Dio creatore, assolutamente fondamentale nel cristianesimo. Tutto l'orizzonte di questa religione si fonda sul concetto di un Dio che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Il concetto di Dio, e dell'obbedienza dell'uomo a Dio, permea l'intera struttura spirituale del cristianesimo. Invece il buddismo pone l'accento sulla sofferenza insita nella condizione umana e sui mezzi per poterla prima alleviare e infine superare definitivamente tramite l'Illuminazione interiore. Potremmo dire che il concetto di Illuminazione sta alla base della concezione buddista così come quello di Dio sta alla base del cristianesimo. Sembrerebbe quindi che non si potrebbero immaginare due vie spirituali più distanti. Eppure, se andiamo oltre questa constatazione di massima, vediamo che invece vi sono anche moltissime analogie, profonde similitudini...".
Per esempio?
"L'idea cristiana dell'amore universale è per molti versi assolutamente simile alla compassione buddhista. In un certo senso la figura di Gesù che scende sulla Terra assumendo un corpo di uomo e si sacrifica per l'umanità affrontando, proprio in quanto essere umano, tutti i dolori e le sofferenze peculiari di questa condizione non può non considerarsi come una rappresentazione dell'ideale del bodhisattva che rinuncia all'Illuminazione per vivere nel mondo per il beneficio dell'umanità. I bodhisattva infatti si reincarnano come uomini e in quanto tali sono sottoposti a tutte le limitazioni della condizione umana".
Quali sono le speranze del Dalai Lama per il 2004?
"Riguardano principalmente tre ambiti. Il primo è quello di promuovere i valori umani, il secondo l' armonia religiosa e in questi due ambiti sono molto ottimista. Il terzo è la questione tibetana e anche per questa, nel lungo periodo, sono ottimista. Nell'immediato però, le cose non vanno per niente bene, si potrebbe perfino perdere ogni speranza. Ma se guardiamo le cose da una prospettiva più ampia, proprio per quello che le ho appena detto della Cina, mi sembra di poter vedere che le cose potranno cambiare e imboccare finalmente la giusta direzione".
Parla il Dalai Lama:
Obiettivo felicità
Nell'era della globalizzazione il modo migliore per farsi i propri interessi è interessarsi agli altri. Perché l'altruismo ci farà bene.
Intervista di Piero Verni
Guerre religiose, terrorismo internazionale, scontro tra civiltà, globalizzazione, espansione della superpotenza cinese. Il Dalai Lama, leader in esilio del popolo tibetano, per la sua particolare posizione di capo politico e spirituale si trova in questo periodo al centro di molte delle grandi questioni internazionali. In questa intervista a "L'espresso" spiega la sua posizione, la sua ricetta e le sue speranze per il 2004.
Afghanistan, Iraq, terrorismo; legittimità della guerra preventiva ed esportazione della democrazia con le armi. Qual è l'opinione del Dalai Lama su questi temi così caldi?
"Il terrorismo è un problema gravissimo, il principale problema di questi giorni. E certo dobbiamo trovare dei metodi per contrastarlo. Ma reagire alla violenza con altra violenza non mi pare una buona soluzione. È difficile che da una simile scelta possano derivare degli effetti positivi.
Quando parliamo di terrorismo dobbiamo anche comprendere cosa c'è alla base di scelte così estreme. A me pare che per lo più vi siano degli atteggiamenti di paura, di ostilità preconcetta, di disadattamento, le cui cause possono essere molteplici. Ma quali che siano, reagire a tutto ciò con un'altra violenza non credo possa portare a una soluzione effettiva del problema. Anzi, il più delle volte innesca una spirale del terrore che non è di alcun beneficio. Ovviamente mi rendo conto che solo l'amore e la compassione non sono sufficienti, ma bisogna impostare un lavoro serio per far fronte al terrorismo. Ma dovremmo cominciare a cambiare prospettiva e mettere al centro delle nostre azioni l'idea del dialogo, della non violenza, della riconciliazione. Non bastano nemmeno le dimostrazioni, le proteste, ma si deve fare qualche cosa di concreto ed effettivo che dia corpo a queste idee".
Vale a dire?
"Impegnarsi per mettere in pratica queste idee nei nostri comportamenti quotidiani, far diventare noi stessi, le nostre azioni, un'alternativa credibile. Essere un esempio concreto del fatto che esiste una via d'uscita che non sia la guerra o gli attentati. Non si può continuare in questa spirale di violenze contrapposte: è indispensabile creare un clima di fiducia reciproca e fare ogni sforzo per riuscire a risolvere i grandi problemi politici ed economici che sono sull'agenda della politica internazionale in una dimensione pacifica, di reciproco rispetto e tolleranza. Così, forse, riusciremo a superare i sentimenti di collera e di odio che purtroppo oggi si manifestano con questa allarmante frequenza".
È quella "Politica della Gentilezza" di cui lei parla da molti anni?
"Che ci piaccia o meno abitiamo tutti sullo stesso pianeta e facciamo tutti parte della medesima famiglia umana. Europei o asiatici, americani o africani, ricchi o poveri, uomini o donne, credenti o non credenti. In ultima analisi ognuno di noi è un essere umano come tutti gli altri. E tutti noi, tutti gli esseri umani, desideriamo essere felici e non provare dolore. E tutti possediamo l'identico diritto a questa felicità, a questa assenza di dolore. Fino a pochi decenni or sono, esistevano delle nazioni che potevano vivere in parziale o totale isolamento. Oggi non esistono più. Sotto ogni aspetto, politico, economico, culturale, ecologico. Quello che avviene in una determinata parte del mondo, magari remota e poco accessibile, si ripercuote subito in tutto il pianeta. Le informazioni viaggiano alla velocità della luce, radio, televisioni, mass-media, Internet le trasmettono in un baleno ovunque... È il villaggio globale o, se preferisce, la teoria dell'interdipendenza buddista: tutto quello che noi facciamo interagisce con gli altri e tutto quello che fanno gli altri interagisce con noi. Quindi in questa situazione di interdipendenza il modo più conveniente di fare i nostri interessi è di avere presenti anche quegli degli altri. In questo contesto ritengo che si debba fare ricorso alla compassione, all'altruismo, all'amore che sono i migliori strumenti per operare nel mondo e per il mondo la "Politica della Gentilezza".
Lei parla di egoismo ed altruismo come chiavi per capire e affrontare il presente, compresa la grande politica internazionale. Non è un po' semplicistico?
"L'egoismo è una delle malattie peggiori dei nostri tempi. Ci rende il cuore piccolo e crea le condizioni per una vita peggiore per noi e per gli altri. Questo non lo dovremmo dimenticare mai. La compassione, l'altruismo, il buon cuore non sono unicamente nobili sentimenti di cui trae vantaggio il nostro prossimo. Sono stati mentali, condizioni mentali di cui beneficiamo anche noi stessi. Una persona altruista e compassionevole è in genere una donna o un uomo più felice, più sereno. Del resto è la stessa scienza a sostenerlo, non solo i lama del Tibet. In questi ultimi anni ho avuto modo di parlare con molti scienziati e tutti mi hanno detto che coloro che vivono un'esistenza basata su tali sentimenti sono di solito anche individui più sani da un punto di vista fisico perché le tensioni prodotte da un eccesso di competitività, che a sua volta si basa su di una prospettiva egotica, sono dannose sia per il corpo sia per la mente".
Torniamo al terrorismo: spesso è di matrice religiosa...
"Il buddismo, il cristianesimo, l'Islam, tutte le vie spirituali hanno il medesimo fine: essere uno strumento a disposizione degli esseri umani per raggiungere la felicità, la pace interiore e l'armonia. Quando invece, in nome di un'ideale religioso, si persegue l'odio, l'intolleranza, si perseguita il diverso, colui che non la pensa come te, credo che non ci sia più alcuna traccia di spiritualità in queste idee e di religioso sia rimasto solo il nome. Quando agiscono in questo modo, un modo che non ha alcun punto di contatto con l'autentica spiritualità, allora le religioni sono veramente, come diceva Karl Marx, una sorta di oppio dei popoli...".
Fa un po' specie sentire il Dalai Lama che cita Marx...
"Un conto è il marxismo e un conto sono le differenti forme di comunismo che si sono realizzate concretamente. Certo, alcune teorizzazioni del marxismo come la concezione del partito unico e della dittatura del proletariato mi trovano contrario in quanto sono un convinto assertore della democrazia e dei diritti civili. Così come sono in completo disaccordo con l'uso della violenza intesa come strumento per portare avanti la lotta di classe. Però vi è un aspetto del marxismo a cui, come dire, mi sento piuttosto vicino: l'aspirazione a una certa uguaglianza degli esseri umani, l'idea che tutti dovrebbero avere almeno una condizione economica dignitosa, che esista un livello di povertà e indigenza sotto il quale non si dovrebbe mai scendere. E l'idea che, per realizzare tutto questo, chi ha molto dovrebbe sacrificare parte delle sue ricchezze per dare a chi non ha nulla. Trovo che vi sia qualcosa di etico in questa attitudine. Qualcosa di etico che ha delle consonanze profonde con il buddismo Mahayana e con il mio personale modo di sentire. Ovviamente questa eticità viene calpestata se, in suo nome, si compiono violenze e privazioni delle libertà e dei diritti umani dei popoli e delle persone, se in suo nome si uccide, si tortura, si opprime, come purtroppo è avvenuto in molte occasioni in cui i partiti comunisti sono andati al potere".
Che cosa pensa della politica dell'amministrazione Bush che ritiene, in accordo con l'ideologia neo-conservatrice, che la superpotenza Usa debba svolgere un ruolo guida nel mondo?
"Parlando in generale dobbiamo ammettere che oggi gli Stati Uniti sono l'unica superpotenza rimasta e quindi hanno delle maggiori responsabilità. Certamente l'America non è uno Stato dittatoriale. Ha un governo eletto democraticamente e da sempre la democrazia fa parte dello stile di vita degli americani, quindi credo che l'America abbia una grande responsabilità da questo punto di vista. Certo non sempre i governi americani compiono le scelte migliori ma questo fa parte della dimensione democratica. C'è anche la libertà di sbagliare (ride)".
Qual è la sua opinione sul fenomeno della globalizzazione, che tante critiche sta suscitando nel mondo, specialmente nel Terzo mondo?
"Se con il termine globalizzazione intendiamo che questo pianeta è divenuto più piccolo e, ad esempio, ci vestiamo tutti nello stesso modo e tante cose sono divenute universali, beh, non mi sembra che in questo ci sia niente di tragico o particolarmente sbagliato. Ma quando globalizzazione significa che dei poteri economici forti si espandono a danno delle economie dei paesi più piccoli e meno potenti, allora la trovo assolutamente sbagliata e pericolosa. Il dominio di pochi gruppi economici è un vero errore. Credo che ogni nazione, ogni individuo dovrebbe avere la possibilità di sviluppare liberamente la propria economia. Quindi, questo secondo tipo di globalizzazione, dovrebbe essere contrastata perché, anziché diminuirlo, accresce sempre più il divario tra ricchi e poveri. È una situazione malsana. Perfino all'interno di una stessa nazione a volte accade una cosa del genere. I grandi gruppi strangolano quelli piccoli. Quando le differenze economiche crescono oltre misura, siamo davanti non solo a un qualcosa di sbagliato dal punto di vista morale, ma anche a una situazione che a livello sociale sarà prima o poi fonte di ogni sorta di problemi. Anche nella vita economica, come in quella interiore, dovrebbero esserci equilibrio ed armonia".
In Europa sembra montare un senso di allarme, perfino di paura, nei confronti del crescente potere - soprattutto economico - della Cina. Lei ritiene giustificati questi timori?
"La Cina è la nazione più popolosa del mondo. Mi sembra che, insieme ai notevoli cambiamenti economici che sono avvenuti nell'ultimo decennio all'interno della Repubblica Popolare Cinese, oggi nella società civile di quel paese cresca una domanda di maggiori libertà. E credo che anche la stessa leadership cinese, molto consapevolmente, voglia andare verso quella direzione... E questo mi sembra uno sviluppo positivo. Ritengo che anche loro sappiano bene che per un regime autoritario non c'è futuro, però hanno paura che dei cambiamenti troppo repentini possano determinare una situazione di caos, di disordine come nella ex Unione Sovietica. O, peggio ancora, che si possa giungere a un vero e proprio bagno di sangue. Quindi penso che un approccio cauto al cambiamento sia giusto, comprensibile".
A proposito di incontro tra Asia ed Europa, un altro fenomeno evidente è la diffusione in Occidente del buddismo. Quali differenze e quali analogie vede tra buddismo e cristianesimo?
"La maggior differenza tra buddismo e cristianesimo risiede nella concezione di un Dio creatore, assolutamente fondamentale nel cristianesimo. Tutto l'orizzonte di questa religione si fonda sul concetto di un Dio che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Il concetto di Dio, e dell'obbedienza dell'uomo a Dio, permea l'intera struttura spirituale del cristianesimo. Invece il buddismo pone l'accento sulla sofferenza insita nella condizione umana e sui mezzi per poterla prima alleviare e infine superare definitivamente tramite l'Illuminazione interiore. Potremmo dire che il concetto di Illuminazione sta alla base della concezione buddista così come quello di Dio sta alla base del cristianesimo. Sembrerebbe quindi che non si potrebbero immaginare due vie spirituali più distanti. Eppure, se andiamo oltre questa constatazione di massima, vediamo che invece vi sono anche moltissime analogie, profonde similitudini...".
Per esempio?
"L'idea cristiana dell'amore universale è per molti versi assolutamente simile alla compassione buddhista. In un certo senso la figura di Gesù che scende sulla Terra assumendo un corpo di uomo e si sacrifica per l'umanità affrontando, proprio in quanto essere umano, tutti i dolori e le sofferenze peculiari di questa condizione non può non considerarsi come una rappresentazione dell'ideale del bodhisattva che rinuncia all'Illuminazione per vivere nel mondo per il beneficio dell'umanità. I bodhisattva infatti si reincarnano come uomini e in quanto tali sono sottoposti a tutte le limitazioni della condizione umana".
Quali sono le speranze del Dalai Lama per il 2004?
"Riguardano principalmente tre ambiti. Il primo è quello di promuovere i valori umani, il secondo l' armonia religiosa e in questi due ambiti sono molto ottimista. Il terzo è la questione tibetana e anche per questa, nel lungo periodo, sono ottimista. Nell'immediato però, le cose non vanno per niente bene, si potrebbe perfino perdere ogni speranza. Ma se guardiamo le cose da una prospettiva più ampia, proprio per quello che le ho appena detto della Cina, mi sembra di poter vedere che le cose potranno cambiare e imboccare finalmente la giusta direzione".
la Costituzione in Cina è cambiata
Corriere della Sera 22.12.03
Nuovo passo nelle riforme per il mercato: ogni bene sarà garantito, indennizzi in caso di esproprio
Viva la proprietà privata, la Cina ritocca la Costituzione
PECHINO - Nuovo passo avanti della Cina sulla via delle riforme tracciata da Deng quasi venticinque anni fa: d’ora in poi anche per la legge della Repubblica Popolare la proprietà privata non sarà più «un furto». Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare ha infatti avviato ufficialmente le procedure per emendare la Costituzione introducendovi il principio dell’inviolabilità della proprietà privata. Principio finora ammesso di fatto ma non di diritto. I legislatori di Pechino hanno così accolto una proposta formulata dal Comitato centrale del Partito comunista in ottobre. Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo e in genere agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature del testo di una legge. La riforma pone anche un limite agli arbitrii finora consentiti agli amministratori pubblici: d’ora in poi, gli espropri di terre, negozi e industrie daranno diritto a un «equo indennizzo».
Cina, la proprietà non è più un furto
Emendamento della Costituzione per riconoscere il «diritto inviolabile» dei privati
«Non importa di che colore è il gatto. L’importante è che mangi il topo». Lo dice un proverbio cinese. Con questa mentalità pragmatica da oltre vent’anni la Repubblica Popolare si è di fatto convertita a un capitalismo selvaggio dove i ricchi sono ricchissimi, i poveri poverissimi e su tutto comunque la spunta il Partito comunista, che può in qualunque momento decidere di espropriare un terreno, una fabbrica o un negozio. Da ieri qualcosa è cambiato. Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare (quest’ultima si riunisce una sola volta l’anno) ha ufficialmente preso in esame la possibilità di emendare la Costituzione per inserirvi il diritto alla proprietà privata. Si tratta di una proposta uscita dall’ultimo Comitato centrale del partito nell’ottobre scorso. In quell’occasione il presidente Hu Jintao ha lanciato un nuovo modello di capitalismo «sostenibile» sia dal punto di vista dell’impatto ecologico, che da quello dell’impatto sociale. Se finora l’importante era mangiare il topo (secondo lo slogan lanciato alla fine degli anni Settanta da Deng per cui «arricchirsi è glorioso»), all’ultimo Congresso Hu ha decretato che «la crescita economica non è il nostro unico obiettivo. Noi puntiamo a bilanciare la crescita, gli sviluppi politici e le conquiste sociali».
Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo. In genere, però, l’assemblea legislativa agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature nella scelta delle parole da usare nella stesura di una legge.
Ma in che cosa consistono precisamente le riforme proposte ieri? «I due emendamenti principali riguardano gli articoli 11 e 13, ossia la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo», spiega il professor Renzo Cavalieri, docente di Diritto dei Paesi afro-asiatici a Lecce. L’articolo 11 era già stato modificato nel ’99 con un emendamento che definiva le imprese private «una parte importante dell’economia socialista».
Pure in quel caso si trattava della ratifica di uno stato di fatto, visto che l’industria privata e gli investimenti stranieri rappresentano ormai i due terzi dell’economia cinese: la parte sana, che ha portato la Cina a tassi di crescita del 9 per cento annuo (mentre le imprese di Stato finora hanno campato con i prestiti delle banche: crediti inesigibili che rischiano di strangolare il sistema bancario cinese).
«Il testo proposto dal comitato permanente dice che l’industria individuale e privata è tutelata dallo Stato purché legalmente acquisita. E introduce il concetto di "equo indennizzo" in caso di esproprio», spiega il professor Cavalieri.
Diverso è il caso dei terreni agricoli, che sono e restano pubblici, cioè di proprietà dello Stato o delle «collettività». I contadini cinesi possono prendere in affitto i terreni per 70 anni, un po’ come il leaseholder inglese, che compra l’usufrutto del suo appartamento ma non la nuda proprietà (freehold), spesso ancora in mano agli eredi di alcune grandi casate nobiliari.
Il secondo emendamento, quello sui beni di consumo, amplia e generalizza un principio che era anch’esso già riconosciuto. L’articolo 13 della Costituzione ammette infatti il diritto a possedere «redditi da lavoro, risparmi, case e altre proprietà private». Lo Stato, con la riforma proposta ieri, s’impegna d’ora in poi a proteggere la proprietà privata in quanto tale (purché «acquisita legalmente»), definendola inviolabile: proprio come la proprietà pubblica.
Secondo il direttore dell’istituto italiano di Cultura a Pechino, Francesco Sisci, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale (nel senso occidentale del termine): «I cinesi non hanno tradizionalmente la nozione di diritto - ha dichiarato Sisci all’agenzia Apcom -, un concetto che noi abbiamo ereditato dal diritto romano. Col riconoscimento di un diritto la Cina scava le fondamenta per la sua prima grande riforma politica».
Il professor Cavalieri la pensa diversamente: «Non bisogna attendersi cambiamenti drastici. Quanto sta accadendo ora è il frutto di un lento processo di democratizzazione in corso da almeno un decennio. La Cina ha aderito alla fine degli anni Novanta alle convenzioni delle Nazioni Unite sui diritti politici, economici, sociali. E nel ’99 ha introdotto il rule of law, il principio di legalità. Ora il Comitato propone di introdurre un emendamento all’articolo 33 in cui lo Stato riconosce la tutela dei diritti umani».
Una prima, ancora «timida», risposta alle tante preoccupazioni internazionali suscitate dalle continue violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare che, fra i tanti record, vanta anche quello, tristissimo, delle esecuzioni capitali: almeno 1.060 nel 2002 secondo Amnesty International, circa l’80 del totale mondiale. Per non parlare dei dissidenti politici condannati al carcere (diverse centinaia) e della persecuzione delle sette, Falun Gong in testa, ma anche delle religioni: è di ieri la notizia dell’arresto di tre cristiani accusati di «spionaggio». Insomma, la strada da fare è ancora molta: ma in tema di diritti la Cina non conosce grandi balzi, solo piccoli passi.
La Stampa 23.12.03
LA TUTELA DELLA PROPRIETA’ PRIVATA ENTRA NELLA COSTITUZIONE CINESE
Il comunismo confuciano santifica il capitale
di Mimmo Cándito
LE rivoluzioni, quelle che cambiano la storia dei popoli e si fanno poi simbolo di mondi nuovi, non sempre arrivano con la ribellione di masse lanciate all'assalto della Bastiglia o del Palazzo d'Inverno o anche d'un vecchio Muro ideologico ormai in rovina; possono arrivare pure con un semplice dispaccio d'agenzia. E l'annuncio, ieri, dell'agenzia ufficiale Nuova Cina che Pechino sta per dichiarare «inviolabile la proprietà privata acquisita legalmente», quell'annuncio vale davvero una rivoluzione. Ora un tempo si chiude, Mao e Lenin (e Marx) già staute di marmo, diventano mummie perfino ingombranti nelle dinamiche frenetiche che stanno mutando radicalmente paesi, politiche, culture, la nostra stessa memoria collettiva.
In questo nuovo tempo, Pechino si propone come l'unico vero «competitore» degli Stati Uniti (così l'ha comunque definito un documento del Dipartimento di Stato, cambiando la vecchia dizione di «partner» e ufficializzando, dunque, una drammatica escalation strategica, tanto militarmente quanto politicamente). La Cina aveva già messo da parte Mao, la Rivoluzione Permanente, i rigori fanatici delle Guardie Rosse, l'eredità ideologica del marxismo; lo aveva fatto con i modi e con lo stile che - da Deng Xiaoping in poi - hanno sempre segnato le lente trasformazioni d'un processo che è apparentemente immutabile nei propri riti e nelle formulazioni ufficiali d'una gerontocrazia d'apparato, ma che in realtà è travolto da autentiche svolte epocali, con una correzione continua della ortodossia cui obbedivano i partiti comunisti al potere. E l'ultimo comngresso del Pcc, a ottobre dello scorso anno, aveva deciso di legalizzare la proprietà privata, ma non ne aveva dato un vero annuncio ufficiale.
La scelta votata dai 2000 delegati che affollavano il solenne edificio della Grande Assemblea del Popolo era stata anche accompagnata da un dibattito, però il partito aveva rinviato la sanzione pubblica di quella decisione, destinandola a un tempo successivo, un tempo nel quale il passaggio obbligato attraverso una modifica della Costituzione dell'82 sarebbe stato presentato come una proposta da sottoporre al Comitato permanente dell'Assemblea. La stanca metodologia burocratica dentro la quale finiva per essere assorbita quella scelta tendeva, ovviamente, a ridurne la portata e l'impatto; che tuttavia non sono rilevanti se non in termini di lettura simbolica, perchè lo scontro sul ruolo dell'iniziativa privata (in opposizione al ruolo delle imprese pubbliche) che segna oggi le decisioni della leadership cinese ha un ridotto contenuto ideologico, ed è trascinato piuttosto da motivazioni di stretta natura economicistica: cioè quale sia il miglior rapporto tra investimenti bancari e risultati produttivi.
Come ebbe a dire Deng, che «non è essenziale che il gatto sia bianco o nero, l'essenziale è che acchiappi i topi», la nuova Cina che da quasi 20 anni cresce a un tasso d'incremento costante del 7 per cento non bada più ai proclami rigidi della vecchia cultura marxista, e alle formulazioni d'una politica di governo bloccata dal rispetto dei canoni ideologici; lo sviluppo economico, e l'uscita da una condizione di marginalità produttiva, sono diventati gli obiettivi reali che legittimano l'assunzione al potere degli eredi di Mao. I rituali appaiono immodificati, «contadini, operai, e soldati» vengono sempre magnificati come l'energia pura della Rivoluzione; e però, poi, più del 90 per cento dei delegati dell'ultimo congresso del pcc aveva una laurea, e i militari sono precipitati dall'8° posto della gerarchia ufficiale al 21.mo e al 22.mo posto. E nel congresso gli imprenditori hanno avuto una propria rappresentanza ufficiale, con una distorsione della ortodossia che soltanto la crescita economica ha reso digeribile ai quadri del partito (funzionari comunque che per quasi due terzi sono venuti fuori dal tempo nuovo delle riforme).
Un pragmastismo, spregiudicato intimamente, ma formalmente controllato, sta segnando la sfida che Pechino porta al proprio passato, nel tentativo di ricuperare - attraverso la crescita economica - il ruolo e la potenza dell'antico Impero Celeste; è una sfida che impegna la Cina in un confronto di lungo tempo con l'Occidente, e il passaggio attraverso la legalizzazione della proprietà privata è solo una tappa, nemmeno d'importanza strategica. La Cina sta sostitudendo gli Usa come destinazione prioritaria dei flussi internazionali d'investimento: il gatto si liscia i baffi, all'ombra del nuovo millennio.
Nuovo passo nelle riforme per il mercato: ogni bene sarà garantito, indennizzi in caso di esproprio
Viva la proprietà privata, la Cina ritocca la Costituzione
PECHINO - Nuovo passo avanti della Cina sulla via delle riforme tracciata da Deng quasi venticinque anni fa: d’ora in poi anche per la legge della Repubblica Popolare la proprietà privata non sarà più «un furto». Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare ha infatti avviato ufficialmente le procedure per emendare la Costituzione introducendovi il principio dell’inviolabilità della proprietà privata. Principio finora ammesso di fatto ma non di diritto. I legislatori di Pechino hanno così accolto una proposta formulata dal Comitato centrale del Partito comunista in ottobre. Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo e in genere agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature del testo di una legge. La riforma pone anche un limite agli arbitrii finora consentiti agli amministratori pubblici: d’ora in poi, gli espropri di terre, negozi e industrie daranno diritto a un «equo indennizzo».
Cina, la proprietà non è più un furto
Emendamento della Costituzione per riconoscere il «diritto inviolabile» dei privati
«Non importa di che colore è il gatto. L’importante è che mangi il topo». Lo dice un proverbio cinese. Con questa mentalità pragmatica da oltre vent’anni la Repubblica Popolare si è di fatto convertita a un capitalismo selvaggio dove i ricchi sono ricchissimi, i poveri poverissimi e su tutto comunque la spunta il Partito comunista, che può in qualunque momento decidere di espropriare un terreno, una fabbrica o un negozio. Da ieri qualcosa è cambiato. Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare (quest’ultima si riunisce una sola volta l’anno) ha ufficialmente preso in esame la possibilità di emendare la Costituzione per inserirvi il diritto alla proprietà privata. Si tratta di una proposta uscita dall’ultimo Comitato centrale del partito nell’ottobre scorso. In quell’occasione il presidente Hu Jintao ha lanciato un nuovo modello di capitalismo «sostenibile» sia dal punto di vista dell’impatto ecologico, che da quello dell’impatto sociale. Se finora l’importante era mangiare il topo (secondo lo slogan lanciato alla fine degli anni Settanta da Deng per cui «arricchirsi è glorioso»), all’ultimo Congresso Hu ha decretato che «la crescita economica non è il nostro unico obiettivo. Noi puntiamo a bilanciare la crescita, gli sviluppi politici e le conquiste sociali».
Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo. In genere, però, l’assemblea legislativa agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature nella scelta delle parole da usare nella stesura di una legge.
Ma in che cosa consistono precisamente le riforme proposte ieri? «I due emendamenti principali riguardano gli articoli 11 e 13, ossia la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo», spiega il professor Renzo Cavalieri, docente di Diritto dei Paesi afro-asiatici a Lecce. L’articolo 11 era già stato modificato nel ’99 con un emendamento che definiva le imprese private «una parte importante dell’economia socialista».
Pure in quel caso si trattava della ratifica di uno stato di fatto, visto che l’industria privata e gli investimenti stranieri rappresentano ormai i due terzi dell’economia cinese: la parte sana, che ha portato la Cina a tassi di crescita del 9 per cento annuo (mentre le imprese di Stato finora hanno campato con i prestiti delle banche: crediti inesigibili che rischiano di strangolare il sistema bancario cinese).
«Il testo proposto dal comitato permanente dice che l’industria individuale e privata è tutelata dallo Stato purché legalmente acquisita. E introduce il concetto di "equo indennizzo" in caso di esproprio», spiega il professor Cavalieri.
Diverso è il caso dei terreni agricoli, che sono e restano pubblici, cioè di proprietà dello Stato o delle «collettività». I contadini cinesi possono prendere in affitto i terreni per 70 anni, un po’ come il leaseholder inglese, che compra l’usufrutto del suo appartamento ma non la nuda proprietà (freehold), spesso ancora in mano agli eredi di alcune grandi casate nobiliari.
Il secondo emendamento, quello sui beni di consumo, amplia e generalizza un principio che era anch’esso già riconosciuto. L’articolo 13 della Costituzione ammette infatti il diritto a possedere «redditi da lavoro, risparmi, case e altre proprietà private». Lo Stato, con la riforma proposta ieri, s’impegna d’ora in poi a proteggere la proprietà privata in quanto tale (purché «acquisita legalmente»), definendola inviolabile: proprio come la proprietà pubblica.
Secondo il direttore dell’istituto italiano di Cultura a Pechino, Francesco Sisci, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale (nel senso occidentale del termine): «I cinesi non hanno tradizionalmente la nozione di diritto - ha dichiarato Sisci all’agenzia Apcom -, un concetto che noi abbiamo ereditato dal diritto romano. Col riconoscimento di un diritto la Cina scava le fondamenta per la sua prima grande riforma politica».
Il professor Cavalieri la pensa diversamente: «Non bisogna attendersi cambiamenti drastici. Quanto sta accadendo ora è il frutto di un lento processo di democratizzazione in corso da almeno un decennio. La Cina ha aderito alla fine degli anni Novanta alle convenzioni delle Nazioni Unite sui diritti politici, economici, sociali. E nel ’99 ha introdotto il rule of law, il principio di legalità. Ora il Comitato propone di introdurre un emendamento all’articolo 33 in cui lo Stato riconosce la tutela dei diritti umani».
Una prima, ancora «timida», risposta alle tante preoccupazioni internazionali suscitate dalle continue violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare che, fra i tanti record, vanta anche quello, tristissimo, delle esecuzioni capitali: almeno 1.060 nel 2002 secondo Amnesty International, circa l’80 del totale mondiale. Per non parlare dei dissidenti politici condannati al carcere (diverse centinaia) e della persecuzione delle sette, Falun Gong in testa, ma anche delle religioni: è di ieri la notizia dell’arresto di tre cristiani accusati di «spionaggio». Insomma, la strada da fare è ancora molta: ma in tema di diritti la Cina non conosce grandi balzi, solo piccoli passi.
La Stampa 23.12.03
LA TUTELA DELLA PROPRIETA’ PRIVATA ENTRA NELLA COSTITUZIONE CINESE
Il comunismo confuciano santifica il capitale
di Mimmo Cándito
LE rivoluzioni, quelle che cambiano la storia dei popoli e si fanno poi simbolo di mondi nuovi, non sempre arrivano con la ribellione di masse lanciate all'assalto della Bastiglia o del Palazzo d'Inverno o anche d'un vecchio Muro ideologico ormai in rovina; possono arrivare pure con un semplice dispaccio d'agenzia. E l'annuncio, ieri, dell'agenzia ufficiale Nuova Cina che Pechino sta per dichiarare «inviolabile la proprietà privata acquisita legalmente», quell'annuncio vale davvero una rivoluzione. Ora un tempo si chiude, Mao e Lenin (e Marx) già staute di marmo, diventano mummie perfino ingombranti nelle dinamiche frenetiche che stanno mutando radicalmente paesi, politiche, culture, la nostra stessa memoria collettiva.
In questo nuovo tempo, Pechino si propone come l'unico vero «competitore» degli Stati Uniti (così l'ha comunque definito un documento del Dipartimento di Stato, cambiando la vecchia dizione di «partner» e ufficializzando, dunque, una drammatica escalation strategica, tanto militarmente quanto politicamente). La Cina aveva già messo da parte Mao, la Rivoluzione Permanente, i rigori fanatici delle Guardie Rosse, l'eredità ideologica del marxismo; lo aveva fatto con i modi e con lo stile che - da Deng Xiaoping in poi - hanno sempre segnato le lente trasformazioni d'un processo che è apparentemente immutabile nei propri riti e nelle formulazioni ufficiali d'una gerontocrazia d'apparato, ma che in realtà è travolto da autentiche svolte epocali, con una correzione continua della ortodossia cui obbedivano i partiti comunisti al potere. E l'ultimo comngresso del Pcc, a ottobre dello scorso anno, aveva deciso di legalizzare la proprietà privata, ma non ne aveva dato un vero annuncio ufficiale.
La scelta votata dai 2000 delegati che affollavano il solenne edificio della Grande Assemblea del Popolo era stata anche accompagnata da un dibattito, però il partito aveva rinviato la sanzione pubblica di quella decisione, destinandola a un tempo successivo, un tempo nel quale il passaggio obbligato attraverso una modifica della Costituzione dell'82 sarebbe stato presentato come una proposta da sottoporre al Comitato permanente dell'Assemblea. La stanca metodologia burocratica dentro la quale finiva per essere assorbita quella scelta tendeva, ovviamente, a ridurne la portata e l'impatto; che tuttavia non sono rilevanti se non in termini di lettura simbolica, perchè lo scontro sul ruolo dell'iniziativa privata (in opposizione al ruolo delle imprese pubbliche) che segna oggi le decisioni della leadership cinese ha un ridotto contenuto ideologico, ed è trascinato piuttosto da motivazioni di stretta natura economicistica: cioè quale sia il miglior rapporto tra investimenti bancari e risultati produttivi.
Come ebbe a dire Deng, che «non è essenziale che il gatto sia bianco o nero, l'essenziale è che acchiappi i topi», la nuova Cina che da quasi 20 anni cresce a un tasso d'incremento costante del 7 per cento non bada più ai proclami rigidi della vecchia cultura marxista, e alle formulazioni d'una politica di governo bloccata dal rispetto dei canoni ideologici; lo sviluppo economico, e l'uscita da una condizione di marginalità produttiva, sono diventati gli obiettivi reali che legittimano l'assunzione al potere degli eredi di Mao. I rituali appaiono immodificati, «contadini, operai, e soldati» vengono sempre magnificati come l'energia pura della Rivoluzione; e però, poi, più del 90 per cento dei delegati dell'ultimo congresso del pcc aveva una laurea, e i militari sono precipitati dall'8° posto della gerarchia ufficiale al 21.mo e al 22.mo posto. E nel congresso gli imprenditori hanno avuto una propria rappresentanza ufficiale, con una distorsione della ortodossia che soltanto la crescita economica ha reso digeribile ai quadri del partito (funzionari comunque che per quasi due terzi sono venuti fuori dal tempo nuovo delle riforme).
Un pragmastismo, spregiudicato intimamente, ma formalmente controllato, sta segnando la sfida che Pechino porta al proprio passato, nel tentativo di ricuperare - attraverso la crescita economica - il ruolo e la potenza dell'antico Impero Celeste; è una sfida che impegna la Cina in un confronto di lungo tempo con l'Occidente, e il passaggio attraverso la legalizzazione della proprietà privata è solo una tappa, nemmeno d'importanza strategica. La Cina sta sostitudendo gli Usa come destinazione prioritaria dei flussi internazionali d'investimento: il gatto si liscia i baffi, all'ombra del nuovo millennio.
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