martedì 22 febbraio 2005

Citato al Lunedì
Evgen Bavcar, il fotografo cieco

una segnalazione di Antonella Pozzi

Repubblica 20.2.05

Il terzo occhio del fotografo cieco
Artisti di frontiera
EMANUELA AUDISIO

PARIGI. Occhi azzurri. Dice: «Attenzione al gradino». Cappello nero. Indica: «Il bar è dell'altra parte della strada». Sciarpa rossa. Invita: «Questo è un bel posto per sedersi». Sembra il ritratto di Aristide Bruant nel quadro dipinto da Toulouse-Lautrec. Cammina spedito anche sulle scale. Si scusa: «Il mio appartamento è grande come un armadio». Una stanza piena di cartelle, di buste, di libri. Alle pareti piccoli specchi. Una confusione, ma ordinata. «Si sposti, le devo far vedere una cosa sul secondo scaffale». Tocca e trova, lui. Evgen Bavcar ha 59 anni, è un fotografo d´arte famoso. Ha ritratto le attrici Hanna Schygulla, Kristin Scott-Thomas, lo scrittore Umberto Eco, ma si è anche dedicato ai paesaggi. Parla benissimo e in maniera colta un misto di lingue. «Sono nato a Lokavec, in Slovenia, a 27 chilometri da Gorizia. I miei genitori, austriaci, nel '18 sono diventati italiani e nel '45 jugoslavi. Mio padre è morto, soldato a Kiev, avevo sette anni. Mi sono laureato in filosofia a Lubiana, e ho un dottorato ottenuto alla Sorbona con una tesi sull´estetica in Adorno e Bloch. Ho studiato e parlo tedesco, croato, francese, italiano, spagnolo e da autodidatta il portoghese. Il mio sogno è andare a Napoli, fotografare ragazze stupende, mettermi i loro ritratti in borsa e passeggiare davanti al museo di Capodimonte in attesa di essere scippato. L'idea che la bellezza venga rubata e acquisita la trovo una performance artistica notevole».
Il buio poco a poco
Bavcar è un ossimoro. Fotografa, ma è cieco. Vede, ma vive nel buio. «Ho perso definitivamente la vista a 12 anni, dopo due incidenti. Prima mi ha ferito un ramo d´albero, poi un detonatore abbandonato. Da bambini giocavamo con fucili e armi, il fronte dell'Isonzo, della prima guerra mondiale, è stato il nostro campo giochi. La tragedia dell'Europa centrale è sotto i nostri piedi, i cimiteri sono la comunità europea sotto la terra». Il buio non è arrivato all´improvviso, ma poco a poco, la luce si è spenta lentamente, e tutto è stato più struggente. Non c'è nulla come il tramonto per capire come il tempo porta via le cose. «L'ultima cosa che ho visto è stata la gonna rossa di un ragazza e la stella sul berretto dei soldati, forse per questo mi piace tanto il rosso». Tira fuori la stella dalla tasca, il suo lecca-lecca, gusto nostalgia. Dice, senza sospirare: «Per me la pittura ha gli occhi chiusi». Racconta una favola: «In un villaggio di ciechi arriva un elefante. Alla sera, di fronte al fuoco ognuno descrive l'elefante. Chi ha toccato il naso dice: è come un lungo tubo. Chi ha toccato le orecchie: è come un tappeto. Chi ha toccato una gamba: è una colonna. Ognuno ha una versione diversa per quello che ha toccato. Anche noi siamo così: tutti ciechi di fronte all'universo. Quanti veramente vedono?». Una sua mostra si intitolava Il terzo occhio. Quello interiore: l'occhio del cervello, dell'immaginario, dello spirito. «Alcune donne, prima di essere fotografate, mi chiedono: sono bella? Io porgo loro questo specchietto e rispondo: guardati. La gente vive con i fantasmi. La notte è il luogo della nascita della luce: Eros e Psiche hanno vissuto nel buio, poi Psiche cercando la luce ha tradito. Io sono in quel buio arcaico e originale».
Molte immagini di Bavcar sono paesaggi notturni: una strada che si perde nel bosco, una città anonima, di notte, dall'alto, un cancello nel quale uno stormo di rondini è bloccato dalle inferriate. «Quand'ero bimbo associavo la luce del giorno con il volo delle rondini». Ci vuole astuzia contro il mondo, se sei cieco. «Se non avessi una cultura filosofica e psicanalitica non potrei difendermi. I ciechi nel mondo sono fragili, non hanno diritto all'immagine. Quando fotografo devo ricordarmi di pulire sempre il vetro dell'obiettivo, nessuna macchina è fatta per i ciechi, ho messo delle tacche, bisogna trovare e darsi dei riferimenti che aiutino a sconfiggere il buio. E ora ho una causa in Slovenia per un documentario con il mio nome, che io non ho autorizzato». Al buio si perde la memoria di cosa vuol dire correre: «Me ne sarei dimenticato se alcuni bambini non mi avessero domandato un giorno perché cammino così lentamente». Poi si perde lo spazio: «Si è ristretto, devo toccarlo per conoscerlo o sottrarlo al suo rumore». Poi la spontaneità: «Vado sempre negli stessi posti, precisi come luoghi geometrici, mentre ho spesso la voglia di perdermi in una foresta di cui non conoscerei i sentieri». Poi si smarrisce la musica: «La amo e la detesto. Quando penso che hanno voluto farla passare per la sola felicità dei ciechi, mentre era in realtà la loro unica possibilità di esistenza sociale. Ci hanno dato una cosa, che già avevamo». Quella che non si perde è la rabbia: «I cristiani hanno duemila anni di storia, eppure non mi risulta abbiano mai nominato un parroco cieco, i buddisti devono ringraziare una signora tedesca che è andata a Lhasa e ha tradotto in braille il sanscrito. Io non critico la religione, a me interessa il divino. Ma devo parlare con un teologo per affrontare il tema dell´handicap. Io credo che quando Dio ha fatto il mondo era tutto troppo perfetto e ha dovuto creare la morte. L'handicap la ricorda. La morte inevitabile dello sguardo fisico è il cieco. Il protestantesimo si è evoluto e ha le donne pastore, spero che un cieco un giorno sarà rabbino».
Toccare per capire
Chiama nomi di donna: Isabel, Chantal, ma c'è anche Pascal. Sono i nomi che ha dato alla tecnologia che lo assiste: la macchinetta che traduce i colori, la bilancia che parla, l'orologio che dice l'ora, il termometro che avvisa della temperatura, il computer che legge i messaggi. «L'astronomia mi interessa perché è una materia dove ogni vedente è cieco e ogni cieco è un po' vedente. Queste macchine che vanno sui pianeti sono moderni bastoni da ciechi, mandano segnali più perfezionati, ma anche loro devono toccare per capire. L'immagine alla fine ci viene dal buio dell'ignoto. Una volta se lo schiavo guardava verso l'alto veniva ucciso, tutti abbiamo bisogno dell'invisibile».
Chiede: posso fare una foto? Sicuro, c'è bisogno di spogliarsi? «No, andiamo in terrazza». Un suo libro si intitola Le voyeur Absolu. Bel doppio senso, perché «voyeur» significa «guardone», anche e soprattutto in francese. Bavcar fotografa nudi, ma solo di donne. «E non mi piacciono quelle con i capelli corti, perché assomigliano ai militari. Niente uomini, non ce la faccio. Gli uomini fanno la guerra, gli uomini mi hanno fatto male. In Germania quando un rabbino ha saputo che ritraevo donne nude mi ha detto: "Questo è grave". Ma non sono foto alla Cicciolina, guardi qui sul computer, questa mia amica brasiliana». Evgen, ma che corpo ha la sua amica? «Oddio, magari l'immagine è capovolta». Sì, allora torna.
Bavcar vi mette una mano in testa, vi tocca il mento, poi si allontana e scatta. Vi chiede anche com'è il tempo, cosa vedete, cosa sentite. «Grazie, per non aver chiesto. è una vita che mi tormentano con la domanda: come fai? Ma chiedetemi: perché lo fai? Visione, cecità, invisibilità. Scoprire il piacere di possedere qualcosa che gli occhi non hanno inquadrato, ma la mente sì. Non considero la fotografia un pezzo di realtà, sono più vicino a Man Ray. La cecità fisica non può essere simbolica, c'è la capacità di vedere e il desiderio di vedere. Scatto in rapporto ai rumori, ai profumi e soprattutto in relazione alla mia esperienza della luce. Quando scatto, dico sempre: io non ti vedo, ma ti faccio vedere agli altri... Poi scelgo le foto facendomi consigliare da amici con lo sguardo libero e da mia nipote Veronica. L'ha scritto anche Lacan: amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole. Io lavoro con l'autofocus e con gli infrarossi, perché il buio è lo spazio della mia esistenza, un'altra forma della luce. La mia prima macchina è stata una Zorki sei, una Leica comunista, regalo di mia sorella. Mi sarebbe piaciuto ritrarre Brigitte Bardot, l'avrei baciata sulla bocca, Marlon Brando e Liz Taylor. Davanti a Vittorio Gassman ho sentito la forza del suo spirito».
Le foto sono strane, magiche, giochi di contorni luminescenti contro sfondi scuri. Un'atmosfera surreale un po' alla Zavattini. Sembrano dire: così vedono i ciechi, nel modo in cui si sfiora un fiore. O forse siamo sempre lì: abbiamo fatto dell'arte di vedere il mestiere della nostra vita, ma la realtà ci sfugge, e i sentimenti rendono più confusa la nostra visione. Saramago, nel suo romanzo Cecità scrive di un'epidemia che fa sprofondare nelle tenebre la popolazione di un paese immaginario, e proprio nel mondo delle ombre i protagonisti scoprono aspetti sconosciuti di se stessi e del mondo che credevano di conoscere. Bavcar insiste: «Impedire a me di fotografare perché sono cieco significherebbe affermare che le immagini le fa la macchina, e non la materializzazione di un'idea, di un desiderio. Un giorno il destino mi ha portato una donna, un amico mi ha chiesto di descriverla. Ho toccato i suoi capelli e ho pensato: è come un'arpa sostenuta dal vento. Ho accarezzato il suo volto: un orologio, rotondo, preciso, perfetto. Ho sfiorato la sua bocca, una ciliegia nel mese di maggio». Nessuno di noi vede mai tutto.
Bavcar è stato anche in un altro tipo di buio, disperato e infernale. «Nell'anniversario della liberazione dei campi di concentramento sono andato con un mio amico, invalido di guerra, Boris Pakor, 91 anni, scrittore, a Struthof in Alsazia. Toccare il forno, per me è stato terribile. Lui mi ha sussurrato: io qui ho portato i cadaveri. In quel momento lui mi ha dato un'autorizzazione etica a fotografare. Sono tornato al campo di notte, ma le due ragazze che mi accompagnavano non ce l'hanno fatta, sono scappate. è dai lati più oscuri della terra che bisogna cercare la luce. Perché comunque anche se debole e fragile una luce c'è sempre. Di mattina mi hanno portato a pranzo, lì vicino. "Non posso", ho detto.
Si sogna ad occhi chiusi. Si ritorna nei luoghi visti, senza poterli più vedere. Bavcar guarda e ti guarda. Occhi azzurri. La vita è carogna, come la nostalgia. Allora capisci: la luce si perde, ma non si dimentica. Evgen, per favore, scatta.

due aricoli: su Szeemann e su panico e ansia

il manifesto.it 21 febbraio 2005
Il curatore che sognava l'anarchia
La scomparsa di Harald Szeemann, che fece uscire l'arte dal museo avvicinandola alla vita

TERESA MACRÌ

Pensare che Harald Szeemann (Berna 1933) non ci sia più (deceduto per complicazioni polmonari nella notte del 18 febbraio) in quel di Tegna in Canton Ticino dove viveva e lavorava, sembra ancora incredibile. Chi non ricorda il suo sguardo beffardo, il suo incedere arzillo con il suo immancabile zainetto in spalla in giro fra i continenti alla ricerca forse dell'impossibile, dell'utopico, dell'imprevedibile? E appare quasi una strana coincidenza che nell'ultimo testo scritto per il catalogo della I Biennale di Siviglia da lui curata lo scorso ottobre, abbia raccolto tutti i titoli delle sue innumerevoli mostre per ricomporre un po' il filo della sua vita. E scriveva anche: «La alegría de mis sueños (titolo della Biennale) è, come molte delle mie esposizioni, anzi di più, un mondo passeggero». Curatore anomalo, Szeemann era un solitario e un battitore libero; nel `70 Brackert lo aveva persino definito «Il Che Guevara della corporazione», così diverso dal curator system attuale. Szeemann era indirizzato verso una dimensione più anarchica. Il suo viscerale anticonformismo era apparso fin dalla sua leggendaria mostra del 1969 a Berna When Attitudes Become Form, in cui dava pieno spazio a tutte quelle variegate tendenze dell'anti-form (arte povera, azionismo, performances) che erano emerse nel periodo. Insofferente alle costrizioni mercato-opera d'arte, Szeemann si era dimesso dalla Kunsthalle di Berna per fondare una agenzia indipendente, l'Agentur für geistige Gastarbeit con il fine di «sostituire la proprietà con l'azione libera». Lo spostamento concettuale di When attitudes Become Form fu però tale che, inaspettatamete, gli fu affidata l'edizione di Documenta 5 del 1972. L'edizione denominata Individuelle Mythologien aprì uno spartiacque irrevocabile tra l'arte museale e quella delle opere in situ, tra le forme linguistiche più radicali e l'impostazione tematica. Conosciamo benissimo quanto nel lavoro di Szeemann il cinema, l'azione, le performances, l'happening, la poesia si incastrassero insieme in una ellisse rappresentativa e quanto queste opzioni linguistiche facessero parte di un suo modo di intendere l'arte, allora assolutamente pionieristico. L'Opera Totale, come spesso ribadiva, era l'unica certezza su cui fondava percorsi e intrecci rappresentativi. E conosciamo altrettanto bene quanto costruire un orizzonte fatto di intuizioni, presagi, ossessioni, manie, divertissements fosse la regola impazzita dell'idea szeemaniana. Quei sentieri, così azzardati, piombavano in un mondo che tendeva ancora a «sacralizzare» l'opera d'arte. Sornionamente, amava trasgredire a quella forma di cristallizzazione e altrettanto sulfureamente ne espandeva i confini: new america cinema, danza, testo poetico, eros, psicanalisi. Inventava avventure. Come la sua mostra più singolare e impossibile: quella Machine célibataire del 1975 realizzata alla Kunsthalle di Berna in cui con una arditezza che faceva parte del personaggio Szeemann, inverava un apparato espositivo sulle più volatili teorie macchiniche, inglobando filosofia, letteratura, schizoanalisi, patafisica, meccanica. Un congegno espositivo costruito sulla duchampiana apparizione del suo Grand Verre: La marine mise à nu par ses célibataires, même del 1915-23 più che sugli artisti. Una mostra scritta e condensata sull'inutile, sull'informe, sull'incomprensibile, sull'illogico, sull'ambiguità ma che declinava anche schizofrenia, capitalismo, il passaggio brusco dall'io al noi. Questo era il mondo impossibile in cui il celibe Harald navigava. Ma lui era anche un alchimista, almeno nelle più recenti esposizioni. Dopo le due edizioni della Biennale di Venezia, Dappertutto (99) e La platea dell'Umanità (2001), Harald era partito per nuovi viaggi, in cui aveva delineato geografie e identità sue, come in El real viaje Real del 2004 (New York, Valladolid), dove intesseva Spagna e Cuba con un filo di nylon, o come nella sua ultima fissazione balcanica in cui scommetteva su artisti dell'ex Jugoslavia e turchi, in una singolar tenzone. Ma quella di stringere, connettere, commistionare era una sua pratica costante mentre quello di viaggiare il suo sogno più ossessivo.

corriereadriatico.it 22 febbraio 2005
Una serie di incontri terapeutici
Panico e ansia Come rimediare
EMANUELE LUCARINI


Pesaro - Ansia, attacchi di panico e fobie. E poi ancora disturbi ossessivo-compulsivi, fobia sociale e depressione. Sono i mali oscuri del 2000, le malattie del benessere e della corsa sfrenata al guadagno e al successo - è l’idea di molti - che attanagliano sempre più persone a limitarne anche in maniera decisiva l’esistenza. Se n’è parlato ieri pomeriggio nel centro Asl di via Nanterre, nell’ambito di un corso organizzato dall’associazione onlus che si occupa di donne operate al seno “Noi come prima”. L’iniziativa intende fornire ai partecipanti una formazione atta a favorire l’acquisizione di una maggior sensibilità verso i possibili disturbi di natura psicologica che si possono verificare nelle donne operate al senso o in procinto di esserlo. Il progetto prevede una serie di incontri teorici - in tutto dieci - sulle problematiche dei disturbi psicologici d’ansia e da stress, tenuti dalla psicologa e psicoterapeuta Michela Paolini.
La lezione di ieri - la quarta - è stata incentrata sui sintomi patologici e fisici del disturbo di attacco di panico (detto anche Dap), delle fobie specifiche e di quelle sociali. La dottoressa Paolini ha tenuto una lezione divulgativa di tipo frontale, anche se non pochi sono stati gli interventi dei partecipanti, molti costretti in passato o ancor oggi a convivere con ansie e nevrosi che ne pregiudicano una quotidianità normale.
“Una rondine non fa primavera”, ha affermato la dottoressa Paolini per indicare che, nonostante molte persone abbiano avuto in un determinato periodo della propria vita qualche paura sproporzionata o irragionevole, non tutte siano patologiche e degne, quindi, di entrare nella rigidezza classificatoria dell’etichetta di fobico o “panicoso”. E’ innegabile, tuttavia, che sempre più sono le persone che soffrono di disturbi d’ansia o dell’umore anche se, contrariamente a quello che molti pensano o affermano, sono malattie guaribile. Trapela un messaggio di speranza, dunque: l’oscuro male si può vincere.

ancora Pancheri - superstar - sulla depressione

La Stampa 22 febbraio 2004
Psichiatri a congresso a Roma
DEPRESSIONE NUOVO PERICOLO
Di Daniela Daniele

La strada, a quanto pare, l'abbiamo già imboccata. Il punto d'arrivo sarà il 2020 quando, secondo le previsioni dell'Oms, la depressione diventerà la seconda e più importante causa di morte e disabilità nel mondo, dopo l'ischemia coronarica. Di certo un dato: è in aumento la richiesta di aiuto psichiatrico. E qualcosa vorrà dire.
Se ne parlerà al X congresso della Società italiana di psicopatologia, in corso a Roma, che ha per tema: "La psichiatria che cambia in un mondo in trasformazione".
Una trasformazione che non sempre è sinonimo di evoluzione, ma spesso ha punti oscuri. Quelli che si annidano nella psiche e fanno soffrire l'anima.
"E' vero, cresce il bisogno di chiedere aiuto - conferma Paolo Pancheri, presidente della Sopsi e del congresso -. Perché si avverte sempre più l'insoddisfazione generale per i bisogni artificiali, prodotti dal bombardamento di mille stimoli, che non si riescono a raggiungere; la competizione aumenta e, per conseguenza, si crea più emarginazione". Tutto questo produce infelicità, in quantità industriali.
Allora la psiche grida il suo Sos alla pillola miracolosa o alla psicoterapia, troppo spesso condotta da chi si improvvisa psicoterapeuta. "Anche di questo parleremo - anticipa il professor Pancheri - perché il pericolo è reale. Di fronte all'aumento delle richieste, va da sé che le industrie hanno tutto l'interesse a vendere i loro prodotti. Ma gli antidepressivi sono farmaci che vanno somministrati con grande cautela e soltanto nei casi veramente gravi, perché ancora non si sa tutto sul loro potere d'azione nel cervello. E anche le psicoterapie, in quanto tali, vanno fatte da persone capaci. Occorre porre un freno a tutte le situazioni esagerate".
Siamo sottoposti al confronto continuo con i modelli proposti dai mezzi di comunicazione e dalla pubblicità e questo martellamento, nei soggetti più deboli, si traduce in perdita di autostima: non sono bello, non ho successo, non sono sempre allegro. E' colpa mia.
"Nella società che cambia - continua Pancheri - c'è poi un altro elemento, buono di per sé, ma fonte di altra sofferenza: Internet. Aumento il numero di persone che cerca aiuto perché non riesce più a stabilire rapporti normali con gli altri, dopo aver trascorso ore e ore in colloqui virtuali in rete".
Chattare è senza dubbio una grossa valvola di sfogo per chi ha problemi ad avere rapporti interpersonali o di grande timidezza. Ma l'altra faccia della medaglia è rappresentata dal rischio di finire in un isolamento totale, di fuggire sempre di più da un rapporto diretto con le persone e di assumere, poco alla volta, atteggiamenti regressivi.
A portare la gente negli studi psichiatrici è anche un aumento consistente dell'ansia. "L'accesso alle informazioni - prosegue Pancheri - è enormemente cresciuto. E il cervello non ha una capacità illimitata. Di fronte a una tale mole di notizie, senza sosta, si crea un sempre maggiore disorientamento e cresce l'ansia".
Il problema è la violenza? "Non credo che sia aumentata - conclude lo psichiatra -. E' la spettacolarizzazione della violenza a cambiare. Queste immagini continue fanno crescere l'insicurezza generale. Ed è una insicurezza strisciante".

sinistra
intervista a Bertinotti
e la nuova Liberazione

Corriere della Sera 22.2.05
Bertinotti: sì al guanto di velluto, ma stop alla guerra
«Non c’è pregiudizio e l’amministrazione Bush non è quella di prima. Sharon? E’ bene incoraggiarlo»
Daria Gorodisky

ROMA - Onorevole Fausto Bertinotti, al suo partito - Rifondazione comunista - piace il «benvenuto signor presidente» che Romano Prodi ha augurato a Bush ospite in Europa?
«Quel saluto rappresenta il guanto di velluto, obbligatorio nelle relazioni diplomatiche. Poi bisogna vedere che mano c’è sotto: non dico che sotto quel guanto c’è un pugno di ferro, però… Un conto sono i rituali diplomatici, un conto i problemi reali: in questo caso la linea di politica estera».
Che ora significa rapporto con gli Stati Uniti.
«E che deve basarsi sull’autonomia dell’Europa. Oggi l’Atlantico sta all’Europa come il Tevere stava allo Stato italiano alla fine dell’800 e parte del ’900: lo Stato italiano misurava la propria autonomia in laicità, l’Europa deve farlo partendo dal principio che l’Oceano non è solo via di comunicazione, ma anche distanza. La Ue non può segnare solo una sorta di autonomia a sovranità limitata, cioè fintanto che è compatibile con il primato Usa, ma deve portare avanti un proprio progetto del mondo. L’Atlantico va considerato largo, altrimenti l’Europa non esiste, diventa solo un’articolazione del potere imperiale».
Comunque Prodi sottolinea decisamente l’auspicio di un «nuovo, grande accordo transatlantico».
«È vero. E se questo significa dire alt alla guerra, se significa che invece di procedere verso un’ipotesi militare in Iran si torna indietro dall’Iraq, allora va bene. Gli Stati Uniti devono disinnescare la guerra. Questo deve essere il messaggio europeo. Non c’è pregiudizio verso gli Stati Uniti, però bisogna seguire il senso dell’Europa che hanno Francia e Germania».
Che a Prodi piace. Dunque sotto il «guanto di velluto» lei vede il no al rifinanziamento della missione votato dal centrosinistra in Parlamento? Un no che da più parti si attribuisce a "Prodinotti"...
«Ma non esiste un Prodinotti... Abbiamo culture politiche distinte e devono trovare una convergenza, questo sì. Però il Prodinotti è un’idea incompatibile con la natura stessa di Prodi: una natura tosta, non bisogna farsi ingannare dalla sua fisicità morbida...».
La cultura cattolica dell’ex presidente della Commissione europea si concilia con la svolta non-violenta e vagamente "spirituale" che lei sta imprimendo a Rifondazione?
«Lui viene da una cultura fortemente segnata dal dossettismo; in Italia i cattolici democratici si sono sempre caratterizzati con il dialogo interreligioso, il lavoro per un Mediterraneo di pace, il rapporto con i Paesi arabi, l’idea di un mondo estraneo alla logica delle grandi potenze. Ora si aggiunge l’influenza dei movimenti pacifisti. Ecco, Prodi esprime in maniera contenuta tutto questo nuovo popolo... E io ero sicuro di quel no al rifinanziamento».
E le novità mediorientali? Prodi apprezza i passi verso la pace; e il direttore dell’ Unità, Furio Colombo, dà un buon giudizio di Sharon, uomo che la sinistra ha sempre demonizzato.
«Non c’è ragione per non apprezzare la decisione del governo israeliano di ritirarsi da alcuni territori. Riconosco che in Sharon è avvenuto un cambiamento: era l’uomo di Sabra e Chatila, ma oggi compie una scelta che lo espone allo scontro con l’ala più integralista del suo Paese e con parte del suo stesso partito. Se il suo passato da falco oggi lo mette in condizione di muovere qualche passo in più, forse il passato può almeno avere un risvolto diverso. È bene incoraggiare, certo senza però rinunciare a mantenere un occhio critico».
Torniamo al rapporto Europa-Usa e a come va affrontata la questione irachena.
«L’Ue deve sostenere l’intervento di un’Onu emancipata dall’unilateralismo Usa. Deve associarsi agli altri Paesi che avevano contrastato l’intervento militare in modo che il Consiglio di sicurezza possa programmare il ritiro delle truppe».
Un programma a tappe esiste già nella risoluzione 1546 delle Nazioni Unite.
«Dobbiamo chiedere date precise. Oggi l’Amministrazione Bush non è quella di prima, è attraversata da pulsioni diverse ed è incrinata quella sua sicumera del veni, vidi, vici . Può essere che chieda realmente il concorso europeo e la risposta non può essere lo scioglimento nella strategia americana che ha portato alla guerra, ma si deve partire dall’affermazione "avevamo ragione noi ad opporci"».
Pensa, come il presidente dei Comunisti italiani Armando Cossutta, che un’Europa «autonoma» debba avere anche una propria forza militare?
«Non credo che ce ne sia bisogno, esistono già gli eserciti delle singole nazioni. No, io penso a una forza di pace, di protezione civile. L’Europa deve avere un ruolo e una logica diversi. Prendiamo ad esempio i messaggi di pace: nessuno Stato è riuscito ad essere efficace tanto quanto il Papa, una voce ultrasecolare. Ecco cosa intendo per costruire una potenza di pace, che sottragga il mondo alla guerra».
Gianni Vattimo, sempre area Pdci, critica duramente Prodi per l’atteggiamento con cui ha accolto Bush: «Terrificante, una turpitudine suprema»...
«Io posso commentare parole e posizioni di Prodi, non i giudizi che altri ne danno...».

Corriere della Sera 22.2.05
NUOVO GIORNALE
Liberazione, debutto sul congresso: la mozione di Bertinotti è al 60%
Formato rivisto per il quotidiano Prc diretto da Sansonetti

La nuova Liberazione vuole pensare in grande, e non solo nel formato. Il quotidiano di Rifondazione comunista da oggi cambia veste grafica, e non solo. Il giornale diretto da pochi mesi da Piero Sansonetti, che ha preso il posto di Alessandro Curzi, prova ad accompagnare con stimoli e dibattiti il passaggio cruciale, nella politica italiana e del centrosinistra, del partito guidato da Bertinotti. La copertina del primo numero sarà proprio dedicata al partito, in vista del prossimo congresso. Titolo: «Rifondazione sarà radicale o di governo?». Nel servizio le cifre sui consensi raccolte dalle mozioni congressuali: quella del segretario Fausto Bertinotti («L’alternativa di società») si attesta intorno al 60%, la mozione di Claudio Grassi («Essere comunisti») supera il 25%, quindi le altre tre, promosse da Marco Ferrando, Gigi Malabarba e Claudio Bellotti. Nella prima pagina di oggi anche un articolo dello scrittore Erri De Luca, molto aspro sul centrosinistra definito rispetto alla maggioranza «un’alternativa un-po’-meno-di-destra». Approfondimenti e provocazioni, così vuole essere la nuova Liberazione . Nella Terza pagina un articolo di Bifo sui kamikaze e la politica, e ancora un intervento dello scrittore Aldo Nove, che scomoda Hegel per sostenere che Simona Ventura non esiste. Promette il direttore Sansonetti: «Il nostro obiettivo è realizzare un giornale antitelevisivo. Speriamo di riuscirci».

Darwin Day

Il Mattino 21..05
INTERVISTA AL DOCENTE DI STORIA DELLA BIOLOGIA
«Simbolo laico poco amato dai cattolici»
ROMEO BASSOLI

«È straordinario il successo che hanno avuto i Darwin Day, ed è strano che questo accada in Italia, un paese che ha sempre amato poco Darwin, nonostante grandi scienziati come Montalenti o Buzzato Traverso». Il professor Gilberto Corbellini, docente di Storia della biologia all’università La Sapienza di Roma e condirettore della rivista Darwin, è uno dei protagonisti di questa improvvisa «primavera evoluzionistica» italiana. Perché lei dice che l’Italia non ha mai amato Darwin? «Abbiamo avuto e abbiamo grandi scienziati che hanno adottato e sviluppato l’evoluzionismo, ma abbiamo anche biologi che per decenni hanno storto il naso al nome di Darwin. Fuori dalla comunità scientifica, fino alla fine del secolo la sinistra comunista, con i suoi tanti intellettuali di formazione crociana, idealista, non amava Darwin. Da parte cattolica, poi, la diffidenza e l’ostilità sono state fortissime. Ricordiamoci che fino alla enciclica Humani generis di Pio XII nel 1950, la Chiesa era ufficialmente schierata contro l’evoluzionismo. Questa pregiudiziale è caduta ma è in corso in questi mesi un attacco durissimo, mai così arrogante, a quel mondo laico di cui Darwin è un simbolo». Dunque, il successo dei Darwin Day potrebbe essere anche una reazione della comunità scientifica italiana? «Certo, gli scienziati oggi si sentono sotto pressione. C’è questo attacco, c’è stata la circolare Moratti sull’insegnamento dell’evoluzionismo nelle scuole medie, c’è stata la legge sulla fecondazione assistita. La comunità scientifica avverte che è in atto una ondata di irrazionalismo. E reagiscono anche con iniziative come quelle dei Darwin Day, dove si afferma la cultura scientifica e laica. Una cultura di altissima qualità, con un rilievo internazionale». Sull’evoluzionismo nelle scuole si è formata una commissione di saggi... «Sì, ma a quasi un anno di distanza non sono state rese pubbliche le conclusioni. Eppure non doveva decidere su nulla di controverso nel mondo scientifico: l’evoluzionismo non è più una teoria, è un insieme di fatti confermati da ogni nuova ricerca in genetica». Lei dice che Darwin è il simbolo di un sapere laico. In che senso? «È la dimostrazione che la mente umana può comprendere i cambiamenti senza dover ricorrere al soprannaturale. Quello di Darwin è stato un approccio umanistico e razionale ai problemi della comparsa della vita e dell’uomo sul pianeta, dei suoi mutamenti e dei mutamenti dell’ambiente attorno a noi. Il fatto che oggi, negli Stati Uniti soprattutto, Darwin e l’evoluzionismo siano il bersaglio di movimenti politici e culturali ultraconservatori significa una sola cosa: che il pensiero darwiniano ha colto nel segno».

depressione

Yahoo! Salute Psichiatria, lunedì 21 febbraio 2005
Psicologia e Neurologia
Madre depressa, figlio antisociale?
Il Pensiero Scientifico Editore
Antonella Sagone

La depressione materna può rispecchiarsi in comportamenti antisociali del bambino, dovuti probabilmente alla combinazione di fattori ereditari e ambientali. A questa conclusione sono giunti ricercatori dell’Istituto di psichiatria del King’s College di Londra. Ne parla la rivista Archives of General Psychiatry.
La depressione materna può rendere una donna incapace di accudire adeguatamente i propri figli: certi giorni è difficile anche alzarsi dal letto. Un’infanzia trascurata dunque potrebbe essere di per sé una spiegazione sufficiente a illustrare il comportamento antisociale di tanti figli di madri depresse, tuttavia lo studio condotto a Londra mostra che questo fattore non è l’unico ad entrare in gioco. Altri aspetti da prendere in considerazione sono il fatto che una madre depressa è più facilmente vittima di una relazione di coppia con partner che presentano a loro volta dei disturbi, il che può incidere ulteriormente sull’equilibrio dei figli; inoltre spesso la depressione materna si accompagna a comportamenti antisociali della madre stessa. Per finire, esiste la possibilità concreta che in parte possa entrare in gioco anche una predisposizione genetica al disagio psichico che aumenta la vulnerabilità allo stress nei figli di madri depresse.
Ereditarietà e ambiente sono entrambi necessari a dare ragione del fenomeno. “I nostri risultati provano che la 'natura' non può da sola spiegare l’intero quadro”, afferma Julia Kim-Cohen, conduttrice dello studio. “Quando una madre è depressa, suo figlio può presentare disturbi del comportamento, e questo in parte è causato dallo sconvolgimento dell’ambiente familiare”. Lo studio ha preso in esame 116 coppie di gemelli valutati per disturbi del comportamento a 5 e 7 anni di età, verificando l’incidenza di depressione nelle loro madri; circa un quarto delle madri aveva sofferto di depressione nei 5 anni successivi al parto. La depressione successiva, ma non precedente, alla nascita dei bambini è stata associata al comportamento antisociale a 7 anni di età. Inoltre la storia clinica dei genitori ha fatto emergere una notevole frequenza di comportamento antisociale anche nel padre e nella madre dei bambini con sintomi antisociali, avallando l’ipotesi di una componente ereditaria.
Fortunatamente vi sono strumenti sia farmacologici che terapeutici per curare la depressione. Il suggerimento degli autori è di condurre un approccio al problema che coinvolga non solo il bambino con comportamenti antisociali, ma anche i suoi genitori, accertando e trattando anche l’eventuale depressione materna.

Fonte: Kim-Cohen J, Moffitt TE, Taylor A et al. Maternal depression and children's antisocial behavior: nature and nurture effects. Arch Gen Psychiatry 2005;62(2):173-81.

il prof. Paolo Pancheri e i suoi amici

farmacia.it
21 Febbraio 2005 - 17:38
PSICHIATRIA: RICHIESTE AIUTO PER SOFFERENZE QUOTIDIANE

(ANSA) - ROMA, 21 FEB - La richiesta di aiuto psichiatrico nella popolazione e' in aumento, ma sta anche cambiando profondamente il tipo di malessere che spinge a cercare aiuto: non piu' soltanto patologie gravi, ma anche disturbi legati a momenti di vita particolarmente dolorosi. Sempre di piu', cioe', si cerca di eliminare la sofferenza dalla quotidianita', anche quando questa non ha nulla di patologico. E' un fenomeno nuovo e in crescita e a denunciarlo sono gli psichiatri che, da domani fino al 26 febbraio, si ritroveranno a Roma in occasione del X Congresso della Societa' italiana di psicopatologia (Sopsi). Un'occasione per puntare i riflettori, come recita il titolo del congresso, su una psichiatria "che cambia in un mondo in trasformazione". E i fattori sociali, sottolineano gli esperti, hanno senza dubbio un grande peso nell'aumento delle patologie psichiatriche registratosi negli ultimi anni. Un italiano su dieci, dicono le statistiche piu' recenti, soffre di disturbi mentali e nel nostro Paese, cosi' come nel resto dell'Occidente, due soggetti su dieci sono a rischio di ammalarsi di qualche patologia mentale, piu' o meno grave, nel corso della propria esistenza. Ma al di la' delle cifre, sottolineano gli psichiatri, e' anche la "coscienza del malessere psichico", fino a pochi anni fa considerato di 'serie B', che sta crescendo sempre di piu'. "Da un lato - ha affermato il presidente della Sopsi Paolo Pancheri - e' in costante aumento il numero di persone che si rivolge al medico di base per disturbi fisici che nascondono, in realta', delle patologie psichiatriche: la depressione e l'ansia, ad esempio, molto spesso possono manifestarsi anche con disturbi e sintomi fisici. Questo vuol dire che c'e' una maggiore attenzione. Dall'altro lato, pero' - ha proseguito - e' in crescita anche la tendenza a richiedere aiuto per malesseri legati a normali momenti di vita o a periodi particolari dell'esistenza, da un lutto ad esperienze di particolare difficolta' ad esempio sul lavoro". Un nuovo approccio, secondo Pancheri, che dimostra una "crescita della sensibilita': Una volta si tendeva a tenersi dentro questo tipo di malesseri, ora non piu'. Questo perche' - ha spiegato - e' cresciuta la conoscenza dei disturbi e del disagio psichico, ma anche la consapevolezza del fatto che oggi e' possibile ricevere un aiuto specialistico per poter stare meglio". Ma dietro questo fenomeno, sottolineano gli psichiatri, si nasconde anche un altro tratto che caratterizza la societa' moderna: il bisogno di eliminare e cancellare completamente la sofferenza ogni volta e in ogni modo cio' sia possibile. Un fenomeno che presenta una duplice faccia: "Se il ricorso immediato al medico consente infatti, in vari casi, di diagnosticare precocemente dei disturbi psichiatrici magari in fase iniziale, e cio' e' senza dubbio positivo, - ha osservato Pancheri - l'altro lato della medaglia ci mostra come siano sempre di piu' le persone convinte che lo psichiatra possa rappresentare una sorta di 'panacea' contro tutti i malesseri dell'esistenza, anche quelli legati alla normalita' della vita". Una 'scappatoia', questa, che gli specialisti considerano ovviamente negativa ma anche molto preoccupante. Aspetti che, insieme a moltissimi altri temi (dagli ultimi sviluppi della farmacologia ai disturbi alimentari in crescita, dal mobbing al terrorismo) verranno sviscerati in questa tradizionale 'cinque giorni' romana della psichiatria, che vedra' riuniti nella capitale circa 3.000 esperti italiani e stranieri. (ANSA).
una segnalazione di Francesco Troccoli

Corriere della Sera, pag. 22 - 19 febbraio 2005
Gli antidepressivi raddoppiano il rischio suicidi

Uno studio canadese, pubblicato sul British Medical Journal, riterrebbe che gli adulti che assumono antidepressivi di nuova generazione come il Prozac, raddoppino le probabilità di tentare il suicidio rispetto a chi non ne fa uso. Questa indagine è la più ampia mai condotta: sono stati analizzati 702 studi clinici, a cui hanno partecipato 87.650 pazienti.

think positive e predestinazione
così secondo l'house organ del presidente del consiglio

Panorama 18.2.05
Il cervello felice
di Michael D. Lemonick
Il buonumore e l'ottimismo in qualche modo proteggono cuore e polmoni, abbassano la pressione, potenziano le difese immunitarie. Solo da poco gli scienziati hanno iniziato a occuparsi della neurochimica delle emozioni positive. E le sorprese non mancano.
Richard Davidson era in un laboratorio a osservare un monaco buddista mentre entrava serenamente in stato di meditazione, quando notò qualcosa che fece salire il battito cardiaco del religioso alle stelle. Davidson, professore di psicologia e psichiatria all'Università del Wisconsin, andò subito a controllare sullo schermo del computer i dati provenienti dagli elettrodi attaccati al cranio del monaco, ma non c'era alcun errore: l'attività elettrica del lobo prefrontale sinistro del cervello del monaco stava aumentando a un ritmo impressionante. «È stato emozionante» ricorda Davidson. «Non ci aspettavamo di vedere qualcosa di così straordinario».
All'epoca della scoperta, cinque anni fa, Davidson stava studiando il legame tra l'attività del lobo prefrontale e quel tipo di beatitudine provata da coloro che praticano la meditazione. Ma anche per un esperto vedere il cervello fremere in grande attività quando una persona entra in una sorta di trance era inedito. Secondo Davidson, la felicità non è solo una vaga e ineffabile sensazione, bensì una condizione fisica del cervello che può anche essere indotta.
E non è tutto. Quando hanno scoperto le caratteristiche fisiche di un cervello felice, i ricercatori hanno anche notato che tali tratti avevano potenti effetti sul resto del corpo. Coloro che nei test psicologici raggiungono i punteggi più elevati nella valutazione dello stato di felicità producono mediamente il 50 per cento in più di anticorpi in risposta ai vaccini antinfluenzali e questo, a detta di Davidson, «fa una gran bella differenza». Altri hanno visto che la felicità o i relativi stati mentali, come la tendenza alla speranza, l'ottimismo e la gioia, sembrano ridurre il rischio o almeno limitare la gravità di malattie cardiovascolari, polmonari, diabete, ipertensione, e addirittura raffreddore e infezioni delle vie aeree superiori. Uno studio olandese condotto su pazienti anziani e pubblicato in novembre ha mostrato che questi atteggiamenti mentali positivi hanno dimezzato il rischio di morte nell'arco dei nove anni di durata dell'osservazione.
È da tempo ormai che i medici sanno bene che la depressione, ossia l'esatto contrario della felicità, può peggiorare le cardiopatie, il diabete e numerose altre malattie. La neurochimica della depressione è molto più conosciuta di quella della felicità, perché è stata studiata molto più a fondo e più a lungo. Fino a una decina d'anni fa, afferma Dacher Keltner, psicologo dell'Università della California di Berkeley, «il 90 per cento della ricerca sulle emozioni si concentrava su quelle negative, ed è per questo che siamo ancora qui a porci tutte queste domande interessanti sullo stato positivo».
Ma che cos'è realmente la felicità? La parola, come osserva Davidson, «viene in realtà utilizzata per descrivere una costellazione di stati emozionali positivi. È una condizione di benessere in cui un individuo in genere non è motivato a cambiare il proprio stato, anzi è motivato a prolungarlo. Si associa a una sensazione simile alla voglia di abbracciare il mondo, ma le caratteristiche esatte e i confini di queste sensazioni devono ancora essere definiti seriamente dalla ricerca scientifica».
Eppure, le persone esaminate possono dire agli studiosi in modo coerente quando si sentono bene e le due tecnologie di visualizzazione del cervello utilizzate, la risonanza magnetica funzionale (fMri), che rileva la circolazione del sangue nelle parti attive del cervello, e l'elettroencefalogramma, che registra l'attività elettrica dei circuiti neuronali, mostrano chiaramente che la corteccia prefrontale sinistra è il sito primario della felicità.
«Siamo abbastanza sicuri che questa zona del cervello sia alla base di almeno certi tipi di felicità» dice Davidson. Ciò suggerisce che ci sono persone geneticamente predisposte a essere felici grazie a cortecce prefrontali molto attive, e la ricerca sul neonato lo conferma.
Davidson ha misurato l'attività prefrontale sinistra nei bambini al di sotto di un anno di età e poi li ha sottoposti a un test in cui le madri lasciavano la stanza per un breve periodo. «Alcuni bambini scoppiano subito in un pianto disperato non appena la madre si allontana» afferma lo scienziato. «Altri mostrano maggiori capacità di recupero». E sembra che i bambini con una maggiore attività prefrontale sinistra siano quelli che non piangono.

UNA RISATA VI RISANERÀ
Gianna Milano
Fa bene al corpo e alla mente. Tanto che ovunque nascono speciali club
Che una bella risata faccia bene alla salute non è solo un modo di dire. Le ultime ricerche hanno delineato i meccanismi biologici che trasformano il riso in un beneficio per il cuore, la respirazione e lo stress. Diversi esperimenti hanno dimostrato che la risata serve ad abbassare la pressione, aiuta a ossigenare i polmoni ed è un toccasana per l'umore.
Da qualche anno sono nati nel mondo, dalle Filippine all'Italia, 1.800 Club della risata: fanno parte di un movimento creato in India, nel 1995, da Madan Kataria, un medico. La sua terapia, basata su una serie di risate provocate unite a esercizi, si chiama Hasya yoga. «Ridere è contagioso e per funzionare basta essere in gruppo. Il momento migliore è il mattino e bastano 15-20 minuti per ottenere benefici. Dopo ci si sente carichi e si affronta meglio la giornata» sostiene. E proprio all'alba si radunano nei parchi gruppi di persone per ridere insieme.
Ma che cosa c'è dietro una risata, linguaggio universale, riconosciuto da tutte le culture e contagioso, che esprime emozioni e invia segnali di simpatia, approvazione, disprezzo, solidarietà, superiorità? Perché si producono ridendo queste vocalizzazioni dai timbri e dai significati diversi che fanno parte del vivere quotidiano?
Tutti sanno che è una manifestazione spontanea di allegria, di spensieratezza. «Ma anche un comportamento sociale di rara potenza, qualcosa che ci mette in relazione con gli altri, per stabilire un legame, esprimere apprezzamento, ma anche per umiliare o esercitare ostracismo su chi è vittima della nostra risata. I despoti infatti ne temevano il potere» scrive Robert Provine, neuroscienziato americano, nel libro Ridere. Da anni dedica i suoi studi all'evoluzione e ai meccanismi neuronali di questa reliquia vocale che coesiste con il linguaggio.
La risata è una caratteristica innata che l'uomo condivide solo con i primati, dagli scimpanzé ai gorilla. Cosa questa già nota a Charles Darwin e confermata dall'etologo olandese Jan Van Hoff, che cercò di capire in quali circostanze i primati emettono quei rauchi e ansimanti suoni che sono le loro risate. Il ricercatore concluse che sia negli uomini sia nei primati la risata è legata a un atteggiamento giocoso, anche se in questi ultimi è sempre prodotta da un contatto fisico, come il solletico o la finta lotta. Nelle vocalizzazioni e nei meccanismi respiratori che producono la risata nelle grandi scimmie Provine ritiene ci sia la chiave per capire l'evoluzione del linguaggio umano.
In breve, come i genitori sanno istintivamente, alcuni bambini semplicemente nascono felici. Ma gli studiosi delle neuroscienze nell'ultimo decennio hanno anche appreso che il cervello ha una grande plasticità e si riconfigura in risposta all'esperienza, in particolare prima della pubertà. Pertanto si può ingenuamente ipotizzare che le esperienze negative possano distruggere una personalità felice, ed effettivamente se sono estreme e frequenti, ciò è possibile. Ma Davidson ha notato che una piccola o moderata quantità di esperienze negative è invece positiva (in studi sugli animali, ha paragonato gruppi che avevano subito stress di entità moderata in giovane età ad altri che ne erano stati immuni e ha osservato che i primi si riprendevano meglio dalle situazioni difficili, una volta adulti). Secondo Davidson, il motivo è che con gli eventi dolorosi ci alleniamo a respingere le emozioni sgradevoli: è come un esercizio per rafforzare i muscoli della felicità o un vaccino contro la malinconia.
Ma qual è esattamente la differenza fisica che esiste tra una corteccia prefrontale sinistra predisposta alla felicità e una che non lo è? I neurotrasmettitori, quelle sostanze chimiche che trasportano i segnali da un neurone a un altro, sono quasi sicuramente implicati. E sebbene la corteccia prefrontale sia immersa in un mare di neurotrasmettitori, quali dopamina, serotonina, glutammato, Gaba e altri, Davidson è convinto che la dopamina rivesta un'importanza particolare.
Secondo studi effettuati sugli animali, questo neurotrasmettitore media il trasferimento dei segnali associati alle emozioni positive tra l'area prefrontale sinistra e i centri emozionali nella zona limbica del cervello, come il nucleus accumbens, situato all'interno del corpo striato ventrale.
Le persone dotate di una versione sensibile del recettore che riceve la dopamina tendono ad avere stati d'animo migliori. Le vie della dopamina possono essere importanti soprattutto per quegli aspetti della felicità associati al tendere verso uno scopo, di qualsiasi tipo (il monaco che mira a raggiungere un determinato stato durante la meditazione, ma anche il fumatore cui viene permesso di accendersi una sigaretta dopo 24 ore di privazione). Ma altri tipi di felicità, quali il piacere fisico, potrebbero essere legati all'azione di sostanze chimiche diverse, attive a livello neurologico.
Capire la neurofisiologia dello stare bene è una cosa; un'altra è comprendere in che modo le emozioni positive influiscono sul resto del corpo. Come per gli studi sul cervello, la parola felicità è troppo vasta per un approccio rigoroso e così i ricercatori tendono a concentrare la loro attenzione su aspetti specifici.
Laura Kubzansky, psicologa di Harvard, ha scelto di studiare l'ottimismo. In un vasto studio ha seguito 1.300 uomini per 10 anni e ha osservato che le percentuali di cardiopatie insorte in quelli che si autodefinivano ottimisti erano dimezzate rispetto a quelle di coloro che non si definivano felici. «L'effetto si è rivelato molto più evidente di quanto ci aspettassimo» sostiene la studiosa, così come la differenza tra i fumatori e i non fumatori. «Abbiamo osservato anche la funzione polmonare, poiché una funzione polmonare scarsa è un buon indicatore di tutta una serie di esiti infausti, tra cui morte prematura, malattia cardiovascolare e malattia polmonare cronica ostruttiva». E ancora, gli ottimisti stavano decisamente meglio. «Io sono un'ottimista» afferma Kubzansky «ma non mi aspettavo simili risultati».
In una serie di esperimenti iniziati nel 1998, lo psicologo Robert Emmons dell'Università della California di Davis ha trovato altre prove del fatto che le persone felici si mantengono meglio in salute. Emmons ha suddiviso in modo del tutto casuale mille adulti in tre gruppi; al primo è stato chiesto di tenere un diario quotidiano dei propri stati d'animo, assegnando un voto da 1 a 6 a ogni sensazione; i soggetti del secondo gruppo tenevano un diario nel quale annotavano le cose che li avevano irritati o infastiditi di più durante il giorno e anche il terzo gruppo scriveva un diario, ma per annotarvi ogni giorno un'attività che aveva ripetutamente dimostrato di migliorare il loro senso di soddisfazione nei confronti della vita; insomma, dovevano annotare ogni giorno le cose per cui si sentivano grati. Nonostante la suddivisione casuale dei gruppi, l'ultimo non soltanto ha registrato il netto miglioramento previsto quanto a benessere generico ma, come afferma Emmons, è stato anche quello che faceva più esercizio fisico, che si sottoponeva più di frequente a visite mediche di controllo e adottava normalmente una serie di comportamenti di prevenzione, per esempio ripararsi dai raggi solari.
In generale, il gruppo della «gratitudine» si comportava in modo da garantirsi uno stato di salute migliore. «In breve, tenere il diario ha contribuito al benessere fisico ed emotivo di quelle persone. La gente che si sente piena di gratitudine tende a percepire il proprio corpo in un certo modo» dice Emmons. «Sente la vita come un dono, la salute come un dono. E così vuole fare qualcosa per conservarlo».

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ANCHE PREDESTINATI AL PIANTO
Esiste una predisposizione genetica all'allegria? Forse, suggeriscono gli esperimenti di Richard Davidson. A bambini con meno di un anno viene misurata l'attività prefrontale sinistra, dopo che la madre esce dalla stanza per un breve periodo: alcuni scoppiano subito in un pianto disperato, altri mostrano maggiori capacità di recupero.
Pare che i piccoli con una maggiore attività prefrontale sinistra siano anche quelli che piangono meno. «In base a ciò, siamo in grado di predire quali bambini sono più portati al pianto di altri» afferma Davidson.