ANTEPRIMA: l'intervista a Fausto Bertinotti che uscirà sul prossimo numero di MATERIALI
Ripensare l’agire politico per costruire una nuova società
Intervista a Fausto Bertinotti
di Patrizio Paolinelli
Se c’è un punto che mette d’accordo quasi tutti gli osservatori politici è il fatto che Rifondazione Comunista costituisce oggi il partito italiano maggiormente impegnato nel ridiscutere se stesso fin nel profondo delle sue radici. Il via a questo processo di “autocoscienza” collettiva è stato dato da Fausto Bertinotti (nella foto). Gli cediamo subito la parola per comprendere lo stato dell’arte su una discussione tutt’ora in corso e che continuerà a lungo.
DOMANDA - Nelle tue «15 Tesi» affermi sostanzialmente che la profonda crisi della democrazia rappresentativa può essere risolta da una nuova politica di trasformazione e liberazione. Puoi approfondire questo passaggio?
RISPOSTA - «La crisi della democrazia si acutizza quando la corsa breve della crisi della politica incontra la corsa lunga della crisi di civiltà e quest’ultima è segnata dalla tendenziale divaricazione tra innovazione e progresso sociale. Intendo dire che la globalizzazione porta a una radicale modificazione sia del rapporto tra governati e governanti sia delle istituzioni democratiche come le abbiamo conosciute in Europa. In pratica è la trasposizione del modello statunitense su scala planetaria. Da qui la necessità di rifondare l’idea stessa dell’agire politico».
D - Attraverso quali momenti si concretizza questo processo di rifondazione dell’agire politico?
R - «Ti faccio un esempio concreto. Con le recenti elezioni europee si è espressa un’Europa sociale che con il suo voto ha segnato una sconfitta dei governi e si è opposta all’Europa politica. Da quel voto emerge un esito che può portare alla separazione tra masse popolari e politica. Separazione che si manifesta in vari modi: astensionismo elettorale o rifugio verso formazioni xenofobe. Parlo di processi non di risultati definitivi perché emerge anche un’opposizione che annuncia la possibilità di costruire un’alternativa di società. La possibilità di uscire da sinistra dalla corsa breve della crisi della politica e dalla corsa lunga della crisi di civiltà consiste nella capacità delle forze della sinistra radicale di incontrare questa opposizione sociale».
D - Da quanto affermi il rapporto con i movimenti risulta centrale nella prospettiva politica del PRC. Tuttavia, molti sostengono che i movimenti prima o poi passano mentre i partiti restano. Il rapporto tra Rifondazione Comunista e il movimento può ribaltare questa affermazione?
R - «La ripresa del conflitto di classe va letta dentro lo sviluppo dei processi che ho appena descritto. Mi riferisco alla crisi delle politiche neoliberiste, alla risposta regressiva delle classi dirigenti a quella crisi e all’impetuoso avanzare del movimento. E’ come se il movimento avesse arato il terreno e lo avesse concimato permettendo a tutti coloro che vi seminano sopra di raccogliere buoni frutti. Insomma, il movimento è riuscito a cambiare gli orientamenti profondi della società aprendo la possibilità di un nuovo punto di vista critico dell’esistente. In questo senso è definitivamente entrata in crisi l’idea secondo cui i movimenti sono incaricati di porre i problemi e i partiti sono depositari delle risposte. O, per dirla in altro modo, che i movimenti sono buoni quando le sinistre si trovano all’opposizione e debbano andare a casa quando governano. L’autonomia dei movimenti è la condizione essenziale per il loro sviluppo e per la possibilità stessa di incidere ne
lle scelte. Credo che un merito di Rifondazione Comunista sia quello di aver percepito subito la novità del movimento altermondialista e di avervi investito ogni energia in un rapporto di internità».
D - Il declino del neoliberismo quali scenari apre per la crescita della Sinistra Europea?
R - «Un’uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio del ‘900. E’ un’ipotesi praticabile per una ragione oggettiva: si va attenuando la rivoluzione restauratrice della globalizzazione capitalistica. Una rivoluzione che si presentava con la forza arrembante del pensiero unico, del dominio del mercato e dello sviluppo senza fine. Questo progetto ha perso gli artigli. Se li è spuntati sulla roccia prodotta dalle contraddizioni create dalla sua stessa politica andando poi ad impantanarsi nella recessione e nella guerra permanente».
D - Continuando a ragionare sul ruolo della Sinistra Europea esistono ragioni più soggettive per la sua azione politica?
R - «Sì. Consistono nell’irruzione del movimento altermondialista e dell’innestarsi su di esso del movimento per la pace. Consistono in un nuovo conflitto sociale e di lavoro che ha affermato la possibilità di costruire un mondo non soggiogato dalle logiche del mercato. L’instabilità prodotta dalle classi dirigenti e la contestazione delle compatibilità imposte dalla guerra e dal neoliberismo rendono attuale la costruzione di un’alternativa di società. L’Europa è oggi il centro della nostra riflessione, della nostra iniziativa e la costruzione del Partito della Sinistra Europea costituisce una leva fondamentale per dare corpo ad un’altra Europa. Anche qui, nella realizzazione di questa soggettività politica della sinistra radicale continentale, le discriminanti di fondo sono costituite dal rapporto privilegiato con i nuovi movimenti».
D - Qual il peso delle prossime elezioni regionali rispetto alla politica nazionale?
R - «E’ un appuntamento che può influire enormemente nell’acuire la crisi strategica delle destre. Crisi strategica perché investe il suo blocco sociale e si inserisce nel fallimento delle politiche neoliberiste in Italia e non solo. Un valore fondamentale delle prossime regionali sta nella possibilità di respingere definitivamente il progetto di ridefinizione reazionaria della Costituzione. Parlo proprio della cosiddetta devolution, ovvero la rottura del quadro di coesione dell’esigibilità dei diritti sul territorio nazionale che le destre cercano di realizzare. Parlo dell’attacco al contratto nazionale di lavoro, al cuore stesso del sistema di relazioni sociali, del welfare».
D - Sul piano operativo come ci si rapporta con i cittadini per battere la propaganda delle destre?
R - «Dobbiamo comunicare con forza il carattere socialmente regressivo dell’attacco alla Costituzione e del rapporto tra questo attacco e la demolizione di un sistema di diritti costruito con il conflitto di classe degli scorsi decenni. Dobbiamo far comprendere che le modifiche costituzionali non hanno nulla a che vedere con il potenziamento delle Regioni. Lo si vede benissimo dalla manovra economica che il governo ha varato: sottrae risorse, mezzi, strumenti agli enti locali su cui poi si scaricano i costi delle politiche antisociali e dei tagli praticati dal governo. Allo stesso tempo dobbiamo trasmettere nuovi progetti ed esperienze che emergono proprio localmente e contribuiscono a determinare un nuovo rapporto tra movimenti, scelte politiche, amministrazione. Penso al bilancio partecipativo, ai beni comuni, alle nuove municipalità».
D - Quale augurio per il nuovo anno senti di fare ai cittadini della nostra regione?
R - «L’augurio di un 2005 senza le destre al governo del Lazio e del Paese. L’augurio di una stagione politica che rompa con il neoliberismo e contribuisca all’apertura di un nuovo corso. Nel Lazio le opposizioni avanzano una candidatura importante, quella di Piero Marrazzo, che segna un rapporto intenso con la società civile. Un rapporto decisivo per la costruzione di un programma autenticamente riformatore. Come già avvenuto in passato il Lazio può annunciare il cambiamento che investirà l’intero Paese».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 19 dicembre 2004
«Aiuto! Si è arrabbiata la Befana»
una segnalazione di Paolo Izzo 19.12.04
A pag. 125 del Venerdì di Repubblica (in edicola oggi, domenica 19.12.04) c'è la segnalazione di
richiamato anche nel titolo dell'articolo ("Dal presepe a Tolkien passando per la Befana") e con foto della copertina.
A pag. 125 del Venerdì di Repubblica (in edicola oggi, domenica 19.12.04) c'è la segnalazione di
Aiuto! Si è arrabbiata la Befana
Nuove Edizioni Romane
Nuove Edizioni Romane
richiamato anche nel titolo dell'articolo ("Dal presepe a Tolkien passando per la Befana") e con foto della copertina.
violenza e impotenza
ricevuto da Carlo Patrignani
IL QUOTIANO DI CALABRIA sabato 18 dicembre
«Chi usa violenza è un impotente
non un ipersessuato»
Roma - «Chi usa violenza odia le donne, non è un ipersessuale con più ormoni di altri e per questo da castrare come sostenuto da certi ambienti politici: è un impotente che odia la donna, il diverso da sè, al quale non sa attivamente rapportarsi», spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Martino Riggio. «C'è da lavorare ancora molto, nonostante il femminismo, per giungere ad una società che riconosca la donna come persona umana e non come un oggetto», sostiene la scrittrice Lidia Ravera. Dunque, violentare la donna non è sessualità? «Mi pare ovvio - risponde Riggio - la sessualità non è violenza e sopraffazione ma attività di rapporto con un essere umano che percepisco, sento e vedo diverso da me: sessualità è attività di conoscenza e comprensione dell'altro». Quando si arriva alla violenza, sopraffazione, prevaricazione, è perché "si odia e non si ama l'altro perché non c'è sessualità ma annullamento dell'altro - precisa Riggio - che proprio perché diverso suscita un movimento che non si riesce a contenere, una diversità che appunto non si sopporta».
IL QUOTIANO DI CALABRIA sabato 18 dicembre
«Chi usa violenza è un impotente
non un ipersessuato»
Roma - «Chi usa violenza odia le donne, non è un ipersessuale con più ormoni di altri e per questo da castrare come sostenuto da certi ambienti politici: è un impotente che odia la donna, il diverso da sè, al quale non sa attivamente rapportarsi», spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Martino Riggio. «C'è da lavorare ancora molto, nonostante il femminismo, per giungere ad una società che riconosca la donna come persona umana e non come un oggetto», sostiene la scrittrice Lidia Ravera. Dunque, violentare la donna non è sessualità? «Mi pare ovvio - risponde Riggio - la sessualità non è violenza e sopraffazione ma attività di rapporto con un essere umano che percepisco, sento e vedo diverso da me: sessualità è attività di conoscenza e comprensione dell'altro». Quando si arriva alla violenza, sopraffazione, prevaricazione, è perché "si odia e non si ama l'altro perché non c'è sessualità ma annullamento dell'altro - precisa Riggio - che proprio perché diverso suscita un movimento che non si riesce a contenere, una diversità che appunto non si sopporta».
all'attacco di Zapatero
l'odio cattolico va alla guerra di Spagna
"La vera Spagna fermerà Zapatero"
Stato laico e religione
Da una parte Zapatero con le sue riforme laiche, dall'altra la reazione della Chiesa. In gioco due visioni opposte della società
di Concita De Gregorio
Castellòn (Valencia). Qui per strada le signore anziane, le vedove con le perle le calze scure e la permanente blu, baciano davvero l'anello al vescovo. «Monsignore, mi dispiace moltissimo per quello che vi stanno facendo. È terribile, ma abbia fede: ci sarà giustizia». L'anello è enorme, con la croce. Eccellenza. Reverendo. I miei omaggi. Il vescovo Juan Antonio Reig Pla, 57 anni, incarnato di porcellana, risponde con un cenno della testa, condiscendente e compiaciuto. Castellòn, diocesi di provincia: la gente non corre, qui le cose vanno lente. «Ecco, questo è il mio gregge. Persone normali, vede. Non quella suburra di omosessuali, divorziate e assatanati radicali di cui il governo immagina sia piena la Spagna. Hanno in mente un Paese che non esiste. Credono di essere in Svezia, ma nemmeno: su Marte. Pagheranno un conto salatissimo, mi creda. Basta aspettare, la gente si ribellerà». La cattedrale per l'Immacolata è addobbata di luci come una giostra. In edicola la rivista di satira del giovedì ha in copertina la caricatura di Zapatero come un assatanato, appunto. Legato a un letto in camicia di forza schiuma bava verde. Il prete esorcista gli agita addosso un crocifisso e urla: «Satana, esci da quel corpo». Piove sul ponte della Concezione, la festa più lunga dell'anno: sei giorni di celebrazioni e processioni per la vergine senza peccato. «Il primo esempio di fecondazione eterologa», ridono le femministe nei talk show della tv socialista. Blasfeme. Possedute anche loro. «Intrise di ideologia di morte»: il vescovo ne scaccia il pensiero con la mano mentre il cameriere gli porta un filetto ai ferri, «devo stare leggero, oggi ho le cresime in montagna». Piove, molto. I tg mostrano il demonio con la faccia da Bambi che parte con la moglie per un fine settimana di riposo senza sole. Quel diavolo di un socialista al mare, e il monsignore al lavoro a radunare i fedeli per messa: «Guardi bene e poi dica: qual è la vera Spagna?».
Sì, ecco: qual è la vera Spagna? C'è quella di Zapatero, che in sei mesi di governo ha ritirato le truppe dall'Iraq, varato una legge contro la violenza domestica sulle donne, consentito la ricerca scientifica sugli embrioni. Promesso il matrimonio per i gay, il divorzio in due mesi, l'aborto dalle prime settimane di gravidanza, le adozioni per le persone sole e le coppie omosessuali, la legalizzazione dell'eutanasia, l'abolizione dell'obbligo dell'ora di religione cattolica a scuola. Forse è questa, la Spagna: il paradiso delle libertà e del laicismo a cui il socialismo minoritario di tutta Europa guarda con invidia e speranza, la nuova frontiera dell'Eden democratico. O forse è ancora quella che per duemila anni è stata: quella severa e cupa dei preti le cui vesti sbattono come le porte che chiudono a chiave, come nei film di Almodòvar, come nei dipinti rosso granata di Goya, come al tempo delle ruote dentate dell'Inquisizione e in quello recente di Francisco Franco el Generalisimo e delle sue segrete. Due mondi in guerra aperta, guerra vera. I socialisti e i vescovi: «Questi senza Dio vogliono vendicarsi di noi», dicono i preti. Vendicarsi, così scriveva nel suo testamento il nonno del primo ministro, capitano Juan Rodriguez Lozano, fucilato nel '36 a un mese dall'inizio della Guerra civile per aver rifiutato di unirsi ai franchisti: «Vendicate la mia memoria». Quella, e molti altri secoli di storia. Una resa dei conti insomma. A questo siamo.
Josè Luis Rodriguez Zapatero è un uomo mite e prudente. I suoi sport sono la pesca e la cyclette, cose da fermi. La moglie, Sonsoles Espinosa, è stata l'unica donna della sua vita: l'ha conosciuta a 21 anni in facoltà, prima e dopo mai niente. Primo socialista a governare nell'ombra gigantesca di Felipe - sono passati dieci anni, nessuno chiama Gonzales per cognome, basta dire Felipe - è arrivato al potere cavalcando leggero e quasi stupito una lunga collana di errori altrui. Errori del suo partito, che si è smarrito negli anni Novanta in brutte storie di corruzione e di candidati deboli e inadatti. Errori degli avversari, che hanno governato per una decade la Spagna come se fosse cosa loro, come aveva insegnato Franco di cui ancora ci sono le statue, come Aznar ha fatto fino all'ultima menzogna, quella sulla strage dell'11 marzo, tre milioni di voti sono passati in due giorni a sinistra ed ha perso le elezioni. Questo avvio di legislatura all'insegna delle libertà radicali ha prima ammutolito, poi risvegliato dalla quiete della sua lunga siesta la Spagna profonda, quella silenziosa e sotterranea dell'Opus Dei, quella che porta milioni di famiglie a celebrare Escrivà in Vaticano, madri di dodici figli tutti in fila coi calzoni corti a messa, Rodrigo, Alvaro, Jesus, Maria Dolores, forza andiamo bambini, tutti nomi di madonne e penitenze, di martiri arsi vivi e crocifissi.
La tattica dei vescovi
Il clero non se l'aspettava, un attacco così. Voleva far scendere in piazza le sue truppe a metà dicembre, una manifestazione di strada coi cardinali in prima linea: sarebbe stata la prima volta nella storia. Poi c'è stata, a fine novembre, l'Assemblea plenaria dei Vescovi a Santiago de Compostela. Il cardinale Rouco Varela, presidente della Conferenza episcopale, uno che si è formato in Germania e scrive in tedesco, è uscito da quella riunione ed è andato a colazione da Fraga, già ministro del dittatore, eletto e rieletto fino ad oggi alla guida della sua regione, la Galizia. Il cardinale ha detto, citando la Bibbia: «Siamo attaccati ma non abbandonati, ci spingono ma non ci schiacciano». I socialisti, soggetto sottinteso. Però lo scontro frontale non è nella tradizione obliqua della Chiesa. Meglio trattare. Aprire un tavolo, ci sono i margini. Discutere, sotto la spada di Damocle della rivolta di piazza. La manifestazione si farà, se serve ancora, in primavera. Intanto per Santo Stefano si celebra una «giornata della famiglia» nel nome del matrimonio tradizionale, e vediamo quanta gente c'è.
Nei siti web conservator-cattolici (Hazteoir, fatti sentire, Noesigual, non è lo stesso essere eterosessuale o omo) la base si prepara alla sfida di maggio. I vescovi scrivono lettere pastorali contro l'eutanasia intitolate "Morte a Venezia" e raccolgono firme: per la scuola cattolica, contro il matrimonio gay. Vogliono una legge di iniziativa popolare, possono farcela. I vescovi mostrano di preoccuparsi di gay ed embrioni ma lavorano in realtà per proteggere due cose, sopra tutte: la religione a scuola, il finanziamento pubblico alla Chiesa. Il segretario della Conferenza episcopale Josè Antonio Martinèz Camino, un quarantenne svelto che ha studiato a Francoforte e del coetaneo Zapatero dice «lui, invece, si è laureato a Leòn» (come dire: in paese) passa in rassegna composto tutti i temi in agenda: l'aborto, l'eutanasia, il divorzio rapido, il matrimonio gay. Poi alla domanda chiave, «qual'è il primo problema sociale di Spagna?», risponde così: «Garantire una formazione cattolica che metta i giovani in condizione di coltivare la speranza». Formazione, e soldi.
Monsignor Reig Pla mangia assai lentamente il pasto che ha da poco benedetto. È molto fiero che la sua diocesi, piccola, abbia raccolto 105 mila firme per l'ora di religione: «Nel nostro Paese l'84 per cento iscrive i figli a religione. Zapatero no, ma fa parte di una minoranza, il 16. D'altra parte il suo governo è ostaggio delle minoranze: se non ci fossero i catalani, i baschi, i galleghi non avrebbe i voti in parlamento». Questa è la tesi della Chiesa, sta scritta sui loro giornali: Alba, settimanale cattolico, nel numero in edicola sostiene che il vero capo del governo non è Zapatero ma Carod Rovira, il capo della Sinistra repubblicana catalana. È Carod Rovira l'estremista, il rivoluzionario separatista, uno che vuol boicottare Madrid sede delle Olimpiadi 2012, è lui quello che detta la linea. «Esquerra republicana ha nove deputati. Faccia bene i conti», sorride il vescovo. Una suora minuscola gli prepara la macedonia di fragole. In sagrestia c'è odore di disinfettante, di incenso e di legno.
Si passa in biblioteca. Il Monsignore è segretario della commissione "Famiglia e Vita" della Conferenza episcopale, il ministro del ramo: Zapatero il suo nemico. Sorride, quando dice «Zapatero»: in castigliano vuol dire ciabattino. Eppure i genitori del vescovo lavoravano in una fabbrica di scarpe. «Mia madre mi portava al lavoro ad allattarmi», si intenerisce. Il nonno del primo ministro fu fucilato da Franco, il padre del vescovo ferito in battaglia: era nel fronte repubblicano di Alicante ma «contro la sua volontà. Fu costretto a combattere, coscritto. Era un cattolico fervente, subì la tragedia». Costretto, subì. Nella biblioteca del figlio ci sono perciò solo testi che raccontano di costrizioni e menzogne. Kingsey, crimini e conseguenze, la menzogna del rapporto Kingsey sulle libertà e le inclinazioni sessuali. Le leggende nere della Chiesa di Vittorio Messori, prefazione di Biffi. Sartre, Bariona. «Un testo teatrale dell'ateo Sartre sulla meraviglia del Natale». Famiglia e autostima dello psichiatra cattolico Aquilino Polaino. «Un luminare». Polaino, docente di psicopatologia alla università cattolica di Madrid, sostiene che «i figli di coppie omosessuali hanno la tendenza a diventare omosessuali: un giorno i giovani cresciuti da coppie gay potranno denunciare lo Stato per aver compromesso gravemente la loro identità personale». Il Monsignore annuisce e sorride. Una ragazza slava («l'abbiamo sottratta alla tratta delle bianche») gli porta un bicchiere di vino dolce, fine del pasto.
Zapatero in biblioteca ha soprattutto poesia, il suo autore preferito è Borges. Si è laureato in Diritto, per quanto a Leòn, ma nei discorsi cita solo filosofi e poeti. «Un estremista», liquida la faccenda Reig Pla. «Ha riempito il suo governo di femministe radicali». Il Monsignore sul tema ha appena scritto un articolo, eccolo ben rilegato: il «femminismo radicale» nasce da Freud, si nutre di Marx e di Marcuse, si sposa con l'ideologia liberale in «un cocktail esplosivo che promuove l'antropologia individualista e scambia il sesso per il genere». Le femministe al governo, «otto su sedici, la metà dei ministri, hanno cambiato il linguaggio. Chiamano l'aborto "salute riproduttiva", l'omosessualità "stile di vita". Dicono che il sesso è un fatto culturale, non genetico. Propaganda: il sesso è determinato biologicamente. Ci sono gli uomini, e le donne, e basta». Zapatero sorride. Ascolta le obiezioni come un vecchio bolero: le sa già. Dice che è vero, lui si considera «non solo antimachista, proprio femminista».
Carmen Caffarel è direttore generale della televisione pubblica, Tve. Il Monsignore fa un cenno di fastidio con la mano: la televisione è uno scandalo, «nemmeno un programma sui 500 anni dalla morte di Isabel la cattolica. Riesce a crederci?». In cambio Carmen Caffarel ha appena affidato a Pedro Almodòvar e a Iciair Bollain due nuove serie tv di prima serata: parlano di donne sole. «Finanziano solo i loro estremisti», riassume il vescovo. Lui i tre migliori film spagnoli della stagione non li ha visti. Iciair Bollain è la giovane regista di Ti do i miei occhi, scarna e devastante storia di una donna che sempre torna dal marito violento perché incapace di lasciarlo solo con la sua debolezza, come davvero tanto spesso succede. «Bugie. Le donne che muoiono per mano dei mariti in Spagna sono meno che in Svezia». Almodòvar e i preti pedofili de La mala educaciòn. «Un film ridicolo, non ha avuto alcun successo. Sa cosa dice la gente? Le ossessioni di un frocio». La suora bonsai in punta di piedi gli infila il cappotto.
Seppellire gli embrioni
Il vescovo di Huesca, Jesus Sanz Montes, quando è uscito Mar adentro, il mare dentro, film di Amenabar prossimo candidato all'Oscar ha scritto una lettera pastorale intitolata Morte a Venezia. Sembra la prosa di un critico cinematografico, poi arriva al dunque. «Vogliono far passare la cultura dell'eutanasia nel sentire comune, così poi ci imporranno la loro legge». I socialisti, sempre sottinteso. Mar adentro racconta la storia vera di Ramon Sampedro, tetraplegico che spese gli ultimi anni di vita per ottenere una morte dignitosa. Il Monsignore si stringe nel cappotto perché tira vento. «Il suicidio tra tetraplegici è molto minore che tra persone sane. Ogni vita deve essere rispettata. Dall'embrione al malato terminale». Eccoci quindi all'embrione. «Sa cosa si deve fare delle migliaia di embrioni congelati?». Cosa. «Sgongelarli, lasciarli morire e dargli degna sepoltura». Seppellirli come, in piccole bare bianche? «Come creature viventi destinate a diventare, senza salti qualitativi, persone».
«I socialisti hanno vinto sull'onda emotiva dell'11 marzo», dice il Monsignore. Sulla strage di Madrid la Commissione parlamentare ha appena finito di interrogare per 12 ore Aznar, accusato appunto di aver mentito a fini elettorali dicendo che le bombe erano dell'Eta. Zapatero tira fuori dalla sua libreria un testo di Fernando de los Rios, padre del socialismo umanista, l'anti Ortega y Gasset, ministro del governo in esilio. «Essere laici - legge Zapatero - non significa essere tolleranti, che presuppone una superiorità, ma essere rispettosi delle convinzioni degli altri». Non c'è nessuna persecuzione, nessuna sete di vendetta, sorride con gli occhi celesti. Le donne quando esce per strada gli urlano guapisimo, bellissimo. «La Chiesa deve sapere che questo è uno stato laico». Dice Chiesa come dicesse gli amici della Lirica, un'associazione. «La Spagna non è più quella che vorrebbero loro, è forse in parte ancora quella, ma cammina svelta in un'altra direzione».
Quale direzione. È appena uscito il rapporto dell'Istituto di statistica sul censimento del 2001. Nel linguaggio scarno delle cifre dice che le famiglie di fatto sono più di mezzo milione, diecimila e cinquecento omosessuali. Un milione e mezzo sono le madri sole con figli. Diminuiscono i matrimoni in chiesa, gente che fa otto figli non ce n'è quasi più: tre sono già un'eccezione. La controinchiesta cattolica si chiama Informe sobre la evoluciòn de la familia. Il Monsignore veste il tono da sermone: «Un aborto ogni 7 minuti, un divorzio ogni 4. Di 49 mila nuovi nati 43 mila sono di madri straniere, si tratta perciò di un incremento fittizio». Come fittizio? Saranno figli di madri venute dal Marocco ma sono pur sempre bambini nati in Spagna. «Certo certo, tutte creature di Dio. Ma di spagnoli veri ne sono nati solo seimila». Piove sulla processione dell'Immacolata. Il demonio con gli occhi azzurri è tornato dal fine settimana al mare, le sue bambine non le ha portate a messa. «Ci sono molti cattolici anche fra i socialisti, guardi, la chiesa è piena», indica il vescovo. La messa è finita, le anziane con le perle e la mantiglia nera gli baciano l'anello. «Pace e bene, monsignore». Pace e bene, sorelle, «siempre sea lo que Dios quiera». Sempre sia fatta la Sua volontà.
Scuola e soldi alla Chiesa
Zapatero ha fermato la riforma della scuola avviata da Aznar che riportava la religione come materia obbligatoria, inserita nella valutazione finale dell'alunno, e propone di rivedere i finanziamenti alla Chiesa cattolica.
I vescovi difendono l'ora di religione, invitando i parroci a raccogliere firme nelle chiese alla fine delle omelie, e promettono battaglia anche sui tagli ai finanziamenti al clero proposti dal governo
Il matrimonio gay, l'aborto, il divorzio, la ricerca: in nove mesi il premier socialista ha gettato le basi della sua riforma. Scatenando la reazione della Chiesa. Lo scontro è tra due concezioni opposte e inconciliabili della società come racconta il vescovo di Castellon, Juan Antonio Reig Pla
Il Monsignore è sicuro: "Il mio gregge è fatto di persone normali. Questi radicali la pagheranno cara"
Famiglia
Già contraria al divorzio che definisce «express», la Chiesa si mobilita contro il matrimonio gay: «Non è uguale» protestano i vescovi e giocano la carta dell´iniziativa di legge popolare con la raccolta di mezzo milione di firme
Aborto e ricerca
La Chiesa è contraria alle misure previste per aborto, eutanasia e ricerca sulle cellule staminali. Misure che, di volta in volta, definisce «olocausto silenzioso», «aggressione agli esseri umani» e «una forma di omicidio»
Famiglia
Con la riforma del divorzio il governo ha ridotto l'attesa tra 2 e 6 mesi, eliminando la separazione. Il progetto di legge sulle nozze gay prevede, invece, l'equiparazione con quelle etero e la possibilità di adottare bambini
Aborto e ricerca
Nel programma del governo c'è la liberalizzazione dell'aborto nelle prime 12-14 settimane di gravidanza, la depenalizzazione dell'eutanasia e l'autorizzazione della ricerca sulle cellule staminali a fine terapeutico
Stato laico e religione
Da una parte Zapatero con le sue riforme laiche, dall'altra la reazione della Chiesa. In gioco due visioni opposte della società
di Concita De Gregorio
Castellòn (Valencia). Qui per strada le signore anziane, le vedove con le perle le calze scure e la permanente blu, baciano davvero l'anello al vescovo. «Monsignore, mi dispiace moltissimo per quello che vi stanno facendo. È terribile, ma abbia fede: ci sarà giustizia». L'anello è enorme, con la croce. Eccellenza. Reverendo. I miei omaggi. Il vescovo Juan Antonio Reig Pla, 57 anni, incarnato di porcellana, risponde con un cenno della testa, condiscendente e compiaciuto. Castellòn, diocesi di provincia: la gente non corre, qui le cose vanno lente. «Ecco, questo è il mio gregge. Persone normali, vede. Non quella suburra di omosessuali, divorziate e assatanati radicali di cui il governo immagina sia piena la Spagna. Hanno in mente un Paese che non esiste. Credono di essere in Svezia, ma nemmeno: su Marte. Pagheranno un conto salatissimo, mi creda. Basta aspettare, la gente si ribellerà». La cattedrale per l'Immacolata è addobbata di luci come una giostra. In edicola la rivista di satira del giovedì ha in copertina la caricatura di Zapatero come un assatanato, appunto. Legato a un letto in camicia di forza schiuma bava verde. Il prete esorcista gli agita addosso un crocifisso e urla: «Satana, esci da quel corpo». Piove sul ponte della Concezione, la festa più lunga dell'anno: sei giorni di celebrazioni e processioni per la vergine senza peccato. «Il primo esempio di fecondazione eterologa», ridono le femministe nei talk show della tv socialista. Blasfeme. Possedute anche loro. «Intrise di ideologia di morte»: il vescovo ne scaccia il pensiero con la mano mentre il cameriere gli porta un filetto ai ferri, «devo stare leggero, oggi ho le cresime in montagna». Piove, molto. I tg mostrano il demonio con la faccia da Bambi che parte con la moglie per un fine settimana di riposo senza sole. Quel diavolo di un socialista al mare, e il monsignore al lavoro a radunare i fedeli per messa: «Guardi bene e poi dica: qual è la vera Spagna?».
Sì, ecco: qual è la vera Spagna? C'è quella di Zapatero, che in sei mesi di governo ha ritirato le truppe dall'Iraq, varato una legge contro la violenza domestica sulle donne, consentito la ricerca scientifica sugli embrioni. Promesso il matrimonio per i gay, il divorzio in due mesi, l'aborto dalle prime settimane di gravidanza, le adozioni per le persone sole e le coppie omosessuali, la legalizzazione dell'eutanasia, l'abolizione dell'obbligo dell'ora di religione cattolica a scuola. Forse è questa, la Spagna: il paradiso delle libertà e del laicismo a cui il socialismo minoritario di tutta Europa guarda con invidia e speranza, la nuova frontiera dell'Eden democratico. O forse è ancora quella che per duemila anni è stata: quella severa e cupa dei preti le cui vesti sbattono come le porte che chiudono a chiave, come nei film di Almodòvar, come nei dipinti rosso granata di Goya, come al tempo delle ruote dentate dell'Inquisizione e in quello recente di Francisco Franco el Generalisimo e delle sue segrete. Due mondi in guerra aperta, guerra vera. I socialisti e i vescovi: «Questi senza Dio vogliono vendicarsi di noi», dicono i preti. Vendicarsi, così scriveva nel suo testamento il nonno del primo ministro, capitano Juan Rodriguez Lozano, fucilato nel '36 a un mese dall'inizio della Guerra civile per aver rifiutato di unirsi ai franchisti: «Vendicate la mia memoria». Quella, e molti altri secoli di storia. Una resa dei conti insomma. A questo siamo.
Josè Luis Rodriguez Zapatero è un uomo mite e prudente. I suoi sport sono la pesca e la cyclette, cose da fermi. La moglie, Sonsoles Espinosa, è stata l'unica donna della sua vita: l'ha conosciuta a 21 anni in facoltà, prima e dopo mai niente. Primo socialista a governare nell'ombra gigantesca di Felipe - sono passati dieci anni, nessuno chiama Gonzales per cognome, basta dire Felipe - è arrivato al potere cavalcando leggero e quasi stupito una lunga collana di errori altrui. Errori del suo partito, che si è smarrito negli anni Novanta in brutte storie di corruzione e di candidati deboli e inadatti. Errori degli avversari, che hanno governato per una decade la Spagna come se fosse cosa loro, come aveva insegnato Franco di cui ancora ci sono le statue, come Aznar ha fatto fino all'ultima menzogna, quella sulla strage dell'11 marzo, tre milioni di voti sono passati in due giorni a sinistra ed ha perso le elezioni. Questo avvio di legislatura all'insegna delle libertà radicali ha prima ammutolito, poi risvegliato dalla quiete della sua lunga siesta la Spagna profonda, quella silenziosa e sotterranea dell'Opus Dei, quella che porta milioni di famiglie a celebrare Escrivà in Vaticano, madri di dodici figli tutti in fila coi calzoni corti a messa, Rodrigo, Alvaro, Jesus, Maria Dolores, forza andiamo bambini, tutti nomi di madonne e penitenze, di martiri arsi vivi e crocifissi.
La tattica dei vescovi
Il clero non se l'aspettava, un attacco così. Voleva far scendere in piazza le sue truppe a metà dicembre, una manifestazione di strada coi cardinali in prima linea: sarebbe stata la prima volta nella storia. Poi c'è stata, a fine novembre, l'Assemblea plenaria dei Vescovi a Santiago de Compostela. Il cardinale Rouco Varela, presidente della Conferenza episcopale, uno che si è formato in Germania e scrive in tedesco, è uscito da quella riunione ed è andato a colazione da Fraga, già ministro del dittatore, eletto e rieletto fino ad oggi alla guida della sua regione, la Galizia. Il cardinale ha detto, citando la Bibbia: «Siamo attaccati ma non abbandonati, ci spingono ma non ci schiacciano». I socialisti, soggetto sottinteso. Però lo scontro frontale non è nella tradizione obliqua della Chiesa. Meglio trattare. Aprire un tavolo, ci sono i margini. Discutere, sotto la spada di Damocle della rivolta di piazza. La manifestazione si farà, se serve ancora, in primavera. Intanto per Santo Stefano si celebra una «giornata della famiglia» nel nome del matrimonio tradizionale, e vediamo quanta gente c'è.
Nei siti web conservator-cattolici (Hazteoir, fatti sentire, Noesigual, non è lo stesso essere eterosessuale o omo) la base si prepara alla sfida di maggio. I vescovi scrivono lettere pastorali contro l'eutanasia intitolate "Morte a Venezia" e raccolgono firme: per la scuola cattolica, contro il matrimonio gay. Vogliono una legge di iniziativa popolare, possono farcela. I vescovi mostrano di preoccuparsi di gay ed embrioni ma lavorano in realtà per proteggere due cose, sopra tutte: la religione a scuola, il finanziamento pubblico alla Chiesa. Il segretario della Conferenza episcopale Josè Antonio Martinèz Camino, un quarantenne svelto che ha studiato a Francoforte e del coetaneo Zapatero dice «lui, invece, si è laureato a Leòn» (come dire: in paese) passa in rassegna composto tutti i temi in agenda: l'aborto, l'eutanasia, il divorzio rapido, il matrimonio gay. Poi alla domanda chiave, «qual'è il primo problema sociale di Spagna?», risponde così: «Garantire una formazione cattolica che metta i giovani in condizione di coltivare la speranza». Formazione, e soldi.
Monsignor Reig Pla mangia assai lentamente il pasto che ha da poco benedetto. È molto fiero che la sua diocesi, piccola, abbia raccolto 105 mila firme per l'ora di religione: «Nel nostro Paese l'84 per cento iscrive i figli a religione. Zapatero no, ma fa parte di una minoranza, il 16. D'altra parte il suo governo è ostaggio delle minoranze: se non ci fossero i catalani, i baschi, i galleghi non avrebbe i voti in parlamento». Questa è la tesi della Chiesa, sta scritta sui loro giornali: Alba, settimanale cattolico, nel numero in edicola sostiene che il vero capo del governo non è Zapatero ma Carod Rovira, il capo della Sinistra repubblicana catalana. È Carod Rovira l'estremista, il rivoluzionario separatista, uno che vuol boicottare Madrid sede delle Olimpiadi 2012, è lui quello che detta la linea. «Esquerra republicana ha nove deputati. Faccia bene i conti», sorride il vescovo. Una suora minuscola gli prepara la macedonia di fragole. In sagrestia c'è odore di disinfettante, di incenso e di legno.
Si passa in biblioteca. Il Monsignore è segretario della commissione "Famiglia e Vita" della Conferenza episcopale, il ministro del ramo: Zapatero il suo nemico. Sorride, quando dice «Zapatero»: in castigliano vuol dire ciabattino. Eppure i genitori del vescovo lavoravano in una fabbrica di scarpe. «Mia madre mi portava al lavoro ad allattarmi», si intenerisce. Il nonno del primo ministro fu fucilato da Franco, il padre del vescovo ferito in battaglia: era nel fronte repubblicano di Alicante ma «contro la sua volontà. Fu costretto a combattere, coscritto. Era un cattolico fervente, subì la tragedia». Costretto, subì. Nella biblioteca del figlio ci sono perciò solo testi che raccontano di costrizioni e menzogne. Kingsey, crimini e conseguenze, la menzogna del rapporto Kingsey sulle libertà e le inclinazioni sessuali. Le leggende nere della Chiesa di Vittorio Messori, prefazione di Biffi. Sartre, Bariona. «Un testo teatrale dell'ateo Sartre sulla meraviglia del Natale». Famiglia e autostima dello psichiatra cattolico Aquilino Polaino. «Un luminare». Polaino, docente di psicopatologia alla università cattolica di Madrid, sostiene che «i figli di coppie omosessuali hanno la tendenza a diventare omosessuali: un giorno i giovani cresciuti da coppie gay potranno denunciare lo Stato per aver compromesso gravemente la loro identità personale». Il Monsignore annuisce e sorride. Una ragazza slava («l'abbiamo sottratta alla tratta delle bianche») gli porta un bicchiere di vino dolce, fine del pasto.
Zapatero in biblioteca ha soprattutto poesia, il suo autore preferito è Borges. Si è laureato in Diritto, per quanto a Leòn, ma nei discorsi cita solo filosofi e poeti. «Un estremista», liquida la faccenda Reig Pla. «Ha riempito il suo governo di femministe radicali». Il Monsignore sul tema ha appena scritto un articolo, eccolo ben rilegato: il «femminismo radicale» nasce da Freud, si nutre di Marx e di Marcuse, si sposa con l'ideologia liberale in «un cocktail esplosivo che promuove l'antropologia individualista e scambia il sesso per il genere». Le femministe al governo, «otto su sedici, la metà dei ministri, hanno cambiato il linguaggio. Chiamano l'aborto "salute riproduttiva", l'omosessualità "stile di vita". Dicono che il sesso è un fatto culturale, non genetico. Propaganda: il sesso è determinato biologicamente. Ci sono gli uomini, e le donne, e basta». Zapatero sorride. Ascolta le obiezioni come un vecchio bolero: le sa già. Dice che è vero, lui si considera «non solo antimachista, proprio femminista».
Carmen Caffarel è direttore generale della televisione pubblica, Tve. Il Monsignore fa un cenno di fastidio con la mano: la televisione è uno scandalo, «nemmeno un programma sui 500 anni dalla morte di Isabel la cattolica. Riesce a crederci?». In cambio Carmen Caffarel ha appena affidato a Pedro Almodòvar e a Iciair Bollain due nuove serie tv di prima serata: parlano di donne sole. «Finanziano solo i loro estremisti», riassume il vescovo. Lui i tre migliori film spagnoli della stagione non li ha visti. Iciair Bollain è la giovane regista di Ti do i miei occhi, scarna e devastante storia di una donna che sempre torna dal marito violento perché incapace di lasciarlo solo con la sua debolezza, come davvero tanto spesso succede. «Bugie. Le donne che muoiono per mano dei mariti in Spagna sono meno che in Svezia». Almodòvar e i preti pedofili de La mala educaciòn. «Un film ridicolo, non ha avuto alcun successo. Sa cosa dice la gente? Le ossessioni di un frocio». La suora bonsai in punta di piedi gli infila il cappotto.
Seppellire gli embrioni
Il vescovo di Huesca, Jesus Sanz Montes, quando è uscito Mar adentro, il mare dentro, film di Amenabar prossimo candidato all'Oscar ha scritto una lettera pastorale intitolata Morte a Venezia. Sembra la prosa di un critico cinematografico, poi arriva al dunque. «Vogliono far passare la cultura dell'eutanasia nel sentire comune, così poi ci imporranno la loro legge». I socialisti, sempre sottinteso. Mar adentro racconta la storia vera di Ramon Sampedro, tetraplegico che spese gli ultimi anni di vita per ottenere una morte dignitosa. Il Monsignore si stringe nel cappotto perché tira vento. «Il suicidio tra tetraplegici è molto minore che tra persone sane. Ogni vita deve essere rispettata. Dall'embrione al malato terminale». Eccoci quindi all'embrione. «Sa cosa si deve fare delle migliaia di embrioni congelati?». Cosa. «Sgongelarli, lasciarli morire e dargli degna sepoltura». Seppellirli come, in piccole bare bianche? «Come creature viventi destinate a diventare, senza salti qualitativi, persone».
«I socialisti hanno vinto sull'onda emotiva dell'11 marzo», dice il Monsignore. Sulla strage di Madrid la Commissione parlamentare ha appena finito di interrogare per 12 ore Aznar, accusato appunto di aver mentito a fini elettorali dicendo che le bombe erano dell'Eta. Zapatero tira fuori dalla sua libreria un testo di Fernando de los Rios, padre del socialismo umanista, l'anti Ortega y Gasset, ministro del governo in esilio. «Essere laici - legge Zapatero - non significa essere tolleranti, che presuppone una superiorità, ma essere rispettosi delle convinzioni degli altri». Non c'è nessuna persecuzione, nessuna sete di vendetta, sorride con gli occhi celesti. Le donne quando esce per strada gli urlano guapisimo, bellissimo. «La Chiesa deve sapere che questo è uno stato laico». Dice Chiesa come dicesse gli amici della Lirica, un'associazione. «La Spagna non è più quella che vorrebbero loro, è forse in parte ancora quella, ma cammina svelta in un'altra direzione».
Quale direzione. È appena uscito il rapporto dell'Istituto di statistica sul censimento del 2001. Nel linguaggio scarno delle cifre dice che le famiglie di fatto sono più di mezzo milione, diecimila e cinquecento omosessuali. Un milione e mezzo sono le madri sole con figli. Diminuiscono i matrimoni in chiesa, gente che fa otto figli non ce n'è quasi più: tre sono già un'eccezione. La controinchiesta cattolica si chiama Informe sobre la evoluciòn de la familia. Il Monsignore veste il tono da sermone: «Un aborto ogni 7 minuti, un divorzio ogni 4. Di 49 mila nuovi nati 43 mila sono di madri straniere, si tratta perciò di un incremento fittizio». Come fittizio? Saranno figli di madri venute dal Marocco ma sono pur sempre bambini nati in Spagna. «Certo certo, tutte creature di Dio. Ma di spagnoli veri ne sono nati solo seimila». Piove sulla processione dell'Immacolata. Il demonio con gli occhi azzurri è tornato dal fine settimana al mare, le sue bambine non le ha portate a messa. «Ci sono molti cattolici anche fra i socialisti, guardi, la chiesa è piena», indica il vescovo. La messa è finita, le anziane con le perle e la mantiglia nera gli baciano l'anello. «Pace e bene, monsignore». Pace e bene, sorelle, «siempre sea lo que Dios quiera». Sempre sia fatta la Sua volontà.
Scuola e soldi alla Chiesa
Zapatero ha fermato la riforma della scuola avviata da Aznar che riportava la religione come materia obbligatoria, inserita nella valutazione finale dell'alunno, e propone di rivedere i finanziamenti alla Chiesa cattolica.
I vescovi difendono l'ora di religione, invitando i parroci a raccogliere firme nelle chiese alla fine delle omelie, e promettono battaglia anche sui tagli ai finanziamenti al clero proposti dal governo
Il matrimonio gay, l'aborto, il divorzio, la ricerca: in nove mesi il premier socialista ha gettato le basi della sua riforma. Scatenando la reazione della Chiesa. Lo scontro è tra due concezioni opposte e inconciliabili della società come racconta il vescovo di Castellon, Juan Antonio Reig Pla
Il Monsignore è sicuro: "Il mio gregge è fatto di persone normali. Questi radicali la pagheranno cara"
Famiglia
Già contraria al divorzio che definisce «express», la Chiesa si mobilita contro il matrimonio gay: «Non è uguale» protestano i vescovi e giocano la carta dell´iniziativa di legge popolare con la raccolta di mezzo milione di firme
Aborto e ricerca
La Chiesa è contraria alle misure previste per aborto, eutanasia e ricerca sulle cellule staminali. Misure che, di volta in volta, definisce «olocausto silenzioso», «aggressione agli esseri umani» e «una forma di omicidio»
Famiglia
Con la riforma del divorzio il governo ha ridotto l'attesa tra 2 e 6 mesi, eliminando la separazione. Il progetto di legge sulle nozze gay prevede, invece, l'equiparazione con quelle etero e la possibilità di adottare bambini
Aborto e ricerca
Nel programma del governo c'è la liberalizzazione dell'aborto nelle prime 12-14 settimane di gravidanza, la depenalizzazione dell'eutanasia e l'autorizzazione della ricerca sulle cellule staminali a fine terapeutico
polvere di Sessantotto:
Theodor Wiesengrund Adorno...
La Stampa 19 Dicembre 2004
GELO E NARCISISMO DEL FILOSOFO CHE IL SESSANTOTTO ELEVÒ A IDOLO. INQUIETANTE PERSONAGGIO MA L’ESATTO CONTRARIO DELL’UOMO IN RIVOLTA
ADORNO
Il chirurgo e il paziente
di Enzo Bettiza
CREDO di essere stato uno dei primi a segnalare, in una tempestiva nota sulla rivista Epoca, la comparsa della traduzione italiana presso Einaudi di Minima moralia di Theodor Wiesengrund Adorno. Era il 1954, mezzo secolo fa. Qualche anno prima avevo letto il Doktor Faustus di Thomas Mann, storia del geniale compositore luetico Adrian Lewerkhün, controfigura romanzesca di Nietzsche e insieme simbolo tragico della Germania moderna. Nel romanzo mi avevano colpito le pagine profonde, commiste di lampi e di oscurità, in cui Mann, analizzando la difficile arte dodecafonica del protagonista, s'addentrava in perigliose incursioni filosofiche nei labirinti della musica moderna. Poi lessi il Romanzo di un romanzo. Qui il grande romanziere, spiegando la genesi e lo sviluppo della biografia immaginaria di Lewerkhün, rivelava per la prima volta il nome di un oscuro «filosofo della musica» che ai tempi della seconda guerra, durante il comune esilio in California, gli aveva dato un grosso aiuto teorico e tecnico per la composizione delle partiture musicologiche del libro. Il filosofo si chiamava Adorno. Questo spiega perché nel '54 acquistai subito Minima moralia, leggendoli d'un fiato e segnalandoli su Epoca.
Il singolare saggio dedicato alla critica folgorante della «falsa vita» contemporanea mi rivelò, più che un vero filosofo nel significato accademico del termine, un irrequieto «Kulturphilosoph» radicato nel solco di una specifica e poliedrica tradizione tedesca che da Schopenhauer e dall'aforistico Nietzsche doveva estendersi poi fino a Walter Benjamin e a Karl Kraus. Cultore di una filosofia antifilosofica, saggistica, letteraria, paradossale, a tratti lirica, in Adorno convivevano il musicologo, il sociologo, l'estetologo e l'analista perfino minimalistico della vita contemporanea. Moda, costume, pubblicità, cinema, industria culturale, relazioni familiari e umane rientravano nell'arco della sua drammatica quanto pirotecnica visione del mondo occidentale. Non a caso Adorno era stato, con Horkheimer e Marcuse, tra i fondatori della Scuola di Francoforte che in realtà era un «Circolo» non dissimile per alcuni aspetti da quello di Vienna. Per me egli era un pensatore estremo, un ulisside del paradosso, un corsaro del limite, un pessimista aggressivo che nella crisi e nella consunzione dell'arte moderna cercava le tracce di una crisi senza scampo dell'intera società borghese. Vedevo un pensatore che azzardava di pensare il non ancora pensato, il non ancora detto, ed è qui una delle ragioni che ora mi spinge a inserirlo in questo mio archivio memorialistico.
Tanti intellettuali europei considerano oggi gli scritti di Adorno datati e superati. Ma non era così nel Sessantotto. Allora quegli stessi intellettuali, studenti ribelli, scoprivano un punto di riferimento rivoluzionario nelle lezioni che il professore ebreo teneva nella medesima Francoforte da cui era emigrato dopo l'avvento del nazionalsocialismo. Io, che dopo gli anni passati in Unione Sovietica scorgevo nei moti sessantottini un lusso autolesionistico di società troppo libere e permissive, ero andato proprio in quell'anno a Francoforte per incontrarvi Adorno. Volevo capire, a distanza ravvicinata, quale punto di contatto potesse esistere fra il pugnace pessimista, il critico intransigente della società capitalistica, e le utopiche folle giovanili che avebbero voluto annientare la tolleranza liberale di cui largamente fruivano e definivano «repressiva».
La spinta al modernismo più sfrenato, all'imitazione dell'America, coinvolgeva la vita di Francoforte in tutti i suoi molteplici aspetti: non solo nelle manifestazioni studentesche tipo Berkeley, ma nella mondanità vorticosa della nuova borghesia miracolata, nella febbrile rotazione delle fiere, nel traffico intenso del più importante aeroporto tedesco. Non si sottraeva al ritmo neppure l'organizzazione della cultura. La partecipazione alla fiera del libro di Francoforte era già a quel tempo la più ambita dagli editori di tutto il mondo; come i titoli e le valute, anche l'editoria, sia tedesca che europea, aveva lì la sua Borsa internazionale. Di un processo d'aggiornamento forzato, di massificazione, di snobismo, risentiva perfino la Johann Wolfgang Goethe Universität: accanto all'austero edificio accademico sprofondava una gigantesca autorimessa sotterranea, destinata a inghiottire le vetture di una parte dei venticinquemila studenti più o meno ribelli che lo frequentavano.
Quel turgido universo francofortese sembrava aver trovato il suo Socrate vivente nel concittadino allora più illustre in patria e all'estero. T.W. Adorno, come lui stesso amava definirsi all'americana. Si poteva quasi scoprire il segno del fato nel suo ritorno a Francoforte, dopo il lungo esilio californiano. Il filosofo dell'alienazione, l'ideatore della «spettroscopia bizantina» delle società occidentali del XX secolo, era tornato a insegnare nella città germanica che più delle altre esprimeva quell'alienante paesaggio americanizzato su cui s'avventava la sua polemica catastrofista.
Devo ammettere che il mio incontro col mèntore idolatrato dai giovani in eschimo fu, nell'insieme, imbarazzante e piuttosto deludente. Io, ricordando la più icastica frase di Minima moralia, «non c'è vera vita nella falsa», mi preparavo a incontrare un asceta fustigatore, un moralista pallido e perduto in meditazioni apocalittiche. Non a caso rammento poco di quello che mi disse; rammento invece l'aria ambigua della contraddizione in cui respirava e si muoveva.
Infatti mi toccò di captare e di vedere l'esatto contrario dell'uomo in rivolta, come scrisse Elémire Zolla, «contro gli spettacoli orridi che la civiltà delle macchine fornisce». Dalla sua faccia rotonda, impeccabilmente sbarbata e profumata, dal doppiopetto di taglio britannico non emanava l'odore stantìo del cenobita. L'appuntamento con me pareva innervosirlo. Aveva fissato rigorosi venti minuti per il colloquio e, ogni tanto, guardando l'orologio, mi ripeteva che di lì a poco avrebbe dovuto ricevere una pittrice per un ritratto e un giornalista per un'intervista televisiva. Il telefono squillò spesso e lui rispose sempre. La parte dialogata delle visita si contrasse sempre di più e si ridusse in sostanza a dieci minuti febbrili.
La verità è che Adorno non si ritraeva affatto dagli «spettacoli orridi» di Francoforte, soggiaceva volentieri agli stimoli del successo, non si mortificava nell'astinenza di fronte a quella vita malata, ammorbata dalla cultura di massa, che, nei libri, condannava anche nei più insignificanti fatti quotidiani. Appariva anzi pragmaticamente calato dentro di essa. Era sempre presente dove più infuriava l'alienazione, ed era il primo a gustarne le droghe. Aveva la cattedra del divo e dell'ipnotizzatore negli atenei, nelle manifestazioni studentesche, nei salotti, nelle mostre d'arte, nelle aperture teatrali. Lo circondava immediatamente, ovunque si presentava, un'aureola di morbosa mondanità. Il clima di fanatismo intellettuale, che surricaldava l'atmosfera intorno alle sue lezioni, era paragonabile a una forma speciale di psicosi collettiva: soltanto Heidegger, al suo tempo, riusciva a produrre consimili incantesimi accademici e carismatici. Le studentesse, anche se non avevano capito nulla, uscivano dalle Hörsäle adorniane con gli occhi luccicanti e rapiti. Un nobile di Hannover aveva abbandonato casa, averi, famiglia, ed era sceso come un pellegrino medievale a Francoforte per immergersi fino al collo nei corsi di Adorno.
Cercarono di spiegarmi il fascino complesso ch'egli esercitava su coloro che affollavano le aule in cui si esibiva. Non sorrideva mai. Il taglio della bocca era breve, crudele. Suggestionava l'uditorio con una scioltezza fredda, un'erudizione vastissima e brillante, un'oratoria ornata di francesismi, tersa, neutra, scorrevole. Non parlava: porgeva sottovoce, accarezzandoli con la piccola mano curata, concetti perfettamente congegnati in ogni particolare. Dal viso paffuto e nitido come quello di un chirurgo, dal corpo minuto e smussato, dagli occhi neri aperti con distacco su un punto vuoto, non spirava per nulla l'aria del filosofo maledetto, alla Nietzsche, del quale lo stile lampeggiante di Adorno risentiva tanto. Sembrava soprattutto preoccuparlo di non turbare con l'emozione le analisi distruttive che esponeva e alle quali lui, lucidamente, rimaneva sempre un po' esterno. Più che un naufrago in preda alla disperazione, un organizzatore e uno stratega della disperazione. Il suo pessimismo, la sua acuta sensibilità al negativo, apparivano attanagliati dalla morsa di un'intelligenza gelida e dal piacere estetico per il gioco speculativo in sé.
La vanità pratica faceva da contrappeso alla sua disperazione teorica o, meglio ancora, teoretica. Per cui Adorno risultava alla fine, e nello stesso momento, soggetto e oggetto del proprio antisistema critico. Egli ammetteva che il meccanismo corrosivo di Minima moralia, costruito per intaccare la società dell'affluenza americana, si poteva benissimo applicare anche alla società tedesca del miracolo, ormai giunta ad un punto di saturazione inquinante come negli Stati Uniti. Spingendo più in là la trasposizione, si sarebbe potuto dire che lo stesso meccanismo, applicato in astratto ai macrorganismi sociali, era possibile applicarlo in concreto al microrganismo esistenziale dell'autore.
La malattia che Adorno denunciava penetrava nella sua persona, faceva blocco con essa, e le parti ad un certo punto finivano per confondersi nel gioco d'incastro. La realtà sociale da lui stroncata si rifletteva specularmente, come in un circolo vizioso, nel suo specchio personale. Il suo sociologismo esasperato, che non sfociava mai in una sintesi terminale, che restava sempre dischiuso a una paradossale apertura nichilistica, correva il rischio di rovesciarsi nel contrario per disperante eccesso dialettico. In altre parole: correva il pericolo di diventare alla fine un'accettazione, una resa davanti al male esistente o, addirittura, una sua forma pervertita di celebrazione. In questo senso la vita falsa, scomunicata nel libro, si esaltava nella condotta privata. Il più singolare e inquietante personaggio culturale del lungo dopoguerra tedesco era, alla sua maniera, un cervello beffardo che continuamente e simultaneamente si sdoppiava nei ruoli contrapposti del chirurgo e del paziente. Mentre il chirurgo si disperava, il paziente conviveva in strana simpatia coi propri mali inguaribili ma esaltanti.
GELO E NARCISISMO DEL FILOSOFO CHE IL SESSANTOTTO ELEVÒ A IDOLO. INQUIETANTE PERSONAGGIO MA L’ESATTO CONTRARIO DELL’UOMO IN RIVOLTA
ADORNO
Il chirurgo e il paziente
di Enzo Bettiza
CREDO di essere stato uno dei primi a segnalare, in una tempestiva nota sulla rivista Epoca, la comparsa della traduzione italiana presso Einaudi di Minima moralia di Theodor Wiesengrund Adorno. Era il 1954, mezzo secolo fa. Qualche anno prima avevo letto il Doktor Faustus di Thomas Mann, storia del geniale compositore luetico Adrian Lewerkhün, controfigura romanzesca di Nietzsche e insieme simbolo tragico della Germania moderna. Nel romanzo mi avevano colpito le pagine profonde, commiste di lampi e di oscurità, in cui Mann, analizzando la difficile arte dodecafonica del protagonista, s'addentrava in perigliose incursioni filosofiche nei labirinti della musica moderna. Poi lessi il Romanzo di un romanzo. Qui il grande romanziere, spiegando la genesi e lo sviluppo della biografia immaginaria di Lewerkhün, rivelava per la prima volta il nome di un oscuro «filosofo della musica» che ai tempi della seconda guerra, durante il comune esilio in California, gli aveva dato un grosso aiuto teorico e tecnico per la composizione delle partiture musicologiche del libro. Il filosofo si chiamava Adorno. Questo spiega perché nel '54 acquistai subito Minima moralia, leggendoli d'un fiato e segnalandoli su Epoca.
Il singolare saggio dedicato alla critica folgorante della «falsa vita» contemporanea mi rivelò, più che un vero filosofo nel significato accademico del termine, un irrequieto «Kulturphilosoph» radicato nel solco di una specifica e poliedrica tradizione tedesca che da Schopenhauer e dall'aforistico Nietzsche doveva estendersi poi fino a Walter Benjamin e a Karl Kraus. Cultore di una filosofia antifilosofica, saggistica, letteraria, paradossale, a tratti lirica, in Adorno convivevano il musicologo, il sociologo, l'estetologo e l'analista perfino minimalistico della vita contemporanea. Moda, costume, pubblicità, cinema, industria culturale, relazioni familiari e umane rientravano nell'arco della sua drammatica quanto pirotecnica visione del mondo occidentale. Non a caso Adorno era stato, con Horkheimer e Marcuse, tra i fondatori della Scuola di Francoforte che in realtà era un «Circolo» non dissimile per alcuni aspetti da quello di Vienna. Per me egli era un pensatore estremo, un ulisside del paradosso, un corsaro del limite, un pessimista aggressivo che nella crisi e nella consunzione dell'arte moderna cercava le tracce di una crisi senza scampo dell'intera società borghese. Vedevo un pensatore che azzardava di pensare il non ancora pensato, il non ancora detto, ed è qui una delle ragioni che ora mi spinge a inserirlo in questo mio archivio memorialistico.
Tanti intellettuali europei considerano oggi gli scritti di Adorno datati e superati. Ma non era così nel Sessantotto. Allora quegli stessi intellettuali, studenti ribelli, scoprivano un punto di riferimento rivoluzionario nelle lezioni che il professore ebreo teneva nella medesima Francoforte da cui era emigrato dopo l'avvento del nazionalsocialismo. Io, che dopo gli anni passati in Unione Sovietica scorgevo nei moti sessantottini un lusso autolesionistico di società troppo libere e permissive, ero andato proprio in quell'anno a Francoforte per incontrarvi Adorno. Volevo capire, a distanza ravvicinata, quale punto di contatto potesse esistere fra il pugnace pessimista, il critico intransigente della società capitalistica, e le utopiche folle giovanili che avebbero voluto annientare la tolleranza liberale di cui largamente fruivano e definivano «repressiva».
La spinta al modernismo più sfrenato, all'imitazione dell'America, coinvolgeva la vita di Francoforte in tutti i suoi molteplici aspetti: non solo nelle manifestazioni studentesche tipo Berkeley, ma nella mondanità vorticosa della nuova borghesia miracolata, nella febbrile rotazione delle fiere, nel traffico intenso del più importante aeroporto tedesco. Non si sottraeva al ritmo neppure l'organizzazione della cultura. La partecipazione alla fiera del libro di Francoforte era già a quel tempo la più ambita dagli editori di tutto il mondo; come i titoli e le valute, anche l'editoria, sia tedesca che europea, aveva lì la sua Borsa internazionale. Di un processo d'aggiornamento forzato, di massificazione, di snobismo, risentiva perfino la Johann Wolfgang Goethe Universität: accanto all'austero edificio accademico sprofondava una gigantesca autorimessa sotterranea, destinata a inghiottire le vetture di una parte dei venticinquemila studenti più o meno ribelli che lo frequentavano.
Quel turgido universo francofortese sembrava aver trovato il suo Socrate vivente nel concittadino allora più illustre in patria e all'estero. T.W. Adorno, come lui stesso amava definirsi all'americana. Si poteva quasi scoprire il segno del fato nel suo ritorno a Francoforte, dopo il lungo esilio californiano. Il filosofo dell'alienazione, l'ideatore della «spettroscopia bizantina» delle società occidentali del XX secolo, era tornato a insegnare nella città germanica che più delle altre esprimeva quell'alienante paesaggio americanizzato su cui s'avventava la sua polemica catastrofista.
Devo ammettere che il mio incontro col mèntore idolatrato dai giovani in eschimo fu, nell'insieme, imbarazzante e piuttosto deludente. Io, ricordando la più icastica frase di Minima moralia, «non c'è vera vita nella falsa», mi preparavo a incontrare un asceta fustigatore, un moralista pallido e perduto in meditazioni apocalittiche. Non a caso rammento poco di quello che mi disse; rammento invece l'aria ambigua della contraddizione in cui respirava e si muoveva.
Infatti mi toccò di captare e di vedere l'esatto contrario dell'uomo in rivolta, come scrisse Elémire Zolla, «contro gli spettacoli orridi che la civiltà delle macchine fornisce». Dalla sua faccia rotonda, impeccabilmente sbarbata e profumata, dal doppiopetto di taglio britannico non emanava l'odore stantìo del cenobita. L'appuntamento con me pareva innervosirlo. Aveva fissato rigorosi venti minuti per il colloquio e, ogni tanto, guardando l'orologio, mi ripeteva che di lì a poco avrebbe dovuto ricevere una pittrice per un ritratto e un giornalista per un'intervista televisiva. Il telefono squillò spesso e lui rispose sempre. La parte dialogata delle visita si contrasse sempre di più e si ridusse in sostanza a dieci minuti febbrili.
La verità è che Adorno non si ritraeva affatto dagli «spettacoli orridi» di Francoforte, soggiaceva volentieri agli stimoli del successo, non si mortificava nell'astinenza di fronte a quella vita malata, ammorbata dalla cultura di massa, che, nei libri, condannava anche nei più insignificanti fatti quotidiani. Appariva anzi pragmaticamente calato dentro di essa. Era sempre presente dove più infuriava l'alienazione, ed era il primo a gustarne le droghe. Aveva la cattedra del divo e dell'ipnotizzatore negli atenei, nelle manifestazioni studentesche, nei salotti, nelle mostre d'arte, nelle aperture teatrali. Lo circondava immediatamente, ovunque si presentava, un'aureola di morbosa mondanità. Il clima di fanatismo intellettuale, che surricaldava l'atmosfera intorno alle sue lezioni, era paragonabile a una forma speciale di psicosi collettiva: soltanto Heidegger, al suo tempo, riusciva a produrre consimili incantesimi accademici e carismatici. Le studentesse, anche se non avevano capito nulla, uscivano dalle Hörsäle adorniane con gli occhi luccicanti e rapiti. Un nobile di Hannover aveva abbandonato casa, averi, famiglia, ed era sceso come un pellegrino medievale a Francoforte per immergersi fino al collo nei corsi di Adorno.
Cercarono di spiegarmi il fascino complesso ch'egli esercitava su coloro che affollavano le aule in cui si esibiva. Non sorrideva mai. Il taglio della bocca era breve, crudele. Suggestionava l'uditorio con una scioltezza fredda, un'erudizione vastissima e brillante, un'oratoria ornata di francesismi, tersa, neutra, scorrevole. Non parlava: porgeva sottovoce, accarezzandoli con la piccola mano curata, concetti perfettamente congegnati in ogni particolare. Dal viso paffuto e nitido come quello di un chirurgo, dal corpo minuto e smussato, dagli occhi neri aperti con distacco su un punto vuoto, non spirava per nulla l'aria del filosofo maledetto, alla Nietzsche, del quale lo stile lampeggiante di Adorno risentiva tanto. Sembrava soprattutto preoccuparlo di non turbare con l'emozione le analisi distruttive che esponeva e alle quali lui, lucidamente, rimaneva sempre un po' esterno. Più che un naufrago in preda alla disperazione, un organizzatore e uno stratega della disperazione. Il suo pessimismo, la sua acuta sensibilità al negativo, apparivano attanagliati dalla morsa di un'intelligenza gelida e dal piacere estetico per il gioco speculativo in sé.
La vanità pratica faceva da contrappeso alla sua disperazione teorica o, meglio ancora, teoretica. Per cui Adorno risultava alla fine, e nello stesso momento, soggetto e oggetto del proprio antisistema critico. Egli ammetteva che il meccanismo corrosivo di Minima moralia, costruito per intaccare la società dell'affluenza americana, si poteva benissimo applicare anche alla società tedesca del miracolo, ormai giunta ad un punto di saturazione inquinante come negli Stati Uniti. Spingendo più in là la trasposizione, si sarebbe potuto dire che lo stesso meccanismo, applicato in astratto ai macrorganismi sociali, era possibile applicarlo in concreto al microrganismo esistenziale dell'autore.
La malattia che Adorno denunciava penetrava nella sua persona, faceva blocco con essa, e le parti ad un certo punto finivano per confondersi nel gioco d'incastro. La realtà sociale da lui stroncata si rifletteva specularmente, come in un circolo vizioso, nel suo specchio personale. Il suo sociologismo esasperato, che non sfociava mai in una sintesi terminale, che restava sempre dischiuso a una paradossale apertura nichilistica, correva il rischio di rovesciarsi nel contrario per disperante eccesso dialettico. In altre parole: correva il pericolo di diventare alla fine un'accettazione, una resa davanti al male esistente o, addirittura, una sua forma pervertita di celebrazione. In questo senso la vita falsa, scomunicata nel libro, si esaltava nella condotta privata. Il più singolare e inquietante personaggio culturale del lungo dopoguerra tedesco era, alla sua maniera, un cervello beffardo che continuamente e simultaneamente si sdoppiava nei ruoli contrapposti del chirurgo e del paziente. Mentre il chirurgo si disperava, il paziente conviveva in strana simpatia coi propri mali inguaribili ma esaltanti.
farmaci per l'«iperattività» ed altri
sono pericolosi...
Repubblica 19.12.04
Tre colossi costretti ad ammettere i rischi legati ad alcuni loro prodotti
Farmaci pericolosi, allarme dagli Usa c'è un antidolorifico venduto in Italia
WASHINGTON - Allarme farmaci negli Usa. Nel giro di 12 ore tre multinazionali hanno dovuto ammettere i pericoli che potrebbero provocare altrettanti medicinali sui pazienti. La Pfizer ha reso noto che i consumatori del "Celebrex", uno degli antidolorifici più venduti al mondo e diffuso anche in Italia, rischiano l'infarto. L'AstraZeneca, altro colosso, ha rivelato che "Iressa", una terapia contro il cancro ai polmoni non prolunga affatto la vita dei malati. L'Eli Lilly ha reso noto che il farmaco "Strattera", prescritto ai bambini per il trattamento dell'iperattività e del deficit di attenzione, ha causato gravi disturbi al fegato in almeno due pazienti. Tre duri colpi alla credibilità delle multinazionali che si aggiungono alla recente decisione della Merck di ritirare l'antidolorifico "Vioxx", dopo aver scoperto che raddoppia il rischio di attacco cardiaco. Immediati i contraccolpi in borsa. Alla fine delle contrattazioni di venerdì la Pfizer ha perso l´11,2%, l´AstraZeneca il 7,7%, e la Eli Lilly il 2,4%.
Tre colossi costretti ad ammettere i rischi legati ad alcuni loro prodotti
Farmaci pericolosi, allarme dagli Usa c'è un antidolorifico venduto in Italia
WASHINGTON - Allarme farmaci negli Usa. Nel giro di 12 ore tre multinazionali hanno dovuto ammettere i pericoli che potrebbero provocare altrettanti medicinali sui pazienti. La Pfizer ha reso noto che i consumatori del "Celebrex", uno degli antidolorifici più venduti al mondo e diffuso anche in Italia, rischiano l'infarto. L'AstraZeneca, altro colosso, ha rivelato che "Iressa", una terapia contro il cancro ai polmoni non prolunga affatto la vita dei malati. L'Eli Lilly ha reso noto che il farmaco "Strattera", prescritto ai bambini per il trattamento dell'iperattività e del deficit di attenzione, ha causato gravi disturbi al fegato in almeno due pazienti. Tre duri colpi alla credibilità delle multinazionali che si aggiungono alla recente decisione della Merck di ritirare l'antidolorifico "Vioxx", dopo aver scoperto che raddoppia il rischio di attacco cardiaco. Immediati i contraccolpi in borsa. Alla fine delle contrattazioni di venerdì la Pfizer ha perso l´11,2%, l´AstraZeneca il 7,7%, e la Eli Lilly il 2,4%.
Iscriviti a:
Post (Atom)