mercoledì 24 dicembre 2003



ci sono nuovi file inseriti nel sito www.clochard.net, curato da Tonino Scrimenti
si tratta di articoli "storici", dell'agosto 1975 e del giugno 2003

per leggerli clicca QUI
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la locandina
degli "Incontri di Ricerca Psichiatrica 2003 - 2004
è disponibile anche a Firenze
da STRATAGEMMA


storie dell'uomo
la Rivoluzione Culturale cinese

una mostra organizzata dalla Provincia di Reggio Emilia
e da Palazzo Magnani


LI ZHENSHENG
l'odissea di un fotografo cinese
nella Rivoluzione Culturale (1966 - 1976)


Reggio Emilia, Palazzo Magnani
7 dicembre 2003 - 15 febbraio 2004


Corso Garibaldi 29, Reggio Emilia
tel. 0522 454437 - 444406
fax 0522 444436
www.palazzomagnani.it

Orari di visita:
9.30-13.00 / 15.00-19.00. Chiuso il lunedì
Aperto il 24, 26, 31/12 e il 6/1
Natale e Capodanno, solo 15.00-19.00

Biglietti di ingresso:
intero, €5; ridotto, €4; studenti, €2

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l'Aula Magna di sabato 20.12.03
su mawivideo.it

la registrazione audio-video
dell'Aula Magna di sabato 20.12.03
è disponibile in rete
per poter essere vista e ascoltata
o scaricata sul proprio hard disk


collegati al sito
http://www.mawivideo.it/

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Cina

Il Messaggero Mercoledì 24 Dicembre 2003
LA CINA ULTRAMODERNA MA CON IL SANTINO DI MAO
di GIANNI SOFRI


LEGGO il bel libro, appassionante, su Stalin e lo stalinismo, di Martin Amis, Koba il terribile. Che io sappia, non c'è nulla del genere su Mao. Se il Grande Timoniere non se ne fosse andato ventisette anni fa, proprio in questi giorni, il 26 dicembre per la precisione, compirebbe 110 anni. Ma che ne è di Mao nella Cina di oggi? Il problema viene liquidato in genere, da una quindicina d'anni, con la scontata battuta sul suo rivoltarsi nella tomba: più che mai inverosimile, oltre tutto, perché Mao, notoriamente, non ha una tomba. Ma con un fondo di verità. Cos'ha a che vedere Mao, in effetti, con questa Cina, con la sua esplosione di grattacieli e di telefonini, di high tech e di capitalismo selvaggio, di elezioni di Miss Mondo e di concerti pop e heavy metal? Nulla, evidentemente.
Ciò nonostante, la "demaoizzazione" si è fermata abbastanza presto, e Mao occupa tuttora un posto importante sia nell'ufficialità dell'establishment, sia nella memoria popolare. Nella prima, innanzitutto, che avendo gelosamente conservato inalterata (a dispetto delle grandi trasformazioni economiche) la facciata politica del Paese, e con essa la guida indiscussa del Partito comunista e dell'ideologia marxista-leninista, ha tutto l'interesse a sottolineare la continuità con la Lunga marcia e con la fondazione, nel '49, della Repubblica popolare. Certo, Mao è ampiamente criticato, e non più solo nei corridoi, per i suoi molti "errori", dal Grande balzo in avanti alla Rivoluzione culturale, che costarono ai cinesi - come ai russi sotto Stalin - milioni di morti. Ma sono pur sempre, come ebbe a dire l'ex Presidente Jiang Zemin, "gli errori di un grande rivoluzionario e di un grande marxista". E quanto alla Rivoluzione culturale, si tende a privilegiare la comoda soluzione di addossarne le colpe alla perversa moglie Jiang Qing e ai suoi tre colleghi della "banda dei quattro", offuscando così le evidenti responsabilità dirette del Grande Timoniere. Naturalmente, nessuna delle fazioni che si fronteggiano, più o meno apertamente, nel Partito comunista cinese ha più come suo riferimento politico Mao e il suo pensiero. Ma conviene a tutti coltivare per lui una sorta di venerazione pubblica, come a un simbolo di unità in un empireo lontano e innocuo.
Parallelamente, nella memoria popolare Mao è una specie di santino. Milioni di visitatori, combattuti tra curiosità e commozione, vanno ogni anno in pellegrinaggio devozionale alla sua casa natale di Shaoshan o alla sua salma imbalsamata in piazza Tienanmen. La sua immagine viene venduta, non solo ai turisti sempre golosi, nelle forme più disparate, dagli accendini ai distintivi ai talismani di ogni tipo. Fa da portafortuna nei ristoranti (spesso su altarini simili a quelli tradizionalmente riservati agli antenati) o nei taxi: a molti giornalisti si racconta per l'appunto di incidenti nei quali solo i possessori di un santino di Mao se la sarebbero cavata a buon mercato. Si potrebbe persino parlare di una sorta di revival affettuoso e ironico insieme, di un culto più intimista e meno monumentale di un tempo.
E' tornata assai di moda, per esempio, una canzone che era praticamente obbligatoria per tutti i bambini cinesi nelle scuole dell'epoca maoista: parla di Shaoshan e del suo aver dato i natali alla "stella della salvezza dei cinesi".
Solo folklore? E' lecito dubitarne. Lo straordinario sviluppo economico degli ultimi anni non è certo privo di contraddizioni. Le riforme economiche, nelle campagne come nell'industria, hanno accentuato le differenze sociali: non tutti hanno potuto approfittarne. Si calcola che ci siano oggi 35 milioni di contadini disoccupati e un numero assai elevato, e difficilmente calcolabile, di "vaganti" precari, alla ricerca delle briciole del boom. Le imprese di Stato licenziano ogni anno dagli 8 ai 10 milioni di operai. E secondo tutte le previsioni si tratta di cifre destinate a salire.
Negli ultimi mesi ci sono state proteste, anche violente, contro le espropriazioni "facili" di terreni destinati a estendere i poli industriali, i supermercati, le sedi olimpiche; o a sostituire i vecchi quartieri con gli inarrestabili grattacieli. Nel mese di settembre, per dare efficacia a questo tipo di protesta, ben tre persone, in luoghi e momenti diversi, hanno tentato di immolarsi con il fuoco; e i suicidi in genere, da parte di chi è tagliato fuori dai miracoli economici, e dalla propria terra, sono stati (e sono) numerosi. Accade così che ricordare e venerare Mao significhi anche, per alcuni, rifugiarsi nella nostalgia, e dar corpo a una protesta dolorosa e impotente. Si dimenticano gli orrori del passato e lo si contrappone alla cupidigia, alla speculazione, alle nuove ingiustizie del presente. Si mitizza una Cina nella quale, per lo meno agli occhi dei molti cinesi esclusi dai benefici della modernizzazione, "si stava meglio". E nella quale criminalità e corruzione non esistevano o, meglio, erano occultate più sapientemente. Senza contare che a Mao i cinesi continuano comunque ad essere grati per aver tratto il loro grande Paese dal declino e dall'oppressione straniera in cui era caduto, e avergli ridato orgoglio e dignità nazionale: sì da poter oggi affermarsi come una riconosciuta potenza mondiale.

Luigi Cancrini

Il Messaggero Mercoledì 24 Dicembre 2003
L’ANALISI
Ma per i giovani il pericolo più grave è la perdita di fiducia in se stessi
di LUIGI CANCRINI


C’E’ stato un tempo in cui, in America come in Italia, la vita scorreva su tempi scanditi da riti ben definiti. La fine della scuola coincideva, per i giovani della famiglia borghese con l'ingresso nelle Università o nei Collages. L'inizio delle attività di lavoro ed il matrimonio segnavano subito dopo, l'inizio di una carriera e della vita adulta. Tornare a casa dei genitori veniva vissuto come una sconfitta.
Molte cose sono cambiate, in fondo, nel corso di un tempo abbastanza limitato. Entrare nel mondo del lavoro a 22 o a 24 anni è praticamente impossibile oggi per chi pensa o sogna di svolgere un’attività sufficientemente qualificata. Sposarsi prima dei 30-35 anni è considerata una forma di imprudenza. Restare in casa dei propri genitori è, in queste condizioni, sempre più comodo e sempre più naturale. Serve a prendere tempo per migliorare la propria formazione professionale e per essere, dunque, più competitivi. Serve, su un piano più personale, a fare tutte le esperienze che sembrano necessarie per non sbagliare nel momento in cui si decide di dare inizio ad una convivenza che qualche volta finirà in un matrimonio. Prudenti e riflessivi più dei loro genitori, i giovani di oggi tentano di godersi la vita per tutto il tempo in cui la vita glielo permette. Comprensibile e, spesso, corretta la scelta del ritorno a casa (o del restare a casa) comporta, tuttavia, problemi che sono, a volte, tutt'altro che semplici.
Abituato da sempre ad essere il centro dell'attenzione emotiva dei suoi genitori, il figlio ha una naturale propensione, prima di tutto, al mantenimento di questo suo privilegio. Il modo in cui il suo atteggiamento urta contro le esigenze nuove dei genitori che hanno molta voglia ora di vivere la loro vita concedendosi quello che non si sono concessi nel tempo in cui dovevano lavorare e occuparsi di lui, è stato descritto magistralmente in Tanguy, un film francese dedicato proprio a questo problema. Guardata con simpatia particolare dal regista e dal pubblico, la rabbia espulsiva dei genitori produce, lì, la partenza del figlio e la risoluzione del problema. Quello con cui molto più spesso ci si incontra nella vita e in una professione come la mia, però, è il problema legato alla perdita di fiducia in se stessi. Caratteristica di tante altre persone giovani meno fortunate o meno dotate. Perché difficilissimo è, per loro, costruire un futuro lavorativo così stabile e così redditizio da permettere a loro e alla loro eventuale famiglia condizioni economiche simili a quelle in cui sono stati abituati a vivere e perché sempre più poche sono, per loro, le occasioni di lavoro capaci di suscitare slanci o entusiasmi di tipo ideologico.
Guardato da questo punto di vista, il dato sociologico sui giovani costretti a restare in casa dei loro genitori da un sistema sociale che di loro ha sempre meno bisogno propone, probabilmente, la spiegazione più semplice per la grande crisi di valori che attraversa oggi le società dell'occidente ricco. Quella che manca è la carica di ottimismo e di volontà con cui le persone giovani cercavano un tempo la pienezza della loro autonomia. E, spaventati da un futuro che nessuno dei loro genitori sembra più in grado di anticipare o di spiegare, molti di loro si chiudono in casa cercando soprattutto la sicurezza della protezione della famiglia.

schizofrenia e demenza
un altro studio australiano...

Yahoo! Notizie Mercoledì 24 Dicembre 2003, 20:31
La schizofrenia ad insorgenza tardiva può precedere la demenza, soprattutto la malattia di Alzheimer
Di MedicinaNews.it


Ricercatori del Prince of Wales Hospital di Sidney in Australia hanno esaminato l’outcome (esito) di un gruppo di pazienti con schizofrenia ad insorgenza tardiva.
I pazienti con schizofrenia insorta dopo i 50 anni d’età, ma senza demenza, ed un gruppo controllo di soggetti sani, sono stati esaminati al basale, dopo 1 anno e dopo 5 anni.
Hanno terminato lo studio 19 pazienti contro gli iniziali 27 nel gruppo schizofrenia e 24 soggetti del gruppo controllo contro i 34 iniziali.
A 5 anni nel gruppo schizofrenia, 9 pazienti hanno mostrato segni di demenza . Di questi 5 erano affetti da malattia di Alzheimer, 1 da demenza vascolare e 3 da demenza di tipo sconosciuto.
Nessun soggetto del gruppo controllo ha presentato demenza.
Secondo gli Autori la schizofrenia che insorge nell’età avanzata può precedere la demenza, soprattutto la malattia di Alzheimer. (Xagena 2003)

Brodaty H et al, Br J Psichiatry 2003; 183:213-219

Per ulteriori informazioni visita www.Xagena.it

le donne del Cairo, oggi

L'Espresso on line
Fantasie velate
colloquio con Adhaf Soueif


Farsi belle per un uomo, per l'uomo che l'indomani diventerà il tuo sposo. Il dolore della depilazione, la cura del corpo affidata alle mani esperte di una vecchia che ha fatto gli stessi gesti per decenni. "Malesh, malesh", pazienza, la sofferenza sta per finire. È tutto quello che la vecchia ha da dire alla giovane donna egiziana. La scena dei preparativi nuziali è una delle più potenti scritte da Adhaf Soueif, la George Eliot d'Egitto, in 'In the eye of the sun', il romanzo che consacrò, dieci anni fa, il suo ingresso sulla scena letteraria inglese. Qualche anno più tardi, nel 1999, 'The Map of Love' (pubblicato da Piemme con il titolo 'Il Profumo delle notti sul Nilo') l'ha portata nella rosa dei finalisti del Booker Prize. Eppure la Soueif, grande scrittrice in lingua inglese, è nata in Egitto e l'arabo è la lingua della sua vita e dell'intimità. Sarebbe quindi una figura che facilmente potrebbe essere classificata nella casella 'Orientalismo'. Ma non è così. Allieva e amica di Edward Said (morto poche settimane fa) che l'ha definita "una delle più straordinarie croniste della politica sessuale del momento", la scrittrice è una delle più feroci critiche della nostalgia stilizzata dell'Oriente. E di ogni discorso sulle differenze culturali.

In un articolo lei ha descritto com'era cambiato il Cairo negli ultimi anni. Diceva che l'ha colpita la presenza di un numero maggiore di donne velate. Insomma, la donna araba vera non c'entra niente con i sogni degli occidentali?

"Avevo detto che se in Egitto avessimo avuto un costume nazionale, molte di noi avrebbero scelto di indossare il velo. Ma questa è solo una delle interpretazioni dell'uso del velo".

E le altre interpretazioni?

"Prima di risponderle, mi soffermo sullo stereotipo. Per molti occidentali il velo è semplicemente l'altro lato della fantasia sulla presunta sensualità tutta 'orientale'. E su un eros trasgressivo. E come desiderare di addomesticare una cosa (una donna e un mondo) di cui si ha paura".

Nella realtà, invece, perché le donne portano il velo?

"Perché ci sono gli islamisti. Lo strumento più importante che hanno usato per influenzare la gente è stato quello di fornire servizi sociali e sussidi economici. La cosa più importante che hanno fornito, in genere gratuitamente, sono stati i vestiti. Assieme ai trasporti e ai libri, per le giovani donne all'interno delle università il velo è stato, in una fase iniziale, un'opzione economica. Poi c'è stata la crescita del progetto e dell'ideologia islamista. Nelle democrazie ci sono molti canali aperti per l'opposizione. Ma qui, in Egitto, non si può avere altro se non le moschee, l'unico spazio di opposizione che non viene chiuso dalle autorità".

E poi?

"E poi ci sono le donne - molte - che ci credono veramente, e che ritengono che questo sia il giusto comportamento da tenere. Infine, ci sono quelle che si velano per affermare un progetto politico in cui abita una mescolanza di nazionalismo, sentimento anti-occidentale, e una forte corrente di pensiero femminista. Ma la vostra discussione sul velo è una distrazione dal vero dibattito. Quello su una giusta rappresentanza nel governo, per esempio. O sulla corruzione".

Lei che vive in ambedue le culture, quella occidentale inglese e quella araba, ci dice quindi che in Europa non abbiamo capito niente del mondo arabo?

"In Europa non è così dura com'è in America. Ma ci sono tanti di quei cliché, di quei teoremi su di noi. L'immagine che si rappresenta del mondo arabo è quella di un posto stagnante, in cui si guarda indietro, quando non è affatto così. La vera domanda da porsi è quali particolari aspetti dell'informazione riguardante il mondo arabo si scelgono per fare i titoli sui giornali. E per scrivere i libri. Ogni tipo di informazione viene scelto per rinforzare questo stereotipo. E ne fa parte di esso il discorso orientalista. Il fatto che la nostra immagine, l'immagine degli arabi all'estero, sia in un certo modo, influisce sul potere che abbiamo sugli eventi. Di certo, tocca tutta la nostra vita. Altro che le vostre fantasie sulla nostra lascivia o viceversa, pericolosità, che poi sono le due facce della stessa medaglia".

gli antropologi su Babbo Natale

www.rai.it/news/
Culture
E' la conclusione a cui sono arrivati un gruppo di studiosi del folklore
Babbo Natale? Discende dallo yeti
L'animale era coperto di peli bianchi e rossicci: da qui il costume di Babbo Natale


Babbo Natale discenderebbe dal mitico yeti. E lo yeti altro non sarebbe che la rappresentazione del dio-bestia antico "progenitore" degli sciamani siberiani che, in occasione del solstizio d' inverno, portavano come regalo attraverso il tetto funghi allucinogeni.
Questa immagine poco rassicurante del personaggio più popolare delle feste di fine anno emerge da ricerche di antropologi, etnobiologi e studiosi del folclore. Lo yeti, l'abominevole uomo delle nevi è stato segnalato in molte parti del mondo, dall'India alla Cina fino agli Usa e, da tempo immemorabile, in Siberia.
Recentemente il biologo e alpinista russo Aleksander Semionov ha ritrovato sulle montagne siberiane dell'Altai, a 3.000 metri di altitudine, una gamba pelosa appartenente ad un essere che camminava in posizione eretta. Analisi successive, condotte dalla locale università di Barnaul, hanno escluso possa trattarsi di un orso, l'alternativa più probabile, o di altro animale vivente o scomparso.
Il che lascia aperte per gli studiosi due sole ipotesi: o un ominide sconosciuto o uno yeti. Semionov, che in primavera continuerà le sue ricerche, ha detto di aver visto nello stesso luogo del ritrovamento "grandi orme fresche" che sembrano quelle di uno yeti.
L'antico essere riapparso nell'Altai risulta, agli esami scientifici, grande più o meno come un homo sapiens, ma con gli artigli e il corpo ricoperto di pelo rossiccio: l'immagine tradizionale degli avvistamenti dello yeti, ma anche di quegli uomini selvaggi cui alcuni ricercatori fanno risalire l'origine di babbo natale, o del russo nonno gelo (Ded Moroz).
Se in Russia, come in Europa occidentale, un ruolo importante nella tradizione di Babbo Natale è attribuito a San Nicola, le credenze contadine fanno risalire Ded Moroz piuttosto all'antico Domovoi, lo spirito pagano che risiede nelle case fatte di pino e di abete e che viene chiamato "nonno". Ma nonno gelo appare soprattutto come la sintesi positiva di divinità antiche slave, uomini selvaggi come Zimnik, signore dell' inverno, e Karaciun, dio malefico del mondo sotterraneo.
L'ipotesi che la figura di Babbo Natale discenda da questi dei-bestia o uomini selvaggi è formulata in particolare dall' antropologa Phyllis Siefker nel suo libro "Santa Claus, l'ultimo degli uomini selvaggi", ovvero le divinità primitive che dominavano la vita delle campagne nel Medio Evo. Queste creature impressionanti "coperte di pelo, fornite di gobba, simili a bestie", scrive, erano furia e distruzione, ma anche "responsabili della nascita, della crescita e della fecondità, e intime dei più profondi segreti dell'universo". Dovevano, come il rex nemorensis dell'antico bosco di Nemi sacro a Diana, essere uccise davvero o simbolicamente affinché i cicli vitali continuassero.
E da queste figure - che nella mitologia greca assunsero le sembianze di Pan, il dio caprone - emerse, secondo Siekfer, anche Santa Claus. E nelle cerimonie pagane, il dio-bestia, di cui resta traccia nel mito dello yeti, era, scrive l'autrice, impersonificato dallo sciamano. Ed è James Arthur, uno tra i più noti etnobiologi, a ricordare che "gli sciamani siberiani usavano e usano il fungo amanita muscaria come un sacramento religioso". "Essi - dice - entrano attraverso un'apertura del tetto e portano questi funghi (allucinogeni) in grandi sacchi". Sono vestiti di rosso e bianco, cioè i colori di Babbo Natale, ma anche dell'amanita, che in Siberia cresce sotto pini e abeti.

storie dell'uomo
l'evoluzione di homo sapiens: non una questione di volume

La Repubblica 24.12.03
LE TAPPE
Scoperta dei paleontologi della Sapienza: dopo Neandertal una rivoluzione nel modello di cranio
Homo sapiens, un super-cervello per arte, religione e scienza
Il salto evolutivo grazie a un diverso assetto cerebrale non al maggior volume
di CLAUDIA DI GIORGIO


ROMA - Non è stato un cervello più grande, ma un cervello organizzato in modo nuovo, e migliore, a dare a Homo Sapiens la "marcia in più" che gli ha garantito il successo evolutivo, aprendo la strada al linguaggio, all'elaborazione di tecnologie sempre più raffinate e di espressioni del pensiero sconosciute alle altre specie viventi, come l'arte, la religione o la scienza. Negli ultimi due milioni di anni, il volume del cervello del genere Homo è cresciuto in maniera impressionante, passando dai circa 800 centimetri cubi dei primi Homo Erectus, ai 1400 di media degli Homo Sapiens. Tuttavia, ai paleontologi è chiaro da tempo che, se da un lato è vero che le dimensioni contano, dall'altro non bastano a spiegare le evidenti differenze tra le capacità cognitive dei nostri antenati diretti e quelle degli ominidi che li avevano preceduti.
Fino a oggi, però, le testimonianze dei crani fossili hanno permesso di seguire soprattutto il percorso di crescita del volume cerebrale dei nostri predecessori, mentre il contenuto di quei crani, vale a dire la forma e la struttura dei cervelli che ospitavano, era assai più difficile da ricostruire.
Ma una serie di tecniche recenti sembra ora in grado di superare questo limite, ed un primo risultato importante arriva proprio dall'Italia, e precisamente dal laboratorio di Paleontologia Umana dell'Università La Sapienza di Roma, dove Giorgio Manzi ed Emiliano Bruner, in collaborazione con Juan Luis Arsuaga, sono riusciti a analizzare l'endocranio (la parte interna del teschio) di vari fossili, tra cui quelli del cosiddetto "uomo di Saccopastore", un neandertaliano vissuto circa 120.000 anni fa.
Pubblicato su Pnas, la rivista dell'Accademia americana delle Scienze, il nuovo studio suggerisce che il cervello di Homo Sapiens sia la conseguenza di quella che Giorgio Manzi definisce come una vera e propria rivoluzione, e cioè dell'improvvisa comparsa di un nuovo equilibrio tra le ossa craniche e il loro contenuto: in pratica, un nuovo "modello" di cranio. Mentre, in Europa, l'uomo di Neandertal, che pure ha un cervello molto grande, conservava una scatola cranica arcaica, simile a quella degli ominidi precedenti, in Africa emerge una nuova specie di Homo che riesce a contenere la stessa grande quantità di cervello in un cranio diverso, fatto in modo tale da consentire lo sviluppo di una diversa organizzazione cerebrale. Uno sviluppo che avverrà soprattutto in aree della corteccia associativa molto importanti per le funzioni superiori del pensiero, come conferma il fatto, scrivono i ricercatori su Pnas, che le differenze tra il vecchio e il nuovo "modello" sono evidenti soprattutto nelle zone parietali del cranio.

bioetica

La Repubblica 24.12.03
Lettere
Figli e felicità tra bioetica e biopolitica
di CORRADO AUGIAS


Caro Augias, non mi meraviglio che il Nobel per la medicina David Hubel, nell'intervista a Piergiorgio Odifreddi pubblicata il 17 dicembre, "creda" che "l'etica non è soggetta alla logica"; mi meraviglia piuttosto il fatto che egli - che accusa chi non la pensa come lui di "motivazioni irrazionali" o di sostenere "insensatezze" - non fornisca alcun argomento a suffragio del suo convincimento, se non quello (obiettivamente deboluccio, almeno da un punto di vista empirico) di conoscere una amica che ha usato l'ovulo della propria sorella, ha avuto un figlio ed ora è felice.
Non può non essere qualificata come arroganza quella con cui non pochi premi Nobel - per aver fatto scoperte straordinarie, ma in campi strettamente scientifici e obiettivamente settoriali - si arrogano spesso il diritto di discettare di etica e di filosofia, sapendone poco e non riuscendo affatto a motivare le loro (pur soggettivamente legittime) affermazioni?
Non crede che siano requisiti irrinunciabili di un pensiero che voglia ragionare seriamente e laicamente quello di argomentare rigorosamente le proprie posizioni e di esaminare con altrettanto rigore le posizioni altrui, senza denigrarle grossolanamente?
Professor Francesco D'Agostino
Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica


Mi congratulo con il professor D'Agostino per le conclusioni del suo Comitato sul "testamento biologico" e convengo che l'argomentazione di David Hubel, riferita a un singolo caso, non aveva molto peso scientifico. Era una considerazione di senso comune che ha anch'esso un suo valore, intendiamoci, ma non prova granché. Non sarebbe giusto però isolare la frase dal contesto dell'intervista e dell'intero numero del "Diario" di Repubblica dedicato alla Biopolitica, tema di particolare rilievo in un paese come il nostro.
Ritengo che un buon metodo per cercare di ragionare su argomenti così difficili sia quello di tenere separate le considerazioni scientifiche da quelle religiose, campi che raramente coincidono. Se parliamo dei valori della vita in senso lato non si può prescindere, per esempio, dall'osservazione di Luce Irigaray (teorica del pensiero della differenza) quando dice: «Il ripiegarsi in un individualismo meschinamente possessivo e gaudente sono il risultato di una mancanza di cultura della stessa vita e della sua condivisione». Chi può dirsi non d'accordo con questo assunto? Lo Stato dovrebbe allora, con la forza delle leggi, allontanare i cittadini da questa povera visione della vita? Non può, se non vuole diventare uno di quegli Stati "etici" che il Novecento ha tragicamente conosciuto.
La legge sulla procreazione appena approvata va in quella direzione? Purtroppo sì. E ci va nel modo peggiore, con argomentazioni che non ammettono replica. Ha scritto su queste pagine Giulio Giorello: «Bisognerebbe fare giustizia di battute del tipo "Dio lo vuole" o "non lo vuole". Se uno ha un filo diretto con un'entità spiritualmente superiore e scambia il proprio autoritarismo per infallibilità, ogni possibilità di confronto e di discussione si chiude in partenza». Christian de Duve ("La vita che evolve" - Cortina ed.) scrive: «Rifiutarsi d'intervenire dove la scienza ci permette di farlo per superare i limiti dovuti alla cattiva sorte è irresponsabile».
Ecco un principio che mi sembra molto "etico", molto umano, molto adatto all'atmosfera di questi giorni.