Sergio Grom segnala che
•la prima pagina del Venerdì di Repubblica del 20.6.03 ha per titolo: Ma donne e uomini sono uguali?. All'interno della rivista ci sono vari articoli sul tema, tra i quali "La differenza inizia dal cervello" e un altro sulle donne e l'Islam intitolato: "Ma l'Islam non vuol dire oppressione".
•Panorama ha un sottotitolo in copertina "Amore e Psiche: Le avventure proibite di una cameriera di provincia..." ma poi nell'articolo di Amore e Psiche non si parla per niente...
•Il libro di cui ha accennato Massimo Fagioli al seminario del giovedì è di Giorgio Vercellin e si intitola Tra Veli e Turbanti, Rituali sociali e vita privata nei mondi dell'Islam uscito per Marsilio
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 22 giugno 2003
narcisismo...
Il Mattino di Napoli 22.6.03
Narcisismo La nuova frontiera del sex appeal
di Barbara Caputo
Esistono narcisismi vecchi e nuovi, narcisismi negativi e narcisismi benefici, maschili e femminili. ma oggi il narcisismo per eccellenza è, prevalentemente, maschio. Ce lo dicono le statistiche, ce lo confermano le mode di stagione. È la nuova frontiera dell’appeal. Questo è il composito quadro che ci presentano le indagini sul neo-edonismo e che ci conferma la psicoterapeuta Ivana Castoldi, la quale, grazie alle esperienze maturate nella sua attività, dice che oggi gli uomini sono ad un guado, dovendo scegliere se continuare a essere i «bambini speciali» di sempre, che dopo l'adorazione della mamma cercano quella delle altre donne, o divenire finalmente persone equilibrate, autonome, ed emancipate da questa dipendenza. Castoldi, sul narcisismo, ha da poco pubblicato un libro, intitolato appunto Narcisi (Feltrinelli, pp. 174, 12 euro) in cui presenta, con quattro casi paradigmatici di uomini a cui il narcisismo ha cominciato a stare stretto, un quadro del momento che gli uomini - ma anche le donne - attraversano.
Ma procediamo con ordine, partendo dalla definizione classica del narcisismo. Che se ha sicuramente a che vedere con il mito di Narciso che si innamora della sua immagine riflessa, non per questo è necessariamente legata alla bellezza fisica. «Può sembrare un paradosso - commenta Castoldi - ma esistono Narcisi ben poco preoccupati della loro avvenenza. Talvolta, sono individui dall'aspetto insignificante. Tuttavia, si piacciono egualmente e si compiacciono del loro ingegno, dei loro successi professionali, della loro competenza relazionale, della loro abilità sportiva, del loro, troppo volte presunto, senso dell'umorismo, senza minimamente dubitare della legittimità di tale attribuzione». In realtà spesso questi uomini, presi a girare continuamente attorno al loro ombelico, possono rivelarsi noiosi, e anche venire mollati dalle loro donne. In compenso, sono bravi seduttori che riescono ad attirare l'attenzione su di sé, ma non a lungo. Una volta instaurato un rapporto sentimentale, infatti, o sono così fortunati da incontrare donne-tappetino, o stancano presto le loro partners per la loro incapacità di instaurare un rapporto intimo e reciproco.
«Nel narcisismo è contenuta una precisa contraddizione - nota Ivana Castoldi. Da un lato gli uomini hanno questi impulsi di auto-ammirazione, dall'altra sono persone insicure, che hanno bisogno di consensi esterni, di donne che siano specchio e sostegno. Dipendono dalle donne, e non ne lasciano una senza averne prima trovata un'altra». Buona parte di colpa ce l'hanno le mamme, così severe con le figlie femmine e indulgenti e adoranti con i maschi. «Se un percorso di cambiamento è iniziato, gli uomini sono ancora lontani dall'avere acquistato sicurezza ed equilibrio psicologico». A cambiare le regole del gioco è stato il mutamento rivoluzionario dei ruoli di genere, nel quale molte donne hanno imparato a cercare la propria evoluzione personale senza più vedere la propria vita al servizio del maschio. Ma se anche gli uomini sono perseveranti nel loro narcisismo, alla fine ci pensa l'età, o gli acciacchi e i rovesci della vita, a porli giocoforza davanti ad uno specchio che rimanda un'immagine molto meno narcisistica e più vulnerabile.
Ma anche le modalità del narcisismo nel frattempo sono cambiate. «Prendendo esempio dalle donne, che sono sempre state tenute ad essere belle, ora anche gli uomini cominciano a curare il fisico, fare fitness, depilarsi. Le donne ora esprimono maggiore senso critico nei confronti degli uomini, hanno gusti precisi. E gli uomini, che prima si trascuravano, si adeguano con la sensazione di aver perso terreno, anche in un campo che prima non era importante». Tuttavia non è detto che il narcisismo in genere, e anche la cura del corpo, debbano necessariamente avere valenze negative. Le donne sono state in questo, per Castoldi, maestre. «Le donne, che avevano maggiori preoccupazioni per la bellezza, hanno scoperto che la dimensione della cura di sé ha anche dei risvolti psicologici positivi di benessere personale, se non è finalizzata alla seduzione ma a stare bene con se stesse. La fitness può sicuramente portare in questa direzione. Gli uomini hanno fatto questa scoperta più recentemente. Il fatto di piacersi non è necessariamente negativo. Può essere invece sano e importante per la propria autostima e affermazione. Ci si guadagna con gli altri, se non si coltivano visioni sovradimensionate. Di questa mancanza hanno patito le donne. Ma ora vogliono, e devono piacersi».
Narcisismo La nuova frontiera del sex appeal
di Barbara Caputo
Esistono narcisismi vecchi e nuovi, narcisismi negativi e narcisismi benefici, maschili e femminili. ma oggi il narcisismo per eccellenza è, prevalentemente, maschio. Ce lo dicono le statistiche, ce lo confermano le mode di stagione. È la nuova frontiera dell’appeal. Questo è il composito quadro che ci presentano le indagini sul neo-edonismo e che ci conferma la psicoterapeuta Ivana Castoldi, la quale, grazie alle esperienze maturate nella sua attività, dice che oggi gli uomini sono ad un guado, dovendo scegliere se continuare a essere i «bambini speciali» di sempre, che dopo l'adorazione della mamma cercano quella delle altre donne, o divenire finalmente persone equilibrate, autonome, ed emancipate da questa dipendenza. Castoldi, sul narcisismo, ha da poco pubblicato un libro, intitolato appunto Narcisi (Feltrinelli, pp. 174, 12 euro) in cui presenta, con quattro casi paradigmatici di uomini a cui il narcisismo ha cominciato a stare stretto, un quadro del momento che gli uomini - ma anche le donne - attraversano.
Ma procediamo con ordine, partendo dalla definizione classica del narcisismo. Che se ha sicuramente a che vedere con il mito di Narciso che si innamora della sua immagine riflessa, non per questo è necessariamente legata alla bellezza fisica. «Può sembrare un paradosso - commenta Castoldi - ma esistono Narcisi ben poco preoccupati della loro avvenenza. Talvolta, sono individui dall'aspetto insignificante. Tuttavia, si piacciono egualmente e si compiacciono del loro ingegno, dei loro successi professionali, della loro competenza relazionale, della loro abilità sportiva, del loro, troppo volte presunto, senso dell'umorismo, senza minimamente dubitare della legittimità di tale attribuzione». In realtà spesso questi uomini, presi a girare continuamente attorno al loro ombelico, possono rivelarsi noiosi, e anche venire mollati dalle loro donne. In compenso, sono bravi seduttori che riescono ad attirare l'attenzione su di sé, ma non a lungo. Una volta instaurato un rapporto sentimentale, infatti, o sono così fortunati da incontrare donne-tappetino, o stancano presto le loro partners per la loro incapacità di instaurare un rapporto intimo e reciproco.
«Nel narcisismo è contenuta una precisa contraddizione - nota Ivana Castoldi. Da un lato gli uomini hanno questi impulsi di auto-ammirazione, dall'altra sono persone insicure, che hanno bisogno di consensi esterni, di donne che siano specchio e sostegno. Dipendono dalle donne, e non ne lasciano una senza averne prima trovata un'altra». Buona parte di colpa ce l'hanno le mamme, così severe con le figlie femmine e indulgenti e adoranti con i maschi. «Se un percorso di cambiamento è iniziato, gli uomini sono ancora lontani dall'avere acquistato sicurezza ed equilibrio psicologico». A cambiare le regole del gioco è stato il mutamento rivoluzionario dei ruoli di genere, nel quale molte donne hanno imparato a cercare la propria evoluzione personale senza più vedere la propria vita al servizio del maschio. Ma se anche gli uomini sono perseveranti nel loro narcisismo, alla fine ci pensa l'età, o gli acciacchi e i rovesci della vita, a porli giocoforza davanti ad uno specchio che rimanda un'immagine molto meno narcisistica e più vulnerabile.
Ma anche le modalità del narcisismo nel frattempo sono cambiate. «Prendendo esempio dalle donne, che sono sempre state tenute ad essere belle, ora anche gli uomini cominciano a curare il fisico, fare fitness, depilarsi. Le donne ora esprimono maggiore senso critico nei confronti degli uomini, hanno gusti precisi. E gli uomini, che prima si trascuravano, si adeguano con la sensazione di aver perso terreno, anche in un campo che prima non era importante». Tuttavia non è detto che il narcisismo in genere, e anche la cura del corpo, debbano necessariamente avere valenze negative. Le donne sono state in questo, per Castoldi, maestre. «Le donne, che avevano maggiori preoccupazioni per la bellezza, hanno scoperto che la dimensione della cura di sé ha anche dei risvolti psicologici positivi di benessere personale, se non è finalizzata alla seduzione ma a stare bene con se stesse. La fitness può sicuramente portare in questa direzione. Gli uomini hanno fatto questa scoperta più recentemente. Il fatto di piacersi non è necessariamente negativo. Può essere invece sano e importante per la propria autostima e affermazione. Ci si guadagna con gli altri, se non si coltivano visioni sovradimensionate. Di questa mancanza hanno patito le donne. Ma ora vogliono, e devono piacersi».
religioni
Repubblica 22.6.03
Il dio relativo dei nuovi credenti
Nel Paese l´87 % si dicono cattolici e stimano il Papa
Crescono le persone che credono al sacro ma lo adattano ai propri problemi
La preghiera è pratica diffusa a cui spesso ci si affida per chiedere benefici materiali
Ha recriminato con forza, la Chiesa italiana, sull´amnesia, o meglio, la reticenza della Convenzione nel delineare la prima bozza di Costituzione, circa l´importanza delle tradizioni cristiane per l´identità europea. E i soggetti politici di governo, soprattutto (ma non solo), hanno dato risonanza a questa rivendicazione. D´altra parte, due italiani su tre sembrano essere d´accordo con l´idea di restituire evidenza alle "radici cristiane" nella futura costituzione. Il problema è che oltre metà di essi, il 38% della popolazione in complesso, pensa però che il riferimento alla tradizione cristiana, per quanto legittimo, vada espresso "nel rispetto delle altre religioni". Di fatto, affermando una concezione "relativa" del ruolo e del significato religioso, come fondamento della storia e dell´identità europea.
Si tratta di un orientamento ambivalente e un po´ paradossale, che risulta diffuso, nella percezione del fenomeno religioso espressa dagli italiani. Almeno secondo le indicazioni del sondaggio condotto da Eurisko per "La Repubblica". Gli italiani, cioè, attribuiscono alla religione uno spazio crescente, nella loro vita, nella definizione del mondo. Ma, al tempo stesso, la piegano alle loro domande, ai loro problemi. Interessi. Credono, gli italiani, in un Dio relativo.
La religione, negli anni Novanta, ha guadagnato centralità sociale. Oggi è ritenuta "fondamentale" dal 23% della popolazione (intervistata da Eurisko), mentre il 38% di essi la considera importante. Poco meno di dieci anni fa, nel 1994, una ricerca dell´Università Cattolica di Milano (curata da Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti e Rovati), presentava al proposito valori molto più bassi: la quota di italiani che definiva fondamentale la religione, nella vita, era del 15%, mentre il 31% la riteneva "importante". Nell´insieme, la percentuale di coloro che assegnano un grande valore alla religione, in Italia, fra il 1994 al 2003 sale dal 46% al 62%. Al tempo stesso, cresce dal 41 al 51% il peso di coloro che pregano almeno una volta al giorno. Inoltre, il 57% degli italiani seguono trasmissioni di carattere religioso in tivù, mentre il 26% si soffermano su reti radiofoniche confessionali. Dove la "preghiera" coinvolge un´ampia comunità mediatica. D´altronde, in Italia, quasi tutti continuano a dirsi cattolici e la frequenza alla messa, che dagli anni 50 era calata costantemente, nella seconda metà degli anni Novanta sembra essersi stabilizzata, attestandosi attorno al 30%. Peraltro, altre ricerche sottolineano il livello elevato di stima espresso in Italia nei confronti della Chiesa e, soprattutto, il consenso largo e trasversale che accompagna il Papa, Karol Woityla. Mentre le parrocchie, negli ultimi anni, appaiono i luoghi in cui si assiste alla maggior crescita dell´impegno associativo (lo segnala l´indagine dell´Iref per il Cnel, che verrà presentata nei prossimi giorni).
Tuttavia, l´impressione è che la "spinta propulsiva" che conosce la domanda di religione nella società italiana non abbia cambiato l´orientamento flessibile, adattivo, attraverso il quale i cattolici la traducono e interpretano, ormai da tempo. La religione conta, sempre più, nella vita delle persone, nel loro orizzonte di valore, ma ciò avviene seguendo diversi modelli, diversi percorsi. Così, larga parte degli italiani (8 su 10), quando pregano, mirano ad ottenere soluzione a problemi concreti, talora gravi, che riguardano loro stessi e i loro cari. Peraltro, la stessa percentuale di intervistati afferma di averne ricavato benefici concreti. La preghiera, quindi, è una pratica diffusa, che spesso assume un significato "propiziatorio". Inoltre, la credenza nelle verità di fede è discontinua, in alcuni limitata, in rapporto al peso dei cattolici. Ad esempio, credono nell´inferno la metà degli italiani, nel paradiso i due terzi, nell´infallibilità del Papa il 42%, nella resurrezione dei corpi solo il 31%. Vi sono quote ridotte, ma comunque significative, di persone, di cattolici, che credono, almeno un po´, nell´astrologia, nella comunicazione con i defunti, nel malocchio. Miscelando religione, esoterismo e magia, secondo differenti soluzioni sincretiche.
Non possiamo non dirci cattolici, quindi, ma ciascuno tende a interpretare l´appartenenza religiosa a modo proprio. Non sentendosi vincolato alle verità rivelate, né tanto meno alle indicazioni delle gerarchie, né agli insegnamenti della Chiesa. Tanto che quasi sette italiani su dieci, definiscono utile l´insegnamento etico della Chiesa, ma poi preferiscono agire "secondo coscienza". Mentre la politica è concepita in modo pressoché autonomo rispetto all´appartenenza cattolica.
È come se le relazioni, fra la Chiesa e la società, fra le persone e la religione, si fossero pluralizzate, articolate, a tal punto da rendere difficile tracciare dei confini precisi.
Da un lato, sempre più, le persone si accostano alla religione, alla Chiesa, oltre che per motivi di valore, per il "valore d´uso" che vi colgono. Perché la religione, la Chiesa, costituiscono dei riferimenti in un mondo privo di riferimenti. Offrono senso a persone alla ricerca di senso. Forniscono servizi, associazione e comunità a individui altrimenti sempre più soli. Ma, al tempo stesso, le persone si accostano e si distanziano dalla religione seguendo perlopiù traiettorie specifiche, zigzaganti.
Da ciò la forza e la debolezza della religione e soprattutto della Chiesa cattolica, nel nostro tempo. Perché è pressoché unica a parlare, a offrire significati, carisma; a scavare nel fondo "irrazionale" delle nostre paure e delle nostre coscienze. Unica a offrire identità, aggregazione ai più giovani; pietà ai sofferenti; sicurezza e cittadinanza agli anziani; sostegno ai marginali e ai migranti. Una Chiesa molteplice, flessibile, dai molti volti, con una storia lunga, un´organizzazione solida. E, per questo, a disposizione di tutti. Una Chiesa "personalizzata". Interpretata, coniugata, usata, secondo l´esigenza e l´interesse dei singoli. Una Chiesa sospesa, stirata: fra chi la accosta per motivi particolari e chi per soddisfare la domanda d´assoluto.
Non possiamo non dirci cattolici, quindi.
Figli di un Dio relativo.
Il dio relativo dei nuovi credenti
Nel Paese l´87 % si dicono cattolici e stimano il Papa
Crescono le persone che credono al sacro ma lo adattano ai propri problemi
La preghiera è pratica diffusa a cui spesso ci si affida per chiedere benefici materiali
Ha recriminato con forza, la Chiesa italiana, sull´amnesia, o meglio, la reticenza della Convenzione nel delineare la prima bozza di Costituzione, circa l´importanza delle tradizioni cristiane per l´identità europea. E i soggetti politici di governo, soprattutto (ma non solo), hanno dato risonanza a questa rivendicazione. D´altra parte, due italiani su tre sembrano essere d´accordo con l´idea di restituire evidenza alle "radici cristiane" nella futura costituzione. Il problema è che oltre metà di essi, il 38% della popolazione in complesso, pensa però che il riferimento alla tradizione cristiana, per quanto legittimo, vada espresso "nel rispetto delle altre religioni". Di fatto, affermando una concezione "relativa" del ruolo e del significato religioso, come fondamento della storia e dell´identità europea.
Si tratta di un orientamento ambivalente e un po´ paradossale, che risulta diffuso, nella percezione del fenomeno religioso espressa dagli italiani. Almeno secondo le indicazioni del sondaggio condotto da Eurisko per "La Repubblica". Gli italiani, cioè, attribuiscono alla religione uno spazio crescente, nella loro vita, nella definizione del mondo. Ma, al tempo stesso, la piegano alle loro domande, ai loro problemi. Interessi. Credono, gli italiani, in un Dio relativo.
La religione, negli anni Novanta, ha guadagnato centralità sociale. Oggi è ritenuta "fondamentale" dal 23% della popolazione (intervistata da Eurisko), mentre il 38% di essi la considera importante. Poco meno di dieci anni fa, nel 1994, una ricerca dell´Università Cattolica di Milano (curata da Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti e Rovati), presentava al proposito valori molto più bassi: la quota di italiani che definiva fondamentale la religione, nella vita, era del 15%, mentre il 31% la riteneva "importante". Nell´insieme, la percentuale di coloro che assegnano un grande valore alla religione, in Italia, fra il 1994 al 2003 sale dal 46% al 62%. Al tempo stesso, cresce dal 41 al 51% il peso di coloro che pregano almeno una volta al giorno. Inoltre, il 57% degli italiani seguono trasmissioni di carattere religioso in tivù, mentre il 26% si soffermano su reti radiofoniche confessionali. Dove la "preghiera" coinvolge un´ampia comunità mediatica. D´altronde, in Italia, quasi tutti continuano a dirsi cattolici e la frequenza alla messa, che dagli anni 50 era calata costantemente, nella seconda metà degli anni Novanta sembra essersi stabilizzata, attestandosi attorno al 30%. Peraltro, altre ricerche sottolineano il livello elevato di stima espresso in Italia nei confronti della Chiesa e, soprattutto, il consenso largo e trasversale che accompagna il Papa, Karol Woityla. Mentre le parrocchie, negli ultimi anni, appaiono i luoghi in cui si assiste alla maggior crescita dell´impegno associativo (lo segnala l´indagine dell´Iref per il Cnel, che verrà presentata nei prossimi giorni).
Tuttavia, l´impressione è che la "spinta propulsiva" che conosce la domanda di religione nella società italiana non abbia cambiato l´orientamento flessibile, adattivo, attraverso il quale i cattolici la traducono e interpretano, ormai da tempo. La religione conta, sempre più, nella vita delle persone, nel loro orizzonte di valore, ma ciò avviene seguendo diversi modelli, diversi percorsi. Così, larga parte degli italiani (8 su 10), quando pregano, mirano ad ottenere soluzione a problemi concreti, talora gravi, che riguardano loro stessi e i loro cari. Peraltro, la stessa percentuale di intervistati afferma di averne ricavato benefici concreti. La preghiera, quindi, è una pratica diffusa, che spesso assume un significato "propiziatorio". Inoltre, la credenza nelle verità di fede è discontinua, in alcuni limitata, in rapporto al peso dei cattolici. Ad esempio, credono nell´inferno la metà degli italiani, nel paradiso i due terzi, nell´infallibilità del Papa il 42%, nella resurrezione dei corpi solo il 31%. Vi sono quote ridotte, ma comunque significative, di persone, di cattolici, che credono, almeno un po´, nell´astrologia, nella comunicazione con i defunti, nel malocchio. Miscelando religione, esoterismo e magia, secondo differenti soluzioni sincretiche.
Non possiamo non dirci cattolici, quindi, ma ciascuno tende a interpretare l´appartenenza religiosa a modo proprio. Non sentendosi vincolato alle verità rivelate, né tanto meno alle indicazioni delle gerarchie, né agli insegnamenti della Chiesa. Tanto che quasi sette italiani su dieci, definiscono utile l´insegnamento etico della Chiesa, ma poi preferiscono agire "secondo coscienza". Mentre la politica è concepita in modo pressoché autonomo rispetto all´appartenenza cattolica.
È come se le relazioni, fra la Chiesa e la società, fra le persone e la religione, si fossero pluralizzate, articolate, a tal punto da rendere difficile tracciare dei confini precisi.
Da un lato, sempre più, le persone si accostano alla religione, alla Chiesa, oltre che per motivi di valore, per il "valore d´uso" che vi colgono. Perché la religione, la Chiesa, costituiscono dei riferimenti in un mondo privo di riferimenti. Offrono senso a persone alla ricerca di senso. Forniscono servizi, associazione e comunità a individui altrimenti sempre più soli. Ma, al tempo stesso, le persone si accostano e si distanziano dalla religione seguendo perlopiù traiettorie specifiche, zigzaganti.
Da ciò la forza e la debolezza della religione e soprattutto della Chiesa cattolica, nel nostro tempo. Perché è pressoché unica a parlare, a offrire significati, carisma; a scavare nel fondo "irrazionale" delle nostre paure e delle nostre coscienze. Unica a offrire identità, aggregazione ai più giovani; pietà ai sofferenti; sicurezza e cittadinanza agli anziani; sostegno ai marginali e ai migranti. Una Chiesa molteplice, flessibile, dai molti volti, con una storia lunga, un´organizzazione solida. E, per questo, a disposizione di tutti. Una Chiesa "personalizzata". Interpretata, coniugata, usata, secondo l´esigenza e l´interesse dei singoli. Una Chiesa sospesa, stirata: fra chi la accosta per motivi particolari e chi per soddisfare la domanda d´assoluto.
Non possiamo non dirci cattolici, quindi.
Figli di un Dio relativo.
religioni
Corriere della Sera 22.6.03
Religioni e laicità dello Stato, il grido d’allarme della Francia
Nei negozi di moda del quartiere parigino di Barbès si velano i manichini in vetrina e spuntano Barbie con l’hijab
La laicità è in pericolo! Questo il senso del rapporto consegnato qualche settimana fa al primo ministro Raffarin dal super-chirachiano Francis Baroin, vice capogruppo dell’Assemblea nazionale dell’Ump. Preoccupato del sempre più forte significato «comunitarista» del «velo islamico» (ognuno è libero di vivere secondo le regole della propria comunità etnica o religiosa), il parlamentare ha condensato in 16 punti un insieme di provvedimenti urgenti da adottare per salvare - codificandola alla vigilia del centenario della «separazione» (1905) - la laicità dell’ordinamento giuridico francese. Il tormentone del «velo a scuola», iniziato a Creil nel 1989, dopo la non limpida tregua imposta dal Consiglio di Stato (decisioni del 1989, 1996, 1999), ha ripreso a turbare i sonni dei francesi. Nonostante le perplessità del presidente Chirac, Raffarin sarebbe, ora, propenso a presentare un disegno di legge sulla «neutralità della scuola». Non è un caso, però, se quasi all’indomani del dialogo con i musulmani, fortemente voluto dal ministro dell’Interno Sarkozy con le elezioni del Consiglio del culto islamico (aprile 2003), alcuni parlamentari della sua stessa parte insieme con esponenti dell’opposizione (tra i quali Jack Lang) hanno, sotto un certo profilo, cercato di appannare gli apprezzabili risultati di quel dialogo, auspicando una legge che, in omaggio alla separazione e alla laicità, vieti di indossare, nelle scuole e in altri locali «pubblici», il velo islamico e qualsiasi altro simbolo religioso. Settimanali ad alta tiratura ( Nouvel Observateur , Elle , Figaro Magazine ) hanno fatto a gara per pubblicare amplissimi servizi sul tema, talvolta con tentazioni da fotoromanzo. Le Monde del 18 giugno gli ha, comunque, dedicato la prima pagina.
Va ricordato che in Europa una legge del genere esiste solo nella Turchia kemalista (dove è però largamente disapplicata) e che la Corte europea di Strasburgo ha recentemente considerato legittimo, alla luce della Convenzione sui diritti dell’uomo (1950), un provvedimento della Svizzera che ha vietato a una insegnante di indossare il velo a scuola (per contro in Canada hanno cercato di imporre il velo alle insegnanti cristiane nelle scuole islamiche finanziate dallo Stato).
Non vi sarebbero ostacoli, quindi, per la auspicata legge sul piano dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea, anche se l’interpretazione della Corte nel caso della Svizzera appare sostanzialmente restrittiva. Nel dibattito in corso in Francia coprire il capo femminile è considerato non solo un impegno religioso, ma, secondo alcuni intellettuali musulmani, anche una manifestazione di femminismo (per tutti Tariq Ramadan, docente universitario in Svizzera la cui moglie, convertita, è ampiamente velata). Per altri studiosi, l’obbligo religioso del velo è, però, un chiaro segno di quella discriminazione tra uomini e donne rigorosamente vietata sia dalle Costituzioni europee, sia dalla ricordata Convenzione del 1950, sia dal diritto dell’Ue (art.13 Trattato TCE). Nella realtà nei negozi di moda del quartiere parigino di Barbès, non solo si velano i manichini in vetrina, ma di qua e di là spuntano «Barbies» islamiche con l’ hijab . Peraltro, grazie al lavoro di mediazione compiuto dalle scuole, il numero di «veli» scolastici non supererebbe i 100/150 annui contro i 300 del passato.
E se Elisabeth Badinter teme che cominciando con un innocente «foulard» si finisca con il burka (e perché non con il pugnale «kirpen» obbligatorio per i Sikh?), il ministro dell’Educazione nazionale, Luc Ferry, ha dichiarato: «Una legge sul velo islamico, auspicata da alcuni deputati, rischierebbe di essere incostituzionale se andasse al di là della giurisprudenza del Consiglio di Stato», ma non la ha esclusa.
Non c’è dubbio che la questione investe sia le foto sulle carte di identità (un decreto del ’99 impone a tutte le donne, comprese le suore di avere il capo scoperto), sia la presenza di simboli religiosi nelle scuole e nelle aule di giustizia (non solo i crocefissi, non consentiti in Francia, ma le stesse «catenine» con simboli religiosi abitualmente indossate dalle studentesse), sia le piscine multisesso, sia le classi miste di ginnastica nelle scuole. E la pressione islamista per rinforzare il carattere culturale e identitario di questi precetti non cesserà davvero in poco tempo. Molto potrà, quindi, il nuovo Consiglio islamico che dovrà trovare rapidamente una soluzione equilibrata. Certo non sarà facile: recentemente Le Monde ha pubblicato le lettere di due lettori che propongono non solo di eliminare tutte le festività religiose, ma di ripristinare anche il Calendario rivoluzionario con il «decadì» al posto della domenica!
E’ vero che i francesi sono, fra gli europei, il popolo che ha più forte il senso della nazione e della sua storia, ma, talvolta, un eccesso di senso del laicismo storico può far perdere l’altrettanto essenziale senso del ridicolo.
Religioni e laicità dello Stato, il grido d’allarme della Francia
Nei negozi di moda del quartiere parigino di Barbès si velano i manichini in vetrina e spuntano Barbie con l’hijab
La laicità è in pericolo! Questo il senso del rapporto consegnato qualche settimana fa al primo ministro Raffarin dal super-chirachiano Francis Baroin, vice capogruppo dell’Assemblea nazionale dell’Ump. Preoccupato del sempre più forte significato «comunitarista» del «velo islamico» (ognuno è libero di vivere secondo le regole della propria comunità etnica o religiosa), il parlamentare ha condensato in 16 punti un insieme di provvedimenti urgenti da adottare per salvare - codificandola alla vigilia del centenario della «separazione» (1905) - la laicità dell’ordinamento giuridico francese. Il tormentone del «velo a scuola», iniziato a Creil nel 1989, dopo la non limpida tregua imposta dal Consiglio di Stato (decisioni del 1989, 1996, 1999), ha ripreso a turbare i sonni dei francesi. Nonostante le perplessità del presidente Chirac, Raffarin sarebbe, ora, propenso a presentare un disegno di legge sulla «neutralità della scuola». Non è un caso, però, se quasi all’indomani del dialogo con i musulmani, fortemente voluto dal ministro dell’Interno Sarkozy con le elezioni del Consiglio del culto islamico (aprile 2003), alcuni parlamentari della sua stessa parte insieme con esponenti dell’opposizione (tra i quali Jack Lang) hanno, sotto un certo profilo, cercato di appannare gli apprezzabili risultati di quel dialogo, auspicando una legge che, in omaggio alla separazione e alla laicità, vieti di indossare, nelle scuole e in altri locali «pubblici», il velo islamico e qualsiasi altro simbolo religioso. Settimanali ad alta tiratura ( Nouvel Observateur , Elle , Figaro Magazine ) hanno fatto a gara per pubblicare amplissimi servizi sul tema, talvolta con tentazioni da fotoromanzo. Le Monde del 18 giugno gli ha, comunque, dedicato la prima pagina.
Va ricordato che in Europa una legge del genere esiste solo nella Turchia kemalista (dove è però largamente disapplicata) e che la Corte europea di Strasburgo ha recentemente considerato legittimo, alla luce della Convenzione sui diritti dell’uomo (1950), un provvedimento della Svizzera che ha vietato a una insegnante di indossare il velo a scuola (per contro in Canada hanno cercato di imporre il velo alle insegnanti cristiane nelle scuole islamiche finanziate dallo Stato).
Non vi sarebbero ostacoli, quindi, per la auspicata legge sul piano dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea, anche se l’interpretazione della Corte nel caso della Svizzera appare sostanzialmente restrittiva. Nel dibattito in corso in Francia coprire il capo femminile è considerato non solo un impegno religioso, ma, secondo alcuni intellettuali musulmani, anche una manifestazione di femminismo (per tutti Tariq Ramadan, docente universitario in Svizzera la cui moglie, convertita, è ampiamente velata). Per altri studiosi, l’obbligo religioso del velo è, però, un chiaro segno di quella discriminazione tra uomini e donne rigorosamente vietata sia dalle Costituzioni europee, sia dalla ricordata Convenzione del 1950, sia dal diritto dell’Ue (art.13 Trattato TCE). Nella realtà nei negozi di moda del quartiere parigino di Barbès, non solo si velano i manichini in vetrina, ma di qua e di là spuntano «Barbies» islamiche con l’ hijab . Peraltro, grazie al lavoro di mediazione compiuto dalle scuole, il numero di «veli» scolastici non supererebbe i 100/150 annui contro i 300 del passato.
E se Elisabeth Badinter teme che cominciando con un innocente «foulard» si finisca con il burka (e perché non con il pugnale «kirpen» obbligatorio per i Sikh?), il ministro dell’Educazione nazionale, Luc Ferry, ha dichiarato: «Una legge sul velo islamico, auspicata da alcuni deputati, rischierebbe di essere incostituzionale se andasse al di là della giurisprudenza del Consiglio di Stato», ma non la ha esclusa.
Non c’è dubbio che la questione investe sia le foto sulle carte di identità (un decreto del ’99 impone a tutte le donne, comprese le suore di avere il capo scoperto), sia la presenza di simboli religiosi nelle scuole e nelle aule di giustizia (non solo i crocefissi, non consentiti in Francia, ma le stesse «catenine» con simboli religiosi abitualmente indossate dalle studentesse), sia le piscine multisesso, sia le classi miste di ginnastica nelle scuole. E la pressione islamista per rinforzare il carattere culturale e identitario di questi precetti non cesserà davvero in poco tempo. Molto potrà, quindi, il nuovo Consiglio islamico che dovrà trovare rapidamente una soluzione equilibrata. Certo non sarà facile: recentemente Le Monde ha pubblicato le lettere di due lettori che propongono non solo di eliminare tutte le festività religiose, ma di ripristinare anche il Calendario rivoluzionario con il «decadì» al posto della domenica!
E’ vero che i francesi sono, fra gli europei, il popolo che ha più forte il senso della nazione e della sua storia, ma, talvolta, un eccesso di senso del laicismo storico può far perdere l’altrettanto essenziale senso del ridicolo.
Maya Sansa, la protagonista di Buongiorno notte di Marco Bellocchio
La Gazzetta del Sud 22.6.03
Alla ventottenne attrice non basta il successo di «La meglio gioventù» di Marco Tullio Giordana
Maya Sansa, la nascita di una star
Ora è sul set del nuovo film di Marco Bellocchio sul caso Moro
Giovanni Bogani
FIRENZE – Ha gli occhi attenti, scuri di un cerbiatto in fuga. Ha le sopracciglia nere che sanno di Mediterraneo, di Italia. Ha Londra negli occhi, nel passato prossimo. Anni passati a studiare teatro, a imparare l'inglese, che parla come l'italiano. Ha un esordio fulminante, in tasca: con «La balia» di Marco Bellocchio, dove la sua bellezza bruciante e generosa appariva, per la prima volta, davanti agli occhi del pubblico italiano. Ha una manciata di film, adesso, che scandiscono il suo ritorno, la sua conferma. Maya Sansa, ventotto anni a settembre, è fra le protagoniste di «La meglio gioventù», il film-fiume – sei ore – di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale italiane, dopo aver vinto a Cannes la sezione «Un certain regard» e dopo aver inaugurato il Taormina Bnl FilmFest. È un film che potrebbe essere la grande sorpresa dell'anno. Uno di quei film che innescano fenomeni di passione. La storia italiana recente raccontata in 360 minuti di cinema ad alta densità di emozione. Qualcosa che potrebbe assomigliare a «Novecento» di Bertolucci o a «Heimat», la bellissima avventura cinematografica sulla storia tedesca. Ma Maya ha negli occhi altri tre film: uno dei quali con Marco Bellocchio, il regista che l'ha scoperta nel 1999. E ha anche, nel passato recente, l'avventura di un film praticamente mai uscito, anche se all'estero sta avendo successo: «Benzina» di Monica Stambrini. Perché in Italia una storia omosessuale al femminile ancora viene guardata male e non trova spazio, solidarietà, rispetto. Ma andiamo con ordine. E il presente è la felicità di questo piccolo lungo film, «La meglio gioventù». Nato per la televisione, poi felicemente trasmigrato al cinema, e addirittura vincitore a Cannes.
– Maya, prima di tutto, che cosa ti aveva affascinato del progetto di Marco Tullio Giordana? «Io sono affascinata dai film-fiume: "Heimat", il film sulla storia tedesca, lo considero un capolavoro. C'è un momento, al cinema, passato il quale potresti rimanere sulla poltrona un giorno intero, e quando esci fuori dici: peccato, è già finito. Perché sei riuscito a entrare dentro un mondo, vivi il mondo dei film».
– Della storia che cosa ti piaceva? «Il rispetto enorme per tutti i personaggi: ognuno viene compreso nelle sue difficoltà. E mi sembra un risultato di grande maturità, guardare è la nostra storia senza scrivere i buoni e i cattivi alla lavagna. Anche il mio personaggio, Mirella, è uno che osserva, che cerca di posare lo sguardo sugli altri, ma senza giudicarli».
– «La meglio gioventù» è un esempio di tv di qualità. Perché il resto della tv non è così buono? «Per pigrizia. Per desiderio di sedurre le folle, di ipnotizzarle. Per l'uso di scorciatoie per far ridere e per far piangere. E poi, per i ritmi pazzeschi di lavoro. A volte si girano quaranta scene in un solo giorno: ma come si fa a lavorare così?».
– Per un film fortunato, uno che non ha avuto fortuna. «Benzina» di Monica Stambrini, dal romanzo di Elena Stancanelli, interpretato da te e da Regina Orioli, quasi non ha avuto distribuzione. Perché? «È una brutta storia: perché il film è stato venduto all'estero, lo hanno visto i miei amici a Londra, per esempio, e lo hanno amato. Ma in Italia, niente. Anzi: al festival di Torino lo hanno attaccato per i baci che ci scambiamo io e Regina nel film. Baci che, premetto, sono castissimi. Ma evidentemente, mentre al cinema l'omosessualità maschile è quasi di moda, una storia di omosessualità femminile sconvolge ancora tutti, provoca reazioni violente. Ci sono molte più barriere da superare per l'omosessualità femminile che per quella maschile».
– Altri due film ti vedono protagonista. Uno è quello di Fiorella Infascelli, «Il vestito da sposa», dove reciti insieme a Piera Degli Esposti... «È un film drammatico, in cui io sono una donna che vive una vita tranquilla, in campagna, fino a quando un evento improvviso stravolge l'esistenza di tutti i personaggi. Un altro film drammatico, me ne rendo conto. Ma che cosa ci devo fare? A me piacerebbe moltissimo fare una commedia, anzi: se qualcuno sta leggendo e ha scritto una commedia, mi piacerebbe leggerla... Il fatto è che in Italia, questa Italia che adoro, e dove sono ritornata dopo anni a Londra, vedono ancora la donna nel cinema o come figura tragica o come caricatura sexy. La commedia brillante, sottile, fatta di humour, dov'è?».
– L'altro film che hai appena finito di girare ti vede di nuovo con il regista che ti ha scoperta: Marco Bellocchio. «Sì. E non è che ci siamo sentiti in continuazione, in questi tre anni: così, sono rimasta stupita, e felice, quando Marco mi ha chiamata di nuovo. Il film si chiama "Buongiorno notte", e racconta – come sai – del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro. Di più, Bellocchio mi ha ordinato di non dire». Bellocchio, infatti, ha finito di girare il suo film su Moro nella più inaccessibile segretezza. Non un'intervista, non una visita sul set, non una fotografia. Chissà se è Maya Sansa a interpretare Anna, cioè Anna Laura Braghetti, la cosiddetta «vivandiera» del covo di via Montalcini dove fu tenuto Aldo Moro. E chissà come sarà, questo secondo film su Moro, dopo «Piazza delle cinque lune» di Renzo Martinelli, thriller controverso, fantapolitica e azione pura. Questo film, che potrebbe andare a Venezia, sarà diverso per sensibilità, stile, respiro. Un viaggio quasi intimista nelle psicologie, nei gesti quotidiani, nei pensieri, nelle paure dei carcerieri di Moro. E qui, la sensibilità, l'intuito, la ricchezza espressiva di Maya Sansa giocheranno un ruolo importantissimo. Disse Bellocchio mentre rinifiva il copione: «Voglio scavare nel groviglio di sentimenti che si cela in un gruppo di giovani che ha compiuto azioni gravi come un sequestro di persona in nome di un'ideologia, di una fede». Lei dovrà raccontare, con gli occhi bellissimi, questo sgomento, questo disorientamento, questo esser presa in un gioco più grande di lei. Il titolo del film di Bellocchio è preso in prestito a una poesia di Emily Dickinson: «Buongiorno notte / sto tornando a casa / Il giorno si è stancato di me / Come potrei io di lui?». Ed è ovviamente una riflessione personale del regista, che da giovane, cioè negli anni di piombo, militò nell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti, sposandone l'infatuazione maoista. Un'autocritica tardiva, forse, per chi come lui sognava di vivere l'alba di una rivoluzione che non è mai arrivata. Se Maya è Anna, è il cuore di questo film, efficiente carceriera di Moro, fidanzata di Prospero Gallinari, leader Br, e dall'altro insospettabile ragazza chiamata a recitare la normalità del quotidiano: un ufficio al ministero, un lavoro, dei colleghi. Una doppia vita da mettere in scena: e Maya, che già di vite ne ha vissute due, una a Londra e una a Roma, vivrà in questi fotogrammi l'esame più duro. A ventotto anni, giocherà la partita più difficile, ed entusiasmante, della sua carriera. Roberto Herlitka, viso dolente tagliato dalle rughe, sarà Moro; Mario Moretti, il capo dei brigatisti rossi, sullo schermo avrà il viso intenso e vitale di Luigi Lo Cascio.
Alla ventottenne attrice non basta il successo di «La meglio gioventù» di Marco Tullio Giordana
Maya Sansa, la nascita di una star
Ora è sul set del nuovo film di Marco Bellocchio sul caso Moro
Giovanni Bogani
FIRENZE – Ha gli occhi attenti, scuri di un cerbiatto in fuga. Ha le sopracciglia nere che sanno di Mediterraneo, di Italia. Ha Londra negli occhi, nel passato prossimo. Anni passati a studiare teatro, a imparare l'inglese, che parla come l'italiano. Ha un esordio fulminante, in tasca: con «La balia» di Marco Bellocchio, dove la sua bellezza bruciante e generosa appariva, per la prima volta, davanti agli occhi del pubblico italiano. Ha una manciata di film, adesso, che scandiscono il suo ritorno, la sua conferma. Maya Sansa, ventotto anni a settembre, è fra le protagoniste di «La meglio gioventù», il film-fiume – sei ore – di Marco Tullio Giordana, uscito nelle sale italiane, dopo aver vinto a Cannes la sezione «Un certain regard» e dopo aver inaugurato il Taormina Bnl FilmFest. È un film che potrebbe essere la grande sorpresa dell'anno. Uno di quei film che innescano fenomeni di passione. La storia italiana recente raccontata in 360 minuti di cinema ad alta densità di emozione. Qualcosa che potrebbe assomigliare a «Novecento» di Bertolucci o a «Heimat», la bellissima avventura cinematografica sulla storia tedesca. Ma Maya ha negli occhi altri tre film: uno dei quali con Marco Bellocchio, il regista che l'ha scoperta nel 1999. E ha anche, nel passato recente, l'avventura di un film praticamente mai uscito, anche se all'estero sta avendo successo: «Benzina» di Monica Stambrini. Perché in Italia una storia omosessuale al femminile ancora viene guardata male e non trova spazio, solidarietà, rispetto. Ma andiamo con ordine. E il presente è la felicità di questo piccolo lungo film, «La meglio gioventù». Nato per la televisione, poi felicemente trasmigrato al cinema, e addirittura vincitore a Cannes.
– Maya, prima di tutto, che cosa ti aveva affascinato del progetto di Marco Tullio Giordana? «Io sono affascinata dai film-fiume: "Heimat", il film sulla storia tedesca, lo considero un capolavoro. C'è un momento, al cinema, passato il quale potresti rimanere sulla poltrona un giorno intero, e quando esci fuori dici: peccato, è già finito. Perché sei riuscito a entrare dentro un mondo, vivi il mondo dei film».
– Della storia che cosa ti piaceva? «Il rispetto enorme per tutti i personaggi: ognuno viene compreso nelle sue difficoltà. E mi sembra un risultato di grande maturità, guardare è la nostra storia senza scrivere i buoni e i cattivi alla lavagna. Anche il mio personaggio, Mirella, è uno che osserva, che cerca di posare lo sguardo sugli altri, ma senza giudicarli».
– «La meglio gioventù» è un esempio di tv di qualità. Perché il resto della tv non è così buono? «Per pigrizia. Per desiderio di sedurre le folle, di ipnotizzarle. Per l'uso di scorciatoie per far ridere e per far piangere. E poi, per i ritmi pazzeschi di lavoro. A volte si girano quaranta scene in un solo giorno: ma come si fa a lavorare così?».
– Per un film fortunato, uno che non ha avuto fortuna. «Benzina» di Monica Stambrini, dal romanzo di Elena Stancanelli, interpretato da te e da Regina Orioli, quasi non ha avuto distribuzione. Perché? «È una brutta storia: perché il film è stato venduto all'estero, lo hanno visto i miei amici a Londra, per esempio, e lo hanno amato. Ma in Italia, niente. Anzi: al festival di Torino lo hanno attaccato per i baci che ci scambiamo io e Regina nel film. Baci che, premetto, sono castissimi. Ma evidentemente, mentre al cinema l'omosessualità maschile è quasi di moda, una storia di omosessualità femminile sconvolge ancora tutti, provoca reazioni violente. Ci sono molte più barriere da superare per l'omosessualità femminile che per quella maschile».
– Altri due film ti vedono protagonista. Uno è quello di Fiorella Infascelli, «Il vestito da sposa», dove reciti insieme a Piera Degli Esposti... «È un film drammatico, in cui io sono una donna che vive una vita tranquilla, in campagna, fino a quando un evento improvviso stravolge l'esistenza di tutti i personaggi. Un altro film drammatico, me ne rendo conto. Ma che cosa ci devo fare? A me piacerebbe moltissimo fare una commedia, anzi: se qualcuno sta leggendo e ha scritto una commedia, mi piacerebbe leggerla... Il fatto è che in Italia, questa Italia che adoro, e dove sono ritornata dopo anni a Londra, vedono ancora la donna nel cinema o come figura tragica o come caricatura sexy. La commedia brillante, sottile, fatta di humour, dov'è?».
– L'altro film che hai appena finito di girare ti vede di nuovo con il regista che ti ha scoperta: Marco Bellocchio. «Sì. E non è che ci siamo sentiti in continuazione, in questi tre anni: così, sono rimasta stupita, e felice, quando Marco mi ha chiamata di nuovo. Il film si chiama "Buongiorno notte", e racconta – come sai – del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro. Di più, Bellocchio mi ha ordinato di non dire». Bellocchio, infatti, ha finito di girare il suo film su Moro nella più inaccessibile segretezza. Non un'intervista, non una visita sul set, non una fotografia. Chissà se è Maya Sansa a interpretare Anna, cioè Anna Laura Braghetti, la cosiddetta «vivandiera» del covo di via Montalcini dove fu tenuto Aldo Moro. E chissà come sarà, questo secondo film su Moro, dopo «Piazza delle cinque lune» di Renzo Martinelli, thriller controverso, fantapolitica e azione pura. Questo film, che potrebbe andare a Venezia, sarà diverso per sensibilità, stile, respiro. Un viaggio quasi intimista nelle psicologie, nei gesti quotidiani, nei pensieri, nelle paure dei carcerieri di Moro. E qui, la sensibilità, l'intuito, la ricchezza espressiva di Maya Sansa giocheranno un ruolo importantissimo. Disse Bellocchio mentre rinifiva il copione: «Voglio scavare nel groviglio di sentimenti che si cela in un gruppo di giovani che ha compiuto azioni gravi come un sequestro di persona in nome di un'ideologia, di una fede». Lei dovrà raccontare, con gli occhi bellissimi, questo sgomento, questo disorientamento, questo esser presa in un gioco più grande di lei. Il titolo del film di Bellocchio è preso in prestito a una poesia di Emily Dickinson: «Buongiorno notte / sto tornando a casa / Il giorno si è stancato di me / Come potrei io di lui?». Ed è ovviamente una riflessione personale del regista, che da giovane, cioè negli anni di piombo, militò nell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti, sposandone l'infatuazione maoista. Un'autocritica tardiva, forse, per chi come lui sognava di vivere l'alba di una rivoluzione che non è mai arrivata. Se Maya è Anna, è il cuore di questo film, efficiente carceriera di Moro, fidanzata di Prospero Gallinari, leader Br, e dall'altro insospettabile ragazza chiamata a recitare la normalità del quotidiano: un ufficio al ministero, un lavoro, dei colleghi. Una doppia vita da mettere in scena: e Maya, che già di vite ne ha vissute due, una a Londra e una a Roma, vivrà in questi fotogrammi l'esame più duro. A ventotto anni, giocherà la partita più difficile, ed entusiasmante, della sua carriera. Roberto Herlitka, viso dolente tagliato dalle rughe, sarà Moro; Mario Moretti, il capo dei brigatisti rossi, sullo schermo avrà il viso intenso e vitale di Luigi Lo Cascio.
Repubblica di Napoli: ancora sull'elettroshock (4)
La Repubblica, ed. di Napoli 22.6.03
I centri
(citato al seminario)
Delle 52 università italiane l'elettroshock si effettua all'ospedale San Raffaele di Milano (professor Enrico Smeraldi), all'università di Pisa (professor Giovanni Cassano) e nell'Ateneo romano della Sapienza (professor Paolo Pancheri)
Le polemiche sull´elettroshock rilanciano il dramma delle famiglie: "Li chiamano matti, ma nessuno ci aiuta davvero"
L´inferno dei malati invisibili
Un medico rompe il fronte del no: "Io ne ho fatti a migliaia"
Mastronardi: "Niente attacchi ipocriti, conosco molte cliniche private dove si pratica"
di Giantomaso De Matteis
«La fanno qui, la fanno altrove, dappertutto. A mio fratello gli hanno applicato più di una volta gli ellettrodi alla testa. Soffriva di crisi depressive. Da allora nemmeno mio padre è quello di prima». Più di un´applicazione per M., che adesso ha 30 anni e vive nel quartiere Arenella. Gliene fecero tre di elettroshock. La famiglia era stretta nella morsa della paura, per la storia di Carlo Rellini che ci morì, a soli 19 anni, dopo una scarica elettrica da 100 volts. A quella famiglia, dopo anni, un tribunale gli ha ridato giustizia, non più Carlo. Quello che invece non dà la sanità (anche privata) e le istituzioni alle famiglie che i «malati di mente» se li tiene tra le mura domestiche (perché a volte la vergogna è troppa), o nei pochi metri quadrati di una casa di cura (perché le «crisi» diventano insopportabili) è un lunga lista di attesa e un muro di indifferenza: schiaffi sonori per chi nell´inferno ci vive già. Li chiamano matti, diciamo che sono «disagiati». E se la legge Basaglia sbarrò le porte delle vecchie strutture e ne mise in libertà in Campania 566 (ai quali se ne sono aggiunti altri 211 di nuova utenza) la somma dei 777 nei «manicomi» ci vive ancora (oggi, denunciano familiari e associazioni si chiamano Sir, Strutture Intermedie residenziali). Per non parlare delle «case» private (e abusive), una quarantina in tutto, sparse tra il giuglianese e la zona flegrea, destinate agli anziani dove però ci ricoverano i «disagiati» (ricordate la San Vincenzo di Lettere? Su 330 degenti 300 erano malati di mente) e delle case di cura convenzionate, una quindicina per mille malati. Per finire agli ospedali psichiatrici giudiziari, quello napoletano di Sant´Eframo e quello di Aversa. Dove, racconta Franco Maranta componente Prc della commissione Sanità alla Regione, i degenti sono addirittura legati ai letti: «In 20 anni non è cambiato nulla». Altro che elettroshock. Già, dietro il trattamento elettroconvulsivante e il suo contestato ritorno dopo 30 anni non c´è solo chi come il professor Pasquale Mastronardi rompe il fronte del no e rivela a Repubblica: «In questi ho fatto migliaia di applicazioni, ma non chiedetemi i nomi delle cliniche private. Non c´è nulla di illegale, né di scandaloso: il Tec fa parte della terapia ufficiale, è una pratica corrente, di tutta tranquillità e avvalorata dalle più prestigiose riviste internazionali. Mi infastidisce che ci sia gente, anche colleghi, che sparano sentenze senza sapere». Ma dietro l´elettroshock c´è anche l´inferno di chi, come mamma Marisa, di figli disagiati ne ha tre: Aurelio, 33 anni, schizofrenico di tipo paranoico, Francesco di 20 e Barbara di 35. «La cosa che più mi ferisce? L´indifferenza delle istituzioni e l´insensibilità. Di fronte ad alcune mie richieste mi hanno addirittura denunciato». Non ce li porterà i figli, in quei centri («parcheggi dimenticati, luoghi di sopravvivenza dove ti senti impotente»). Figurarsi quando ci sei costretto a fare le odissee negli ospedali che «non scegli», come racconta Ivana. «Se non accetti la terapia ti sottopongono al Trattamento Sanitario Obbligatorio nella più vicina struttura dove c´è posto: ci trovi il girone delle vite spezzate». Quello che manca? «Un piano concreto e scelte prioritarie a fronte dei ritardi e della confusione», denuncia Franco Daniele, presidente onorario dell´Afasp (Associazione familiari e amici sofferenti psichici). «Servizi, strutture, personale specializzato e risorse». E invece? «Invece in violazione alla Finanziaria 2001 che prevedeva dei benefici a favore dei disagiati dopo la vendita del «Bianchi», la Regione ha dato la concessione gratuita dei beni al secondo Ateneo. Nonostante una sentenza del Tar». Dietro il calvario di questi «uomini» invisibili batte cassa il mercato degli psicofarmaci («Basta imbottirli di cocktail e molecole che calmano, correggono», osserva Maranta), terapie Vsn per depressi e Tec. E al clamore delle dispute tra le diverse scuole di psichiatria loro, gli «abbandonati», preferiscono il silenzio dei «nuovi» manicomi.
L'appello
Maranta alla Tufano: "Intervieni"
Francesco Maranta, componente della commissione regionale Sanità per Rifondazione comunista, ha scritto all´assessore Rosalba Tufano affinché il professor Muscettola, che ha utilizzato l´elettroshock per un giovane paziente. «Una delle terapie più nefaste che la psichiatria abbia mai potuto elaborare. È necessario – afferma Maranta – un incontro istituzionale in cui possano confrontarsi le voci più autorevoli del pensiero psichiatrico».
Il libro bianco
La situazione in Campania sull'assistenza pubblica e privata: destinato il 5% dell´intero bilancio della spesa sanitaria
La mappa della sofferenza "Fondi distribuiti male..."
I dati del 2002: in tutta la regione almeno tre i casi gravi ogni 10mila abitanti. Il caso del Progetto Obiettivo fermo da anni
di Patrizia Capua
Prima di questa indagine, si pensava che la cura della malattia mentale fosse il punto più debole della sanità in Campania. Sullo sfondo i drammi dei sofferenti psichici che devono fare i conti con le carenze delle strutture sul territorio, il senso di abbandono, le richieste inevase dei familiari. La pazzia in Campania si può quantificare in tre casi gravi ogni 10 mila abitanti.
Il Libro bianco datato gennaio 2002, fotografia dell´assistenza scattata dalla commissione regionale presieduta dallo psichiatra Franco Rotelli, per anni braccio destro di Franco Basaglia, costringe quanto meno ad una correzione di rotta. Anche se il Progetto Obiettivo dorme da almeno tre anni.
Le risorse per la salute mentale, personale e fondi, dunque sono più di quanto si creda. Per i finanziamenti c´è il 5 per cento dell´intero bilancio destinato alla spesa sanitaria. È ancora in corso, però, l´indagine sulle cliniche private, circa 12 in regione, una sorta di «mondo a parte», fuori controllo. Quelle dove è facile che capiti il medico pronto all´elettroshock. Contro questa «barbara» pratica Francesco Maranta, consigliere di Rifondazione, ha chiesto un incontro con l´assessore alla Sanità, Tufano. Emilio Lupo, portavoce di Psichiatria democratica campana lancia un appello per la «centralità dei diritti e la dignità della persona».
Risorse sì, ma male organizzate e anche distribuite in modo «asimmetrico». Nei 13 dipartimenti di salute mentale (uno per Asl) della Campania lavorano 3153 persone, pari a 1 per 1860 cittadini, altri 72 sono negli Spdc (servizi ospedalieri regionali e policlinici). «Male utilizzati» spiega Walter Di Munzio, primario psichiatra della Asl Salerno 1, Unità operativa di Nocera, che ha lavorato alla redazione del Libro bianco, «il rapporto operatore-abitante è stabilito dalla legge 34 in numero di uno per 1500. Dall´indagine risulta che nell´Asl Napoli 3 c´è un operatore ogni 5017 abitanti mentre a Salerno 3 o a Caserta 2 le distanze rispettano la media. Sul fronte dei servizi, quelli della Napoli 3 sono scadenti mentre la qualità migliora a Salerno, che ha ereditato il personale specializzato dei manicomi chiusi di Materdomini e Vittorio Emanuele III. La gestione della malattia mentale in una città come Napoli, presenta, secondo gli esperti, notevoli difficoltà.
I posti letto pubblici, invece sono pochi. Il Libro bianco ha censito tutte le strutture: centri di assistenza, ambulatori ospedalieri di diagnosi e cura, residenze, day hospital e centri diurni. In Campania i posti letto nelle 64 residenze (sir, create sulla scia della chiusura dei manicomi) sono 816, cioé 1,5 per ogni 10 mila abitanti, la metà della media nazionale. I posti letto nelle Asl sono appena 216 più 33 nei tre policlinici e hanno un tasso di saturazione del 90 per cento. Un ricovero non dura mai meno di un mese e mezzo.
Perciò sono importanti i 61 posti nei «centri di crisi» previsti nei Dipartimenti di salute mentale: grazie a queste strutture spesso si riesce ad evitare al paziente l´approdo in ospedale. «Pensavamo non ci fossero – osserva Di Munzio – invece il 36 per cento dei centri ne ha uno». Per l´attività di riabilitazione giocano un ruolo di rilievo anche i centri diurni: la Campania ne ha ben 819, e 107 day hospital. Bene anche le attività non obbligatorie: dalla cura dell´anoressia alla difesa dal mobbing.
I centri
(citato al seminario)
Delle 52 università italiane l'elettroshock si effettua all'ospedale San Raffaele di Milano (professor Enrico Smeraldi), all'università di Pisa (professor Giovanni Cassano) e nell'Ateneo romano della Sapienza (professor Paolo Pancheri)
Le polemiche sull´elettroshock rilanciano il dramma delle famiglie: "Li chiamano matti, ma nessuno ci aiuta davvero"
L´inferno dei malati invisibili
Un medico rompe il fronte del no: "Io ne ho fatti a migliaia"
Mastronardi: "Niente attacchi ipocriti, conosco molte cliniche private dove si pratica"
di Giantomaso De Matteis
«La fanno qui, la fanno altrove, dappertutto. A mio fratello gli hanno applicato più di una volta gli ellettrodi alla testa. Soffriva di crisi depressive. Da allora nemmeno mio padre è quello di prima». Più di un´applicazione per M., che adesso ha 30 anni e vive nel quartiere Arenella. Gliene fecero tre di elettroshock. La famiglia era stretta nella morsa della paura, per la storia di Carlo Rellini che ci morì, a soli 19 anni, dopo una scarica elettrica da 100 volts. A quella famiglia, dopo anni, un tribunale gli ha ridato giustizia, non più Carlo. Quello che invece non dà la sanità (anche privata) e le istituzioni alle famiglie che i «malati di mente» se li tiene tra le mura domestiche (perché a volte la vergogna è troppa), o nei pochi metri quadrati di una casa di cura (perché le «crisi» diventano insopportabili) è un lunga lista di attesa e un muro di indifferenza: schiaffi sonori per chi nell´inferno ci vive già. Li chiamano matti, diciamo che sono «disagiati». E se la legge Basaglia sbarrò le porte delle vecchie strutture e ne mise in libertà in Campania 566 (ai quali se ne sono aggiunti altri 211 di nuova utenza) la somma dei 777 nei «manicomi» ci vive ancora (oggi, denunciano familiari e associazioni si chiamano Sir, Strutture Intermedie residenziali). Per non parlare delle «case» private (e abusive), una quarantina in tutto, sparse tra il giuglianese e la zona flegrea, destinate agli anziani dove però ci ricoverano i «disagiati» (ricordate la San Vincenzo di Lettere? Su 330 degenti 300 erano malati di mente) e delle case di cura convenzionate, una quindicina per mille malati. Per finire agli ospedali psichiatrici giudiziari, quello napoletano di Sant´Eframo e quello di Aversa. Dove, racconta Franco Maranta componente Prc della commissione Sanità alla Regione, i degenti sono addirittura legati ai letti: «In 20 anni non è cambiato nulla». Altro che elettroshock. Già, dietro il trattamento elettroconvulsivante e il suo contestato ritorno dopo 30 anni non c´è solo chi come il professor Pasquale Mastronardi rompe il fronte del no e rivela a Repubblica: «In questi ho fatto migliaia di applicazioni, ma non chiedetemi i nomi delle cliniche private. Non c´è nulla di illegale, né di scandaloso: il Tec fa parte della terapia ufficiale, è una pratica corrente, di tutta tranquillità e avvalorata dalle più prestigiose riviste internazionali. Mi infastidisce che ci sia gente, anche colleghi, che sparano sentenze senza sapere». Ma dietro l´elettroshock c´è anche l´inferno di chi, come mamma Marisa, di figli disagiati ne ha tre: Aurelio, 33 anni, schizofrenico di tipo paranoico, Francesco di 20 e Barbara di 35. «La cosa che più mi ferisce? L´indifferenza delle istituzioni e l´insensibilità. Di fronte ad alcune mie richieste mi hanno addirittura denunciato». Non ce li porterà i figli, in quei centri («parcheggi dimenticati, luoghi di sopravvivenza dove ti senti impotente»). Figurarsi quando ci sei costretto a fare le odissee negli ospedali che «non scegli», come racconta Ivana. «Se non accetti la terapia ti sottopongono al Trattamento Sanitario Obbligatorio nella più vicina struttura dove c´è posto: ci trovi il girone delle vite spezzate». Quello che manca? «Un piano concreto e scelte prioritarie a fronte dei ritardi e della confusione», denuncia Franco Daniele, presidente onorario dell´Afasp (Associazione familiari e amici sofferenti psichici). «Servizi, strutture, personale specializzato e risorse». E invece? «Invece in violazione alla Finanziaria 2001 che prevedeva dei benefici a favore dei disagiati dopo la vendita del «Bianchi», la Regione ha dato la concessione gratuita dei beni al secondo Ateneo. Nonostante una sentenza del Tar». Dietro il calvario di questi «uomini» invisibili batte cassa il mercato degli psicofarmaci («Basta imbottirli di cocktail e molecole che calmano, correggono», osserva Maranta), terapie Vsn per depressi e Tec. E al clamore delle dispute tra le diverse scuole di psichiatria loro, gli «abbandonati», preferiscono il silenzio dei «nuovi» manicomi.
L'appello
Maranta alla Tufano: "Intervieni"
Francesco Maranta, componente della commissione regionale Sanità per Rifondazione comunista, ha scritto all´assessore Rosalba Tufano affinché il professor Muscettola, che ha utilizzato l´elettroshock per un giovane paziente. «Una delle terapie più nefaste che la psichiatria abbia mai potuto elaborare. È necessario – afferma Maranta – un incontro istituzionale in cui possano confrontarsi le voci più autorevoli del pensiero psichiatrico».
Il libro bianco
La situazione in Campania sull'assistenza pubblica e privata: destinato il 5% dell´intero bilancio della spesa sanitaria
La mappa della sofferenza "Fondi distribuiti male..."
I dati del 2002: in tutta la regione almeno tre i casi gravi ogni 10mila abitanti. Il caso del Progetto Obiettivo fermo da anni
di Patrizia Capua
Prima di questa indagine, si pensava che la cura della malattia mentale fosse il punto più debole della sanità in Campania. Sullo sfondo i drammi dei sofferenti psichici che devono fare i conti con le carenze delle strutture sul territorio, il senso di abbandono, le richieste inevase dei familiari. La pazzia in Campania si può quantificare in tre casi gravi ogni 10 mila abitanti.
Il Libro bianco datato gennaio 2002, fotografia dell´assistenza scattata dalla commissione regionale presieduta dallo psichiatra Franco Rotelli, per anni braccio destro di Franco Basaglia, costringe quanto meno ad una correzione di rotta. Anche se il Progetto Obiettivo dorme da almeno tre anni.
Le risorse per la salute mentale, personale e fondi, dunque sono più di quanto si creda. Per i finanziamenti c´è il 5 per cento dell´intero bilancio destinato alla spesa sanitaria. È ancora in corso, però, l´indagine sulle cliniche private, circa 12 in regione, una sorta di «mondo a parte», fuori controllo. Quelle dove è facile che capiti il medico pronto all´elettroshock. Contro questa «barbara» pratica Francesco Maranta, consigliere di Rifondazione, ha chiesto un incontro con l´assessore alla Sanità, Tufano. Emilio Lupo, portavoce di Psichiatria democratica campana lancia un appello per la «centralità dei diritti e la dignità della persona».
Risorse sì, ma male organizzate e anche distribuite in modo «asimmetrico». Nei 13 dipartimenti di salute mentale (uno per Asl) della Campania lavorano 3153 persone, pari a 1 per 1860 cittadini, altri 72 sono negli Spdc (servizi ospedalieri regionali e policlinici). «Male utilizzati» spiega Walter Di Munzio, primario psichiatra della Asl Salerno 1, Unità operativa di Nocera, che ha lavorato alla redazione del Libro bianco, «il rapporto operatore-abitante è stabilito dalla legge 34 in numero di uno per 1500. Dall´indagine risulta che nell´Asl Napoli 3 c´è un operatore ogni 5017 abitanti mentre a Salerno 3 o a Caserta 2 le distanze rispettano la media. Sul fronte dei servizi, quelli della Napoli 3 sono scadenti mentre la qualità migliora a Salerno, che ha ereditato il personale specializzato dei manicomi chiusi di Materdomini e Vittorio Emanuele III. La gestione della malattia mentale in una città come Napoli, presenta, secondo gli esperti, notevoli difficoltà.
I posti letto pubblici, invece sono pochi. Il Libro bianco ha censito tutte le strutture: centri di assistenza, ambulatori ospedalieri di diagnosi e cura, residenze, day hospital e centri diurni. In Campania i posti letto nelle 64 residenze (sir, create sulla scia della chiusura dei manicomi) sono 816, cioé 1,5 per ogni 10 mila abitanti, la metà della media nazionale. I posti letto nelle Asl sono appena 216 più 33 nei tre policlinici e hanno un tasso di saturazione del 90 per cento. Un ricovero non dura mai meno di un mese e mezzo.
Perciò sono importanti i 61 posti nei «centri di crisi» previsti nei Dipartimenti di salute mentale: grazie a queste strutture spesso si riesce ad evitare al paziente l´approdo in ospedale. «Pensavamo non ci fossero – osserva Di Munzio – invece il 36 per cento dei centri ne ha uno». Per l´attività di riabilitazione giocano un ruolo di rilievo anche i centri diurni: la Campania ne ha ben 819, e 107 day hospital. Bene anche le attività non obbligatorie: dalla cura dell´anoressia alla difesa dal mobbing.
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