Nello studio, che ha coinvolto sette centri italiani, ed è stato appena pubblicato sulla prestigiosa rivista
Neuroimage, le aree cerebrali individuate sono state cinque. E precisamente: l'ipotalamo (una struttura dell'area limbica, la zona più "antica" del cervello, presente anche negli mammiferi e situata nel cuore dell'encefalo), l'insula e l'area somato-sensoriale secondaria (poste nella parte inferiore dei lobi parietali all'altezza dei padiglioni auricolari), il cingolato anteriore (situato nella parte interna dei lobi frontali) e l'amigdala (localizzata nella parte interna dei lobi temporali, vedi disegni a pag. 9) che entrano in gioco seguendo una particolare dinamica cronologica. Già si sapeva, da numerosi studi eseguiti in precedenza sia su modelli animali che sull'uomo, che la corteccia orbito-frontale, disposta sotto la fronte e le tempie e vicina ai nervi ottici, e i lobi parietali, che occupano la superficie del cervello, hanno un ruolo nell’attivare le componenti immaginativa e razionale richieste dal rapporto sessuale.
Una prima ricerca in merito, pubblicata su
Human Brain Mapping nel 2002, e svolta su un campione misto di maschi e femmine sottoposti a Risonanza funzionale durante la visione di brevi filmati erotici, aveva mostrato che le aree cerebrali attivate - durante il momento dell’amplesso - erano molte, circa una quarantina, di cui solo una, e precisamente l'ipotalamo, aumentava la sua funzionalità negli uomini e non nelle donne, facendo ipotizzare un suo ruolo fondamentale nei meccanismi dell'erezione. Un secondo studio, pubblicato su Brain nello stesso anno ed effettuato su un gruppo di uomini eterosessuali che avevano eseguito una Risonanza funzionale, aveva ridotto il numero delle possibili zone cerebrali coinvolte, portandolo da quaranta a venti, ma aveva lasciato aperti ancora tanti interrogativi. Le aree individuate sottendevano realmente i processi fisiologici dell'erezione e del suo mantenimento o prendevano parte a un generale aumento dell'emotività e dell'attenzione?
Il merito dello studio appena pubblicato su
Neuroimage - frutto della collaborazione di numerose équipe italiane all'avanguardia nel settore dell'imaging funzionale del cervello - è proprio quello di aver costruito una mappa funzionale del cervello durante un rapporto sessuale, di aver ulteriormente circoscritto le aree principalmente coinvolte a un numero di 5 e di aver assegnato a ciascuna di esse la sua funzione e la sua temporaneità.
L’esperimento«Arrivare a questo risultato non è stato semplice» spiega Gian Luca Romani, direttore dell’Istituto di tecnologie avanzate biomediche,
Fondazione "Università G.D'Annunzio" di Chieti. «Un'équipe di venti ricercatori ha selezionato 10 uomini eterosessuali sani, senza disturbi psicologici e disordini della personalità, di età tra 25 e 45 anni; ha applicato un piccolo misuratore di pressione, privo di campo magnetico, al loro pene e un casco sulla loro testa connesso alla Risonanza funzionale capace di visualizzare l'attività delle diverse aree cerebrali e li ha sottoposti a due diverse stimolazioni».
La prima riguardava la visione di brevi filmati a contenuto erotico, neutro e sportivo, trasmessi per 6 volte di seguito con una sequenza preordinata in modo che le scene di rugby e di football e quelle inerenti a persone che passeggiavano precedessero sempre i video clips che proponevano un amplesso e azzerassero il coinvolgimento fisico ed emotivo provocato da un interesse di tipo sessuale. La seconda si basava sulla proiezione per 3 secondi di 40 immagini erotiche alternate in modo casuale a 40 a contenuto sportivo.
I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come l'erezione e il suo mantenimento si verificassero solo durante l'osservazione dei filmati erotici e non durante la visione di immagini. Sottraendo le zone cerebrali attivate nella visione dei video clips da quelle entrate in funzione con la proiezione delle diapositive, che provocavano solo un coinvolgimento emozionale generale, si sono pertanto identificate le aree maggiormente impegnate nell'eccitamento sessuale e la loro sequenza temporale» chiarisce Paolo Maria Rossini, professore di Neurologia all'Università Campus Biomedico di Roma.
Sequenza temporale«Si è dimostrato che l'ipotalamo - quella sorta di centralina di smistamento delle funzioni del nostro organismo che stimola la produzione di numerosi ormoni, regola il ciclo sonno-veglia, mantiene la temperatura corporea e controlla il sistema cardio-circolatorio vegetativo - predispone l'individuo al rapporto sessuale e si attiva nella fase iniziale dell'erezione» continua il neurologo.
«Il cingolato anteriore - che è anche sede di processamento delle sensazioni sensoriali - concentra l'attenzione sul partner ed entra in funzione nella parte centrale dell'eccitamento sessuale e nel suo mantenimento. L’amigdala - che genera gran parte delle nostre emozioni - l'insala - che coordina il linguaggio, i movimenti e l'equilibrio - e l'area sommato-sensoriale secondaria, centro delle sensazioni tattili e somatiche connesse a emozioni ed attenzione,, hanno invece un ruolo crescente nel rapporto sessuale durante le fasi di mantenimento dell'erezione».
GIANNA SCHELOTTO psicoterapeuta della coppia:Ogni volta che si devono affrontare territori sconosciuti, di solito ci si munisce di una mappa che indichi tutte le caratteristiche del posto che si sta per attraversare e che ne renda prevedibili i passaggi. Ciò vale anche per i luoghi della mente e l'esistenza di un percorso già tracciato sembra tanto più utile e rassicurante quanto più ci si trova di fronte ad esperienze emotive forti. La sessualità, proprio perché impegna il corpo e la mente, è da sempre oggetto di ricerca e fonte di inquietudini. Non è facile svelarne i segreti, proprio perché certi impedimenti amorosi sembrano nascere dalla difficoltà di accordare gli stimoli corporei esterni con le misteriose e inafferrabili tensioni interne. L'idea di poter tradurre i processi psichici che governano la passione d'amore in termini di funzionamento cerebrale è un sogno antico di medici, psicologi e scienziati. Le cosiddette "localizzazioni cerebrali" e cioè la possibilità di attribuire comportamenti ed emozioni a precise aree del cervello sono state salutate, nel secolo scorso, come un importante apporto scientifico alla conoscenza dell'uomo e dei suoi problemi. Negli ultimi decenni poi, le straordinarie acquisizioni diagnostiche, hanno reso più raffinato e valido il reperimento delle zone deputate a certe funzioni e gli interventi terapeutici che ne derivano. Minuto per minuto
Ma ciò che è nuovo e originale nello studio pubblicato da
Neuroimage è che sia stata individuata una sequenza e cioè che si possa monitorare, minuto per minuto, ogni fremito e ogni possibile impasse del un rapporto sessuale. Queste nuove acquisizioni permetteranno di sapere esattamente dove e come intervenire a seconda che il problema riguardi la tensione, l'attività motoria o la cessazione della tensione e cioè l'eccitazione, l'atto sessuale in sé, e l'orgasmo. Gli orizzonti aperti forniscono stimoli inediti per la ricerca in sessuologia. Resta però - ed è in questo forse che risiedono fascino e mistero della sessualità - il fatto che nel passaggio dal pensiero all'atto l'energia psichica (o l'attrazione per l'oggetto del desiderio) si carica di pensieri, di ricordi, di fantasie e crea quelle rappresentazioni mentali che possono promuovere o impacciare il libero fluire dello slancio amoroso. In altri termini, in qualsiasi zona si vogliano collocare i fasti e le cadute della sessualità, c'è sempre il rischio di qualche variabile "indisciplinata" che vada per suo conto, saltando i passaggi codificati. Le donne, per esempio, che, secondo alcuni sono variabili per natura e indisciplinate per scelta, in quale zona degli intricati percorsi maschili troverebbero posto?
Le aspettative degli scienziati sono grosse: si tratta infatti di uno studio che promette di aprire le porte ai segreti dei fattori genetici coinvolti in numerose patologie. Perché essere rimasti per secoli arroccati sulle montagne ha reso i valligiani un po’ speciali, come spiega la professoressa Daniela Toniolo del DIBIT-San Raffaele, responsabile del progetto: «la Val Borbera è uno dei tanti luoghi italiani isolati geograficamente: il nostro Paese, per la sua conformazione, è ricco di aree di difficile accesso che per secoli sono rimaste in pratica isolate dal resto del mondo. Gli abitanti costituiscono comunità chiuse, che discendono spesso da poche famiglie originarie, ideali per studiare fattori di rischio genetici per diverse malattie: dal diabete all’ipertensione, dall’obesità all’aterosclerosi, dai tumori alle malattie psichiatriche. Tutte patologie multifattoriali, così chiamate perché vi contribuiscono molteplici fattori genetici e ambientali difficili da individuare nelle comunità aperte: il vantaggio delle popolazioni isolate è invece la grossa omogeneità genetica associata a stili di vita e condizioni ambientali pressoché uniformi per tutti». In parole povere, studiare queste persone significa ridurre al massimo il «rumore di fondo» delle innumerevoli interferenze (dovute all’ambiente e agli incroci genetici casuali) che si avrebbero valutando popolazioni libere di muoversi.
Dati anagraficiE quindi identificare meglio i geni coinvolti nelle malattie. «Dopo la ricostruzione delle parentele fra i partecipanti, possibile perché le parrocchie custodiscono dati relativi a nascite, matrimoni e morti fin dalla fine del 1500, si passa a valutare lo stato di salute degli abitanti con una visita medica, esami diagnostici e prelievi di sangue; quindi si analizza il DNA di ciascun soggetto e si correlano i dati ottenuti con la storia clinica. Se, ad esempio, troviamo che in tutti i diabetici una zona del genoma è simile andremo a cercare proprio lì i fattori di rischio genetico per questa malattia», chiarisce Toniolo.
Anziani«I cittadini della Val Borbera, essendo per lo più in età avanzata, potranno offrirci informazioni su patologie correlate all’età come l’osteoporosi, la menopausa precoce, l’ipertensione, le malattie cerebrovascolari e così via, ma anche su malattie che qui sembrano particolarmente diffuse come l’iperplasia tiroidea o alcune patologie psichiatriche. «Le comunità chiuse sono una risorsa inestimabile, ma dobbiamo affrettarci a studiarle», prosegue l’esperta. «Negli ultimi 50 anni molti abitanti se ne sono andati verso centri più popolosi o si sono comunque incrociati con individui provenienti da altre aree: grazie alla migliore accessibilità dei luoghi la segregazione genetica è e sarà sempre minore, anche in queste preziose "riserve" per la caccia ai geni coinvolti nello sviluppo delle più diverse malattie».
Perché vogliamo credere alla fortunaS econdo i due ricercatori, la prima distinzione da provare a fare è tra fortuna, probabilità e caso. «Sebbene esista una connessione tra questi termini, non è chiaro come siano in relazione tra di essi - affermano Pritchard e Smith. «Il caso sembra essere di pertinenza degli eventi, mentre la fortuna sembra appartenere all'individuo». L'esempio è quello di una frana, che può avvenire o non avvenire (il caso), colpire qualcuno o no (la fortuna).
Un altro aspetto caratteristico per la definizione di cos'è la fortuna è collegato alla sensazione di controllo. Più un avvenimento è considerato estraneo alle possibilità di controllo degli individui, più il suo verificarsi o non verificarsi viene attribuito alla fortuna.
SuccessoL'esempio più chiaro di cosa venga generalmente considerato "fortuna" è però quello relativo al successo di un individuo. Una persona viene considerata fortunata quando raggiunge il successo più che per propri meriti, per il fatto che condizioni ambientali estranee alle sua capacità, instabili e incontrollabili, lo hanno favorito nel suo percorso, sia spingendolo in avanti, sia evitando di contrastarlo. E secondo molti, la quota giocata dalla fortuna nell'accompagnare una persona al successo è un elemento fondamentale senza il quale nessuna capacità o impegno personali sarebbero sufficienti.
Fin qui non si è però tenuto conto del fatto che molte persone sono convinte realmente dell'esistenza della fortuna intesa come qualità specifica che starebbe "addossata" ad alcuni individui come loro precipua qualità. Una visione irrazionale, ma molto diffusa.
Altrettanto diffusa è la convinzione di poter in qualche modo facilitare la manifestazione di tale fortuna attraverso una serie di azioni propiziatorie.
Riti scaramanticiAnche la persona più cerebrale di questo mondo non si tira indietro all’idea di "toccare ferro" per allontanare una possibile minaccia, pur compiendo magari questo gesto come una specie di gioco.
Poi ci sono alcuni sottogruppi, come i giocatori di carte, che alla fortuna credono fermamente.
Pritchard e Smith riportano i risultati di uno studio su giocatori di blackjack, ai quali era stato chiesto di attribuire una percentuale al "peso" rispettivamente del "caso" e dell’"abilità" per vincere. La prima risposta è stata che le variabili da considerare avrebbero dovuto essere tre e non due, perché c'è anche la "fortuna". Quest'ultima è stata considerata dai giocatori di blackjack la variabile più importante, incidendo per il 45 per cento, seguita dall'abilità (37 per cento) e dal caso (18 per cento).
Tale concezione della fortuna può essere considerata una forma di pensiero irrazionale secondo il quale esisterebbe una misteriosa forza naturale che tenderebbe a influenzare gli eventi in favore del giocatore "fortunato".
Illusione Infine, un'ultima caratteristica psicologica della fortuna: la cosiddetta "illusione di controllo".
L'esistenza di tale illusione è stata verificata già parecchi anni fa da studi realizzati sui giocatori di dadi, molti dei quali attuano veri e propri rituali, come soffiare sui dadi, o modificano le modalità di lancio a seconda che "vogliano" ottenere un punteggio basso o un punteggio elevato.
Un comportamento che manifesta l'illusione di controllo su eventi per loro natura incontrollabili.
Tanto che chi vuole raggiungere il controllo sui dadi, da sempre sa che cosa deve fare: truccarli.
PersonalitàPiù sei ottimista più confidi nella buona sorteSecondo una visione razionale, la fortuna potrebbe essere definita come la capacità di essere aperti nei confronti delle opportunità e di relazionarsi in maniera costruttiva con gli altri. Al contrario, la sfortuna potrebbe essere definita come la predisposizione interiore negativa che genera un atteggiamento del tutto opposto. Questa visione della fortuna fa immediatamente pensare all'alternativa ottimismo/pessimismo, e in effetti c'è chi ha studiato la questione proprio da questa angolazione. Secondo Liza Day e John Maltby, psicologi inglesi rispettivamente dell'Università di Sheffield e di Leicester, chi crede nella fortuna intesa come caratteristica personale di alcuni individui affronta la vita con una sensazione di maggior fiducia e ottimismo. Non si tratta solo di una speculazione, ma del risultato di una ricerca realizzata su quasi 150 studenti ai quali sono stati somministrati diversi questionari e scale di valutazione psicologica per la rilevazione di indici quali l'ansia, la depressione, oltre, alla scala per individuare quanto una persona creda alla fortuna. «Il credere nella fortuna ha mostrato di avere una correlazione positiva con l'ottimismo e una correlazione negativa con la depressione e l'ansia» spiegano gli autori.