giovedì 13 gennaio 2005

la luce

da Tonino Scrimenti: «Grazie a Marcelo Conti per la segnalazione»

Il Messaggero 11 gennaio 2005
Studio dell'ateneo di Pristina
"La luce altera il DNA" Dubbi sui test.


Una nuova ricerca mette in dubbio l'affidabilità del test del DNA. Un team di scienziati dell'università di Pristina in un loro studio sostengono che "la luce è in grado di alterare completamente il DNA". Secondo gli studiosi, infatti, "il Dna sarebbe vulnerabile al bombardamento di elettroni ionizzati e cambia completamente quando è sottoposto a bombardamento di protoni ionizzati". La scoperta che la luce può alterare completamente il Dna arriva da tre ricercatori dell'accademia delle Scienze e delle Arti del Kosovo che hanno condotto uno studio con il contributo finanziario della UE, in collaborazione con l'università dell'Aquila. Lo studio pubblicato su "Science of Pristinas University", dimostra che "I quanti di energia fotonica influenzano la struttura del Dna molto di più di quella elettrostatica". E non solo.
Secondo i ricercatori, "l'energia prodotta da bombardamento di Protoni ionizzati è in grado di deformare la struttura originaria del Dna cambiandone del tutto i termini cromosomici originari".
A questo proposito i ricercatori dell'Università di Pristina stanno conducendo una serie di ulteriori sperimentazioni comparate.
"È la prima volta- afferma il biologo Radhit Maliqi coautore e coordinatore dello studio - che nell'ambito della moderna ricerca biogenetica si mettono a confronto due differenti induttori per la sperimentazione di un processo di chimica bio-molecolare, con il risultato che a mettere in discussione la totale veridicità del test è soltanto la luce". " È anche la prima volta- aggiunge Maliqi- che si sottopone il Dna di un bio-tessuto a bombardamento di energia luminosa o fotonica".
Gli scienziati Kosovari, inoltre, hanno scoperto che "l'influenzabilità del Dna presente nell'organismo vivente è direttamente proporzionale al'aumento del tempo cui sono sottoposti e che il processo di di trasformazione bio-chimica può anche essere istantaneo".
Da questo lavoro - sottolinea l'Università di Pristina - emerge che la struttura del Dna non è fissa nel tempo, in quanto potenzialmente condizionabilissima da fattori biologici e biochimici".


Adnkronos
DNA: SCOPERTA DELL'UNIVERSITÀ DI PRISTINA, LA LUCE PUÒ ALTERARLO
http://www.caltanet.it/article/view/101363/1/4/

Roma, 10 gen. - (Adnkronos) - Realizzata una nuova ricerca che confermerebbe dubbi sull'affidabilità del test del Dna. A realizzarla è stato un team di scienziati dell'Università di Pristina che in un loro studio sostengono che ''la luce è in grado di alterare completamente il Dna''. Secondo gli studiosi, infatti, il Dna sarebbe ''vulnerabile al bombardamento di elettroni ionizzati e cambia completamente quando sottoposto a bombardamento protoni ionizzati''. L'esperimento realizzato all'Università di Pristina segue una prima prova, i cui risultati sono stati diffusi lo scorso novembre, condotta mediante isolamento di elettroni.
(10.01.2005 09:00) Fonte: A cura di AdnKronos

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contro la legge governativa
La Consulta dà il via libera a 4 referendum su 5

Galileo Magazine 13.1.05
http://www.galileonet.it:80/Magazine/mag0502/0502_1.html

FECONDAZIONE ASSISTITA
La legge affonda

di Roberta Pizzolante

Quattro su cinque. Così ha deciso oggi la Corte Costituzionale sull'ammissibilità dei quesiti referendari abrogativi della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, promulgata il 19 febbraio scorso. Non supera l'esame il quesito di abrogazione totale proposto dai Radicali Italiani e dall'Associazione Luca Coscioni, mentre hanno via libera gli altri quattro di abrogazione parziale. Tre di questi mirano a cancellare quei passi della legge che vietano la fecondazione eterologa, che limitano la ricerca sugli embrioni e non tutelano la salute della donna, mentre il quarto chiede l'abrogazione dell'articolo 1, che sancisce i diritti del concepito. Sono serviti a poco, dunque, gli interventi in camera di consiglio dei sette comitati antireferendari schieratisi al fianco del governo nella tutela della legge.
"L'ammissibilità del nostro quesito di abrogazione dell'articolo 1 sui diritti del concepito fa venir meno l'impianto ideologico stesso della legge", commenta l'onorevole Maura Cossutta di Rifondazione Comunista. "Riconosciamo il valore dell'embrione ma i suoi diritti non possono prevaricare quelli della donna, la cui libertà di scelta e la cui salute non vanno messe in discussione". Meno contenti i radicali, che comunque esprimono pieno sostegno ai quesiti abrogativi parziali, dei quali sono stato co-promotori. Una vittoria giunta in anticipo, dunque, che apre una seconda fase della battaglia referendaria. L'unica possibilità che ora il governo ha di bloccare il referendum, infatti, spiega il senatore Ds Lanfranco Turci, è accettare le modifiche alla legge previste dai quattro quesiti.
Ma la battaglia contro la legge 40 si combatte anche sul fronte delle linee guida emesse dal Ministero della Salute per indicare a medici e operatori della sanità come mettere in pratica la norma. Il documento infatti è stato impugnato presso il Tar del Lazio, come hanno annunciato oggi i rappresentanti del Comitato "No alla legge 40" riuniti presso sala stampa di palazzo Montecitorio. A farlo Ivana e Roberto con il sostegno di varie associazioni di tutela dei malati e delle coppie infertili. Esse, infatti, con una ulteriore interpretazione restrittiva della legge, impediscono la diagnosi pre-impianto ammettendo solo quella osservazionale. Inutile però per la coppia: lei affetta da anemia drepanocitica, lui portatore sano di talassemia, hanno una probabilità del 50 per cento di trasmettere la malattia a un figlio. Un secondo ricorso contro le linee guida è stato presentato da tre centri di medicina della riproduzione (Demetra di Firenze, Cerva di Milano, Hera di Catania), sostenuti dalla Società Italiana di fertilità, sterilità e medicina della riproduzione (Sifes).
"Ci sono diversi punti di contrasto tra la legge e le linee guida", spiega Maria Paola Costantini, avvocato del Foro di Roma e consulente dell'Associazione Madre provetta. "Invece di dare indicazioni e chiarimenti, le linee rendono più complicata la comprensione della legge". Il testo, infatti, oltre a essere stato redatto da una commissione scelta autonomamente dal ministro senza avvalersi dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss) come invece previsto dalla legge, vieta ogni diagnosi pre-impianto salvo quella osservazionale, che però non fornisce informazioni sul corredo cromosomico ma solo sulle anomalie nell'aspetto e nello sviluppo. "Tutto il resto è considerato eugenetica. Così la donna è costretta a portare avanti la gravidanza e ricorrere in seguito a un'interruzione. La legge invece non vieta l'analisi genetica", continua Costantini, "Inoltre nelle linee guida si dice che il trasferimento dell'embrione non è coercibile, mentre nella legge troviamo l'obbligo di trasferimento tranne casi di forza maggiore relativi alla salute della donna".
I contrasti non finiscono qui. Mentre la legge vieta e sanziona con la reclusione fino a tre anni e multe da 50 mila a 150 mila euro la soppressione degli embrioni non trasferiti, le linee guida la ammettono. Stessa confusione sulla crioconservazione in attesa di impianto, consentita nelle linee guida e sanzionata invece nella legge. "Oltre a ledere le libertà fondamentali degli individui, le linee guida hanno effetti pesanti sulla deontologia professionale", conclude Antonino Guglielmini, dottore del centro Hera di Catania, "I medici sono semplici esecutori di norme, costretti a trasferire embrioni anche se malati nonostante possa nuocere alla salute della donna, andando contro ogni etica professionale".

depressione
uno su quattro

Il Messaggero Giovedì 13 Gennaio 2005
Convegno a Roma
Depressione, colpisce un italiano su quattro


ROMA - Una persona su 4 prima o poi nella vita manifesterà disturbi depressivi: tristezza, disinteresse, angoscia, affaticamento, per almeno 2 settimane possono essere campanelli d'allarme ma evitare diagnosi fai-da-te e rivolgersi sempre a specialisti.
È il consiglio dato alla presentazione del convegno sulla depressione previsto per sabato all'ospedale Forlanini di Roma, testimonial d'eccezione l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Obiettivo, ideare nuove strategie per recuperare persone depresse, ma non riconosciute come tali, il 90% di tutti i depressi secondo dati Oms, che quindi ”sfuggono” a diagnosi e terapie, ha denunciato Antonio Picano psichiatra del San Camillo e presidente dell'associazione promotrice ”Strade”.
Solo nel Lazio infatti, ha rilevato Picano, sono 500 mila i malati di depressione, di cui 100 mila in forma grave, ma gli accessi ai centri di salute mentale sono solo 42 mila. Gli altri o usufruiscono di strutture private o, la maggior parte, non ricevono cure adeguate.
La depressione è una malattia subdola perchè si manifesta con sintomi generici difficilmente riconoscibili, stanchezza, tristezza, disturbi del sonno, inappetenza, solo per citarne alcuni. Quando queste condizioni perdurano per almeno due settimane non bisogna sottovalutarli, ci si deve rivolgere a uno specialista, ha ribadito Picano, ma è bene anche evitare affrettate diagnosi fai-da-te, spesso basate su inattendibili test ormai troppo diffusi su internet e media. La depressione colpisce in media il 15% delle donne, l'8% degli uomini, fino al 20% degli adolescenti in cui si può manifestare con altri sintomi, per lo più disturbi comportamentali.

Il Mattino 13.1.05
Cassazione: il papà depresso può non mantenere i figli


Roma. La depressione può essere un giustificato motivo per non mantenere i figli. Lo ha sancito la Cassazione che ha cancellato le condanne in primo e secondo grado a Roberto C., un papà di 43 anni caduto in depressione dopo la separazione. Per i giudici di merito l’uomo «per la sua giovane età e per l'assenza di gravi patologie, poteva adattarsi a lavori temporanei che gli avrebbero potuto consentire di fornire i mezzi dovuti a moglie e figlia». Un ragionamento non condiviso da piazza Cavour per la quale la depressione è una «grave patologia» che può essere «causa della impossibilità di fare fronte ai propri impegni».

Yahoo!Salute
13 gennaio 2005
Depressione: molto diffusa, poco curata
Il Pensiero Scientifico Editore


La depressione non è riconosciuta e quindi non è trattata nella stragrande maggioranza dei casi e, quando la diagnosi non c’è o non è tempestiva, dietro l’angolo ci sono danni spesso irreversibili a carico dell’organismo. È la denuncia di Antonio Picano, psichiatra dell’Ospedale San Camillo di Roma e presidente dell'associazione promotrice “Strade” al Convegno “Il trattamento della depressione nei servizi pubblici” tenutosi nella capitale.
Eppure, ha sottolineato lo psichiatra, la depressione è una malattia diffusissima: colpisce nel mondo il 15 per cento delle donne, l'8 per cento degli uomini, fino al 20 per cento degli adolescenti in cui si manifesta per lo più con disturbi comportamentali. Inoltre si stima che una persona su quattro prima o poi nella vita ne manifesterà i sintomi, per esempio tristezza, disinteresse, angoscia, affaticamento, disturbi del sonno o dell’appetito.
Ma secondo l’avvertimento di Picano bisogna far attenzione a non scambiare questa sintomatologia, tanto generica quanto elusiva, per una malattia depressiva che non c’è: si parla infatti di disturbo depressivo quando questi sintomi perdurano per almeno due settimane, ha spiegato Picano. In ogni caso, ha detto, quando si ha il sospetto di essere caduti in depressione, è meglio evitare una diagnosi fai-da-te e rivolgersi sempre a specialisti.
Purtroppo, ha rilevato lo psichiatra, il servizio sanitario pubblico ancora non fa abbastanza per fare emergere un fenomeno così diffuso, mentre servirebbero dei servizi psichiatrici ad hoc in funzione negli ospedali e in più rispetto a quelli oggi esistenti cui però hanno accesso soprattutto pazienti psichiatrici gravi come i soggetti psicotici. Bisognerebbe creare integrazione tra le varie figure dell'ospedale, ha aggiunto Picano, perché spesso la depressione si affianca ad altre patologie e ne può peggiorare la prognosi. Basti pensare, ha riferito Luca Pani dell'Istituto di neurogenetica e neurofarmacologia del CNR di Cagliari, che il 60-70 per cento dei casi di infarto può portare a depressione e che molte morti per malattie cardiache sono associate a uno stato depressivo del paziente.
A soffrire di più di queste carenze assistenziali, ha concluso Picano, sono soprattutto i ceti medio-bassi, i quali non solo sono raggiunti da minore informazione in materia, ma sono anche impossibilitati a rivolgersi a centri privati.

ilmessaggero.it 13.1.05
Convegno a Roma
Depressione, colpisce un italiano su quattro


ROMA - Una persona su 4 prima o poi nella vita manifesterà disturbi depressivi: tristezza, disinteresse, angoscia, affaticamento, per almeno 2 settimane possono essere campanelli d'allarme ma evitare diagnosi fai-da-te e rivolgersi sempre a specialisti.
È il consiglio dato alla presentazione del convegno sulla depressione previsto per sabato all'ospedale Forlanini di Roma, testimonial d'eccezione l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Obiettivo, ideare nuove strategie per recuperare persone depresse, ma non riconosciute come tali, il 90% di tutti i depressi secondo dati Oms, che quindi ”sfuggono” a diagnosi e terapie, ha denunciato Antonio Picano psichiatra del San Camillo e presidente dell'associazione promotrice ”Strade”.
Solo nel Lazio infatti, ha rilevato Picano, sono 500 mila i malati di depressione, di cui 100 mila in forma grave, ma gli accessi ai centri di salute mentale sono solo 42 mila. Gli altri o usufruiscono di strutture private o, la maggior parte, non ricevono cure adeguate.
La depressione è una malattia subdola perchè si manifesta con sintomi generici difficilmente riconoscibili, stanchezza, tristezza, disturbi del sonno, inappetenza, solo per citarne alcuni. Quando queste condizioni perdurano per almeno due settimane non bisogna sottovalutarli, ci si deve rivolgere a uno specialista, ha ribadito Picano, ma è bene anche evitare affrettate diagnosi fai-da-te, spesso basate su inattendibili test ormai troppo diffusi su internet e media. La depressione colpisce in media il 15% delle donne, l'8% degli uomini, fino al 20% degli adolescenti in cui si può manifestare con altri sintomi, per lo più disturbi comportamentali.

giornaledibrescia.it 13.1.05
Ogni anno 58mila europei si uccidono a causa di un disagio mentale, contro i 50mila che muoiono in incidenti. Record negativo in Lituania
La depressione è il killer invisibile dell’Europa


È il killer invisibile dell’Europa: la malattia mentale, ed in particolare la depressione, uccide più degli incidenti stradali e degli omicidi riuniti. Ogni anno infatti, 58.000 europei, italiani compresi, muoiono per suicidio o automutilazione. È come se scomparisse dalla carta dell’Europa una città come Cremona. Sono meno coloro che nello stesso periodo perdono la vita sulle strade: 50.700 europei sono vittime di incidenti stradali. E 5.350 di omicidi. Si soffre di depressione già da giovanissimi. Secondo gli ultimi dati di Bruxelles, la malattia colpisce il 4% degli adolescenti tra i 12 e i 17 anni, e più del doppio, ossia il 9%, dei giovani di 18 anni. La fotografia della salute mentale in Europa è preoccupante e a lanciare l’allarme è il commissario europeo alla Salute Markos Kyprianou, in occasione della Conferenza ministeriale europea dell’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) dedicata alla salute mentale, in corso questa settimana a Helsinki. «Le malattie mentali sono mortali quanto quelle fisiche, come il cancro» - spiega Kyprianou - e chiede di fare della salute mentale «una priorità politica in Europa». La sfida è enorme. Più spesso di quanto si voglia ammettere - fa osservare Marc Danzon, direttore regionale Oms Europa - le persone che soffrono di problemi legati alla salute mentale sono considerati con timore e sono vittime di discriminazioni». Inoltre - sostiene - troppo spesso i malati non riescono a beneficiare di un trattamento o non chiedono aiuto in quanto temono cure inumane e degradanti. Così anche nei P aesi dove il sistema sanitario è organizzato, tra il 44 e il 70% delle persone che soffrono di disturbi mentali non vengono curate. Eppure le malattie mentali, ed in particolare la depressione, sono la prima causa dei suicidi. Basti pensare che il 56% di coloro che soffrono di depressione tentano di mettere fine ai loro giorni, mentre il 15% di coloro che soffrono di depressione grave si suicidano. A gettare la spugna sono più gli uomini delle donne, con picchi che vanno nelle fasce di età tra i 15 e i 24 anni e tra i 25 e 34 anni. In Europa il numero di casi di suicidi varia profondamente da un Paese all’altro. I cittadini meno esposti sembrano essere quelli che vivono nei Paesi mediterranei. I dati pubblicati dalla Commissione europea (sui decessi per suicidio avvenuti nel 1999) mostrano che in Grecia, Portogallo e Italia c’erano meno di 10 casi di suicidi di uomini - e meno della metà per le donne - ogni 100.000 persone. La Spagna seguiva da vicino. L’incidenza dei suicidi è invece particolarmente inquietante nel nord dell’Europa. In Lituania nello stesso periodo 99 uomini e donne su 100.000 persone avevano deciso di togliersi la vita. Altri tassi alti vengono segnalati in Estonia, Lettonia, Ungheria, Slovenia e Finlandia.

crimini cattolici
le radici cristiane dell'antisemitismo

Liberazione 13.1.05
LE RADICI RELIGIOSE DELL'ANTISEMITISMO
Il dibattito sulla figura di Pio XII. Intervista allo storico Maurizio Ghiretti
Guido Calwron


Si è riaperto da giorni il dibattito sul difficile rapporto tra la Chiesa cattolica egli ebrei prima del Concilio Vaticano Il. A dare l'avvio alla ripresa del confronto, è stata la pubblicazione sulle pagine del Corriere della Sera di una direttiva vaticana del 1946, trasmessa alla Nunziatura di Parigi, nella quale si chiedeva di non restituire alle famiglie i piccoli ebrei battezzati. Ne abbiamo parlato con Maurizio Ghiretti, un ricercatore che studia da anni le radici dell'odio antiebraico e che ha pubblicato per la Bruno Mondadori un'ampia e aggiornata Storia dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo.
Professor Ghiretti, qual è il peso della vicenda illustrata dal documento vaticano, pubblicato dal Corriere, nel complesso dei rapporti tra la Chiesa cattolica egli ebrei?
A mio parere quel documento è in sintonia con la tradizione della Chiesa nei confronti dell'ebraismo. Uno degli elementi fondamentali di questa tradizione è infatti rappresentato dalla conversione degli ebrei. Un bambino ebreo battezzato non doveva essere restituito alla famiglia d'origine perché non lo avrebbero allevato nella verità cristiana. Questo è il punto fondamentale. Nel 1946-47 non era cambiato nulla rispetto a cento anni prima, vale a dire rispetto alla vicenda di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni che nel 1858 fu rapito a Bologna per essere portato a Roma e battezzato. La Chiesa ha continuato su questa linea fino alla svolta avvenuta, non senza contrasti, dopo la morte di Pio XII al tempo del Concilio Vaticano II nel 1963-65. In quel momento vi fu una prima svolta nell'atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei, ma fino ad allora la dottrina del Vaticano era quella di cercare di convertirli.
A tal punto questa era la dottrina ufficiale della Chiesa, che oggi appare davvero paradossale cercare di escludere il ruolo svolto da Pio XII rispetto a quella vicenda.Visto che si è aperto il suo processo di beatificazione, c'è infatti chi lo difende, parlando addirittura di una campagna "inquisitoria anticattolica". Qual è la sua opinione sul profilo di quel pontificato rispetto agli ebrei?
Credo si debba tener presente la visione provvidenzialistica della storia che aveva questo Papa, come del resto tutti i credenti. Così tutte le cose, anche terribili, che accaddero allora, penso in particolare allo sterminio degli ebrei d'Europa, furono viste attraverso quest'ottica: è la divina provvidenza che muove le cose del mondo. Quindi penso che Pio XII vedesse in qualche modo in ciò che stava accadendo agli ebrei in quegli anni, una sorta di mano della provvidenza per spingere gli ebrei alla conversione. Io vedo Pio XII attento ad aiutare chi ha bisogno nel momento in cui egli si trova di fronte il perseguitato, ma ho l'impressione che guardi a quel che sta accadendo in quel momento in tutta Europa con un occhio religioso. Tutto ciò, ancora una volta, all'interno di una visione che però la Chiesa ha portato avanti per migliaia di anni nei confronti degli ebrei.
Nel dibattito di queste settimane c'è anche chi ha detto che non si può guardare alla storia precedente con gli occhi di chi ha conosciuto gli orrori della Shoah, proiettare il giudizio posteriore a quei fatti sulla Chiesa dell'epoca. Utilizzando questa impostazione, viene però da chiedersi quale rapporto esista tra la tradizione antigiudaica religiosa, di cui lei ha parlato fin qui, e l'antisemitismo razziale che aprì la strada a Auschwitz?
L'antigiudaismo cattolico permane nel corso della Shoah, naturalmente ci sono poi i casi di tanti religiosi - si pensi solo al salvataggio di tanti ebrei romani - che si sono prodigati per salvare i perseguitati. Se l'antigiudaismo permane, la Chiesa però condanna la persecuzione fisica, e soprattutto viene rigettata quella forma di antisemitismo legata al mito della razza. La Chiesa ha perciò condannato la persecuzione razziale degli ebrei, mentre si è mostrata sempre favorevole a delle misure legislative che andassero nella direzione di una "de-emancipazione" degli ebrei, vale a dire perché gli ebrei non fossero considerati uguali ai cittadini cristiani e cattolici. Questo lo si può leggere su "Civiltà Cattolica" dell'epoca a proposito delle leggi antiebraiche in Ungheria o a proposito di quelle varate in Germania o in Italia. Si può perciò affermare che la Chiesa è stata sempre contraria all'antisemitismo razzista, ma è sempre stata favorevole a una diminuzione delle libertà concesse dall'emancipazione agli ebrei, in particolare l'uguaglianza rispetto agli altricittadini.
Lei ha descritto la genesi e lo sviluppo dell'odio antiebraico fino al nostri giorni. In questa prospettiva di lungo periodo, quale posto occupano le radici dell'antigiudaismo religioso, rispetto alle evoluzioni successive?
Il fattore religioso fa da bacino collettore e rimane, per così dire,in sottofondo rispetto all'antisemitismo successivo. Su questa ostilità antiebraica di origine religiosa si sedimentano progressivamente altre forme di odio, soprattutto dopo l'emancipazione degli ebrei. Nel corso dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento,via via che appaiono forme di ostilità culturale, sociale, economica e politica per l'avanzamento degli ebrei, questi strati nuovi finiscono per posarsi proprio su un substrato di tipo religioso. Poi, già con la seconda metà dell'Ottocento, appare l'ideologia razzista che rappresenta qualcosa di nuovo, ma la tradizione antigiudaica secolare permane.
Durante la seconda guerra mondiale, quanto ha pesatoquesto sentimento antiebraico nel sostegno e nella collaborazione offerti, in alcuni paesi cattolici dell'Europa Orientale, al progetto nazista della "soluzione finale"?
La tradizione antigiudaica in queste societa è fortissima. Croazia, Ungheria, Romania, e la stessa Polonia, hanno dato un contributo fortissimo al progetto nazista di sterminio degli ebrei. Del resto, già prima, anche in Austria la tradizione cattolica antigiudaica ha giocato un ruolo molto importante, basti pensare anche soltanto ai partiti cristiano sociali e alla loro lotta costante contro gli ebrei, sia sul piano sociale che su quello politico.
Dopo la Shoah, la matrice religiosa dell'odio antiebraico sembra essere stata quasi definitivamente accantonata. Eppure, talvolta, qualche segnale del genere riemerge. Qual è lo stato delle cose?
È sopravvissuta all'interno di gruppi di minoranza che respingono la nuova dottrina della Chiesa cattolica nei confronti degli ebrei. Si tratta di piccoli gruppi che continuano a riproporre l'antica tradizione antiebraica. Non sono certo gruppi molto forti, ma continuano comunque a esistere, sia nel mondo cattolico che in quello protestante. Ma soprattutto in quello cattolico.

sinistra
un'intervista a Fausto Bertinotti sull'Unione Sarda

L'Unione Sarda 13.1.05
«Pronta l'alternativa a Berlusconi»
La ricetta di Fausto Bertinotti per sopravvivere al centrodestra
di Giorgio Pisano


«L'alleanza non è un pranzo di gala». Versione riveduta e corretta dall'impolverato libretto rosso di un'epoca lontana, lontanissima: il '68. A Fausto Bertinotti questa frase serve per far capire qual è il dazio da pagare: Rc non è un socio di governo conformista e quieto. Chi se lo porta a casa deve sapere che può esplodere. Il messaggio è per il presidente della Regione, Renato Soru, e per tutti quelli della sua maggioranza più o meno scandalizzati dalla recente levata di scudi contro il Piano straordinario del Lavoro, versione austerity e sparagnina del centrosinistra. Bertinotti, che arriverà a Cagliari domani per presentare il documento congressuale della sua componente ("L'alternativa di società") non fa sconti a nessuno, tantomeno ai compagni di strada. Mantiene, come sa bene chi lo segue nelle riflessioni urbi et orbi su "Porta a porta", una posizione di lucido antagonismo radical-chic, soldato di un liberalesimo di sinistra che gli ha procurato molte e appassionate antipatie. Milanese, classe 1940, un orgoglioso medagliere da sindacalista, rappresenta sicuramente la faccia più elegante del comunismo italiano: non solo per la erre moscia, per lo stile e il garbo, e nemmeno per l'abbigliamento (curatissimo nei dettagli, attentissimo alle nuances). Non apparisse offensivo, dà qualche volta l'impressione del rotariano dissidente, uscito all'improvviso dai binari d'una vita borghese piccola e noiosa. In Sardegna è rumorosamente rappresentato dall'ex consigliere regionale Luigi Cogodi, atterrato da un segretario regionale (Sandro Valentini) che è riuscito a metterlo fuori gioco elettorale. Bertinotti plana a Cagliari anche per lui, per rilanciare insieme quella guerriglia di lotta e di governo che non è mai finita. Nel frattempo, al rientro da Bruxelles, si rilassa in una chiacchierata che abbraccia i massimi sistemi e quelli, molto meno ingombranti, che ruotano intorno a viale Trento. Con relative avvertenze per l'uso.
Cos'è il nuovo comunismo?
«Dopo il crollo dei regimi dell'Est e all'interno della globalizzazione capitalista, è un'idea per il superamento dell'ordine esistente».
Con una rivoluzione?
«Se per rivoluzione s'intende la presa del Palazzo d'Inverno, direi di no».
Siete comunisti riformisti, dunque?
«Riformista è una parola che non so più cosa voglia dire. I riformisti stanno dalla parte del Capitale».
Mentre voi...
«Siamo, come insegnava Marx, per un processo di trasformazione. Noi vogliamo cambiare la natura del potere insieme alla società». Questo significa essere di sinistra oggi? «Per essere di sinistra non c'è bisogno di essere comunisti. Basta avere, come diceva Bobbio, una propensione democratica all'uguaglianza».
Uguaglianza-marmellata dove le autonomie muoiono.
«Al contrario. Le specificità, come quella sarda, sono un valore. L'importante è capire cosa si vuol valorizzare».
Crede all'unità del centrosinistra?
«Non è un atto di fede ma la costruzione di un'alleanza, e l'Ulivo non c'entra. Dobbiamo costruire un'alternativa a Berlusconi».
Che dice il bollettino-meteo?
«Ci sono buoni segnali, sta nascendo nel Paese una forte opposizione popolare: basta pensare agli scioperi di questi mesi. C'è un bel protagonismo di massa e questo finirà per condizionare i partiti. I tempi, insomma, sono maturi».
Mai assalito dal rimorso d'aver fatto cadere il governo Prodi? «Non ci penso neanche. La Storia non è un processo lineare, procede per salti e per rotture. Se oggi c'è un'alternativa a Berlusconi lo si deve proprio alla nostra presa di posizione».
E' faticosa la convivenza con Soru?
«Lo dicano i compagni sardi. E' un'esperienza impegnativa e difficile che può servire a cambiare la realtà».
Con grande insofferenza.
«Con Bassolino, in Campania, ci siamo scontrati sulla questione degli inceneritori. Questo è il nostro modo di configurare un'alleanza: il conflitto è una pratica necessaria».
Come quello sul Piano del Lavoro?
«Il Piano del Lavoro ha subìto deviazioni durante i governi di centrodestra. Deve essere riportato al suo spirito orginario. Questo è la nostra opinione, il principio da difendere».
Rc ha cinque correnti, quasi come la vecchia Dc.
«Siete nostalgici del centralismo democratico? Ditelo».
C'è stalinismo nel suo partito?
«L'abbiamo sradicato. Meglio cinque mozioni congressuali che un centralismo autoritario».
Velio Ortu è segretario di tutta Rc?
«Come Fausto Bertinotti in campo nazionale».

Europa
ci sono più suicidi che morti sulle strade

Corriere della Sera on line 12 gennaio 2005
CRONACHE
La denuncia in un rapporto della Commissione europea
In Europa più suicidi che morti sulle strade
Ogni anno 58 mila persone si tolgono la vita mentre
negli incidenti stradali le vittime sono 51 mila

BRUXELLES - In Europa, secondo un rapporto della Commissione europea, ci sono più persone che si tolgono la vita volontariamente di quante ne muoiano in incidenti stradali. Nell'Unione Europea ogni anno ci sono circa 58mila suicidi, quasi 7.000 in più di quelli che muoiono per incidenti del traffico.
Il commissario Ue alla Salute, Marko Kyprianou, ha reso noto che il suicidio è la più importante causa di morte in Europa; ed ha esortato i governi dei 25 a porre la questione della salute mentale in cima all'agenda, affrontando quello che ha definito «il killer invisibile». «La malattia mentale è letale esattamente come il cancro», ha detto Kyprianou a margine di una conferenza ministeriale sul tema organizzata a Helsinki dall'Oms (l'Organizzazione Mondiale della Sanità).

POCA ATTENZIONE ALLE MALATTIE MENTALI - I ministri di più di 50 Paese e il commissario Ue alla Salute discuteranno fino a sabato le politiche e le azioni da adottare a livello europeo. «La malattia mentale riceve ancora troppa poca attenzione», ha osservato Kyprianou. Secondo l'Oms, la metà di coloro che soffrono di depressione non vengono curati e in molti Paesi non esistono specialisti nè strutture per curarli. Le vittime di incidenti d'auto sono 50.700 ogni anno e quelle di omicidio 5.350.

SI TOLGONO LA VITA PIU' GLI UOMINI DELLE DONNE - Secondo i dati della ricerca si tolgono la vita più gli uomini delle donne, con picchi che vanno nelle fasce di età tra i 15 e i 24 anni e tra i 25 e 34 anni. In Europa il numero di casi di suicidi varia profondamente da un paese all'altro. I cittadini meno esposti sembrano essere quelli che vivono nei paesi mediterranei. I dati pubblicati nel 2004 dalla Commissione europea (sui decessi per suicidio avvenuti nel 1999) mostrano che in Grecia, Portogallo e Italia c'erano meno di 10 casi di suicidi di uomini - e meno della metà per le donne - ogni 100.000 persone. La Spagna seguiva da vicino. L'incidenza dei suicidi è invece particolarmente inquietante nel nord dell'Europa. In Lituania nello stesso periodo 77 uomini e 12 donne su 100.000 persone avevano deciso di togliersi la vita. Altri tassi alti vengono segnalati in Estonia, Lettonia, Ungheria, Slovenia e Finlandia. Il nord Europa conosce però alcune eccezioni. Nel Regno Unito, che rispecchia la situazione spagnola, si muore meno per suicidio che in Austria, Francia, Germania e nel piccolo Lussemburgo.

una risposta sull'Unità
lettera aperta di Flamigni a Paolo Prodi

L'Unità 13.1.05
Risposta a Paolo Prodi
CHI HA PAURA DELL'EMBRIONE
Carlo Flamigni*


Carissimo Professor Paolo Prodi, nessuno di noi ha, né ha avuto per un attimo, il minimo sospetto sulla Sua buona fede. Siamo anche tutti convinti che l'Unità abbia fatto molto bene a pubblicare la Sua lettera: persone come Lei, nel nostro Paese e altrove, nel mondo, ce ne sono molte e la loro convinzione e le loro paure debbono essere ascoltate con molta attenzione.
Ci permetta però di dirLe, e speriamo che la cosa non Le dispiaccia, che riteniamo che quello che Lei dice sia sbagliato e che le Sue paure siano prive di fondamento.
Alcuni di noi hanno partecipato, in un passato recente, a un convegno organizzato ad Assisi da Italianieuropei, presenti ricercatori, bioeticisti e uomini politici. Si parlò a lungo di etica, di scienza e, in particolare, di genetica, e tutti gli studiosi presenti si affannarono a spiegare che non esiste - non perché sia stata bocciata per la sua immoralità, ma proprio perché è mille miglia lontano dalle nostre possibilità presenti e future, nonché dalla realtà biologica dell'uomo quella cHe viene chiamata (con nostro grande dispetto) l'eugenetica positiva migliorativa.
Se ricordiamo bene, furono molto criticati Habermas e il suo ultimo libro sulla genetica. Ebbene, quando gli scienziati finirono di parlare, l'uomo politico che, almeno a nostro parere, è oggi l'esponente più intelligente e colto della sinistra italiana riprese il discorso come se nessuno di noi avesse aperto bocca e ci accusò di preparare i soldati per il prossimo, prevedibile Pol Pot. Qualcosa di analogo è capitato ieri l'altro al convegno organizzato a Milano da Politeia, dove, dopo che gli scienziati avevano escluso queste possibilità, un importante esponente del centro-destra prospettò previsioni simili.
Speriamo che capirà perché allora come oggi - provammo un grande senso di stanchezza.
La genetica è una disciplina relativamente giovane, in rapido e continuo sviluppo. Malgrado ciò, è ancora completamente ancorata alle sole possibilità diagnostiche. Può scoprire se un embrione potrà diventare un uomo gravemente malato di una certa malattia genetica prima ancora che si impianti nel grembo materno: non è mai riuscita a cambiare il destino di quell'embrione, guarendolo di quella malattia. Vorremmo dire dì piu: non ci ha nemmeno mai provato.
Perché un embrione portatore di una mutazione di un gene (di uno solo, delle migliaia che lo caratterizzano) possa sfuggire al suo infelice destino e necessario che quel gene "malato" possa essere sostituito. Ebbene, non siamo capaci di farlo: non siamo capaci di eseguire la più semplice delle terapie geniche possibili, quella che riguarda le malattie monogeniche (che sono migliaia) e che consiste nella sostituzione di un solo gene.
Nel suo articolo lei immagina un mondo a venire nel quale potrebbe essere possibile prefigurare una serie di caratteristiche dell'individuo. Le vogliamo ricordare così come Lei le ha scritte: intelligenza, carattere creativo, fisico atletico, temperamento non incline alle melanconia, colore degli occhi. Ebbene, nessuna di queste caratteristiche è dipendente da un unico gene: si tratta di caratteri multigenici e multifattoriali, del cui determimsmo sappiamo poco o niente, un mistero destinato a restare tale chissà per quanto tempo ancora.
Se non siamo in grado di cambiare un gene, pensi cosa saremmo incapaci di fare con due, o dieci o chissa quanti, soprattutto se con la genetica interferiscono l'educazione e l'ambiente. Siamo chi siamo per virtù (o colpa) dei nostri geni per non più del 50%. Il resto è caso, scuola, famiglia, amici, clima, alimentazione, ecc..
Le ricordiamo ma forse ne è già informato - che molti anni or sono, negli Stati Uniti, un signor americano che aveva vinto un premio Nobel (per i suoi studi sui transistor) immaginò di creare una banca del seme i cui donatori erano tutti premi Nobel. L'impresa fu abbandonata dopo la nascita di un ennesimo cretino, e il povero scienziato si scusò dicendo che in realtà la banca del seme andava fatta usando come donatori i padri dei premi Nobel.
Caro Professor Prodi, il referendum riguarda una cosa molto semplice che - La preghiamo di crederci - è lontana dal nazismo molto più di quanto l'uomo sia lontano dalla verità. Si tratta di coppie che sono portatrici di malattie genetiche che vogliono evitare di mettere al mondo figli malati. Potrebbero fare queste indagini in gravidanza, la legge consente loro l'aborto. Preferiscono una soluzione diversa. A nostro avviso ne hanno diritto.
Caro professor Prodi, non tema la nostra povera umanità, non saranno i genetisti a farle del Male: per diminuire di 100 volte l'incidenza di uno solo dei nostri geni, ci vogliono come minimo 20.000 anni - e neppure l'accelerazione della storia riuscirà a comprimere questo tempo.
Noi siamo dell'opinione - e siamo certi che Lei converrà con noi - che l'esperienza nazista sia stata la più brutale e violenta esperienza imposta a milioni di povere vittime. Richiamarla alla memoria quando si parla di sofferenza individuale e di difficili scelte personali, ci scusi ancora Professor Prodi, non è giusto.
Abbiamo letto con piacere i Suoi riferimenti al passato, ma ci siamo stupiti perché ci sembra che Lei li ritenga solo ricordi polverosi di una cultura scomparsa. Non è così. Conosciamo, tra i sacerdoti cattolici, ilomorfisti che la pensano esattamente come Innocenzo III. E' vero, il problema esiste, ma forse non è quello al quale pensa Lei. Per noi il problema riguarda il tentativo della chiesa cattolica dì imporre a noi laici regole morali che non ci appartengono, partendo da posizioni altrettanto dogmatiche quanto incerte.
La nostra richiesta di referendum ha solo un significato: chiediamo di poter dimostrare che le regole morali che si cerca di inserire tra le norme del nostro Stato non sono sofficientemente condivise, per cui la loro imposizione per legge non è legittimata. Secondo noi questo è civile e legittimo. Lei chiede libertà, nel momento in cui i referendum La impegnano a una scelta difficile. E' la stessa cosa che chiediamo noi, libertà. Sbagliamo se la nostra libertà la cerchiamo, soprattutto, nella scienza e nella laicità?
Caro professor Prodi, il compito di chi vuol portare i cittadini del nostro Paese a esprimersi votando una serie di quesiti è difficile e complesso. Ci farebbe piacere mostrarLe le menzogne e le calunnie con le quali cercano di togliere credibilità alle nostre idee, ma capiamo che la cosa non La riguarda. Le chiediamo, pero, di non confondere la scienza con la fantascienza. Non perché, come Lei stesso scrive, Lei non ha nessuna competenza scientifica: ma perché Lei è una persona colta, seria e perbene.

* Primi firmatari:
Antonino Forabosco Demetrio Neri Maurizio Mori Mariella Immacolato Marina Mengarelli Sergio Bartolommei Giovanna Lazzari Cesare Galli

tsunami
americani!

Repubblica on line 12.1.05
Studio Ue accusa gli esperti americani: si sarebbero potute salvare dallo tsunami Sri Lanka, Maldive e forse la Thailandia
Asia, in Usa potevano prevedere

ma l'allarme non è mai arrivato


BRUXELLES
- Lo Sri Lanka, le Maldive e forse anche la Thailandia si potevano salvare dalla furia distruttrice dello tsunami. Se solo chi aveva gli elementi per comprendere quello che stava accadendo avesse lanciato un allarme per tempo. È questa la conclusione di uno studio del Centro comune di ricerca dell'Ue (Ccr) di Ispra che ha analizzato i rapporti in in possesso degli organismi di sorveglianza terrestre e marina basati negli Usa.
Secondo la ricostruzione degli esperti europei, le strutture in questione, pur avendo rilevato in tempo reale il terremoto del 26 dicembre e avendo a disposizione tutti gli elementi per prevedere il disastro e lanciare un allarme alle autorità competenti, non hanno saputo indirizzare le informazioni nella direzione giusta, o le hanno sostanzialmente sottovalutate.
L'analisi del Centro europeo, riassunta in un documento di undici pagine, ripercorre tutte le tappe della tragedia, ricostruendo esattamente, anche grazie ai dati e alle tecnologie satellitari, la dinamica dalla catastrofe, dal terremoto all' arrivo delle onde sulle coste. Contemporaneamente, gli esperti dell'Ue analizzano i tempi di registrazione e di reazione agli eventi delle principali strutture di monitoraggio e di allerta.
La conclusione è che "il terremoto è stato registrato, entro venti minuti dal momento in cui ha avuto luogo, da almeno tre stazioni di monitoraggio negli Usa, che ne hanno inizialmente stimato la magnitudo a otto gradi". Due delle stazioni sono lo Us Geological Survey (Usgs) - una struttura di registrazione e allerta per terremoti che dipende dal governo statunitense - e il Pacific tsunami warning centre (Ptwc) - che è parte dell'Amministrazione atmosferica e oceanica nazionale americana (Noaa) ed è basato nelle Hawaii.
Secondo il documento, nonostante la tempestiva registrazione dell'evento sismico, non è stato lanciato in tempo utile e nella buona direzione l'allarme per il rischio tsunami. "L'Usgs - osservano gli esperti europei - ha fatto circolare l'informazione del terremoto, entro 16 minuti, a 100 persone, in gran parte propri ricercatori e dirigenti. Dopo un'ora ha inviato un dispaccio più dettagliato a una lista di contatti esterni, incluso il dipartimento di Stato Usa".
"Paradossalmente però - afferma il documento - l'Usgs non ha menzionato un possibile rischio tsunami al dipartimento di Stato, perché non ha competenza per il monitoraggio dei maremoti". "Se il dipartimento di Stato Usa fosse stato messo al corrente di un'immediata minaccia tsunami - sottolinea il documento - avrebbe potuto comunicare il pericolo a tutti i paesi".
"In entrambi i dispacci dell'Usgs - afferma invece il testo - non è stato menzionato un potenziale tsunami" e la struttura "non ha pubblicato l'informazione sul terremoto sul proprio sito Internet se non 1 ora e 20 minuti dopo la scossa, quando lo tsunami stava colpendo le coste dello Sri Lanka".
L'unica struttura a ipotizzare un rischio tsunami nell'area colpita è stata la Ptwc, che ha inviato un dispaccio ai propri utenti e alle autorità "15 minuti dopo aver registrato il terremoto", avvertendo che "anche se non c'era rischio potenziale di uno tsunami nell'area del bacino dell'oceano Pacifico, veniva lanciata un'allerta tsunami generica". Un bollettino aggiornato del Ptwc, inviato un'ora dopo, "ha ribadito l'assenza di rischio nel Pacifico, indicando però che uno tsunami era possibile vicino all'epicentro del terremoto".
Tuttavia "il Ptwc non ha saputo chi contattare" e "dopo aver perso un'ora prima di telefonare all'Ufficio meteorologico australiano", lo ha fatto "quando era ormai troppo tardi per Sumatra, Sri Lanka, Tailandia e la costa est dell' India".
"L' informazione - continuano gli esperti - sfortunatamente non è stata comunicata alla regione dell'Oceano indiano perché il sistema del Ptwc è stato creato per servire i 26 paesi del Pacifico" eppure, "un allarme avrebbe potuto essere lanciato con un anticipo compreso tra venti minuti e due ore, e si sarebbero potute salvare potenzialmente migliaia di vite".

sinistra
si prepara l'assemblea di sabato 15
A ROMA

il manifesto 13.1.05
SABATO L'ASSEMBLEA A ROMA


L'appuntamento è alla Fiera di Roma in zona Cristoforo Colombo (l'ingresso è in via dell'Arcadia 40) alle 10. Sarà una no-stop, aperta da un intervento di presentazione del manifesto, fino alle 19. Le presenze annunciate sono tantissime: ci saranno e interverranno esponenti dei partiti di sinistra (Ds, Prc, Pdci, Verdi), del sindacato, dei movimenti, delle associazioni, di giornali, di esperienze di lotta per la pace, i diritti e contro il liberismo. Le richieste d'intervento sono numerosissime, giustamente tutti vogliono parlare. Ma anche se i tempi saranno contingentati (dieci minuti a testa) non è detto che riusciremo a dare la parola a tutti. Ma ci saranno altre occasioni, anche per intervenire attraverso le colonne del giornale (che, come si sa, raggiunge molte più persone di quante saranno sabato alla Fiera di Roma).

seppure tutti l'avessero già ben capito...

il manifesto 13.1.05
È ufficiale: l'Iraq non aveva armi proibite

La ricerca dell'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq è formalmente finita: l'arsenale proibito di Saddam Hussein non c'è, e non c'era nemmeno quando gli Stati uniti hanno cominciato a bombardare l'Iraq. Il motivo ufficiale della guerra era falso.
Un membro dell'Iraq Survey Group, ha detto al Washington Post che il rapporto già presentato nel settembre scorso dal suo responsabile Charles Duelfer - quello che sosteneva la «probabilità» che quelle armi non sarebbero mai state trovate - non è più da considerare «provvisorio», come allora si disse per non imbarazzare troppo George Bush impegnato nella campagna per la sua rielezione, ma definitivo.
Le ricerche hanno avuto termine formalmente già prima di Natale, ma c'è voluta un'indiscrezione dai servizi segreti per venirne a conoscenza. Alla Casa Bianca la consegna è minimizzare, il portavoce Scott McClellan si è limitato a confermare l'informazione.

Iraq, armi letali introvabili. La caccia è finita
Saddam non aveva armi di distruzione di massa, è ufficiale anche per gli Stati Uniti. Le ricerche erano finite prima di Natale ma non si voleva imbarazzare Bush a Capodanno. Ora i mille esperti americani, inglesi e australiani dell'Isg si ricicleranno sulla raccolta di informazioni relative alla resistenza
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK


La ricerca dell'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq è formalmente finita. E ieri - mentre le agenzie di stampa passavano la notizia sui loro schermi e le tv americane l'annunciavano ai loro telespettatori - la reazione generale era: ma perché, le stavano ancora cercando? Un membro del famigerato Isg, che sta per Iraq Survey Group, ha detto al Washington Post che il rapporto già presentato nel settembre scorso dal suo responsabile Charles Duelfer - quello che sosteneva la «probabilità» che quelle armi non sarebbero mai state trovate - non è più da considerare «provvisorio», come allora si disse per non imbarazzare troppo George Bush impegnato nella campagna per la sua rielezione, ma definitivo. «Abbiamo parlato con tanta di quella gente - ha detto quell'anonimo signore - che qualcuno avrebbe pure dovuto dire qualcosa». (Di «quella gente», oltre tutto, fanno parte anche Saddam Hussein medesimo e alcuni suoi ministri). Così le ricerche hanno avuto termine formalmente già prima di Natale, ma sempre per il problema dell'imbarazzo nessun annuncio era stato fatto e c'è voluta la solita indiscrezione per venirne a conoscenza. L'Isg, che è composto di «esperti» americani, inglesi e australiani, continuerà a lavorare in Iraq (non è chiaro se con i suoi oltre mille e più elementi o con un numero ridotto) ma con compiti diversi: d'ora in poi si occuperà della raccolta di informazioni sulla «insurgency» irachena, la cui composizione è come si sa ancora un mistero per le forze di occupazione americane.

Dunque, ciò che milioni di persone hanno saputo da sempre, e cioè che quella scatenata in Iraq è stata una guerra senza alcuna giustificazione, è diventato formalmente vero anche per coloro che quella guerra l'hanno voluta. Cosa avevano da dire, ieri? Alla Casa Bianca la consegna sembrava quella di minimizzare al massimo. L'unico suo inquilino che ha detto qualcosa è stato il povero Scott McClellan, il portavoce ufficiale inchiodato alla regolarità del briefing di mezzogiorno con i giornalisti. Lui naturalmente non aveva commenti e tutto ciò cui si è limitato è stata la conferma che l'informazione riportata dal Washington Post era corretta. È possibile, ha detto con l'aria di chi chiaramente vorrebbe essere altrove, che qualcuno continui ancora a cercare qua e là, ma certamente «il lavoro è largamente finito». Quanto a Bush, il modo di cavarsela lo aveva già sperimentato a settembre, quando di fronte al rapporto «provvisorio» che diceva le stesse cose di questo «finale», si era attaccato al suo solito «il mondo è più sicuro con Saddam Hussein in prigione». Poi aveva anche concesso che «molto del corpo di intelligence accumulato era sbagliato e adesso il problema è di capire come ciò è stato possibile». Era sembrato un modo di scaricare la responsabilità sulla Cia, ma poco dopo aveva negato se stesso quando aveva conferito - in una solenne cerimonia alla Casa Bianca - la «medaglia presidenziale» proprio a George Tenet, che della Cia era stato fino a poco prima il capo, motivando la decorazione con il fatto che Tenet aveva «costruito» da maestro proprio il caso della armi di distruzione di massa in possesso dell'Iraq.
Formalmente c'è una commissione d'inchiesta al lavoro per individuare gli «errori» compiuti dal servizio di informazioni. Ma non sembra probabile che le sue indagini si allarghino fino - per fare qualche esempio - alle continue «visite» che il vice presidente Dick Cheney faceva proprio al quartier generale della Cia ogni volta che un rapporto stava per essere consegnato, o agli estenuanti «negoziati» fra la Casa Bianca e la Cia medesima su ciò che Bush «poteva» dire per perorare la sua voglia matta di invadere l'Iraq senza incorrere in bugie troppo grosse. Per non parlare della luce che acquista, a questo punto, il precipitoso ritiro degli ispettori dell'Onu dall'Iraq per non ritrovarsi sotto le bombe americane. Se gli uomini di Hans Blix «avessero potuto continuare il loro lavoro - diceva ieri il commentatore della Bbc Paul Reynold - avrebbero scoperto che le armi di distruzione di massa non c'erano».

Franz Kafka (1883 - 1924)

Corriere della Sera 13.1.05
Una raccolta di aforismi, con alcuni testi mai pubblicati in Italia, per ripercorrere l’opera metafisica di un genio letterario e filosofico

Schegge di ordinaria vertigine. Firmate Kafka
di Mario Andrea Rigoni

Forse il maggiore equivoco che abbia aduggiato l’interpretazione di Kafka - assai oltre l’apparizione di alcuni saggi capitali di Maurice Blanchot già alla fine degli anni Quaranta - è stata la ricerca ossessiva del significato della sua opera, ricondotto nell’ambito ora della teologia, ora della religione, ora dell’ateismo, ora della psicanalisi, nella totale trascuranza non solo delle intenzioni dell’autore, che dichiarava di non voler essere altro che uno scrittore, ma anche della pura lettera dei suoi testi. In questo senso, uno dei suoi racconti più celebri e più tipici, la leggenda del messaggio dell’imperatore contenuta ne La costruzione della muraglia cinese , dice tutto: il messaggio imperiale, del quale ignoriamo il contenuto e il fine, non arriva mai al destinatario, perché si perde nell’attraversamento dell’interminabile labirinto del mondo. Ciò non vuol dire che dall’opera kafkiana non si irradii una potente luce metafisica, perché anzi ogni personaggio, episodio e figura vi sono immersi fino alla più intima fibra, ma soltanto che la sfinge dell’esistenza non cede mai il suo segreto, esattamente come avviene nei miti. Dato che la letteratura è per Kafka, come il mondo, mito ed enigma, enigma del mito e mito, ossia racconto, dell’enigma, essa non potrà assumere altra forma che quella del frammento: l’unità e la totalità, come la trascendenza, non si affermano se non per via di negazione, perché ciò che resta al di là di tutti gli assalti prometeici della conoscenza è soltanto «la roccia inesplicabile».
Ma lo scrittore ha lasciato anche frammenti e aforismi nel senso specifico del termine, schegge vertiginose di riflessione che hanno tuttavia lo stesso statuto, la stessa essenza della sua opera narrativa. Essi sono adesso tutti raccolti, insieme con appunti, abbozzi di lettere, di discorsi e di racconti, in un volume edito dalla Bur con un utile indice cronologico e tematico. Progettato da Ferruccio Masini, del quale reca un’introduzione, esso è stato portato a termine, dopo la scomparsa dello studioso, a cura di Giuliano Schiavoni, che si è avvalso filologicamente dell’edizione critica stampata in Germania nel 1992-93 e che pubblica anche alcuni testi mai apparsi finora in Italia ( Aforismi e frammenti , traduzione di Elena Franchetti, pagine 620, 9).
Percorrendo le «Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via», ossia i cosiddetti «aforismi di Zürau», che aprono la raccolta e che sono stati recentemente ripubblicati anche da Adelphi, si fanno incontro incessantemente lampi ora oscuri ora abbaglianti, provenienti dalle vette della meditazione occidentale, come questo: «Puoi mai conoscere qualcosa che non sia inganno? Se l’inganno dovesse un giorno venire demolito, bada di non guardare da quella parte o diventerai di sale». Oppure questo: «La verità è indivisibile, quindi non può riconoscere se stessa; chi vuole riconoscerla deve essere menzogna».
L’inganno lambisce anche la morte, che sarebbe la nostra salvezza, se segnasse una vera fine; ma, mentre il dolore della morte è reale, la fine è solo apparente, perché il gioco rimane aperto e a esso siamo condannati anche sull’ultima soglia, come si legge in una serie di aforismi del quarto de «Gli otto quaderni in ottavo». L’ineluttabilità dell’esistenza e la negazione dell’aspirazione o del diritto alla morte è un tema che troverà importante sviluppo nell’esegesi di Blanchot e che concerne l’essenza tanto della letteratura quanto della realtà. Si procede di enigma in enigma, di abisso in abisso, ugualmente lontani dall’origine e dalla meta: ma questo è il mondo, e innanzitutto il mondo kafkiano. Roberto Calasso in K. , il suo recente, ed eccellente, libro su Kafka (che l’edizione Bur ha il torto incomprensibile di non citare nella bibliografia, nella quale d’altronde non figurano neanche gli scritti di Blanchot e di Canetti), osserva: «Certamente non è accaduto, come alcuni continuano a sostenere, che il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno, dalla luce dei Lumi. Ne sarebbe risultato un mondo fatto da funerali laici, nel loro tremendo squallore. È accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno», che è pura potenza o puro gesto e, come tale, non può essere nominato.
L’esperienza o almeno la percezione dell’indistruttibile è innegabile, ma come uscire dal dilemma che prospetta uno degli aforismi di Zürau: «Se ciò che nel Paradiso si dice sia stato distrutto era distruttibile, allora non era un fatto decisivo; se invece era indistruttibile, allora viviamo in una falsa fede»?
L’opera di Kafka è l’interminabile indugio talmudico su quella speranza che esiste indubbiamente, ma non per noi, come lo scrittore ebbe a dire nei mirabili Colloqui con Januch , perché - è un altro aforisma del terzo de «Gli otto quaderni in ottavo» - «Il Messia verrà solo quando non è più necessario, verrà solo dopo la sua venuta, non verrà l’ultimo giorno, ma l’ultimissimo».

oppio cattolico e politici "ardenti"

Corriere della Sera 13.1.05 prima pagina
Il culto del santo diventa fenomeno mediatico (400mila spettatori). Corsa per pregare via satellite
Il rosario folgora i politici. Sulla tv di Padre Pio
di Gian Antonio Stella


Se Parigi val bene una messa, quattrocentomila voti valgon bene un rosario. E così, da quando hanno scoperto che il cantilenante sgranar di «avemarie» sulla tomba di Padre Pio viene visto in diretta via satellite da una massa spropositata di persone, certi politici sono stati improvvisamente colti da una strana impazienza mistica. Che si placa solo quando riescono a essere finalmente lì, a San Giovanni Rotondo, davanti alle telecamere: «Meno tre, due, uno, in onda: "Ave Maria, piena di grazia..."».
Oddio, non è che le immagini siano così appassionanti, per chi non ama il genere. Come in certi mortali film d’avanguardia l’obiettivo è inchiodato infatti, senza la più piccola variazione, sulla tomba che contiene le spoglie del frate che Giovanni Paolo II ha voluto inserire tra i nuovi santi. La tomba, la cappella, la gente intorno: fine. Una specie di «Grande fratello» mariano, funebre e giaculatorio. Ma si sa come vanno queste cose: sempre televisione è. E come insegna il varesotto Alessandro Cocco, che qualche anno fa finì nel Guinness dei Primati per aver partecipato come spettatore a 4.549 trasmissioni per un totale di 7.496 inquadrature, andare in onda è per molti un’attrazione irresistibile.
Ed ecco che un giorno hanno cominciato ad affacciarsi per il rosario i ragazzi del paese che non vedevano l’ora di dire agli amici: mi hai visto in tivù? Poi è stata la volta dei politici locali, assai solleciti nel titillare la venerazione degli elettori per il monaco con le stimmate. Finché la notizia che con la trasmissione «Santo Rosario, in diretta dalla cripta di San Pio di Pietrelcina» l’emittente «Tele Radio Padre Pio» (canale 856) quadruplicava gli ascolti e aveva un tale successo da convincere Sky a inserire la piccola televisione tra le «Top Ten», ha raggiunto i protagonisti della politica. Col risultato, come ha scritto sul Tempo Antonio Calitri, che «il telefono del santuario ha incominciato a squillare per prenotare visite private da parte di importanti personaggi politici nazionali». Primi fra tutti, dicono, il ministro degli Interni Beppe Pisanu e il segretario dell’Udc, nonché vicepresidente del Consiglio, Marco Follini.
Amen.
Meraviglia? Zero. Spazziamo via gli equivoci: la buonafede di chi crede in San Pio non può essere messa in discussione. E meno ancora la fede di chi individua nel fraticello un testimone del cristianesimo del nostro tempo. Alla larga, su questo punto, da ogni ironia. Ma intorno al traboccare di parole di devozione per padre Pio, da qualche tempo, si avverte non solo l’amato profumo di rose ma anche altri olezzi indefinibili che dovrebbero infastidire, primi fra tutti, proprio i fedeli più affezionati.
Clemente Mastella rivendica le origini campane del monaco e tuona: «Padre Pio è un santo nostro e noi di Benevento ci teniamo che si sappia». Silvio Berlusconi ci tiene a far cader l’occhio degli ospiti sul santino di Padre Pio che tiene appoggiato su una credenza nella villa di Arcore. Il suo cardinale camerlengo Sandro Bondi tiene l’immaginetta del caro monaco nel reliquiario che più gli è prezioso: appiccicato sulla foto della sacra famiglia berlusconiana dominata da Madonna Veronica. Pierluigi Castagnetti precisa: «Il leader del centrosinistra? Lo sceglieremo quando sarà il momento... e quando sarà il momento ci assisterà padre Pio». E Francesco Rutelli sospira: «Mia madre era devotissima a Padre Pio».
Beppe Drago, promosso oggi a sottosegretario nonostante sia stato condannato per essersi impossessato dei fondi riservati all’ex presidente della Regione Sicilia all’epoca in cui ricopriva la carica, si dichiara un fedele fedelissimo e con lui una schiera di parlamentari e ministri che non finisce più. E che va da Giulio Andreotti (che proprio il dì della beatificazione di Padre Pio venne in qualche modo «assolto» dai processi che aveva in ballo dal Papa stesso che ostentatamente lo benedisse) ad Antonio Di Pietro: «Padre Pio era una persona di origine modesta, con un linguaggio essenziale e anche un po’ rude con gli interlocutori. Però trasmetteva quel calore di cui ognuno aveva bisogno... Spesso sono andato al santuario di san Giovanni Rotondo, dove sono amico di Fra’ Modestino e padre Gerardo, con cui gioco a bigliardino, il passatempo dei seminaristi». Per carità: tutto già visto. Perfino Benito Mussolini, fedele alla fama che si era conquistato di essere un «ateo a orologeria», arrivò a scrivere al frate nel 1937 una lettera il cui passaggio centrale era: «Sia benedetto Iddio per averci dato un frate come te, un Santo!». Non meraviglierà dunque se Francesco Forgione, che porta lo stesso nome con cui nacque Padre Pio ma è un deputato di Rifondazione Comunista, confida: «È bello chiamarsi come lui, sì, non mi dispiace affatto... Tutti e due abbiamo fatto una scelta di campo evangelica: quella degli ultimi, anche se io dal punto di vista di Marx». Né se l’allora premier Massimo D’Alema, del quale erano noti i trasporti culinari ma non quelli religiosi, sia arrivato a mandare a Giovanni Paolo II, il giorno del suo compleanno, una lettera che diceva: «Rammento con emozione la cerimonia di beatificazione di Padre Pio, alla quale ho avuto il privilegio di intervenire con mia moglie, svoltasi con la devota presenza di un numero grandissimo di fedeli, che ha rappresentato tangibilmente il forte ed appassionato legame che unisce reciprocamente Sua Santità e l’Italia».
Il massimo però l’ha dato Irene Pivetti. La quale ha consegnato ai posteri, per mezzo dei settimanali popolari, due interviste indimenticabili. Nella prima, dove campeggiava a tutta pagina con un enorme ritratto del frate tra le braccia, la virginea ex presidentessa della Camera raccontava d’esser finita la prima volta a San Giovanni Rotondo per curiosità ma «dopo quella visita nel mio animo è scattata una molla particolare: una sincera ammirazione verso la figura di padre Pio. Oltre che una devozione vera e propria. Non aggiungo altro. Amo tenere nella massima riservatezza i miei sentimenti religiosi che riguardano la parte più intima di me stessa». Nella seconda, più recente, al giornalista che le chiedeva come potesse conciliare la sua partecipazione borchiata al programma «Bisturi» al fianco del monumentale Platinette con il fraticello barbuto, rispondeva: «Padre Pio è mio fratello e mi guida in tivù». Ma il meglio doveva ancora venire: «Il santo mi dà serenità. Placa le mie ire e mi aiuta a far divertire il pubblico nelle mie trasmissioni». E come poteva andar male, con un patrono così?

«Deserto rosso»

Corriere della Sera, cronaca di ROMA
POLITECNICO FANDANGO
«Deserto rosso» di Antonioni presentato da Daniele Vicari

questa sera

Per «Ci siamo tanto amati, i film della mia vita», presso il Politecnico Fandango, Daniele Vicari presenta «Deserto rosso» (1964) di Michelangelo Antonioni con Monica Vitti e Richard Harris (foto) . Primo film a colori di Antonioni, che per la fotografia si avvalse della collaborazione del grande direttore Carlo Di Palma, «Deserto rosso» rappresenta un film cruciale per il regista. Antonioni analizza il difficile rapporto tra ambiente sociale e individuo. Protagonista è Giuliana, moglie insoddisfatta non solo del proprio rapporto coniugale ma anche della propria sfera sociale e affettiva. Sullo sfondo della città di Ravenna, della quale risaltano soprattutto i tratti d'una industrializzazione invasiva,

POLITECNICO, via Tiepolo 13/a, ore 20,30, tel. 06.3219891