venerdì 16 gennaio 2004

Damasio su Spinoza
«la nostra mente si nutre di emozioni»

Repubblica 16.1.04
un saggio su Spinoza del neurofisiologo Antonio Damasio
LA NOSTRA MENTE SI NUTRE DI EMOZIONI

Il motore primario delle nostre reazioni al mondo esterno, le pulsioni come le definì Sigmund Freud, sono gioia e dolore
Le straordinarie intuizioni del filosofo olandese possono essere stimolanti anche alla luce delle scoperte scientifiche attuali
di FRANCO PRATTICO


Ancora una volta bisognerà ammettere (un´ammissione che potrebbe dare fastidio ad alcuni scienziati) che talvolta la filosofia fornisce alla scienza strumenti affilati per la sua indagine sul mondo. Anche se in questo caso si tratta di uno dei più grandi filosofi del Seicento, Baruch de Spinoza, che può essere considerato un padre dell´Illuminismo e del pensiero moderno europeo in generale, e di uno scienziato un po´ particolare, il portoghese americano Antonio Damasio, neurofisiologo e cognitivista, che dopo aver liquidato anni fa Descartes e il suo dualismo in L´Errore di Cartesio, sceglie adesso l´anticartesiano per eccellenza, Baruch de Spinoza, suo lontano compaesano (Spinoza discendeva da una famiglia di ebrei portoghesi, naturalizzati in Olanda) per costruire una originale riflessione su ciò che l´indagine scientifica, condotta con gli strumenti più raffinati delle neuroscienze moderne, può dirci sull´eterno problema del rapporto tra cervello e mente. E in quale misura le straordinarie intuizioni di Spinoza, che investivano anche appunto il rapporto tra mente e cervello umano - e che al filosofo seicentesco di Amsterdam fruttarono non solo la scomunica della comunità ebraica portoghese-olandese alla quale apparteneva, ma anche la condanna e l´interdizione di cattolici e luterani (i suoi scarsi libri, e in particolare l´Ethica, pubblicata postuma, poterono circolare liberamente in Europa solo nella seconda metà dell´Ottocento) - possono oggi essere illuminanti anche nel quadro dei risultati delle neuroscienze attuali, o almeno delle ipotesi di lavoro dello stesso Damasio.
In questo caso - ossia nel testo dedicato a Spinoza (Alla ricerca di Spinoza: emozioni, sentimenti e cervello, Biblioteca scientifica Adelphi, pagg. 424, euro 30) - Damasio parte dalle sue già affermate ipotesi sul rapporto tra cervello e mente e Spinoza rappresenta qui il riferimento forte (e a suo tempo «scandaloso») a una idea «monista», che nonostante le persecuzioni si radicò profondamente nella cultura europea già nel Settecento, che postulava la identificazione tra il corpo (ossia il cervello) e quella sfuggente entità o quel processo ove si formano i nostri pensieri e che chiamiamo mente, andando cioè al di là del dualismo cartesiano tra mente (res cogitans) e materia (res extensa). «Nella mente - affermava Spinoza - non c´è nessuna volontà assoluta, cioè libera, ma essa (volontà) è determinata da una causa, determinata (a sua volta) da un´altra e così all´infinito» (Ethica, prima parte, proposizione 48).
Il reale motore delle nostre volizioni sono gli affetti elementari, che riguardano direttamente o indirettamente lo stato delle regioni del nostro corpo, e che Spinoza riassume in «letizia o tristezza» e che sono l´effetto della nostra interazione col mondo. Schiavi quindi di determinazioni esterne. Ma «ciò che ci rende schiavi sono gli affetti», la nostra dipendenza appunto da letizia e tristezza, ossia da stimoli a cui non possiamo non rispondere. Siamo parte di un´unica sostanza dalle infinite determinazioni, il famoso Deus sive natura spinoziano, che rappresenta l´unica sostanza priva di determinazioni, che è causa di se stessa, e di cui ogni fenomeno è manifestazione, in un labirinto di cause ed effetti dal quale non possiamo uscire. Un Dio che non dobbiamo temere perché non ci punirà né ci premierà: «Quando non siamo gentili con gli altri - scrive Damasio - puniamo noi stessi e ci neghiamo l´opportunità di raggiungere la pace e la felicità interiori». Perché il dio di Spinoza è natura e si manifesta nelle creature viventi, e perciò le nostre azioni dovrebbero essere conformi alla natura di questo dio: ossia una vita virtuosa e rispettosa degli altri, possibilmente in una società libera e democratica, temperando le proprie passioni grazie alla conoscenza.
Punto di partenza della lettura spinoziana di Damasio sono quindi le emozioni, o quanto meno quelle fondamentali, proprie a tutto il mondo animale: vale a dire le reazioni agli stimoli e alle percezioni che ci vengono dal mondo esterno e che sono fondamentali per la sopravvivenza e sono state perciò conservate e potenziate dall´evoluzione per selezione naturale. Vale a dire paura, fame, rabbia, appetiti elementari e anche condizioni più generali, come la tristezza e persino la felicità (la «laetitia» appunto di Spinoza). Perché il motore primario delle nostre reazioni al mondo esterno - quello che Spinoza definiva il «conatus», e che per Damasio equivale in una certa misura alle «pulsioni» freudiane - sono appunto gioia e dolore. Le emozioni, nella nostra specie come in altre, rappresentano le risposte primordiali utili alla sopravvivenza dell´organismo (localizzabili, insiste Damasio, nell´amigdala, nel cingolo, nel lobo temporale, nel tronco encefalico), risposte che hanno alla base dolore e piacere. Su queste emozioni primarie - biologiche - si innestano poi le «emozioni sociali», che si trasformano in dictat comportamentali: empatia, senso di colpa, compassione, imbarazzo, vergogna, orgoglio, gelosia, invidia, gratitudine, ammirazione, indignazione e disprezzo. E´ su di esse che nel corso della storia della nostra specie verranno poi costruiti i meccanismi elementari della regolamentazione sociale.
Ma, osserva Damasio, va tenuto presente che alla base delle emozioni, primarie e sociali, non vi è semplicemente il cervello, anche se oggi la ricerca neurologica riesce a individuare le regioni cerebrali interessate, ma l´intero organismo, i cui messaggi e segnali il cervello registra ed elabora. E´ quindi il corpo, che rappresenta l´humus su cui si costruiscono le emozioni, o meglio l´origine delle sonde che attraverso la rete dei nervi informano le aree deputate del cervello dello stato di ogni singola regione del nostro organismo. Le emozioni perciò afferiscono al corpo, sono le «frasi» che le singole regioni dell´organismo trasmettono al cervello, perché alla fine costruisca la mente: «La mente esiste - scrive Damasio - perché c´è un corpo che la rifornisce di contenuti». E a loro volta è dalle emozioni, dai messaggi corporei, che nascono immagini, sentimenti, stati mentali. Quegli stati mentali che definiamo sentimenti nascerebbero quindi dal controllo delle mappe neuronali del corpo rappresentate nel cervello. «Sulla base della moderna neurofisiologia - prosegue Damasio - possiamo dire che le immagini (mentali, n.d.r.) sorgono nel cervello grazie ai segnali afferenti dal corpo». E la coscienza (quindi la consapevolezza della propria identità) è il prodotto del processo in base al quale sentimenti e pensieri si intrecciano con le informazioni e le richieste che sgorgano dal nostro corpo. Il teatro dei nostri sentimenti - e per deriva anche dei nostri pensieri, delle idee - è quindi il corpo. Ma i sentimenti, una volta elaborati, rappresentano risposte non stereotipate alle informazioni corporee fornite dalle emozioni. Da questo, ossia dalle emozioni come segnali di regioni del corpo che informano il cervello, o meglio le regioni cerebrali a ciò deputate, Damasio approda alla elaborazione delle emozioni compiuta successivamente dal cervello, e alla loro trasformazione in pensieri, in idee, in scelte di strategie di risposta al mondo esterno, insomma in eventi mentali, che quindi infine così costruiscono la mente, che di questo complesso processo è il risultato. «Oggi - osserva il neuroscienziato portoghese-americano - è possibile indagare le aree neuronali dove sono localizzati i sentimenti», costruendo quindi una neurobiologia delle emozioni e dei sentimenti.

Romano Bilenchi
non aspettò l'invasione dell'Ungheria

Repbblica 16.1.04
Sul "Caffè" alcuni inediti
BILENCHI E LO SCONTRO COL PARTITO COMUNISTA
di NELLO AJELLO


Ombroso, impulsivo, profondamente toscano, Romano Bilenchi (1909-1989) è stato, oltre che un narratore raffinato e avaro di sé, un testimone della cultura e della politica del Novecento. Alcune lettere finora inedite appaiono nell´ultimo numero (novembre-dicembre 2003) del Caffè illustrato, diretto da Walter Pedullà. Ne emergono i tratti essenziali del personaggio: onestà personale, disprezzo per i burocrati d´ogni risma, fedeltà alle amicizie.
Legato in gioventù alla corrente letteraria di Strapaese, che aveva fra i suoi banditori il concittadino Mino Maccari - erano entrambi di Colle Val d´Elsa - Bilenchi dedicava un ammirato rispetto alle tradizioni della propria terra, che conciliava con un ruvido fascismo popolaresco, alla Ottone Rosai. Suoi bersagli erano i circoli letterari, assai autorevoli nella Firenze ermetica, e d´estate fiorenti nella vicina Versilia. Era Forte dei Marmi secondo lui - e in questo senso ne scriveva nel gennaio del '32 all´amico Eugenio Galvano - la località adatta per vedere e sentire «come sono fessi i letterati». Ne salvava pochi: Maccari, che per la statura e l´età chiamava «il Piccolo Padre», Ardengo Soffici ribattezzato «Il Santo», ed Elio Vittorini. Di molti altri metteva in ridicolo le ansie metafisiche. Quanto a lui, se ne preservava con distacco vernacolo: «Tormenti spirituali non ne ho», confidava a Galvano, «tolti quelli per la potta delle figliole di Siena».
All´autore di Conversazione in Sicilia è dedicata un´altra delle lettere pubblicate dal Caffè. Si riferisce a una vicenda cruciale della vita di Bilenchi: le sue dimissioni dal quotidiano comunista Il nuovo Corriere di Firenze. Ne aveva assunto la guida nel 1948, dopo essere stato vicedirettore della rivista Società e aver collaborato alla nascita del Contemporaneo. Bilenchi, come molti ex fascisti di sinistra, era entrato in quel «partito nuovo» che vedeva incarnarsi in Togliatti, ma con qualche riserva libertaria. Quelle nutrite dallo scrittore di Colle Val d´Elsa rappresentavano, in fondo, il vero lievito di un giornale in cui sembrava prolungarsi lo spirito «unitario» del Cln.
La vena protestataria di Bilenchi traboccò nel luglio del '56, in occasione della rivolta popolare esplosa nella città polacca di Poznan e della cruenta repressione che ne seguì: episodi che il Pci tendeva ad archiviare come manovrati dai «nemici di classe». «I morti di Poznan sono morti nostri», proclamò invece, in un «fondo», il direttore del Nuovo Corriere. E in capo a un mese il giornale venne soppresso.
Violento e durevole fu lo strascico emotivo che questa decisione lasciò nella vita di Bilenchi. Nella lettera a Vittorini del settembre '56, egli parla dei comunisti con sdegno, li chiama «loro», e gli attribuisce calunnie cui il «carissimo Elio» non dovrà credere: «Figurati se vado all´Unità di Milano. I miei rapporti con loro sono tesi», e tali resteranno. Più tardi, nel gennaio del '72, rivelerà a un altro amico, Silvio Guarnieri, che «dentro il partito c´era e c´è ancora una banda nefasta», così ramificata da isolare il vertice di Botteghe Oscure. «Perché non raggiungessi Togliatti mi costrinsero a dare le dimissioni». E l´amarezza sembra coglierlo quando annota che a essere «trattato bestialmente» è «uno come me» che ha «speso un´intera vita per diventare comunista».
Ancora negli ultimi anni di vita, chi lo andava a trovare nella sua casa fiorentina di via Brunetto Latini per documentarsi su questo o quell´episodio del Pci, lo scorgeva in preda all´ «incazzatura personale» che aveva provato in quell´estate del '56. L´autore della Siccità e del Bottone di Stalingrado era fiero del suo ruolo di profeta, al punto da esaltare forse oltre il dovuto il proprio ruolo politico. «Il Nuovo Corriere», ha scritto nel 1982 a Goffredo Fofi, «non arrivò all´insurrezione ungherese... Io feci casino prima, ai fatti di Poznan». E «fui fatto fuori perché ero l´ultimo bersaglio togliattiano».

gli illuministi
intervista impossibile con il generale Caracciolo (1752-1799)

Repubblica, edizione di Palermo 16.1.04
È arrivato nella Sicilia, ancora feudale, nel 1781
E per cinque anni ha lottato contro i mulini a vento
Caracciolo, il vicerè illuminista avversato dai baroni e dal popolo
"Volevo governare con la ragione e ho perso tutto"

"La mia aspirazione era portare il progresso sulla scia dei cambiamenti in Europa, invece mi ricordano perché volevo accorciare il Festino come fosse stato il capriccio di un originale"
"Sono i ricordi a fare la differenza fra noi, e sono contento dei miei Pensi, se fossi stato uno dei nobili che cercarono di distruggermi come il principe di Partanna, che pesante fardello avrei da portare"
"Se offri al cittadino la possibilità di allontanare i suoi parassiti e abolisci le servitù feudali e l´Inquisizione te lo ritroverai lo stesso nemico"
"Ai miei tempi nell´Isola erano tutti prigionieri del tempo circolare che riporta sempre al punto di partenza per perpetuare i privilegi"
di AMELIA CRISANTINO


Eccellenza...
«Lascia perdere, sono sempre stato contrario a questi titoli. Dopo tanti anni, cosa vuoi che sia rimasto della mia eccellenza. Siamo sabbia che scorre, siamo granelli. Tutti cittadini, dentro la clessidra del tempo. Chiamami col mio grado».
Marchese, allora.
«Anche se questi titoli avessero un significato, non sono mai stato un vero marchese. Ero cadetto, il titolo me l´ha ceduto mio fratello».
Ministro?
«Non per forza con l´ultimo mio grado. Chiamami con quello che mi è costato lacrime e sangue».
Viceré, per forza.
«Preferisco cittadino viceré, se non hai obiezioni. In fondo sono un sentimentale, ci tengo a salvare i miei ricordi. Sono i ricordi che fanno la differenza fra noi. A guardare come vanno le cose, meno male che ho i miei ricordi. Pensa se avessi quelli di un altro, se per un capriccio della sorte io fossi stato, che so, uno dei baroni che fecero di tutto per distruggermi. Se fossi stato il principe di Partanna, o quello di Valguarnera, o quel pedante del marchese di Villabianca. Vedi un po´ con che ricordi sarei costretto a convivere. Meno male che sono stato me stesso».
Cittadino viceré, ho attraversato contrade fantastiche per avere l´onore di incontrarvi.
«Dalla Sicilia, quasi nessuno passa a trovarmi. Mi rievocano in qualche accademica discussione, di quelle dove ci metto poco a sentirmi intrappolato. Ogni tanto ricordano che volevo accorciare il Festino, come fosse stato il capriccio d´un originale. Per il resto, tutto tace. E si consuma il grande imbroglio del progresso inseguito a parole, mentre nessuno vuole poi raggiungerlo. Metti che questo progresso arriva, come fosse un viaggiatore che fa una fermata anche nella patria degli dei. Potrebbe arrivare solo di notte, in incognito. A passi felpati, come un ladro. Per sorprenderli nel sonno. E farsi poi bandire, come fosse il più pericoloso dei briganti».
Cittadino viceré, quella della Sicilia è una storia tragica?
«La prima volta che mi occupai di quell´isola ero ancora a Londra, molti anni prima d´arrivare a Palermo. Ero ambasciatore del re di Napoli, tenevo occhi e orecchie ben aperti. Eravamo dentro i rutilanti inizi della civiltà commerciale, che avrebbe poi tutto travolto con la forza di innumerevoli oggetti di scarso valore. Di quelli che, presi uno per uno, non ci avresti scommesso un soldo. Ma questo è un altro argomento? anche se tutto s´intreccia, specie se visto dalla mia prospettiva. Comunque ero là, nel tempio della civiltà del commercio, il luogo dove si vendevano anche le pietre delle strade. E che vedo? M´accorgo che le sete siciliane erano d´ottima qualità, ma buttate via. Esportate grezze per ignoranza, per incompetenza tecnica. Vendute sulla piazza di Londra per molto meno delle sete lombarde. Che erano raffinate, ben lavorate. Ma sempre di qualità inferiore restavano. Ho cercato un rimedio. Ho invitato il governo a proteggere un´industria antica e in decadenza, e suggerito ai produttori come risollevare le loro sorti. Qualcosa si fece».
Quello delle industrie mancanti, o in qualche modo difettose, è un problema antico. Mai risolto.
«Mi sorprendo a pensare che forse il problema vero è quello del progresso. Quand´ero a Parigi, il piacere della conversazione dava alla testa come un vino frizzante. Tutto sembrava facile, possibile. Le catene della servitù si rompevano dappertutto, gli esseri umani conquistavano la libertà, la coscienza».
La Sicilia era un´isola lontana da tutto questo. La sua tradizione era tutta all´opposto dell´illuminismo.
«Se arrivi e offri ad un popolo la possibilità di allontanare i suoi parassiti, se vuoi levare le servitù feudali e il tribunale dell´inquisizione, se vuoi costruire strade e impiantare manifatture, allora metti in conto che ci saranno resistenze, che i vecchi privilegi faranno sentire la loro forza d´inerzia. Ma pensi che le nuove idee non sarà possibile fermarle, come non è possibile bloccare una gemma e non farla diventare fiore e frutto».
La società non segue le leggi della natura.
«M´accorsi subito che stavano buttando il momento giusto, persi a sognare il passato invece che costruire il futuro. M´illudevo che bastasse lavorare, adoperare i miei poteri come un grimaldello. Perché anche nelle profondità si allentassero, e infine si rompessero, gli innumerevoli legacci che bloccavano quel progresso che altrove andava veloce. Invece mi sbagliavo. L´errore è stato mio, mio e dei miei amici illuministi».
Chissà, forse il progresso non può trapiantarsi da un posto all´altro.
«Eravamo ingenui, adesso lo capisco. Tutti a pensare che il tempo andasse sempre avanti, che la forza delle idee avrebbe sollevato le coscienze. Ma il tempo non è per forza lineare, non si deve a tutti i costi andare avanti. Il tempo può anche essere circolare. Non dico che possa tornare indietro, questo no, non mi sembra possibile. Però può girare sui solchi già tracciati, e dare quell´illusione di eterno presente di cui ha parlato qualche filosofo».
Cittadino viceré, come è cominciata questa storia? È forse colpa del delirio per un inventato passato glorioso? C´entrano quelle vuote tradizioni con cui s´incoronano gli sciocchi? Perché questo rifiuto a rompere il tempo circolare?
«Ogni cosa ha il suo peso, chi può negarlo. La cultura del privilegio genera il tempo circolare, la sua natura è nella conservazione, nella ripetizione. In fondo un atteggiamento di debolezza, di difesa. Lo Stato e i baroni, come dire un eterno, incuboso medioevo. Si dannavano per restare fermi, ma anche i baroni sono passati. Comunque, io non ho responsi. Non credo nei rimedi che sanno di miracolo».
Cittadino vicerè, oggi la ragione e i ragionamenti non hanno gran seguito. La ragione argomenta, e non tutti sanno tenere il filo. Vince chi strombazza di rimedi miracolosi. Dicono che faranno un ponte, una meraviglia della tecnica per unire l´isola al continente. Così tutto andrà per il meglio.
«Ai miei tempi ci volevano quattro giorni di mare per arrivare da Napoli a Palermo. In mezzo ai pericoli, sempre con la paura di avvistare i pirati. Ci sono ancora i pirati?».
Non ci sono più, da lungo tempo. Ci sono i barconi dei clandestini. Ma non praticano quel tratto di mare.
«Se sul mare ci si muove alla stessa velocità che sulla terraferma, perché disturbare l´equilibrio della natura? In quei posti la terra è ballerina. Meditavo di farne la mia residenza, quando nel 1783 il terremoto offese Messina. La città non si riprese più».
Cittadino viceré, so che avete fatto dei piani per sviluppare i commerci.
«Per un armonico sviluppo dei commerci, è importante che vi sia una celere via di collegamento fra le città. La costruzione di un´agevole via fra Palermo e Messina fu tra i miei primi programmi. Il Senato della città mi osteggiava, non ne vedeva l´utilità. Ero io, il viceré Caracciolo, a volerla. E il Senato era contrario a tutte le mie idee. Si cominciò comunque, con grandi ritardi. Io, andavo di persona a controllare i lavori. Scoprii imbrogli e malversazioni da non crederci. Appalti truccati, spese enormi, ladroneggi. Per farla breve, alla mia partenza i lavori furono sospesi. Con buona pace di quanti s´erano adoperati per avversarli».
Senza le strade non possono farsi i commerci. Questo ormai lo sanno tutti. La celere via fra Palermo e Messina sta per essere completata. Ma davvero io mi chiedo, e non trovo risposta: come ha potuto il tornaconto di alcuni fermare il progresso di tutti?
«Mancava un ceto medio, quello da cui si genera la ricchezza delle nazioni. Continuò a mancare, anche se tentai di tutto per provocarne la nascita. Ma nessuno può diventare la levatrice della storia, se prima non è matura la creatura. Difficile che maturi, quando i paludati vestimenti chiudono il corpo sociale in un´artificiosa impalcatura, che sembra tenerlo in piedi ma gli impedisce di generare».
La ricchezza delle nazioni porta ad un armonico sviluppo del corpo sociale. O forse è l´armonico sviluppo del corpo sociale che porta alla ricchezza delle nazioni. Magari entrambe le cose.
«Quando arrivai a Palermo, subito vidi che tutti i manufatti erano prodotti da altre nazioni, che qui le esportavano. Pensai d´essere arrivato in un posto povero del suo, che niente riusciva a cavar fuori dalle sue viscere. Quale fu la mia meraviglia, nello scoprire che le materie prime per quei manufatti erano prodotte in quell´isola. Vendute e imbarcate allo stato informe, vi tornavano trasformate in molteplici oggetti finiti. Partivano le pelli e arrivavano i cappelli. Con la canapa, altri fabbricavano funi e corde. Un miracolo distante trasformava la potassa in cristalli. S´imbarcavano balle di lana e matasse di seta, e arrivavano i panni che vestivano gli abitanti dell´isola felice: dove non si fabbricavano chiodi e nemmeno spilli o aghi o calze. Persino l´olio veniva raffinato fuori, tornava in patria meno verde e più squisito».
Cittadino viceré, sarà mai possibile uscirne fuori?
«Ai miei tempi, tutti erano prigionieri del tempo circolare. I baroni volevano ricreare il passato, solo più perfetto. Il popolo, appoggiava i suoi oppressori. L´ignoranza del popolo, questo è il vero dramma. Ma quando si consuma la grande impostura, e il popolo si nutre dei cascami dei sogni altri, va bene che resti ignorante. Così è più facile gabbarlo».

Marco Bellocchio
un videoclip

Repubblica edizione di Roma 16.1.04
Presentate a Milano le cinque giornate dell´haute couture che sono in programma a Roma dal 25 al 29 gennaio. Gran gala alla Galleria Colonna
Sfilate nouvelle vague e la moda è videoclip
GIOVANNA VITALE



MILANO - Trenta sfilate ispirate alla nouvelle vague, sette videoclip per raccontare il rapporto tra moda e cinema, un brindisi a Palazzo Chigi in onore del made in Italy, performance ed eventi: tutto nei cinque giorni di haute couture in programma a Roma dal 25 al 29 gennaio.
[...]
Ma la vera novità dell´edizione 2004 è l´accordo tra AltaRoma e Cinecittà Entertainment che, oltre al cartoon realizzato con tecnologia sperimentale in 3D, ha prodotto i videoclip di 5-8 minuti girati da Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Ferzan Ozpetek, Franco Zeffirelli, Enrico e Carlo Vanzina, Pappi Corsicato. «Brevi storie sul rapporto tra moda e cinema», conclude il consigliere delegato di Cinecittà Entertainment, Stefano Cigarini, «interpretati da giovani attori come Alessandro Gassman, Elena Sofia Ricci, Enrico Lo Verso e Sabrina Impacciatore, mentre Stefano Accorsi racconterà le grandi dive». Lo spettacolo può cominciare.


Corriere della Sera 16.1.04
Dominella: sempre più legati a cinema e turismo


[...]
Dopo le «performance» della scorsa stagione, un modo tutto nuovo di presentare abiti e acccessori, cosa caratterizzerà quest’edizione?
«Sicuramente il mix tra moda e cinema, realizzato in collaborazione tra noi e Cinecittà entertainment. Sette sfilate saranno precedute da altrettanti videoclip, proiettati su schermo 12 x 6, di registi importanti che racconteranno cosa sia stata per loro la moda. Accanto a un Bellocchio "che porta la stessa giacca di velluto da 20 anni", distratto quindi nella vita ma attentissimo sul set, la testimonianza di Pontecorvo che con "Kapò" o "La battaglia di Algeri" non aveva molte alternative: carcerati o militari. E poi il cartoon, un linguaggio estetico modernissimo, in cui, in sette minuti si darà una lettura ironica e scanzonata di una megasfilata romana completa di truccatori, parruccheri ed estetiste».