La Stampa 02 Dicembre 2003
IL FILOSOFO PAUL AUDI
Anche l’arte ha bisogno d’ebbrezza
di Edoardo Bruno
«PERCHÉ l'arte esista, perché esista un qualsiasi fare e contemplare estetico, è indispensabile un presupposto fisiologico preliminare: l'ebbrezza». Così inizia il paragrafo 8 del Crepuscolo degli dei, dove Nietzsche ritorna sul concetto dell'apollineo e del dionisiaco, precisandoli entrambi come forma di ebbrezza, come eccitazione della volontà di trasfigurazione, trasformazione e creazione dell'arte. Partendo da queste premesse il filosofo Paul Audi, nel suo ultimo libro L'ivresse de l'art, sviluppa e approfondisce un'analisi sul concetto dell'ebbrezza e sull'importanza che l'eccitazione, la sessualità e l'ubriachezza, proprio nello squilibrio che provocano, hanno nell'arte, eccitando una maggiore sensibilità e «quel più» di soggettività, che crea la forma. È un modo di richiamarsi alla necessità di trasgredire l'interdetto, di cogliere, nel culmine di una esperienza portata all'estremo, ciò che Bataille esaltava di più nell'erotismo, il senso estatico. Un uscire da sé, quindi, un viaggiare nell'empireo della sovrapotenza, in uno stato di rapimento che rasenta il metafisico, e un senso di accrescimento smisurato del proprio io, come scriveva Van Gogh, «colpito o rapito dalla morte e dall'immortalità».
Questa effusione dell'io, in un sovraccarico di affettività, questo arricchimento di sensibilità, accompagnato da una perdita della ragione, sono per Audi virtù essenziali per accedere all'arte, e raggiungere la pienezza di una espressività altrimenti trattenuta e mortificata dall'equilibrio. Ma l'esaltazione di una soggettività esasperata, e, in un certo senso, la stessa emersione incontrollata dell'inconscio, liberate dallo stato di eccitazione dell'ebbrezza, non sono che elementi di scelta di un ordito che va selezionato e composto. Altrimenti l'uscita da sé, propria dell'estasi, rischia di mettere in questione la padronanza dell'io, di far smarrire, sia pure momentaneamente, la forza del pensiero e della ragione, e perdere il controllo della soggettività. E se è vero che questa padronanza non appare sempre essenziale e che la funzione dell'io, in quanto immaginaria, lascia libera una certa oscillazione tra lo stato di veglia e lo stato di ebbrezza, è anche vero che «il luogo filosofico» richiede un'articolazione di discorso, dove il confine tra soggetto e non soggetto, costituisca la regola di un retto ragionare.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 2 dicembre 2003
"Contro l'amore"
La Repubblica 02.12.03
Dagli Stati Uniti alla Francia la tendenza è dimostrare quanti e quali sono gli inconvenienti dei sentimenti troppo intensi
Colpo di fulmine, che paura: no all'amore che stravolge la vita
Carriera e passioni: inconciliabili. L'allarme degli psichiatri
Sono le donne a essere più impressionate dalla perdita delle proprie coordinate emotive
"Perdere la testa" sembra quasi una trasgressione d'altri tempi, da cui guardarsi
di VERA SCHIAVAZZI
ROMA - Ricordate il colpo di fulmine? Quel sentimento improvviso di perdita di controllo e di emozione, di abbandono e di tremore? Bene, se non l'avete mai provato, da oggi potete ufficialmente smettere di cercarlo, o di sentirvi in colpa perché la cosa non vi interessa più di tanto. Sociologi e ricercatori ne hanno decretato l'incompatibilità - salvo trasgressioni e resurrezioni sempre possibili - con l'attuale modo di vivere occidentale. Solo psichiatri e sessuologi lo difendono strenuamente, e d'altra parte la loro professionalità verrebbe messa in crisi dalla scomparsa di questo avvenimento, o del senso di inferiorità di chi se ne sente ingiustamente privato. Il primo colpo di piccone al mito del colpo di fulmine o, se si preferisce, la prima ondata di nostalgia arriva dalle colonne di "Le Monde", che a questo fenomeno dedica addirittura un´"autopsia" sotto forma di inchiesta. E riporta gli ultimi risultati raggiunti da due sociologhe, Marie-Noelle Schurmans e Loraine Dominicé, che dopo aver raccolto centinaia di testimonianze e passato al setaccio l'abbondantissima letteratura sull'argomento hanno stilato una sentenza in tre punti: il colpo di fulmine non si può provocare; il sentimento al quale si avvicina di più è quello della paura, o almeno dello stupore; il caso ha un ruolo fondamentale. Il che equivale a dire, per le due studiose francesi, che l'evento è ormai raro in una società ossessionata dalla programmazione.
Ma negli Stati Uniti le cose non vanno meglio. Un'altra sociologa, Laura Kipnis (sarà un caso se sono le donne a voler dire "basta" all'amore romantico?) sta scalando le classifiche col suo "Against Love", ovvero "Contro l'amore". Con una serie di paradossi, accompagnati da robuste statistiche e da altrettante testimonianze, Kipnis cerca di dimostrare come l'innamoramento, con tutto ciò che ne consegue, si riveli in 9 casi su 10 nocivo prima di tutto alle donne. «L'amore - scrive la ricercatrice americana - non è in grado di mantenere le sue promesse. E una single cinese è più libera di una donna sposata americana: non può lasciare il suo paese, ma esce di casa senza dare spiegazioni a nessuno». Non appena si incrociano gli sguardi con un tenebroso sconosciuto, allora, meglio voltare la faccia e ripassare mentalmente un futuro fatto di delusioni, incomprensioni, intollerabili limiti. E nei manuali di "educazione sociale" di alcune università americane compare il velato invito a fare "sesso sicuro", evitando, almeno in così giovane età, "coinvolgimenti romantici" dannosi alla concentrazione.
Romantici di tutto il mondo, arrendetevi? Raffaele Morelli, psichiatra e direttore di "Riza Psicosomatica", si ribella: «A cancellare la possibilità del colpo di fulmine, di un innamoramento vero e fuori controllo, non è la società, ma ciascuno di noi, con i suoi sciocchi distinguo: al primo appuntamento, stiamo lì a chiederci se chi abbiamo di fronte è vestito come dovrebbe, la pensa come noi, ha le nostre stesse idee politiche. Dopo, decidiamo a che ora fare sesso e come, e stabiliamo se si tratti di una relazione di "solo sesso", di "sesso più amore". Peccato che l'innamoramento autentico avvenga al contrario: senza troppe parole, senza obiettivi, senza progetti. Non ci vuole un manager, per l'amore, basta smettere di giudicare e restare un po' in silenzio».
Dagli Stati Uniti alla Francia la tendenza è dimostrare quanti e quali sono gli inconvenienti dei sentimenti troppo intensi
Colpo di fulmine, che paura: no all'amore che stravolge la vita
Carriera e passioni: inconciliabili. L'allarme degli psichiatri
Sono le donne a essere più impressionate dalla perdita delle proprie coordinate emotive
"Perdere la testa" sembra quasi una trasgressione d'altri tempi, da cui guardarsi
di VERA SCHIAVAZZI
ROMA - Ricordate il colpo di fulmine? Quel sentimento improvviso di perdita di controllo e di emozione, di abbandono e di tremore? Bene, se non l'avete mai provato, da oggi potete ufficialmente smettere di cercarlo, o di sentirvi in colpa perché la cosa non vi interessa più di tanto. Sociologi e ricercatori ne hanno decretato l'incompatibilità - salvo trasgressioni e resurrezioni sempre possibili - con l'attuale modo di vivere occidentale. Solo psichiatri e sessuologi lo difendono strenuamente, e d'altra parte la loro professionalità verrebbe messa in crisi dalla scomparsa di questo avvenimento, o del senso di inferiorità di chi se ne sente ingiustamente privato. Il primo colpo di piccone al mito del colpo di fulmine o, se si preferisce, la prima ondata di nostalgia arriva dalle colonne di "Le Monde", che a questo fenomeno dedica addirittura un´"autopsia" sotto forma di inchiesta. E riporta gli ultimi risultati raggiunti da due sociologhe, Marie-Noelle Schurmans e Loraine Dominicé, che dopo aver raccolto centinaia di testimonianze e passato al setaccio l'abbondantissima letteratura sull'argomento hanno stilato una sentenza in tre punti: il colpo di fulmine non si può provocare; il sentimento al quale si avvicina di più è quello della paura, o almeno dello stupore; il caso ha un ruolo fondamentale. Il che equivale a dire, per le due studiose francesi, che l'evento è ormai raro in una società ossessionata dalla programmazione.
Ma negli Stati Uniti le cose non vanno meglio. Un'altra sociologa, Laura Kipnis (sarà un caso se sono le donne a voler dire "basta" all'amore romantico?) sta scalando le classifiche col suo "Against Love", ovvero "Contro l'amore". Con una serie di paradossi, accompagnati da robuste statistiche e da altrettante testimonianze, Kipnis cerca di dimostrare come l'innamoramento, con tutto ciò che ne consegue, si riveli in 9 casi su 10 nocivo prima di tutto alle donne. «L'amore - scrive la ricercatrice americana - non è in grado di mantenere le sue promesse. E una single cinese è più libera di una donna sposata americana: non può lasciare il suo paese, ma esce di casa senza dare spiegazioni a nessuno». Non appena si incrociano gli sguardi con un tenebroso sconosciuto, allora, meglio voltare la faccia e ripassare mentalmente un futuro fatto di delusioni, incomprensioni, intollerabili limiti. E nei manuali di "educazione sociale" di alcune università americane compare il velato invito a fare "sesso sicuro", evitando, almeno in così giovane età, "coinvolgimenti romantici" dannosi alla concentrazione.
Romantici di tutto il mondo, arrendetevi? Raffaele Morelli, psichiatra e direttore di "Riza Psicosomatica", si ribella: «A cancellare la possibilità del colpo di fulmine, di un innamoramento vero e fuori controllo, non è la società, ma ciascuno di noi, con i suoi sciocchi distinguo: al primo appuntamento, stiamo lì a chiederci se chi abbiamo di fronte è vestito come dovrebbe, la pensa come noi, ha le nostre stesse idee politiche. Dopo, decidiamo a che ora fare sesso e come, e stabiliamo se si tratti di una relazione di "solo sesso", di "sesso più amore". Peccato che l'innamoramento autentico avvenga al contrario: senza troppe parole, senza obiettivi, senza progetti. Non ci vuole un manager, per l'amore, basta smettere di giudicare e restare un po' in silenzio».
una domandina semplice semplice
La Repubblica 02.12.03
Un'occhiata e si scatenano gli ormoni
Un cataclisma per corpo e mente
di CLAUDIA DI GIORGIO
ROMA - Psicologi e psichiatri catalogano le storie d'amore tra gli stress positivi, cioè gli eventi che, pur turbando l'equilibrio, tutto sommato fanno più bene che male. Ma che si tratti di un turbamento, anzi di uno sconvolgimento in piena regola, non c'è dubbio. Dopo anni di indagini sui meccanismi dell'innamoramento, oggi gli scienziati sono in grado di ricostruirne quasi tutti i passaggi biochimici. E la descrizione che emerge dalle loro ricerche è quella di un vero e proprio cataclisma, che non risparmia né il corpo né la mente.
Con buona pace di chi preferirebbe evitarlo, l'amore a prima vista non è un'invenzione di Hollywood. A scatenare le sostanze chimiche che aprono la strada a Cupido può infatti bastare un'occhiata o uno sfiorar di mani. Se lo stimolo è gradito (vale a dire se lo giudica gradito la corteccia frontale, la parte del nostro cervello deputata a valutare gli stimoli ricevuti dai sensi), ecco iniziare la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore legato al piacere e all´euforia. Contemporaneamente un´altra regione cerebrale, l'ipotalamo, scatena una serie di cambiamenti corporei: le pupille si dilatano, il cuore pompa più sangue, e quindi il viso si arrossa, la pelle si copre di un leggerissimo sudore che la rende più luminosa, il respiro diventa breve e affannoso. In poche parole, il nostro corpo segnala eccitazione, rivelando all'altro che ne siamo attratti.
Via via che il rapporto prosegue, aumenta l'intensità della tempesta biochimica. Crescono ancora i livelli di dopamina, e, assieme ad essi, quelli dei neurotrasmettitori noradrenalina e PEA. Il risultato è uno stato di vertigine ed ipereccitazione, simile a quello provocato da una dose leggera di anfetamine.
Ma si abbassa la produzione di serotonina, un neutrasmettitore legato all'ansia e alla depressione, i cui scarsi livelli favoriscono l´instaurarsi di quel sentimento di ossessione che talvolta accompagna le passioni. E poi? Se la storia va avanti e il rapporto si fa più profondo, ecco che entrano in campo nuove sostanze chimiche: l'ossitocina, un ormone che crea sentimenti di tenerezza, la cui produzione è aumentata dallo scambio di baci e carezze, e la vasopressina, che spinge alla fedeltà. C'è una cosa, però, che gli scienziati ancora non ci sanno dire: sono le varie sostanze a scatenare l'amore, o è l'amore che scatena le sostanze?
Un'occhiata e si scatenano gli ormoni
Un cataclisma per corpo e mente
di CLAUDIA DI GIORGIO
ROMA - Psicologi e psichiatri catalogano le storie d'amore tra gli stress positivi, cioè gli eventi che, pur turbando l'equilibrio, tutto sommato fanno più bene che male. Ma che si tratti di un turbamento, anzi di uno sconvolgimento in piena regola, non c'è dubbio. Dopo anni di indagini sui meccanismi dell'innamoramento, oggi gli scienziati sono in grado di ricostruirne quasi tutti i passaggi biochimici. E la descrizione che emerge dalle loro ricerche è quella di un vero e proprio cataclisma, che non risparmia né il corpo né la mente.
Con buona pace di chi preferirebbe evitarlo, l'amore a prima vista non è un'invenzione di Hollywood. A scatenare le sostanze chimiche che aprono la strada a Cupido può infatti bastare un'occhiata o uno sfiorar di mani. Se lo stimolo è gradito (vale a dire se lo giudica gradito la corteccia frontale, la parte del nostro cervello deputata a valutare gli stimoli ricevuti dai sensi), ecco iniziare la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore legato al piacere e all´euforia. Contemporaneamente un´altra regione cerebrale, l'ipotalamo, scatena una serie di cambiamenti corporei: le pupille si dilatano, il cuore pompa più sangue, e quindi il viso si arrossa, la pelle si copre di un leggerissimo sudore che la rende più luminosa, il respiro diventa breve e affannoso. In poche parole, il nostro corpo segnala eccitazione, rivelando all'altro che ne siamo attratti.
Via via che il rapporto prosegue, aumenta l'intensità della tempesta biochimica. Crescono ancora i livelli di dopamina, e, assieme ad essi, quelli dei neurotrasmettitori noradrenalina e PEA. Il risultato è uno stato di vertigine ed ipereccitazione, simile a quello provocato da una dose leggera di anfetamine.
Ma si abbassa la produzione di serotonina, un neutrasmettitore legato all'ansia e alla depressione, i cui scarsi livelli favoriscono l´instaurarsi di quel sentimento di ossessione che talvolta accompagna le passioni. E poi? Se la storia va avanti e il rapporto si fa più profondo, ecco che entrano in campo nuove sostanze chimiche: l'ossitocina, un ormone che crea sentimenti di tenerezza, la cui produzione è aumentata dallo scambio di baci e carezze, e la vasopressina, che spinge alla fedeltà. C'è una cosa, però, che gli scienziati ancora non ci sanno dire: sono le varie sostanze a scatenare l'amore, o è l'amore che scatena le sostanze?
mamme...
italiasalute.it
L’ECCESSO DI ATTENZIONI DELLA MAMMA VERSO IL BAMBINO
Di Johann Rossi Mason
(da Mente & Cervello di nov-dic 2003)
Nonostante i molteplici libri sulla gravidanza, manuali di puericultura, e gli studi su come essere genitori "quasi perfetti" (Bettelheim) o "sufficientemente buoni" (Bowlby), la psicologia della maternità è ancora poco indagata.
L’eccessiva medicalizzazione dell’evento gravidanza e più ancora il parto ha sviato l’attenzione dal vissuto psicologico della donna che si prepara a diventare madre. Un vissuto che non sempre è lineare come amiamo pensare. Anche in assenza di una patologia sappiamo, grazie anche alla quantità di studi psicoanalitici che hanno approfondito il ruolo delle madri, che le cure materne possono avere valenze quanto mai sfaccettate e varie.
La gravidanza è innanzitutto un evento psichico molto importante che produce delle modificazioni non solo nell’esperienza ma anche permanenti nuove connessioni neuronali che modificheranno per sempre la struttura cerebrale della madre. E la gestazione ha effetti diretti anche sul cervello e sugli altri organi del bambino, in quanto recenti ricerche hanno dimostrato che il feto è sensibile ad ogni modificazione umorale e ormonale della madre. Un recente studio apparso su Developmental and Behavioral Pediatrics ha confermato che il livello di sviluppo del cuore fetale può essere influenzato negativamente quando la madre soffra di ansia cronica e situazioni stressanti che modificano i parametri cardiocircolatori, come la pressione sanguigna.
Quello che fare i figli sia un dato talmente acquisito, naturale da non aver bisogno di essere indagato è un equivoco culturale. E l’equivoco non si ferma qui dato che nell’opinione comune si sottolinea la mancanza di cure come comportamento criticabile, mentre le eccessive attenzioni materne sono giudicate positive.
Una stessa donna può vivere gravidanze diverse nel corso della sua vita, dal punto di vista del vissuto emotivo, che cambia a seconda del rapporto con la famiglia di origine, del rapporto col partner, del supporto sociale di cui gode, del lavoro, delle aspirazioni e ambizioni, delle relazioni con altri figli, aborti, ecc. ecc.
Non c’è dubbio che ogni gestazione porti con se aspettative elevatissime, sul figlio che sarà, sul fatto che stabilizzerà il rapporto di coppia o che al contrario arrivi in un momento inopportuno, che si sia pensato a rinunciarci, che il partner o la donna stessa non lo desideri, che sia frutto di una passione, di un amore consolidato o di una violenza. Per ciascuna di queste situazioni c’è una madre diversa e un bambino assolutamente unico che in parte è figlio della situazione e della temperatura emotiva in cui viene al mondo. La stessa madre non ama i diversi figli nello stesso modo e su ciascuno di essi investe in misura differente.
Molti studiosi dell’evoluzione ritengono che il piccolo dell’essere umano venga al mondo ancora immaturo e per tale ragione ha bisogno di lunghe cure materne prima di essere indipendente, cure che durano più a lungo di qualsiasi altro mammifero sulla terra. Il "costo" è quello di una estrema dipendenza dalla madre, che lo deve allattare e nutrire, con una dedizione che qualsiasi primipara definirà molto faticosa. Ma questo programma funziona grazie ad un processo chiamato "attaccamento".
Come abbiamo detto, la madre che preoccupa è quella che mostra di non aver sviluppato un attaccamento nei confronti del bambino, quella che lo ignora, che non prova alcun legame, alcun sentimento, o al contrario, ha repulsione. Non lo attacca al seno e in alcuni gravi casi nega di averlo partorito.
Al contrario, la madre che sta occhi negli occhi col neonato, lo allatta più volte al giorno e soddisfa ogni sua richiesta è, agli occhi del mondo, una buona madre che si dedica al bambino con abnegazione.
Come spesso accade però le cose non sono sempre ciò che sembrano e molto di questo rapporto è determinato dai sentimenti della madre.
La parola chiave per parlare di eccesso di attenzioni materne, quello che chiamerei “ipermaternage” e che gli anglosassoni definiscono “over-protection” è BISOGNO. Infatti se un atteggiamento materno equilibrato mette al centro dell’attenzione i bisogni del neonato prima e del bambino poi, un rapporto diadico sbilanciato invece tiene conto dei bisogni della madre prima di tutto.
Sentite cosa dice la professoressa Marisa Malagoli Togliatti prof.ordinario di Psicodinamica dello Sviluppo e delle Relazioni Familiari e Psicoterapeuta familiare: “Il neonato dalla nascita è in grado di costruire relazioni interpersonali. La professoressa Elizabeth Fivaz dell’Università di Losanna ha dimostrato che i bambini già a tre mesi sono capaci di costruire interazioni significative che comprendono oltre la madre altre figure significative, come il padre o i nonni o chi si assume il ruolo di caregiver. Esplorare il mondo attraverso le relazioni interpersonali è un processo evolutivo fondamentale per un corretto sviluppo. Ci sono madri che manipolano il processo di attaccamento orientando l’attaccamento del bambino solo verso se stesse e impedendo di fatto che il neonato “esplori” altre possibili relazioni. Si tratta, in genere, di donne che soffrono di insicurezza e ansia, che temono di essere giudicate ‘cattive’ o inadeguate, che hanno bisogno di rispondere ad un ruolo o di assumere quello di madre come compito unico, secondo uno stereotipo sociale Ma può trattarsi anche di donne insicure della propria femminilità oppure che hanno problemi col partner e allora si legano al neonato in modo esclusivo”.
È noto che la gravidanza e la nascita di un bambino crea un certo “scompiglio” in una coppia, si rende necessaria una riorganizzazione dei ruoli e delle relazioni sia all’interno della coppia che della famiglia estesa. Tale riorganizzazione è fisiologica e necessaria, ma in talune situazioni diventa problematica nel caso in cui il rapporto col figlio sia basato sulla soddisfazione di bisogni di dipendenza affettiva in modo in modo simbiotico. In questi casi la madre sembra "usare" il bambino per essere rassicurata, ribaltando i ruoli.
“In genere” continua Malagoli “queste donne hanno avuto a loro volta, madri iperprotettive dalle quali hanno ‘ereditato’ un modello di comportamento. Altra fattispecie è quella di donne che hanno avuto genitori non adeguati o abusanti in senso sia fisico che psicologico. O ancora donne che non tollerano la solitudine, che inseguono un impossibile desiderio di essere “amate” o meglio di essere sempre al centro dell’attenzione”.
Il modello di comportamento è ‘totalizzante”, queste donne si ritengono le uniche in grado di capire il bambino, le uniche destinate al dialogo con lui, le uniche destinate a “salvarlo” dai pericoli del mondo. Se “esagerano” a lungo in tali comportamenti possono inibire nel figlio la possibilità di esplorare il mondo ovvero i rapporti sociali.
L’allattamento prolungato, oltre i canonici sei mesi sino a due, tre ma anche quattro anni è un ‘sintomo’ piuttosto comune di un atteggiamento ipermaterno. Se anticamente era considerato un mezzo anticoncezionale e quindi il metodo aveva un suo razionale, dimostratosi poi privo di efficacia, oggi si riscontra spesso in soggetti con personalità anoressica che tentano di esercitare un controllo sul comportamento alimentare del bambino proprio come hanno fatto o farebbero con loro stesse.
In altri casi l’allattamento prolungato è una forma di autogratificazione, di narcisismo: l’allattamento è mediato da sostanze chimiche uguali a quelle dell’orgasmo e può dare sensazioni molto gratificanti affini al piacere sensuale, anche se molte donne non sono disposte ad ammetterlo.
Riprendiamo il discorso con la professoressa Malagoli: “Il bambino sottoposto a queste ‘attenzioni’ diventa spesso aggressivo, possessivo, ipercinetico oppure ‘evitante’ cerca di sfuggire a questo controllo che da rassicurante diventa opprimente e angoscioso. Mette in atto insomma un tentativo non organizzato di sfuggire a queste attenzioni ma è destinato a scontrarsi con i propri sensi di colpa e le minacce di abbandono della madre. Sono minacce talora sottili ma arrivano e raggiungono il segno: il messaggio che si veicola è la punizione negando l’amore, la madre minaccia di abbandonarlo, di andare via. Il figlio è condannato ad una dipendenza che non prevede emancipazione né fisica né psichica.
Che adulti saranno bambini che hanno vissuto e introiettato simili madri? Il messaggio della professoressa Malagoli è ottimistico:” I bambini tendono naturalmente verso la sanità mentale, è bene che in situazioni simili l’altro genitore non sia complice o connivente, ma sostenga la madre nel suo difficile compito, impegnandosi a tutelare la coppia madre-bambino da una parte e dall’altra rafforzando il legame affettivo all’interno della coppia per rompere rapporti simbiotici madre-figlio eccessivi. Molti padri colludono, sono assenti psicologicamente e fisicamente o delegano la funzione genitoriale completamente alla madre in una fiducia che non è cieca ma stolta e rischiosa”.
Box: Sindrome di Munchausen per procura
L’amore materno può assumere forme perverse e patologiche. Si tratta di situazioni estreme che si riconducono alla Sindrome di Munchausen, in cui i pazienti si procurano ripetutamente e volontariamente delle lesioni. Vagano da un ospedale all’altro in cerca di cure(non di rado di interventi invasivi) e di attenzioni che catturano con il racconto di storie fantastiche, spesso false, costellate di menzogne e di un numero impressionante di ricoveri (proprio come il barone nato dalla fantasia di Rudolf Raspe).
Secondo il Trattato italiano di Psichiatria (Masson 1992) ne è nata una variante peculiare. La Sindrome di Munchausen per procura (MSbP), è di osservazione in ambito pediatrico. In questo caso è la madre a simulare la malattia del figlio o, peggio, a procurargli i sintomi allo scopo di ottenere un trattamento medico. Lo spettro dei comportamenti ha un vario livello di gravità e modalità. Una prima dinamica prevede che la madre provochi dei sintomi e faccia ai sanitari ripetute richieste di cura. Tali madri sono donne ansiose e depresse che si attendono che il medico le sostenga o le sollevi dalla responsabilità genitoriale. Una volta” scoperte” non sempre accettano di essere aiutate con un supporto psicoterapico.
In altri casi la struttura di personalità vira verso la paranoia: la madre si convince che il figlio sia malato e per avvalorare la propria tesi non esita a falsificare le cartelle cliniche o ad inventare sintomi fittizi come reazioni allergiche o convulsioni.
Il caso più grave è quello in cui la madre provoca volontariamente sintomi drammatici (specialmente in neonati o bambini molto piccoli) mediante somministrazioni ripetute (e spesso negate)di psicofarmaci o lassativi, o iniezioni settiche o maltrattamenti. Queste persone, talora affette loro stesse dalla MS, arrivano ad alterare e falsificare esami di laboratorio. La psicosi e la depressione che caratterizzano un quadro così terrificante può avere come esito la morte del bambino. Un paradosso, se si pensa che tramite queste manovre i genitori tentano di manipolare il rapporto con i medici e allo stesso tempo desiderano apparire come genitori eccezionalmente devoti.
La patologia non è poi così rara, tanto che in alcuni ospedali americani hanno dotato i reparti di neonatologia e di terapia intensiva pediatrica di telecamere a circuito chiuso per prevenire situazioni analoghe.
Negli ultimi due casi, quando la causa reale della malattia del bambino viene scoperta, la madre o la coppia spariscono col bambino per cercare un altro ospedale o altri medici con i quali mettere in atto la propria ‘rappresentazione’.
L’assetto psichico di questi soggetti si riconduce a coppie ‘disfunzionali’ o disturbate, altamente “asimmetriche”: in genere il padre è assente (anche solo psicologicamente) e la madre sviluppa un legame ‘simbiotico’ nei confronti del figlio. La figura del medico e l’attenzione che presta loro, è solo uno strumento per legittimare e confermare tale devozione.
In realtà questi soggetti non hanno come scopo di nuocere ai figli. Nella loro storia si riscontrano, paradossalmente, eccessive preoccupazioni riguardo la malattia o la morte e un estremo bisogno di protezione e attenzione.
Bibliografia:
Trattato italiano di Psichiatria – Masson 1992
C. Eliacheff N. Heininch – Madri e figlie – Einaudi 2003
Naouri, Aldo – Le figlie e le loro madri – Grandi Tascabili Einaudi 1999
Salvo, Anna – Madri e Figlie. Legami e conflitti tra due generazioni – Mondadori 2003
Montecchi F. Maltrattamenti e abusi ai bambini, Franco Angeli, Milano 1998
L’ECCESSO DI ATTENZIONI DELLA MAMMA VERSO IL BAMBINO
Di Johann Rossi Mason
(da Mente & Cervello di nov-dic 2003)
Nonostante i molteplici libri sulla gravidanza, manuali di puericultura, e gli studi su come essere genitori "quasi perfetti" (Bettelheim) o "sufficientemente buoni" (Bowlby), la psicologia della maternità è ancora poco indagata.
L’eccessiva medicalizzazione dell’evento gravidanza e più ancora il parto ha sviato l’attenzione dal vissuto psicologico della donna che si prepara a diventare madre. Un vissuto che non sempre è lineare come amiamo pensare. Anche in assenza di una patologia sappiamo, grazie anche alla quantità di studi psicoanalitici che hanno approfondito il ruolo delle madri, che le cure materne possono avere valenze quanto mai sfaccettate e varie.
La gravidanza è innanzitutto un evento psichico molto importante che produce delle modificazioni non solo nell’esperienza ma anche permanenti nuove connessioni neuronali che modificheranno per sempre la struttura cerebrale della madre. E la gestazione ha effetti diretti anche sul cervello e sugli altri organi del bambino, in quanto recenti ricerche hanno dimostrato che il feto è sensibile ad ogni modificazione umorale e ormonale della madre. Un recente studio apparso su Developmental and Behavioral Pediatrics ha confermato che il livello di sviluppo del cuore fetale può essere influenzato negativamente quando la madre soffra di ansia cronica e situazioni stressanti che modificano i parametri cardiocircolatori, come la pressione sanguigna.
Quello che fare i figli sia un dato talmente acquisito, naturale da non aver bisogno di essere indagato è un equivoco culturale. E l’equivoco non si ferma qui dato che nell’opinione comune si sottolinea la mancanza di cure come comportamento criticabile, mentre le eccessive attenzioni materne sono giudicate positive.
Una stessa donna può vivere gravidanze diverse nel corso della sua vita, dal punto di vista del vissuto emotivo, che cambia a seconda del rapporto con la famiglia di origine, del rapporto col partner, del supporto sociale di cui gode, del lavoro, delle aspirazioni e ambizioni, delle relazioni con altri figli, aborti, ecc. ecc.
Non c’è dubbio che ogni gestazione porti con se aspettative elevatissime, sul figlio che sarà, sul fatto che stabilizzerà il rapporto di coppia o che al contrario arrivi in un momento inopportuno, che si sia pensato a rinunciarci, che il partner o la donna stessa non lo desideri, che sia frutto di una passione, di un amore consolidato o di una violenza. Per ciascuna di queste situazioni c’è una madre diversa e un bambino assolutamente unico che in parte è figlio della situazione e della temperatura emotiva in cui viene al mondo. La stessa madre non ama i diversi figli nello stesso modo e su ciascuno di essi investe in misura differente.
Molti studiosi dell’evoluzione ritengono che il piccolo dell’essere umano venga al mondo ancora immaturo e per tale ragione ha bisogno di lunghe cure materne prima di essere indipendente, cure che durano più a lungo di qualsiasi altro mammifero sulla terra. Il "costo" è quello di una estrema dipendenza dalla madre, che lo deve allattare e nutrire, con una dedizione che qualsiasi primipara definirà molto faticosa. Ma questo programma funziona grazie ad un processo chiamato "attaccamento".
Come abbiamo detto, la madre che preoccupa è quella che mostra di non aver sviluppato un attaccamento nei confronti del bambino, quella che lo ignora, che non prova alcun legame, alcun sentimento, o al contrario, ha repulsione. Non lo attacca al seno e in alcuni gravi casi nega di averlo partorito.
Al contrario, la madre che sta occhi negli occhi col neonato, lo allatta più volte al giorno e soddisfa ogni sua richiesta è, agli occhi del mondo, una buona madre che si dedica al bambino con abnegazione.
Come spesso accade però le cose non sono sempre ciò che sembrano e molto di questo rapporto è determinato dai sentimenti della madre.
La parola chiave per parlare di eccesso di attenzioni materne, quello che chiamerei “ipermaternage” e che gli anglosassoni definiscono “over-protection” è BISOGNO. Infatti se un atteggiamento materno equilibrato mette al centro dell’attenzione i bisogni del neonato prima e del bambino poi, un rapporto diadico sbilanciato invece tiene conto dei bisogni della madre prima di tutto.
Sentite cosa dice la professoressa Marisa Malagoli Togliatti prof.ordinario di Psicodinamica dello Sviluppo e delle Relazioni Familiari e Psicoterapeuta familiare: “Il neonato dalla nascita è in grado di costruire relazioni interpersonali. La professoressa Elizabeth Fivaz dell’Università di Losanna ha dimostrato che i bambini già a tre mesi sono capaci di costruire interazioni significative che comprendono oltre la madre altre figure significative, come il padre o i nonni o chi si assume il ruolo di caregiver. Esplorare il mondo attraverso le relazioni interpersonali è un processo evolutivo fondamentale per un corretto sviluppo. Ci sono madri che manipolano il processo di attaccamento orientando l’attaccamento del bambino solo verso se stesse e impedendo di fatto che il neonato “esplori” altre possibili relazioni. Si tratta, in genere, di donne che soffrono di insicurezza e ansia, che temono di essere giudicate ‘cattive’ o inadeguate, che hanno bisogno di rispondere ad un ruolo o di assumere quello di madre come compito unico, secondo uno stereotipo sociale Ma può trattarsi anche di donne insicure della propria femminilità oppure che hanno problemi col partner e allora si legano al neonato in modo esclusivo”.
È noto che la gravidanza e la nascita di un bambino crea un certo “scompiglio” in una coppia, si rende necessaria una riorganizzazione dei ruoli e delle relazioni sia all’interno della coppia che della famiglia estesa. Tale riorganizzazione è fisiologica e necessaria, ma in talune situazioni diventa problematica nel caso in cui il rapporto col figlio sia basato sulla soddisfazione di bisogni di dipendenza affettiva in modo in modo simbiotico. In questi casi la madre sembra "usare" il bambino per essere rassicurata, ribaltando i ruoli.
“In genere” continua Malagoli “queste donne hanno avuto a loro volta, madri iperprotettive dalle quali hanno ‘ereditato’ un modello di comportamento. Altra fattispecie è quella di donne che hanno avuto genitori non adeguati o abusanti in senso sia fisico che psicologico. O ancora donne che non tollerano la solitudine, che inseguono un impossibile desiderio di essere “amate” o meglio di essere sempre al centro dell’attenzione”.
Il modello di comportamento è ‘totalizzante”, queste donne si ritengono le uniche in grado di capire il bambino, le uniche destinate al dialogo con lui, le uniche destinate a “salvarlo” dai pericoli del mondo. Se “esagerano” a lungo in tali comportamenti possono inibire nel figlio la possibilità di esplorare il mondo ovvero i rapporti sociali.
L’allattamento prolungato, oltre i canonici sei mesi sino a due, tre ma anche quattro anni è un ‘sintomo’ piuttosto comune di un atteggiamento ipermaterno. Se anticamente era considerato un mezzo anticoncezionale e quindi il metodo aveva un suo razionale, dimostratosi poi privo di efficacia, oggi si riscontra spesso in soggetti con personalità anoressica che tentano di esercitare un controllo sul comportamento alimentare del bambino proprio come hanno fatto o farebbero con loro stesse.
In altri casi l’allattamento prolungato è una forma di autogratificazione, di narcisismo: l’allattamento è mediato da sostanze chimiche uguali a quelle dell’orgasmo e può dare sensazioni molto gratificanti affini al piacere sensuale, anche se molte donne non sono disposte ad ammetterlo.
Riprendiamo il discorso con la professoressa Malagoli: “Il bambino sottoposto a queste ‘attenzioni’ diventa spesso aggressivo, possessivo, ipercinetico oppure ‘evitante’ cerca di sfuggire a questo controllo che da rassicurante diventa opprimente e angoscioso. Mette in atto insomma un tentativo non organizzato di sfuggire a queste attenzioni ma è destinato a scontrarsi con i propri sensi di colpa e le minacce di abbandono della madre. Sono minacce talora sottili ma arrivano e raggiungono il segno: il messaggio che si veicola è la punizione negando l’amore, la madre minaccia di abbandonarlo, di andare via. Il figlio è condannato ad una dipendenza che non prevede emancipazione né fisica né psichica.
Che adulti saranno bambini che hanno vissuto e introiettato simili madri? Il messaggio della professoressa Malagoli è ottimistico:” I bambini tendono naturalmente verso la sanità mentale, è bene che in situazioni simili l’altro genitore non sia complice o connivente, ma sostenga la madre nel suo difficile compito, impegnandosi a tutelare la coppia madre-bambino da una parte e dall’altra rafforzando il legame affettivo all’interno della coppia per rompere rapporti simbiotici madre-figlio eccessivi. Molti padri colludono, sono assenti psicologicamente e fisicamente o delegano la funzione genitoriale completamente alla madre in una fiducia che non è cieca ma stolta e rischiosa”.
Box: Sindrome di Munchausen per procura
L’amore materno può assumere forme perverse e patologiche. Si tratta di situazioni estreme che si riconducono alla Sindrome di Munchausen, in cui i pazienti si procurano ripetutamente e volontariamente delle lesioni. Vagano da un ospedale all’altro in cerca di cure(non di rado di interventi invasivi) e di attenzioni che catturano con il racconto di storie fantastiche, spesso false, costellate di menzogne e di un numero impressionante di ricoveri (proprio come il barone nato dalla fantasia di Rudolf Raspe).
Secondo il Trattato italiano di Psichiatria (Masson 1992) ne è nata una variante peculiare. La Sindrome di Munchausen per procura (MSbP), è di osservazione in ambito pediatrico. In questo caso è la madre a simulare la malattia del figlio o, peggio, a procurargli i sintomi allo scopo di ottenere un trattamento medico. Lo spettro dei comportamenti ha un vario livello di gravità e modalità. Una prima dinamica prevede che la madre provochi dei sintomi e faccia ai sanitari ripetute richieste di cura. Tali madri sono donne ansiose e depresse che si attendono che il medico le sostenga o le sollevi dalla responsabilità genitoriale. Una volta” scoperte” non sempre accettano di essere aiutate con un supporto psicoterapico.
In altri casi la struttura di personalità vira verso la paranoia: la madre si convince che il figlio sia malato e per avvalorare la propria tesi non esita a falsificare le cartelle cliniche o ad inventare sintomi fittizi come reazioni allergiche o convulsioni.
Il caso più grave è quello in cui la madre provoca volontariamente sintomi drammatici (specialmente in neonati o bambini molto piccoli) mediante somministrazioni ripetute (e spesso negate)di psicofarmaci o lassativi, o iniezioni settiche o maltrattamenti. Queste persone, talora affette loro stesse dalla MS, arrivano ad alterare e falsificare esami di laboratorio. La psicosi e la depressione che caratterizzano un quadro così terrificante può avere come esito la morte del bambino. Un paradosso, se si pensa che tramite queste manovre i genitori tentano di manipolare il rapporto con i medici e allo stesso tempo desiderano apparire come genitori eccezionalmente devoti.
La patologia non è poi così rara, tanto che in alcuni ospedali americani hanno dotato i reparti di neonatologia e di terapia intensiva pediatrica di telecamere a circuito chiuso per prevenire situazioni analoghe.
Negli ultimi due casi, quando la causa reale della malattia del bambino viene scoperta, la madre o la coppia spariscono col bambino per cercare un altro ospedale o altri medici con i quali mettere in atto la propria ‘rappresentazione’.
L’assetto psichico di questi soggetti si riconduce a coppie ‘disfunzionali’ o disturbate, altamente “asimmetriche”: in genere il padre è assente (anche solo psicologicamente) e la madre sviluppa un legame ‘simbiotico’ nei confronti del figlio. La figura del medico e l’attenzione che presta loro, è solo uno strumento per legittimare e confermare tale devozione.
In realtà questi soggetti non hanno come scopo di nuocere ai figli. Nella loro storia si riscontrano, paradossalmente, eccessive preoccupazioni riguardo la malattia o la morte e un estremo bisogno di protezione e attenzione.
Bibliografia:
Trattato italiano di Psichiatria – Masson 1992
C. Eliacheff N. Heininch – Madri e figlie – Einaudi 2003
Naouri, Aldo – Le figlie e le loro madri – Grandi Tascabili Einaudi 1999
Salvo, Anna – Madri e Figlie. Legami e conflitti tra due generazioni – Mondadori 2003
Montecchi F. Maltrattamenti e abusi ai bambini, Franco Angeli, Milano 1998
Stefano Pallanti (lo ricordate?):
«è vero, sono pericolosi, ma sì agli psicofarmaci ai bambini»
kataweb Salute
Adolescenti depressi, come aiutarli?
di Stefano Pallanti
(docente di Psichiatria all'Università di Firenze, direttore dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze, e visiting associate professor alla Mount Sinai Hospital School of Medicine di New York)
Mio figlio ha sedici anni, e da circa un anno è cambiato. Molto cambiato. Era un ragazzo un po' timido ma con pochi amici assai fidati ed affezionati. A scuola se la cavava bene e con noi era affettuoso ed attento. Poi è cambiato. All’inizio andava ancora a scuola ma con fatica evidentemente crescente e con un rendimento peggiore. La notte ore e ore attaccato ad Internet oppure con la sua musica. Sempre più cupa. Adesso sono due mesi che non va più neanche a scuola: dice che non ce la fa. I medici mi dicono che è depresso. Siamo andati da uno specialista: soffre di depressione, una malattia vera e propria. Lo capisco adesso. Me l’hanno spiegato, senza drammi ma con una lacerante pena. Ha iniziato una psicoterapia e ci va due volte la settimana. Sono già tre mesi, ma le cose vanno peggio; oramai e l’ultima cosa che fa. Non esce e si fa negare al telefono quando qualche amico ancora lo cerca; sempre meno perché poi i ragazzi fanno presto a cancellarti dal giro. Di recente il medico mi ha anche proposto di iniziare una cura con farmaci antidepressivi. Ma è così giovane ed io sono perplessa. Ma davvero la depressione è una malattia da curare con le medicine anche in un adolescente? Grazie.
Stare vicino a chi soffre non è mai facile. Certamente essere il genitore di un adolescente che soffra di depressione è tra le esperienze più dure. E soprattutto volere bene ed assistere frustrati a questo penoso distacco dalla vita e continuare a voler bene, nonostante la rabbia per l’impotenza e la pena della sofferenza condivisa, è una delle prove più difficile alle quali si possa sottostare. Sono situazioni che spesso minano l’intera struttura della famiglia, sia quando coinvolgano tutti i componenti sia quando qualcuno se ne tragga fuori non condividendo il carico di infelicità.
Il nostro amore non serve, ed è necessario affidarsi a terapeuti esperti (anche se ci sembra di lasciargli un po’ del nostro ruolo) che ci diano indicazioni chiare. Ed è certamente complicato avere idee chiare. Anche a causa delle molte informazioni non fondate e non documentate che comunque ci rimbalzano intorno. La televisione in genere, e specialmente i “chat-show”, non ci rendono un gran servizio.
Esiste comunque una consistente letteratura controllata che incoraggia ad intraprendere cure farmacologiche.
Perché se si dovesse dare una risposta chiara e stringata, questa è SI.
Sì, la depressione, quando sia così grave come sembra dalla descrizione della sua lettera, è davvero una malattia, e dopo aver provato con una psicoterapia per tre mesi si deve, anche se si tratta di un adolescente, pensare ed intraprendere una cura con medicine.
E' anche vero che esistono differenze, sia per quanto riguarda il disturbo che la risposta alle cure tra la depressione nei bambini ed adolescenti e quella degli adulti.
Infatti già la diagnosi è più difficile, ed i sintomi vengono speso confusi con un “cambiamento di carattere” legato all’età. E poi il tono dell’umore più frequentemente è rabbioso che malinconico ed il comportamento è, conseguentemente, di rivolta o di ricerca di sensazioni rischiose. E talora questa ricerca del rischio malcela una inespressa disaffezione alla vita stessa: un'inconsapevole ricerca di morte. Altre volte, questa ricerca, queste idee sono esplicite. Su questo punto, la presenza di idee di morte ed i pensieri di suicidio, bisogna cercare di sapere il più possibile. Solo così si può prevenire il peggio. Spesso il giovane incontra prima le sostanze e lo sballo, piuttosto che qualcuno che lo ascolti.
Ma quando sia stabilita la diagnosi è anche giusto provare con interventi psicoterapeutici, che spesso coinvolgono anche i familiari.
Le linee guida per la cura della depressione negli adolescenti sono improntate ad una ragionevole cautela. E’ vero infatti che gli studi sino qui compiuti hanno documentato un'efficacia che è certamente inferiore a quella che si ha con gli adulti.
E molte sono ancora le cose che non si conoscono ancora. Ad esempio sino quando continuare la cura quando sia stata efficace, oppure quali siano gli effetti a lunghissimo termine sullo sviluppo di un sistema nervoso ancora in crescita.
Riassumendo, il punto attuale è questo: gli studi controllati con farmaci per la depressione nei bambini ed adolescente ci sono già, e sono abbastanza convincenti da fare sì che le linee guida delle maggiori associazioni scientifiche, in Usa come in Australia, abbiano recentemente posto le cure farmacologiche della depressione negli adolescenti in prima linea.
Ma poiché alcuni aspetti relativi agli effetti di queste cure restano da chiarire, emergono voci contrastanti. Maggiormente sulla stampa non specializzata piuttosto che su quella più propriamente scientifica. Ma gli stessi organismi ministeriali USA hanno predisposto misure che impongono, per ogni nuovo farmaco antidepressivo, la sua verifica ed efficacia anche in bambini ed adolescenti.
Ci son voluti questi provvedimenti poiché l’industria, al contrario di quello che si dice, non era molto incline ad impegnarsi in questo tipo di ricerca poiché potenzialmente rischiosa in termini di immagine. Sì, perché ogni volta che un farmaco viene, dopo prove sicure, approvato per l’uso nei giovanissimi, immediatamente, e ad orologeria, si scatena una campagna di stampa contraria.
Sicchè le industrie si son dette: meglio starne fuori. Ma il problema è troppo serio: il suicidio in USA (dove i dati sono accessibili) è la terza causa di morte tra gli adolescenti!
E quindi, con molto senso di responsabilità, gli organismi governativi anziché fare lo struzzo, pretendono maggiore chiarezza al fine di poter effettivamente poter contare, anche per quanto riguarda i giovanissimi, su di un presidio di prevenzione del suicidio e di cura della depressione che, almeno negli adulti, è il più effiace: i farmaci antidepressivi.
Quindi SI all’uso dei farmaci nei giovanissimi, ma si raccolgano ancora altre informazioni.
La stessa azione a livello dell’ormone della crescita (GH ) non è del tutto chiarita.
E’ infatti in corso una ricerca che coinvolge i maggiori centri specializzati in USA e finanziata dal governo americano, per chiarire tutti questi aspetti.
In questa ricerca il farmaco impiegato è la fluoxetina, il più vecchio tra i nuovi serotoninergici, ed anche quello che nel tempo, più ha fornito prove documentate di efficacia a breve termine, già molto convalidanti, ed ha già ricevuto l’approvazione dalla Food and Drug Administration (FDA) e può essere prescritto per i bambini ed adolescenti in USA.
A suo tempo la fluoxetina era stata oggetto di attacchi e squalifiche legate ad una presunta azione di “assopimento della volontà”, la cosiddetta Sindrome avolizionale nei bambini.
Successivamente si è documentato che questa riduzione dell’attività volontaria talora riportata nel corso della cura di giovanissimi non comportava rischi ed era del tutto reversibile con la sospensione della cura.
Adesso altre ombre riguardano la paroxetina, altro serotoninergico per il quale è stato riportato un incremento delle idee autolesive, in alcuni casi di giovani pazienti depressi. Idee per altro, come abbiamo già detto, purtroppo già spontaneamente presenti in corso di depressione; e non è facile capire se venga prima l’una o l’altra cosa.
Bisogna dire che in Italia poi la situazioine è ancora più complessa, non ci sono farmaci approvati per la depressione dei bambini ed adolescenti, a parte la sertralina, che però è approvata per alcuni disturbi d’ansia.
Quindi la decisione di curare un adolescente depresso con farmaci richiede una condivisione, delle informazioni prima e della scelta poi, ampia e documentata.
Ma, ripeto, quando si sia di fronte ad una forma depressiva maggiore, con sofferenza soggettiva, scadimento delle prestazioni educative e ricreative, ritiro sociale, certamente da fare.
Un solido sostegno alla cura con medicine della depressione tra i giovanissimi, che ancora una volta va contro la corrente del pettegolezzo mediatico, viene da un recentissimo articolo pubblicato sugli Archives of General Psychiatry, la maggiore rivista scientifica di Psichiatria, (Olfson et al. Arch Gen Psych 2003 Oct; 60 (10):978-982. che ha documentato come in quelle aree del paese in cui sia cresciuta negli ultimi 10 anni la prescrizione di farmaci antidepressivi per la cura della depressione degli adolescenti, i tassi di suicidio si siano ridotti. E non è davvero poco. Da questo importante e complesso lavoro scaturisce l’indicazione all’uso degli antidepressivi negli adolescenti depressi, soprattutto se maschi e di famiglie con reddito modesto.
La notizia è rimbalzata anche sulla prime pagine del New York Times, ma da noi se ne è parlato poco, troppo poco.
Adolescenti depressi, come aiutarli?
di Stefano Pallanti
(docente di Psichiatria all'Università di Firenze, direttore dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze, e visiting associate professor alla Mount Sinai Hospital School of Medicine di New York)
Mio figlio ha sedici anni, e da circa un anno è cambiato. Molto cambiato. Era un ragazzo un po' timido ma con pochi amici assai fidati ed affezionati. A scuola se la cavava bene e con noi era affettuoso ed attento. Poi è cambiato. All’inizio andava ancora a scuola ma con fatica evidentemente crescente e con un rendimento peggiore. La notte ore e ore attaccato ad Internet oppure con la sua musica. Sempre più cupa. Adesso sono due mesi che non va più neanche a scuola: dice che non ce la fa. I medici mi dicono che è depresso. Siamo andati da uno specialista: soffre di depressione, una malattia vera e propria. Lo capisco adesso. Me l’hanno spiegato, senza drammi ma con una lacerante pena. Ha iniziato una psicoterapia e ci va due volte la settimana. Sono già tre mesi, ma le cose vanno peggio; oramai e l’ultima cosa che fa. Non esce e si fa negare al telefono quando qualche amico ancora lo cerca; sempre meno perché poi i ragazzi fanno presto a cancellarti dal giro. Di recente il medico mi ha anche proposto di iniziare una cura con farmaci antidepressivi. Ma è così giovane ed io sono perplessa. Ma davvero la depressione è una malattia da curare con le medicine anche in un adolescente? Grazie.
Stare vicino a chi soffre non è mai facile. Certamente essere il genitore di un adolescente che soffra di depressione è tra le esperienze più dure. E soprattutto volere bene ed assistere frustrati a questo penoso distacco dalla vita e continuare a voler bene, nonostante la rabbia per l’impotenza e la pena della sofferenza condivisa, è una delle prove più difficile alle quali si possa sottostare. Sono situazioni che spesso minano l’intera struttura della famiglia, sia quando coinvolgano tutti i componenti sia quando qualcuno se ne tragga fuori non condividendo il carico di infelicità.
Il nostro amore non serve, ed è necessario affidarsi a terapeuti esperti (anche se ci sembra di lasciargli un po’ del nostro ruolo) che ci diano indicazioni chiare. Ed è certamente complicato avere idee chiare. Anche a causa delle molte informazioni non fondate e non documentate che comunque ci rimbalzano intorno. La televisione in genere, e specialmente i “chat-show”, non ci rendono un gran servizio.
Esiste comunque una consistente letteratura controllata che incoraggia ad intraprendere cure farmacologiche.
Perché se si dovesse dare una risposta chiara e stringata, questa è SI.
Sì, la depressione, quando sia così grave come sembra dalla descrizione della sua lettera, è davvero una malattia, e dopo aver provato con una psicoterapia per tre mesi si deve, anche se si tratta di un adolescente, pensare ed intraprendere una cura con medicine.
E' anche vero che esistono differenze, sia per quanto riguarda il disturbo che la risposta alle cure tra la depressione nei bambini ed adolescenti e quella degli adulti.
Infatti già la diagnosi è più difficile, ed i sintomi vengono speso confusi con un “cambiamento di carattere” legato all’età. E poi il tono dell’umore più frequentemente è rabbioso che malinconico ed il comportamento è, conseguentemente, di rivolta o di ricerca di sensazioni rischiose. E talora questa ricerca del rischio malcela una inespressa disaffezione alla vita stessa: un'inconsapevole ricerca di morte. Altre volte, questa ricerca, queste idee sono esplicite. Su questo punto, la presenza di idee di morte ed i pensieri di suicidio, bisogna cercare di sapere il più possibile. Solo così si può prevenire il peggio. Spesso il giovane incontra prima le sostanze e lo sballo, piuttosto che qualcuno che lo ascolti.
Ma quando sia stabilita la diagnosi è anche giusto provare con interventi psicoterapeutici, che spesso coinvolgono anche i familiari.
Le linee guida per la cura della depressione negli adolescenti sono improntate ad una ragionevole cautela. E’ vero infatti che gli studi sino qui compiuti hanno documentato un'efficacia che è certamente inferiore a quella che si ha con gli adulti.
E molte sono ancora le cose che non si conoscono ancora. Ad esempio sino quando continuare la cura quando sia stata efficace, oppure quali siano gli effetti a lunghissimo termine sullo sviluppo di un sistema nervoso ancora in crescita.
Riassumendo, il punto attuale è questo: gli studi controllati con farmaci per la depressione nei bambini ed adolescente ci sono già, e sono abbastanza convincenti da fare sì che le linee guida delle maggiori associazioni scientifiche, in Usa come in Australia, abbiano recentemente posto le cure farmacologiche della depressione negli adolescenti in prima linea.
Ma poiché alcuni aspetti relativi agli effetti di queste cure restano da chiarire, emergono voci contrastanti. Maggiormente sulla stampa non specializzata piuttosto che su quella più propriamente scientifica. Ma gli stessi organismi ministeriali USA hanno predisposto misure che impongono, per ogni nuovo farmaco antidepressivo, la sua verifica ed efficacia anche in bambini ed adolescenti.
Ci son voluti questi provvedimenti poiché l’industria, al contrario di quello che si dice, non era molto incline ad impegnarsi in questo tipo di ricerca poiché potenzialmente rischiosa in termini di immagine. Sì, perché ogni volta che un farmaco viene, dopo prove sicure, approvato per l’uso nei giovanissimi, immediatamente, e ad orologeria, si scatena una campagna di stampa contraria.
Sicchè le industrie si son dette: meglio starne fuori. Ma il problema è troppo serio: il suicidio in USA (dove i dati sono accessibili) è la terza causa di morte tra gli adolescenti!
E quindi, con molto senso di responsabilità, gli organismi governativi anziché fare lo struzzo, pretendono maggiore chiarezza al fine di poter effettivamente poter contare, anche per quanto riguarda i giovanissimi, su di un presidio di prevenzione del suicidio e di cura della depressione che, almeno negli adulti, è il più effiace: i farmaci antidepressivi.
Quindi SI all’uso dei farmaci nei giovanissimi, ma si raccolgano ancora altre informazioni.
La stessa azione a livello dell’ormone della crescita (GH ) non è del tutto chiarita.
E’ infatti in corso una ricerca che coinvolge i maggiori centri specializzati in USA e finanziata dal governo americano, per chiarire tutti questi aspetti.
In questa ricerca il farmaco impiegato è la fluoxetina, il più vecchio tra i nuovi serotoninergici, ed anche quello che nel tempo, più ha fornito prove documentate di efficacia a breve termine, già molto convalidanti, ed ha già ricevuto l’approvazione dalla Food and Drug Administration (FDA) e può essere prescritto per i bambini ed adolescenti in USA.
A suo tempo la fluoxetina era stata oggetto di attacchi e squalifiche legate ad una presunta azione di “assopimento della volontà”, la cosiddetta Sindrome avolizionale nei bambini.
Successivamente si è documentato che questa riduzione dell’attività volontaria talora riportata nel corso della cura di giovanissimi non comportava rischi ed era del tutto reversibile con la sospensione della cura.
Adesso altre ombre riguardano la paroxetina, altro serotoninergico per il quale è stato riportato un incremento delle idee autolesive, in alcuni casi di giovani pazienti depressi. Idee per altro, come abbiamo già detto, purtroppo già spontaneamente presenti in corso di depressione; e non è facile capire se venga prima l’una o l’altra cosa.
Bisogna dire che in Italia poi la situazioine è ancora più complessa, non ci sono farmaci approvati per la depressione dei bambini ed adolescenti, a parte la sertralina, che però è approvata per alcuni disturbi d’ansia.
Quindi la decisione di curare un adolescente depresso con farmaci richiede una condivisione, delle informazioni prima e della scelta poi, ampia e documentata.
Ma, ripeto, quando si sia di fronte ad una forma depressiva maggiore, con sofferenza soggettiva, scadimento delle prestazioni educative e ricreative, ritiro sociale, certamente da fare.
Un solido sostegno alla cura con medicine della depressione tra i giovanissimi, che ancora una volta va contro la corrente del pettegolezzo mediatico, viene da un recentissimo articolo pubblicato sugli Archives of General Psychiatry, la maggiore rivista scientifica di Psichiatria, (Olfson et al. Arch Gen Psych 2003 Oct; 60 (10):978-982. che ha documentato come in quelle aree del paese in cui sia cresciuta negli ultimi 10 anni la prescrizione di farmaci antidepressivi per la cura della depressione degli adolescenti, i tassi di suicidio si siano ridotti. E non è davvero poco. Da questo importante e complesso lavoro scaturisce l’indicazione all’uso degli antidepressivi negli adolescenti depressi, soprattutto se maschi e di famiglie con reddito modesto.
La notizia è rimbalzata anche sulla prime pagine del New York Times, ma da noi se ne è parlato poco, troppo poco.
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