venerdì 11 luglio 2003

Kandinskij a Villa Manin di Passariano (UD), ma solo fino al 27 luglio

Kandinskij, cavaliere dell’astrattismo
La settecentesca Villa Manin di Passariano ospita una grande retrospettiva su Wassilij Kandinskij, con più di 100 opere che documentano l’epopea dell’astrattismo

Chissà che effetto avrebbero fatto a Napoleone le pirotecniche composizioni astratte di Kandinskij che oggi invadono le settecentesche sale di Villa Manin a Passariano. Fu qui, infatti, in questa sontuosa residenza nobiliare, che il Bonaparte stabilì il suo quartier generale per i francesi vincitori, e sempre qui, preso dalla smodata passione per i restyling personalizzati, contribuì a dare alla villa un aspetto vagamente neoclassico. Ed ora, quella che viene considerata, anche grazie a lui, una delle più sontuose e scenografiche dimore storiche nate nel territorio friulano, si apre all’avanguardia più spregiudicata, offrendo un incontro del tutto originale, con la mostra Kandinsky e l’avventura astratta, che la Regione Friuli Venezia Giulia, in collaborazione con la Fondazione Solomon R. Guggenheim, presenta a Villa Manin dal 29 marzo al 27 luglio.

Curata da Susan Davidson, la mostra é stata allestita in esclusiva per la splendida cornice di Villa Manin e propone più di 100 opere di Wassilij Kandinskij e di altri artisti a lui contemporanei, provenienti dalle collezioni delle sedi di New York e Venezia della Fondazione Guggenheim. La rassegna, che segue nell’allestimento, una disposizione cronologica delle opere, ripercorre lo sviluppo del linguaggio pittorico del maestro russo attraverso le varie fasi della sua carriera artistica, dagli anni della gioventù trascorsa a Monaco a quelli della rivoluzione in Russia, dal periodo della leggendaria scuola Bauhaus fino agli ultimi anni a Parigi, focalizzando l’esperienza rivoluzionaria dell’arte astratta.

Dalla sua elaborazione teorica, ne “Lo spirituale nell’arte”, pubblicato nel ’10, quando coniava un nuovo codice interpretativo dei colori primari e secondari e delle forme geometriche. Alle prime sperimentazioni di corrispondenza emotiva tra colori e sentimenti, ai lavori ispirati alle sinfonie di Schonberg e alle jam session, quando i colori per il maestro russo diventavano manifestazione visiva di uno strumento musicale e di uno stato d’animo vivo, quando il rosso batteva forte come rullo di tamburo e ardeva come una passione profonda, quando il verde echeggiava come il suono dolce del violino e ispirava gioia di vivere, quando il giallo squillava come una tromba acuta ed evocava una tensione ansiogena.

Fino al rigore geometrico. Ai quadrati e ai cerchi perfetti che in simbiosi cromatica raccontavano un altro spaccato di virtuosismo esistenziale. Fino agli anni di Parigi, dove elabora le sue composizioni organiche. Puntuali, in ogni segmento storico compaiono i colleghi in un continuo gioco di accordi e disaccordi filosofici con Franz Marc, con cui fondò Il Cavaliere Azzurro, i giovani costruttivisti emergenti come Alexander Rodchenko ed El Lissitzky, Jean Arp e Piet Mondrian, e Fernand Legér. La mostra illustra non solo la relazione sempre più complessa tra l’astrazione e la figurazione nell’arte del ventesimo secolo, ma anche l’importanza del ruolo di Kandinsky nella formazione della collezione del Museo Solomon R. Guggenheim, che comprende più di 150 sue opere.

I dipinti di Kandinsky furono tra i primi ad entrare a far parte della collezione di Solomon R. Guggenheim, già a partire dal 1929. L’esposizione, inoltre, rientra nell’ambito di un accordo tra la Fondazione Solomon R. Guggenheim e la Regione Friuli Venezia Giulia, secondo il quale la Fondazione Guggenheim organizzerà tre mostre nell’arco di tre anni per la sede di Villa Manin di Passariano.

Kandinsky e l’avventura astratta
Dal 29 marzo al 27 luglio 2003. Villa Manin.
Orari: 10.00 - 20.00, chiuso il lunedì; dall’ 1 giugno al 27 luglio 2003: ore 10.00 - 22.00, chiuso il lunedì.
Tel 0423-904721, fax 0432-908671, e-mail info@villamanin.com. Sito web: www.villamanin.com.
Ingresso: intero: euro 8,00, ridotto: (studenti fino a 25 anni, anziani oltre 65 anni, gruppi di almeno 15 persone) euro 5,00.
Per arrivare: Villa Manin si trova a Passariano, frazione di Codroipo (1 km), Autostrada A4 Venezia - Udine - Trieste: uscita Latisana, poi a sx, direzione Codroipo. Statale Pontebbana Venezia – Udine. Statale Napoleonica Trieste – Venezia Ferrovia Venezia - Udine, stazione di Codroipo: con un servizio trasporto all’uscita della stazione FFSS.
(Laura Larcan)

omicidi in famiglia: nel 2002 sono stati più di tutti gli altri messi insieme

(forse è significativo che questa notizia sia stata riferita dalla RAI - il TG3 di giovedì sera - e oggi pubblicata da una numerosa serie di testate di giornali di provincia, come l'Eco di Bergamo, Il Gazzettino, La Gazzetta del Sud, Il Mattino, l'Unione Sarda eccetera, e da un solo quotidiano a diffusione nazionale, Liberazione, ma da nessun grande giornale nazionale della stampa così detta indipendente: né La Stampa né il Corriere - l'articolo del Corriere inserito è dell'ottobre e si riferisce al rapporto EURES dell'anno scorso - né Repubblica, e neanche l'Unità né il Manifesto hanno ritenuto la cosa degna d'essere comunicata ai propri lettori, a meno che non mi sia sfuggito qualcosa...)

Adnkronos 10-LUG-03  ORE: 13:42
OMICIDI, RAPPORTO EURES: PIU' IN FAMIGLIA CHE NELLA MALAVITA
Sempre in testa in Italia i delitti tra le mura domestiche. Nel 2002 gli omicidi maturati in ambienti non malavitosi sono stati il 51,5% del numero totale, per complessive 325 vittime, delle quali 223 all'interno della famiglia

Roma, 10 lug. - (Adnkronos) - Sempre in testa in Italia i delitti tra le mura domestiche. Nel 2002 gli omicidi maturati in ambienti non malavitosi sono stati il 51,5% del numero totale, per complessive 325 vittime, delle quali 223 all'interno della famiglia, 68 tra amici e conoscenti, 12 tra colleghi e 22 tra vicini di casa. E' quanto emerge dal rapporto annuale dell'Eures sugli omicidi in Italia. La famiglia, quindi, con il 35,3% delle vittime totali, si conferma come primo tra gli ambiti in cui matura il delitto. Nella maggior parte dei casi il movente e' passionale. Seguono le 100 vittime (15,7%) riferibili alla criminalita' comune e le 77 (12,2%) attribuite alla criminalita' organizzata. Sono 68 gli omicidi (10,7%) 'tra conoscenti' quelli cioe' che vedono omicida e vittima legati da una precedente frequentazione, per amicizia o semplice conoscenza.Rilevanti gli omicidi (3,5%) avvenuti tra vicini di casa e quelli maturati all'interno dei rapporti lavorativi (1,9%). Risultano ancora sconosciuti gli ambiti di ben 120 delitti. Rispetto al 2000, nel 2002 sono diminuiti lievemente i delitti in famiglia (-2,2%) e consistentemente quelli della criminalita' organizzata (-39,4%). In forte aumento quelli tra vicini di casa (69,2%), quelli tra conoscenti (58%) e quelli maturati sui luoghi di lavoro (33,3%). E' ancora il Mezzogiorno con 304 omicidi, rispetto ai 221 del Nord ed ai 109 del Centro, a detenere l'indice piu' alto. Al Nord prevalgono gli omicidi in famiglia (50,9% del totale in quest'area), la cui diffusione vede al primo posto la Lombardia (15,7%), seguita dal Piemonte (12,6%), dall'Emilia Romagna (8,1%) e dal Lazio (10,8%). Aumentano al Nord le vittime di omicidi compiuti nell'ambito del vicinato (+175%) e in quello lavorativo (133%). Anche al Centro prevalgono gli omicidi in famiglia (35,8%) e quelli attribuiti alla criminalita' comune (22,9); crescono rispetto al 2000 gli omicidi tra vicini (+150%) e quelli della criminalita' comune (+38,9%). I delitti in famiglia (23,7%) e quelli attributi alla criminalita' organizzata (23,4%) occupano i primi posti anche al Sud, dove si registra un forte aumento dei delitti tra conoscenti (+163,6%) e della criminalita' comune (+35,7%).

RAI News 11.7.03
Rispetto al 2000 salgono del 58%. A rivelarlo il primo rapporto annuale Eures
Omicidi, in aumento quelli tra vicini e conoscenti
Si uccide soprattutto al Sud e con armi da fuoco, nella maggior parte dei casi per motivi passionali

Ad uccidere è sempre più spesso l'amico, il collega di lavoro, il vicino di casa. A rivelarlo l’istituto di ricerca Eures attraverso il primo "Rapporto annuale sugli omicidi in Italia".
I delitti maturati in casa o in ambito circoscritto prendono il sopravvento su quelli legati alla malavita e alla criminalità organizzata. Nel 2002 il 51,5% degli omicidi (complessivamente 325) è, avvenuto all'interno della famiglia (223 vittime), tra amici e conoscenti (68 vittime), nell'ambito del lavoro (12 vittime) o del vicinato (22 vittime). Ancora sconosciuti gli ambiti di ben 120 delitti. Rispetto al 2000, nel 2002 sono diminuiti di poco i delitti in famiglia (-2,2%), di molto quelli della criminalità organizzata (-39,4%). Mentre in forte aumento sono quelli tra vicini di casa (+69,2%), quelli tra conoscenti (+58%) e quelli maturati sui luoghi di lavoro (+33,3%).
Vittime e carnefici - Nel 91,3% dei casi l’omicida è un uomo; nell'8,3% una donna. Anche le vittime sono soprattutto maschi 444 (il 70%) contro 190 donne (30%). Nella maggioranza dei casi si tratta di italiani 82,5%.
Cause - Nei delitti in famiglia spicca il movente passionale con il 27,4% dei casi: ad uccidere per questo motivo sono soprattutto gli uomini. Nei delitti tra conoscenti prevale il movente dei dissapori (29,4%), seguito dai futili motivi (25%) e dagli interessi/denaro (17,6%). Negli omicidi di vicinato i moventi più diffusi sono le questioni legate ai confini di proprietà(22,7%) e le rivalità per un posto-letto, anche di fortuna (18,2%).
Dove e come si uccide - Si uccide soprattutto nel Mezzogiorno: 304 omicidi, contro i 221 del Nord ed i 109 del Centro. L'arma preferita resta quella da fuoco: usata nel 46,2% dei casi (293 omicidi). Seguono le armi da taglio (19,2%), i corpi contundenti (7,9%), le percosse (4,7%), il soffocamento (4,1%), lo strangolamento (3,2%), le armi improprie (3%), la precipitazione (1,9%), lo speronamento (0,8%). Per i 293 omicidi compiuti con armi da fuoco, il 23,5% degli autori è risultato in possesso del porto d'armi, richiesto nel 39,1% dei casi per difesa personale, nel 30,4% per la caccia, nel 21,7% per lavoro.
(Pubblicato il 10 luglio 2003 11:10 )

Il Cittadino (http://www.carabinieri.it) 11.7.03
Amore e morte: omicidi tra le mura domestiche
di Barbara Vitale

Si parla di omicidi "domestici" quando esiste una relazione di affinità tra autore e vittima come tra moglie e marito o di parentela come tra genitori e figli. In tutti i casi, le persone coinvolte sono legate da un rapporto affettivo e appartengono al medesimo nucleo familiare (da cui il termine domestico) anche se non sempre condividono lo stesso contesto abitativo.
Per avere un’idea complessiva in termini di descrizione, frequenza e cause degli omicidi domestici occorre far riferimento alle ricerche sociologiche che classificano i dati secondo variabili socialmente rilevanti.
In Italia, un recente rapporto dell’EU.R.E.S. (Ricerche Economiche e Sociali) illustra le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno e individua nel conflitto tra aspettative individuali e ruoli sociali dei singoli membri del nucleo familiare la causa principale di azioni aggressive che possono sfociare nell’omicidio. Le trasformazioni relazionali e culturali degli ultimi anni, infatti, hanno messo in crisi gli equilibri interni alla famiglia, le certezze legate al ruolo e la divisione condivisa di compiti e responsabilità. D’altro canto, a livello sociale, diventa sempre più difficile realizzare un progetto di autonomia individuale senza investire notevoli risorse ed impegnarsi in sacrifici e rinunce. La condizione di frustrazione che ne deriva può spingere l’individuo a scaricare la conseguente aggressività contro le persone che gli sono più vicine.
Dal rapporto EU.R.E.S. è emerso che sono soprattutto le donne le vittime degli omicidi domestici con una frequenza maggiore nella fascia di età compresa tra i 26 e i 45 anni. E’ stata riscontrata una prevalenza della conflittualità che sfocia in atti violenti sull’asse affettivo-orizzontale (costituito dalla coppia), anche se i mass-media sembrano dare maggiore rilievo ai casi di omicidio domestico verticale come nel caso genitore-figlio o viceversa. Elevato è il numero delle vittime che trascorrono molto tempo in casa (casalinghe o pensionati), anche se la maggior parte risulta essere impiegata in attività professionali di livello medio-basso. Questo dato coniugato con l’età delle vittime sembra indicare che sono più spesso le figure con una positiva affermazione sociale a costituire la "vittima designata", avvalorando l’ipotesi del conflitto tra aspirazione individuale ed aspettative familiari.
Il secondo principale asse del conflitto riguarda il rapporto genitore-figlio. In questo caso i dati indicano che sono più spesso i primi a rimanere vittime dei propri figli che non viceversa anche se esiste una differente distribuzione geografica: al Nord e al Centro il numero degli omicidi dei genitori risulta superare (di 4 punti percentuali) quello dei figli mentre al Sud c’è una tendenza contraria.
La ricerca offre quindi una descrizione generale del fenomeno senza tuttavia spingersi in interpretazioni deduttive dei dati disponibili. Gli studi di stampo sociale infatti tendono ad ottenere un livello generale di informazioni sulle caratteristiche, la diffusione e la frequenza del fenomeno, mentre quelli psicologici analizzano le variabili correlate all’adattamento ed ai legami socio-affettivi esistenti tra vittima ed autore approfondendo casi analoghi.
Un’indagine psicologica, peculiare per la prospettiva sociale che presenta, è la recente ricerca della Cozzolino (2001). Lo studio analizza 266 casi di delitto familiare ricavati dalla quotidiana osservazione della stampa italiana dal 1° luglio 1999 al 31 dicembre 2000. I dati non riguardano solo gli omicidi ma anche altri reati che vanno dalle calunnie alle lesioni, dal sequestro alla violenza psicologica e sessuale fino al tentato omicidio che si verificano all’interno di una famiglia, o comunque tra persone che condividono un legame affettivo.
Questo studio presenta risultati generali analoghi al rapporto EURES anche se il differente bacino di dati rende difficile un raffronto certo. In particolare sono emersi i seguenti aspetti:
•fermo restando che rimane privilegiato l’asse affettivo-relazionale della coppia, i maschi commettono reati più frequentemente nei confronti della partner, mentre le donne orientano maggiormente la loro aggressività nei confronti di genitori e figli;
•solo una bassa percentuale degli autori risulta avere precedenti penali (almeno per quello che risulta dalle notizie di cronaca) e questo deporrebbe per la natura emotiva ed irrazionale di questo tipo di reati;
•alcune famiglie della vittima e dell’autore versano in condizioni di notevole disagio sociale (famiglie molto numerose, difficoltà economiche anche gravi). Inoltre le vittime, più degli autori, sembrano provenire da famiglie in cui almeno uno dei membri ha avuto precedenti penali. Si tratta comunque di un numero ridotto di casi. Gli esperti sostengono che gli omicidi domestici non sono appannaggio delle famiglie multiproblematiche ma rappresentano un fenomeno trasversale che riguarda tutti i ceti sociali.
•Il figlicidio, l’uccisione del figlio da parte di un genitore, rappresenta un ambito di analisi psicologica privilegiata rispetto all’omicidio del coniuge o del partner. Il codice penale italiano non contempla questo tipo di reato ma distingue tra infanticidio e omicidio. Il primo (art. 578 c.p.) si verifica allorquando la madre sopprime il proprio neonato immediatamente dopo il parto o il feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale, mentre in tutti gli altri casi si parla di omicidio.
Per spiegare la violenza verso i figli, spiega Mastronardi (2002), la criminologia mette in campo diverse concause: la presenza di una condizione psicotica o di uno stato di confusione mentale, un passato di percosse e maltrattamenti oppure il desiderio di vendetta contro il coniuge.
Secondo Nivoli (2002) i dati statistici ufficiali non illustrano pienamente la realtà dei fatti: molti decessi di bambini, denunciati come incidenti, potrebbero in realtà nascondere dei "progetti omicidari" per omissione con gravi e volontarie carenze di cure e attenzioni. Lo studio di Nivoli propone una classificazione dei figlicidi ad opera della madre che sul piano psicopatologico destano maggiore interesse per la loro natura "irrazionale" ed "innaturale". Cosa c’è infatti di più innaturale di una madre che uccide il proprio figlio? Per la "fisicità" della gravidanza e del parto, questo evento appare quanto mai incomprensibile alla "comune ratio".
Le motivazioni che possono spingere una madre ad uccidere il proprio figlio sono diverse. Ci sono madri che sono solite maltrattare i loro figli usandogli varie forme di violenza, che non tollerano il pianto del loro bambino e sono capaci di percuoterlo con un oggetto contundente o di soffocarlo fino ad ucciderlo. Ce ne sono altre che, come nel caso di Medea, uccidono il loro figlio per vendicarsi di torti reali o presunti subiti dal partner. Altre volte si verificano progetti di "suicidio allargato" in cui madri che vivono in una situazione depressiva senza speranza, decidono di togliersi la vita con la convinzione che il loro figlio non potrà vivere in un mondo così ostile senza di loro.
Ci siamo accostati all’esame del fenomeno degli omicidi domestici tentando di andare oltre i fatti di cronaca che ci propone la stampa. La risonanza emotiva insita nella comunicazione del singolo episodio, anche per lo spazio che gli viene dedicato dai mezzi di informazione, non consente di fare serene riflessioni sul fenomeno generale e addirittura può essere fuorviante. Per esempio i mass media danno maggiore risalto agli omicidi tra genitori e figli, mentre l’esame complessivo degli episodi ha mostrato come nella maggior parte dei casi la vittima sia invece il partner. Non esistono delle cause certe che determinano questo tipo di omicidi. Dall’analisi generale dei dati si può desumere che il movente principale sia quello emotivo-passionale, ma se questo è sufficiente a liquidare il caso su un piano giornalistico non dice molto a chi decide di approfondire l’argomento. I fattori che determinano questo tipo di eventi sono sicuramente molteplici.
Per comprendere meglio la realtà del fenomeno sarebbe necessario approfondire dei casi analoghi, avendo la possibilità di acquisire maggiori elementi informativi (sulla famiglia, sui protagonisti della vicenda, sul reato, etc.) rispetto a quelli che vengono forniti dagli organi di stampa, per formulare ipotesi interpretative con una attendibilità più elevata.

Il Corriere della Sera 21.10.02
Il 62,9 % degli omicidi avviene fra le mura domestiche
Delitti in famiglia, si allunga la lista
Una recente ricerca dell'Eures fotografa la situazione degli ultimi anni. Sono donne le vittime più numerose

ROMA - E' una lista sempre più lunga quella dei delitti in famiglia. Oggi gli ultimi due casi a Roma e a Torino. Le vittime due padri, gli assassini due figli. Entrambi gli omicidi si sono consumati nel corso di liti.
Ecco le cifre di un recente studio condotto dall'Eu.res, Richerche Economiche e Sociali, istituto impegnato a monitorare questo tipo di fenomeni. Nel 2000 in Italia sono state 213 le vittime nei nuclei familiari, nel 2001 226 e nei primi mesi del 2002 già 30.
Il più alto numero di fatti di sangue si registra tra coniugi, 27,7%. Ma elevata è anche la percentuale dei genitori uccisi dai figli, 15%, e dei figli uccisi dai genitori, 12,7%. Sono stati 13 nel 2000 i bambini in etá prescolare assassinati.
MOVENTI - Differiscono sostanzialmente tra le regioni del nord e quelle del centro-Sud: nel settentrione sono significativamente alti il numero degli omicidi attribuiti a raptus improvvisi (19,2%), a un suo disturbo psicopatologico (9%) o a un disagio della vittima (7,7%): si tratta, quasi sempre, di omicidi che maturano all'interno di un disagio inespresso, ma crescente, che esplode, e del quale nessuno riesce a cogliere i sintomi.
OMICIDI PASSIONALI - Prevalgono nelle regioni del Centro e del Sud: 32,2% e 44%. Tra le regioni del Nord, il numero più alto degli omicidi in famiglia si segnala in Lombardia, 27, in Veneto 16, in Piemonte 11 e in Emilia Romagna 10; nessun caso in Val d'Aosta nel 2000 e nel 2001. Tra le Regioni del Sud il primato spetta alla Sicilia, 32 vittime, che detiene anche quello nazionale e alla Campania (30). A Roma il più alto numero di vittime nel 2000, 22, seguita da Milano e Napoli 11, Caserta e Catania 8.
LE VITTIME - Sono soprattutto le donne le vittime degli omicidi «domestici», 58,7%, a fronte del 41,3% degli uomini. Un dato che risulta molto più elevato nelle regioni del Nord, 62,8%, rispetto a quelle del centro, 57,8%, e del sud, 55.6%.
FASCIA DI ETA' - La più colpita è quella compresa tra i 26 e i 45 anni, 36,6% dei casi: è l'età, secondo gli esperti, nella quale trovano o meno realizzazione la maggior parte delle aspettative di ruolo, interno o esterno alla famiglia. Va sottolineato comunque l'alto numero di omicidi nella fascia fino a 15 anni.
LUOGHI DEL DELITTO - È dentro casa, 62,9%, e in particolare in camera da letto, 26,9, che ha luogo la maggior parte dei delitti domestici, secondo il rapporto Eures. Questo accade soprattutto nelle regioni del centro, 77,8% contro il 55,6% nel sud, dove la più alta percentuale di questi episodi si consuma all'aperto.
MATRICIDI-PARRICIDI - E se è in prevalenza donna la vittima di omicidi tra coniugi (36% rispetto al 15,9%), anche il numero dei matricidi risulta più elevato, 18,4%, di quello dei parricidi, 10,2. - Armi. Quanto al mezzo usato, la maggior parte degli omicidi avviene per mezzo di armi da fuoco, 40,4%; seguono le armi da taglio, 24,9% e i corpi contundenti, come spranghe e bastoni, 9,4.
IDENTIKIT DELLE VITTIME - Per quanto riguarda la condizione lavorativa delle vittime, molto alto è il numero dei pensionati, 15,5%, e delle casalinghe, 8%, anche se la percentuale maggiore delle vittime si registra tra quanti svolgono attivitá lavorativa, con valori particolarmente elevati tra chi fa un lavoro non qualificato: l'8,9% tra gli operai, il 10,3% tra gli impiegati, il 6,1 tra i lavoratori autonomi e il 3,8 tra gli imprenditori.
OMICIDI PREMEDITATI - Del totale degli omicidi il 48,8% è risultato essere premeditato. Quelli compiuti d'impeto sono il 44,6%. Il movente è passionale nel 32,9% dei casi, il prodotto di una prolungata conflittualitá nel 28,6%, non determinabile nell'11,7% dei casi, che le statistiche tendono a catalogare come «raptus».
GIUSTIZIA - In quasi la metá dei casi l'autore viene immediatamente arrestato o si costituisce, complessivamente nel 48,4%; molto elevato inoltre è il numero degli omicidi suicidi, 16,4%, ma anche quello dei tentativi di suicidio, 6,1%. Nel 26,3% dei casi, infine, l'autore tenta di sfuggire alla giustizia ma, quasi sempre, inutilmente.

relatività, da Aristotele a Wittgenstein...

La Gazzetta di Brescia 11.7.03
Un saggio di Antonio Sparzani
RELATIVITÀ DAL SAPORE ANTICO
Maria Mataluno

La conseguenza più drammatica del principio di relatività l’ha tratta Luigi Pirandello: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose - scrisse l’autore di Uno, nessuno e centomila, - ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signori, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me: mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai». Con i suoi "personaggi in cerca d’autore" Pirandello ha scritto una pagina decisiva nella storia dei protagonisti letterari: la stessa pagina scritta da Kafka e da Musil, da Svevo e Thomas Mann, che racconta dello spaesamento, dell’inadeguatezza, del crollo di ogni certezza nel cuore dell’uomo contemporaneo. Non poteva essere diversamente, per chi è vissuto nel secolo della psicanalisi e del principio di indeterminazione, e soprattutto nel secolo della relatività. La teoria che eternamente sarà legata al nome di Albert Einstein, infatti, non ha rivoluzionato solo la fisica e la matematica, ma anche la letteratura e l’arte, contribuendo a modificare la mentalità stessa delle persone: dopo la fiducia ottocentesca nella Verità e nella Scienza, e la celebrazione futurista del progresso, l’umanità si è ripiegata su se stessa per contemplare la relatività - e quindi la fragilità - del tutto. Ma la relatività non è un concetto inventato dal Novecento, bensì permea di sè tutta la storia del pensiero occidentale. Lo dimostra Antonio Sparzani in un saggio coltissimo e ricco di spunti originali, Relatività, quante storie (Bollati Boringhieri, 321 pagine, 30 euro), un percorso tra scienza e letteratura, tra matematica e filosofia, alla ricerca di quanto di assoluto c’è nel relativo. Sparzani, docente di Fondamenti della Fisica all’Università Statale di Milano, non si limita a rintracciare le origini del concetto di relatività nell’opera di Bruno e di Galilei, per poi seguirne gli sviluppi negli scritti di Klein e Lorentz e la definitiva affermazione con Einstein; ma ci porta alla fonte del pensiero occidentale, guidandoci con sicurezza e rigore filologico tra i testi di Aristotele e Dante, Bruno e Ariosto, Casanova e Queneau, Mann e Calvino, Rimbaud e Mallarmé, e cercando di dimostrare come una certa ricezione dell’idea della relatività nella cultura europea possa rappresentare il presupposto per un rovesciamento di prospettiva che conduca dal relativo all’assoluto. Relazione e rapporto, reciprocità e dialogo. Questo è relatività per Aristotele, che definisce relative quelle cose che «sono in rapporto tra loro come il misurabile rispetto alla misura, il conoscibile rispetto alla conoscenza e il sensibile rispetto alla sensazione»; e lo è anche per Kant, che usa l’aggettivo relativo per definire la musica, arte della connessione e dei rapporti per eccellenza, tra canto e musica, suono e silenzio, movimento e stasi. L’idea di relatività spesso coinvolge quella di movimento. È il caso dell’episodio dell’Orlando Furioso in cui Brandimarte e Rodomonte si affrontano su un ponte e, incapaci di trovare «ove fermare il piede», precipitano nel fiume rimanendo «fermi in sella»: fermi rispetto ai loro cavalli, ma non rispetto al ponte. Oppure del rapido e inavvertito cambiamento di prospettiva nella poesia Davanti a San Guido: i cipressi «mi balzarono incontro», scrive Carducci trasferendo sugli alberi la velocità del treno sul quale sta viaggiando, ma poco dopo gli stessi cipressi lo implorano: «Oh resta qui», perché adesso è lui a muoversi mentre loro sono in quiete. Fu lo stesso Copernico, del resto, che di relatività e punti di vista se ne intendeva, a scrivere: «Le cose stanno come quando parla l’Enea di Virgilio, dicendo: "Ci allontaniamo dal porto, arretrano le terre e le città"...». «Relativo» è ciò che viene visto sotto diversi punti di vista, e qui è d’obbligo chiamare in causa i pittori medievali e rinascimentali, da Piero della Francesca a Leonardo; ma anche Ireneo Funes, lo straordinario uomo dalla «memoria totale» descritto da Borges, che non riesce a capacitarsi di come «il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)». Insomma: il nome fa parte della rosa, come si chiedevano gli antichi, come il suo colore o il suo profumo, o è il frutto di una convenzione tra i parlanti? L’idea di «gioco linguistico» coniata da Wittgenstein avrebbe risolto in parte questi problemi nel 1927. Se il concetto di relatività è in grado di costruire un ponte tra scienze umanistiche e scienze fisiche, esso può essere anche il punto di partenza per unire rive ancor più distanti: quelle che separano una cultura dall’altra. Come al di là dell’infinità di nomi che si possono dare a un oggetto rimane sempre un nucleo di caratteristiche sensibili che fanno di quell’oggetto se stesso, così al di là della pluralità di culture e lingue deve pur esistere un Assoluto in grado di fare da minimo comune denominatore: potrebbe essere Dio, suggerisce Sparzani, ma anche lo stesso concetto di relatività, perché, come scrisse Leopardi, «non v’è quasi altra verità assoluta se non che tutto è relativo».

Galileo

La Stampa 11 Luglio 2003
UN LIBRO E UN PROCESSO RIACCENDONO IL DIBATTITO SULLO SCIENZIATO
Galileo, l’antimoderno
Silvia Ronchey

LO Spirito Santo, scriveva Galileo a Cristina di Lorena, non ha voluto insegnarci se il cielo si muove o sta fermo, né se al suo centro sta la terra o il sole. D'altra parte, non è concepibile che lo Spirito Santo abbia omesso di insegnarci qualcosa che concerne la nostra salvezza. E allora, come si può avere in questa materia un'opinione eretica? Come si può affermare che l'ipotesi geocentrica di Tolomeo sia necessariamente ortodossa e quella eliocentrica di Copernico sia erronea?.
«L'intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo, e non come va il cielo», amava dire anche il cardinal Baronio, il migliore amico di Roberto Bellarmino, l'inquisitore di Galileo. Contrariamente allo stereotipo illuminista, Bellarmino era un uomo spregiudicato e coltissimo. Giudice e accusato erano entrambi dei cristiani convinti. Galileo non era assolutamente, come a volte si rischia di vederlo, un pensatore «laico». I due avversari appartenevano entrambi all'intelligencija ecclesiastica di un'epoca in cui la cultura del cattolicesimo stava toccando il suo apice. Condividevano amicizie, letture, frequentazioni, nonché, si potrebbe azzardare, opinioni.
Il conflitto fra i due era strettamente formale, si trattava cioè, in sintesi, di come presentare la questione, non della sua essenza. Bellarmino voleva che Galileo ammettesse che la sua era una pura ipotesi matematica. In questo senso, come non dargli ragione? Oggi il dubbio domina la visione scientifica così come la filosofia della scienza. Tutto è messo in forse, perfino la geometria euclidea. Tra accusato e inquisitore, tra Galileo e Bellarmino, potremmo paradossalmente dire che il meno dogmatico era il secondo.
Questo perché sia chiaro che nel processo d'opinione più famoso della storia europea, riallestito sul palco del Festival di Spoleto il 28 giugno scorso in una chiave politica tanto attuale quanto poco pertinente (la polemica sui magistrati d'accusa, che ha messo a confronto Gaetano Pecorella e Paola Severino nell'immaginario tribunale presieduto da Luciano Violante), a opporsi non sono mai stati ragione e oscurantismo, come potrebbe essere portato a credere sia lo spettatore del Festival dei Due Mondi, sia il lettore del libro di Annibale Fantoli, Il caso Galileo. Dalla condanna alla «riabilitazione». Una questione chiusa?, appena uscito nella Bur (277 pp., 8,50 euro). Fantoli, teologo vicino al Vaticano e alla Commissione di studio sulla questione galileiana, ripercorre con pessimismo l'evolversi del pensiero ufficiale della chiesa in materia: dall'ambiguo imprimatur di Benedetto XV alla prima edizione delle opere di Galileo, quando la scoperta del fenomeno dell'aberrazione della luce diede la prova tanto cercata del movimento della terra intorno al sole, fino alle più recenti, e per Fantoli deludenti, «riabilitazioni» di Galileo contenute nei discorsi del cardinal Poupard e dello stesso papa Woitjla alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 1992.
Contro Poupard leggiamo una serie di accuse. Ha prestato a Bellarmino una falsa aura di obiettività. Ha ribadito che Galileo non riuscì a provare in maniera irrefutabile il duplice movimento della terra. Ha passato sotto silenzio non solo la cosiddetta prova delle maree, ma anche le scoperte realizzate col cannocchiale. Ha esagerato i cauti ripensamenti ecclesiastici precedenti la cancellazione di Galileo, Copernico e Keplero dall'Indice dei libri proibiti nel 1835. Ha presentato come una semplice «misura disciplinare» la condanna del grande scienziato. Eppure fu un decreto dottrinale a dichiarare «falsa e del tutto contraria alla Divina Scrittura», nel 1616, la «spiegazione copernicana della costituzione del mondo». E Urbano VIII, al termine del secondo processo, nel 1633, giustificò la condanna e l'abiura di Galileo con il «veemente sospetto di eresia». È probabile che Fantoli, tecnicamente, abbia ragione. Ma non è per questo motivo che il caso Galileo va ritenuto, come denuncia il titolo del suo libro, ancora aperto.
L'attualità del caso Galileo andrebbe letta oggi alla luce del dibattito, interno alla scienza, tra conoscibilità e inconoscibilità del cosmo. La certezza di Galileo, che ringraziava Dio per avergli concesso il privilegio di iniziare una ininterrotta serie di scoperte e progressi, si contrapponeva allora a una visione dell'universo convinta della provvisorietà di ogni scoperta umana e della relatività di ciò che chiamiamo progresso. Difficile oggi decidere quale delle due posizioni sia più attuale, e più condivisibile.

Horkheimer, Adorno e la Scuola di Francoforte: ragione e religione

La Gazzetta di Parma 11.7.03
Leonardo Casini parla del filosofo morto nel luglio del '73 e della Scuola di Francoforte
Dialettica della profezia
«Horkheimer? Attuale la sua posizione sul divino»
di Maria Mataluno

«Nel momento stesso in cui le conoscenze tecniche allargano l'orizzonte del pensiero e delle azioni degli uomini, diminuiscono invece l'autonomia dell'uomo come individuo, la sua capacità di difendersi dall'apparato sempre più potente e complesso della propaganda di massa, la forza della sua immaginazione, la sua indipendenza di giudizio. (…) Così il progresso minaccia di distruggere proprio quello scopo che dovrebbe realizzare : l'idea dell'uomo».
Sembrano parole scritte l'altro ieri, e invece sono passati quasi sessant'anni da quando Max Horkheimer, il filosofo tedesco nato a Stoccarda nel 1895 e morto a Norimberga nel luglio del 1973, le pronunciò alla Columbia University. Era il 1944, e Horkheimer, così come la maggior parte dei membri dell'Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, da lui diretto dal 1929 al '33, aveva dovuto lasciare l'Europa e risolversi a esportare nel mondo le proprie idee sulla rivoluzione e sul capitalismo, sulla società di massa che minaccia la libertà del singolo e sulla tecnica che riduce gli uomini ad automi.
Leonardo Casini insegna Filosofia morale all'Università di «Roma Tre» e da anni si occupa della Scuola di Francoforte e di Horkheimer, sul quale sta scrivendo un libro.
- Professor Casini, quali sono le linee teoriche fondamentali della Scuola di Francoforte e quale contributo diede Horkheimer alla loro definizione?
«La Scuola di Francoforte, pur nella diversità di interessi dei singoli esponenti, aveva come fondamento comune il riferimento al marxismo. Rispetto ad esso, però, assunse subito una posizione ''eretica'', caratterizzata da una parte dall'integrazione della dialettica marxista con le teorie psicanalitiche - che li spinse a trasferire l'analisi marxista del dominio e dell'autoritarismo dall'ambito della società a quello più ristretto della famiglia, - e dall'altra dal rifiuto della dimensione utopistica della filosofia marxista: Horkheimer e i suoi allievi non credevano nella futura palingenesi della società mediante la rivoluzione delle masse».
- Ad allontanare Horkheimer da Marx è anche la sua concezione della scienza: mentre l'autore del Capitale considerava la scienza neutra rispetto alla lotta di classe, per Horkheimer essa è uno strumento di dominio.
«Sì. La concezione della scienza di Horkheimer prende le distanze da quella marxista e si avvicina invece alla lezione di Heidegger, il filosofo del Novecento che più di ogni altro ha indagato sul destino dell'uomo nell'era della tecnica. Di questo problema Horkheimer si occupa nella sua opera più famosa, La dialettica dell'illuminismo, scritta insieme a Theodor Wiesengrund Adorno. Dove per ''illuminismo'' s'intende una concezione della ragione e della scienza che risale alla Grecia antica e si è consolidata nell'età contemporanea: quella della scienza come strumento di potere, di dominio dell'uomo sulla natura e sugli altri uomini. Nel momento in cui l'uomo usa la propria ragione non come strumento di conoscenza ma come strumento per manipolare la realtà, introduce uno squilibrio nel rapporto ''naturale'' tra uomo e natura. Il prototipo dell'uomo che fa un uso strumentale della ragione - provocando quell'''Eclisse della ragione'' che dà il titolo a un'altra famosa opera di Horkheimer - è Ulisse, che per sfuggire al richiamo delle sirene si fa legare all'albero della sua nave. È il rifiuto dell'eros e della seduzione come metafora del rifiuto della natura: un tema molto presente nell'ambito della Scuola di Francoforte, in particolare nel pensiero di Herbert Marcuse».
- Horkheimer ha scritto la ''Dialettica dell'illuminismo'' insieme ad Adorno. Questi due filosofi vengono spesso accomunati, quasi fossero un'unica entità: quali sono, invece, i motivi che li distinsero?
«La Scuola di Francoforte nasce con degli assunti comuni, ma presenta un'ampia diversità di vedute al suo interno, provocata anche dall'esperienza della diaspora negli Stati Uniti e dal conseguente contatto con una cultura e una società tanto diverse da quelle europee. Il discorso vale anche per Adorno e Horkheimer. Potremmo dire che a dividere i due autori della ''Dialettica dell'illuminismo'' furono l'arte e la religione: compositore e critico musicale, Adorno incentrò la sua riflessione sull'esperienza artistica, concependo l'arte come uno strumento di reazione contro ogni forma di potere repressivo. Horkheimer, invece, era più interessato agli aspetti conoscitivi, epistemologici della filosofia: sua preoccupazione era recuperare quella che lui chiama ''ragione oggettiva''- volta alla conoscenza delle cose, - contro il dilagare della ragione soggettiva, tecnicistica, volta all'acquisizione di un potere».
- A trent'anni dalla sua morte, in cosa consiste l'attualità del pensiero di Horkheimer?
«La Scuola di Francoforte è stata lungo dimenticata dalla cultura contemporanea, forse per via della forte componente ideologica che le viene dal suo essere nata sul terreno del marxismo. Oggi, però, assistiamo a un ritorno d'interesse nei confronti di questi pensatori, dovuto al fatto che molte delle loro analisi sulla società di massa e sull'età della tecnica sono ancora utili a descrivere alcuni aspetti del mondo contemporaneo. Non a caso al pensiero di Horkheimer, Marcuse e Fromm si rifanno molti esponenti del movimento antiglobalizzazione. Altro motivo di grande attualità, a mio avviso, è quello religioso. La posizione di Horkheimer, che pur sentendo la necessità di avvicinarsi al divino non arriva ad abbracciare nessuna confessione particolare, rispecchia una tendenza tipica del nostro tempo: un tempo in cui, in un generale ritorno al sacro, sono sempre più rari coloro che fanno professione di ateismo radicale, mentre cresce il numero di coloro che non sanno compiere fino in fondo quel salto che permetta di aderire a una confessione determinata».

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Le Scienze 9.07.2003
I geni della depressione
Le donne sono preda più facilmente degli uomini di stati di depressione

Alcuni ricercatori americani hanno annunciato di aver identificato 19 diverse regioni genetiche collegate alla depressione. La scoperta, pubblicata sulla rivista "American Journal of Medical Genetics", potrebbe portare verso una migliore diagnosi della depressione e di altre condizioni simili.
George Zubenko, docente di psichiatria all'Università di Pittsburgh, ha studiato 81 famiglie i cui membri soffrivano di gravi disturbi depressivi ricorrenti. Lo scienziato i suoi colleghi hanno scoperto sui cromosomi dei pazienti 19 regioni che sembrano essere coinvolte nello stato di depressione. Ulteriori studi potrebbero essere in grado di identificare i singoli geni interessati.
La scoperta potrebbe consentire cure e trattamenti su misura. "Per esempio, - ha spiegato Zubenko - gli individui con determinati marcatori genetici in queste regioni potrebbero rispondere meglio di altri a particolari cure".
Alcune delle mutazioni scoperte dal team di Zubenko sembrano essere legate in modo specifico al sesso: alcune sono presenti esclusivamente nelle donne, e almeno una soltanto negli uomini. "Le donne tendono più degli uomini a sviluppare la depressione, - afferma Zubenko - e le variazioni genetiche sembrano essere alla base di questa differenza".
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