Tg.Com 14.10.04
In Liguria le streghe son tornate
A Triora qualcuno le caccia ancora
A Triora le streghe son tornate. Nel paese in provincia di Imperia, che, tra il 1588 e il 1589, ne processò più di trenta, si torna infatti a parlare di loro. Dal 22 al 24 ottobre, nell’antico borgo montano del Ponente ligure si riuniscono i principali studiosi del fenomeno della stregoneria e delle antiche tradizioni. Non manca, in un ambiente suggestivo, la presentazione del libro "Le tre bocche del drago".
Triora, che ha sviluppato un flusso turistico di qualità grazie alla bellezza incontaminata dei luoghi e alla memoria delle donne accusate, imprigionate e torturate, ritorna su quest'ultima peculiarità della propria storia con la quarta edizione del convegno "La Via Occidentale Antiche tradizioni e caccia alle streghe nel chiostro alpino".
Sotto la direzione di Gian Maria Panizza, direttore dell’Archivio di Stato di Alessandria, e di Paolo Portone, della Società Storica Comense, entrambi ricercatori nell’ambito della storia del fenomeno stregoneria e della sua persecuzione in Italia, i principali studiosi del fenomeno saranno riuniti dal 22 al 24 ottobre nell'antico borgo. Tra gli ospiti ci saranno Massimo Centini, Pinuccia di Gesaro, Andrea Del Col, Michela Zucca, Laura Rangoni, Piercarlo Grimaldi, Oscar Di Simplicio, Franco Castelli.
I lavori verranno introdotti dal prof. Rainer Decker, direttore del dipartimento di Storia della scuola di formazione di Paderborn, celebre ricercatore e autore del recentissimo volume "I papi e le streghe", sintesi di anni di studi. Con la sua presenza si anticipa il prossimo convegno che sarà internazionale e coinciderà con la presentazione dei restauri dell’antico Palazzo Stella di Triora, dove verrà ospitato il Museo Etnografico e della Stregoneria e dove nascerà il Centro Internazionale di Studi sulla Storia della Stregoneria e dell’Inquisizione.
Tra i temi sul tavolo ci sarà l’ipotesi di una stregoneria delle montagne, spesso ripresa dagli storici ma anche molto criticata, e dei suoi rapporti con la cosiddetta western tradition: quel complesso e stratificato insieme di miti, credenze, culti e tradizioni che dovrebbe formare il nucleo della stregoneria occidentale. Nella prima giornata (venerdì 22 ottobre), si esaminerà il problema della precocità e della lunga durata della persecuzione italiana, che il revisionismo storiografico ritiene moderata. Nella seconda giornata (sabato 23 ottobre) il taglio critico sarà di carattere antropologico e verranno trattati e discussi gli argomenti connessi alle tradizioni culturali, alle forme di religiosità popolare, alla conoscenza ed alla pratica delle cure nella cerchia alpina, fino ad affrontare l’interessante problema della continuità o della reinvenzione della tradizione stregonica nelle nuove forme diffuse attualmente. La terza giornata (domenica 24 ottobre) sarà dedicata al problema della caccia alle streghe in Italia e culminerà con una tavola rotonda sulla cosiddetta tolleranza italiana tra verità e mistificazione apologetica.
Fra le iniziative collaterali, nella serata di sabato 23 ottobre, la presentazione - accanto al camino acceso in una delle sale dell’Albergo Colomba d’oro e precisamente in quella che fu la sagrestia dell’antico convento francescano di Triora - del romanzo "Le tre bocche del Drago", edito da Fabio Larcher e scritto in forma di veglia collettiva da alcuni autori molto noti nell’ambito della letteratura fantastica, gotica e horror (tra i quali Alan Altieri, Remo Guerrini, Gianfranco Nerozzi e Danilo Arona), dedicato e ambientato a Triora e alle sue storie di streghe, ricco di suggestioni di grande impatto emotivo. La presentazione del libro verrà fatta in forma di “veglia”. Si tratta di un esperimento di stregoneria estetica con gli scrittori che cercheranno di improvvisare una storia macabra, o di fantasmi, attingendola dal proprio vissuto o dalle proprie letture.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 21 ottobre 2004
sinistra
Aldo Tortorella
Liberazione 21.10.04
Intervista a Aldo Tortorella, presidente dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra
«Dare voce al pensiero critico presente in ogni cultura»
Se la sinistra italiana ha un'anima critica, Aldo Tortorella è uno di quelli che la rappresenta al meglio. Niente tessere di partito in tasca, in compenso un attivismo politico lungo una vita intera. La sua Associazione per il rinnovamento della sinistra è un laboratorio aperto, un cantiere, uno spazio politico dove è possibile incontrare le mille anime di un movimento che si è ritrovato a manifestare in piazza contro la guerra e il neoliberismo, che chiede un altro mondo e un'altra Italia possibile.
C'è un'Italia di sinistra che è disgustata dalle politiche della destra, e che non capisce i tatticismi di una parte dell'opposizione. In altre parole, che non si ritrova nella federazione riformista, nel triciclo insomma. Cosa devono fare?
Penso che un'opinione abbastanza giusta sia arrivata da Asor Rosa, questa estate. C'è un problema di formazione di una cultura politica convergente. Manca un'analisi condivisa della realtà, e quindi non c'è l'indicazione di una prospettiva comune. Quello che chiamano il movimento per un altro mondo possibile ha fornito - anche attraverso il lavoro di numerosi ricercatori - molti temi di discussione. Bisogna lavorare su questo, insieme. Ci sono già tante cose che ci uniscono. A questo punto non ci si deve fermare a discutere di problemi organizzativi. Il lavoro comune può portare a una visione comune.
L'Associazione per il rinnovamento della sinistra cerca di unire le tessere del mosaico della sinistra italiana. Un'altra opposizione è possibile?
Quello che abbiamo cercato di fare, in piccolo e senza nessuna pretesa, è fornire qualche esempio di comportamento. Nella nostra associazione ci sono donne e uomini che appartengono a varie formazioni di sinistra, fanno iniziative e discutono insieme. Noi tentiamo di dare un'analisi diversa della realtà. La critica al liberismo è ormai abbastanza generalizzata, anche nei settori più moderati. Adesso si tratta di vedere se si conviene su una nuova critica del modello economico e sociale capitalistico. Il compromesso socialdemocratico si reggeva su una premessa: la redistribuzione delle risorse. La definizione dello sviluppo era affidata alle forze economicamente dominanti. Ora questo modello è in crisi. Le risorse naturali sono devastate, i consumi non possono aumentare all'infinito. E allora bisogna ripensare il tipo di compromesso: non si può pensare solo alla redistribuzione delle risorse, ma alla ridefinizione del modello di sviluppo.
Di qui la necessità di lavorare insieme, di aprire un cantiere per sviluppare nuove proposte, nuovi progetti politici.
L'esempio più valido e noto è quello della lotta per la pace. La posizione del movimento - fatta propria dalle sinistre politiche alternative - ha influenzato anche i moderati. Chi credeva di essere realista ha dimostrato di non esserlo. La lotta all'integralismo islamico non si fa contrapponendo un altro integralismo. C'è molto da lavorare su questo. Basta pensare al rigurgito fondamentalista con cui è stata concepita la legge sulla fecondazione assistita. Ci vuole una forza alternativa che abbia la capacità di parlare al mondo cristiano e mussulmano. Bisogna dar voce al pensiero critico presente in ogni cultura.
Che fare?
Io penso che in tutte le forze, nella Margherita come nei Ds, ci siano culture diverse. Certo, c'è poi una tendenza maggioritaria che spinge verso una coalizione di forze di tipo moderato, neocentrista. E questo va capito, non va demonizzato. Ma proprio per un motivo del genere bisogna cercare di ricomporre, non in forma schematica, un punto di vista critico, oppure alternativo. Io preferisco chiamarlo critico e costruttivo. Il fatto che Rifondazione comunista dica: noi non vogliamo fagocitare nessuno, non vogliamo ingrandire noi stessi ma siamo disponibili a esaminare una nostra partecipazione a un contenitore comune, è utile. Non per fare una babele di linguaggi, ma per cercare di costruire una strada nuova.
Molti studiosi della politica osservano che la forma partito è in crisi.
Molte delle esperienze partitiche sono deboli, non solo perché hanno obiettivi sbagliati. C'è anche una crisi del modo tradizionale di concepire i partiti. Penso che il pullulare di gruppi, sigle, iniziative a sinistra sia un sintomo di questa crisi. Può diventare un danno se non si riesce a stabilire una comunanza di obiettivi politici e a lavorare per una visione comune.
Facciamo due esempi concreti.
Uno, evidentissimo, è lo scasso della Costituzione repubblicana, che dipende anche dagli errori del centrosinistra. C'è troppo poco allarme. E' in ritardo una mobilitazione comune. Un altro esempio è la rappresentanza politica del lavoro: se ne parla ma non si vede ancora un'azione convergente.
Cosa vede Aldo Tortorella nella sua palla di vetro? Riuscirà la sinistra critica a ritrovarsi?
La capacità di rispondere uniti in una certa misura c'è già, e deve essere intensificata. L'abbiamo visto nella lotta contro la guerra, sull'articolo 18, per la difesa dello Stato di diritto. Più faticoso sarà il lavoro per la ricostruzione non solo degli obiettivi politici comuni ma di una visione comune della realtà e della prospettiva. In questo momento i partiti hanno i loro congressi. Le associazioni, le forze della sinistra sociale, i movimenti potrebbero più facilmente ritrovarsi insieme per aprire il cammino. Per quanto ci riguarda, questa è la direzione del nostro lavoro.
Frida Nacinovich
f. nacinovich@liberazione. it
Intervista a Aldo Tortorella, presidente dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra
«Dare voce al pensiero critico presente in ogni cultura»
Se la sinistra italiana ha un'anima critica, Aldo Tortorella è uno di quelli che la rappresenta al meglio. Niente tessere di partito in tasca, in compenso un attivismo politico lungo una vita intera. La sua Associazione per il rinnovamento della sinistra è un laboratorio aperto, un cantiere, uno spazio politico dove è possibile incontrare le mille anime di un movimento che si è ritrovato a manifestare in piazza contro la guerra e il neoliberismo, che chiede un altro mondo e un'altra Italia possibile.
C'è un'Italia di sinistra che è disgustata dalle politiche della destra, e che non capisce i tatticismi di una parte dell'opposizione. In altre parole, che non si ritrova nella federazione riformista, nel triciclo insomma. Cosa devono fare?
Penso che un'opinione abbastanza giusta sia arrivata da Asor Rosa, questa estate. C'è un problema di formazione di una cultura politica convergente. Manca un'analisi condivisa della realtà, e quindi non c'è l'indicazione di una prospettiva comune. Quello che chiamano il movimento per un altro mondo possibile ha fornito - anche attraverso il lavoro di numerosi ricercatori - molti temi di discussione. Bisogna lavorare su questo, insieme. Ci sono già tante cose che ci uniscono. A questo punto non ci si deve fermare a discutere di problemi organizzativi. Il lavoro comune può portare a una visione comune.
L'Associazione per il rinnovamento della sinistra cerca di unire le tessere del mosaico della sinistra italiana. Un'altra opposizione è possibile?
Quello che abbiamo cercato di fare, in piccolo e senza nessuna pretesa, è fornire qualche esempio di comportamento. Nella nostra associazione ci sono donne e uomini che appartengono a varie formazioni di sinistra, fanno iniziative e discutono insieme. Noi tentiamo di dare un'analisi diversa della realtà. La critica al liberismo è ormai abbastanza generalizzata, anche nei settori più moderati. Adesso si tratta di vedere se si conviene su una nuova critica del modello economico e sociale capitalistico. Il compromesso socialdemocratico si reggeva su una premessa: la redistribuzione delle risorse. La definizione dello sviluppo era affidata alle forze economicamente dominanti. Ora questo modello è in crisi. Le risorse naturali sono devastate, i consumi non possono aumentare all'infinito. E allora bisogna ripensare il tipo di compromesso: non si può pensare solo alla redistribuzione delle risorse, ma alla ridefinizione del modello di sviluppo.
Di qui la necessità di lavorare insieme, di aprire un cantiere per sviluppare nuove proposte, nuovi progetti politici.
L'esempio più valido e noto è quello della lotta per la pace. La posizione del movimento - fatta propria dalle sinistre politiche alternative - ha influenzato anche i moderati. Chi credeva di essere realista ha dimostrato di non esserlo. La lotta all'integralismo islamico non si fa contrapponendo un altro integralismo. C'è molto da lavorare su questo. Basta pensare al rigurgito fondamentalista con cui è stata concepita la legge sulla fecondazione assistita. Ci vuole una forza alternativa che abbia la capacità di parlare al mondo cristiano e mussulmano. Bisogna dar voce al pensiero critico presente in ogni cultura.
Che fare?
Io penso che in tutte le forze, nella Margherita come nei Ds, ci siano culture diverse. Certo, c'è poi una tendenza maggioritaria che spinge verso una coalizione di forze di tipo moderato, neocentrista. E questo va capito, non va demonizzato. Ma proprio per un motivo del genere bisogna cercare di ricomporre, non in forma schematica, un punto di vista critico, oppure alternativo. Io preferisco chiamarlo critico e costruttivo. Il fatto che Rifondazione comunista dica: noi non vogliamo fagocitare nessuno, non vogliamo ingrandire noi stessi ma siamo disponibili a esaminare una nostra partecipazione a un contenitore comune, è utile. Non per fare una babele di linguaggi, ma per cercare di costruire una strada nuova.
Molti studiosi della politica osservano che la forma partito è in crisi.
Molte delle esperienze partitiche sono deboli, non solo perché hanno obiettivi sbagliati. C'è anche una crisi del modo tradizionale di concepire i partiti. Penso che il pullulare di gruppi, sigle, iniziative a sinistra sia un sintomo di questa crisi. Può diventare un danno se non si riesce a stabilire una comunanza di obiettivi politici e a lavorare per una visione comune.
Facciamo due esempi concreti.
Uno, evidentissimo, è lo scasso della Costituzione repubblicana, che dipende anche dagli errori del centrosinistra. C'è troppo poco allarme. E' in ritardo una mobilitazione comune. Un altro esempio è la rappresentanza politica del lavoro: se ne parla ma non si vede ancora un'azione convergente.
Cosa vede Aldo Tortorella nella sua palla di vetro? Riuscirà la sinistra critica a ritrovarsi?
La capacità di rispondere uniti in una certa misura c'è già, e deve essere intensificata. L'abbiamo visto nella lotta contro la guerra, sull'articolo 18, per la difesa dello Stato di diritto. Più faticoso sarà il lavoro per la ricostruzione non solo degli obiettivi politici comuni ma di una visione comune della realtà e della prospettiva. In questo momento i partiti hanno i loro congressi. Le associazioni, le forze della sinistra sociale, i movimenti potrebbero più facilmente ritrovarsi insieme per aprire il cammino. Per quanto ci riguarda, questa è la direzione del nostro lavoro.
Frida Nacinovich
f. nacinovich@liberazione. it
sinistra
il libro di Armando Cossutta
Repubblica 21.10.04
IL LIBRO-INTERVISTA DI ARMANDO COSSUTTA
COMUNISTA SENZA ABIURE
NELLO AJELLO
Una storia comunista di Armando Cossutta e Gianni Montesano viene presentato oggi a Roma presso la Sala del Cenacolo (vicolo Valdina 3a) alle ore 17 da Massimo D´Alema, Ciriaco De Mita e Oliviero Diliberto. Presiede Eugenio Scalfari
«Sono stato e sono ancora un comunista, senza vergogne e senza abiure», è il motto che Armando Cossutta adotta per riassumere la propria biografia, intitolata, appunto, Una storia comunista e redatta in collaborazione con Gianni Montesano (Rizzoli, pagg. 288, euro 15,50). La definisce «una piccola cronaca senza grandi pretese», ma non può sfuggirne l´intensa passionalità. Attraversa sessant´anni della sinistra italiana, visti da una distanza temporale che non ne attenua anzi sembra accrescerne l´impatto emotivo e la carica polemica.
Il punto di osservazione iniziale è la Lombardia operaia, anzi ciò che a lungo se ne è considerato la «cittadella»: Sesto San Giovanni. Lì Cossutta, nato a Milano nel 1926, iniziò la carriera politica, dopo aver militato nelle file della Resistenza ed aver subìto il carcere. Segretario della sezione comunista della «Stalingrado d´Italia», vi incontra i massimi dirigenti del partito: da Togliatti, alla cui lezione si professerà fedele, a quel Luigi Longo, del quale appena può tesse l´elogio. Del primo, Togliatti, apprezza la razionale freddezza, la perseveranza con la quale privilegiò, nei fatti, «la strada della democrazia» rispetto a quella dell´«insurrezione»: l´occupazione della Prefettura di Milano, nell´autunno del ´47, da parte di «una fiumana» di militanti del Pci sotto la guida di Giancarlo Pajetta - un topos della nostra narrativa politica - viene riproposta in queste pagine con vivacità e a completo onore del segretario del Pci che ne intuì a prima vista l´inutilità operativa (al punto, testimonia Cossutta, che in quelle ore «l´irritazione di Togliatti era ben più forte di quella di Scelba e De Gasperi»).
Di Longo, Cossutta ricorda la perentoria semplicità: alla vigilia di quel 28 aprile del ´45, quando il comandante partigiano Walter Audisio incaricato di giustiziare Mussolini manifesta qualche comprensibile esitazione, Longo lo gela per telefono: «Senti Valerio, o tu fucili Mussolini o noi fuciliamo te». Un episodio che sembra sfumare in una truce oleografia. Meno epici risultano certi tratti del carattere di Longo che Cossutta rievoca con leggerezza. Come quando, per troncare dibattiti che si preannunziano inesauribili, il successore di Togliatti posa sul tavolo di riunione il proprio cappello invitando i compagni a deporvi ciascuno un bigliettino con il suo voto: contiamoci e non se ne parli più. Così, nel dicembre del ´64, venne scelto, in qualità di candidato comunista al Quirinale, Saragat al posto di quel Fanfani che taluni - fra i quali Pietro Ingrao - patrocinavano. Decisioni ben più sofferte Longo aveva assunto rendendo pubblico il memoriale togliattiano di Jalta e si sarebbe accollato criticando con asprezza l´invasione sovietica della Cecoslovacchia (agosto 1968).
L´aura mitologica che aleggia su questi episodi sembra intorbidarsi nel periodo successivo, quando Cossutta passa all´opposizione nel partito, diventando capo della corrente denominata, all´ingrosso, «filosovietica». E ciò determinerà uno stop alla sua carriera, che aveva conosciuto un´ascesa continua fino a sfociare, nel 1966, nell´incarico di coordinatore dell´ufficio di segreteria e nella funzione di «sovrintendente all´amministrazione» del partito. Per farla breve, almeno fino al 1974, fu lui a procurare al Pci i finanziamenti che provenivano dall´Unione Sovietica: il cosiddetto «oro di Mosca».
Bersagliato per decenni dagli avversari politici, Cossutta non ha mai nascosto quel suo ruolo, rivendicandone anzi la legittimità in un universo bipolare, in cui ciascuna delle parti in lotta aveva i suoi finanziatori internazionali: la Dc gli Stati Uniti, il Pci l´Urss. Anche quando, sulla metà degli anni Settanta, i finanziamenti di provenienza moscovita si affievoliscono o cessano del tutto, egli continua a percepire contributi, magari modesti, di provenienza sovietica, stavolta a vantaggio di iniziative giornalistiche facenti capo alla sua «area» all´interno del partito o comunque predisposte verso Mosca.
Moralmente ineccepibile in quanto persona, l´ex agitatore di Sesto San Giovanni è ormai una sorta di manager internazionale di partito. E questa funzione collima con la sua visione politica generale. Sotto Berlinguer, egli sarà favorevole al compromesso storico come intuizione di fondo, ma assai critico verso i governi di solidarietà nazionale appoggiati dal Pci. Considererà «infelice» l´intervista con la quale, nell´estate del ´76, Berlinguer afferma di «sentirsi più al sicuro» sotto la protezione della Nato. Per non parlare della dichiarazione in cui lo stesso leader, alla fine del 1981, dichiarerà esaurita la «capacità propulsiva» della rivoluzione di Ottobre. Riviste oggi, le tesi berlingueriane gli sembrano anticipare quella «mutazione genetica» del partito di Togliatti e di Longo che condurrà al cambio del nome. D´altronde, già a partire dai tardi anni Settanta, il «caso Cossutta» era andato accentrando intorno a sé il dissenso comunista.
«Atto distruttivo» e «suicida», manifestazione di «pentitismo politico», «recisione delle radici», «nuovismo a tutti i costi»: così, in questa Storia comunista, si parla della "Bolognina" e del cambio di nome e di collocazione politica dell´ex Pci: colpevoli i «quarantenni scalpitanti guidati da Occhetto e da Massimo D´Alema». Cossutta si colloca alla testa dei comunisti del «no» e degli oppositori di quella «Cosa» che sarà poi il Pds e l´attuale Ds.
La nascita del partito della Rifondazione comunista, nel maggio del ´91, avrà proprio in Cossutta il massimo artefice: e, tre anni più tardi, sarà opera sua la stessa scelta di Fausto Bertinotti - un dirigente sindacale non di gran nome, all´epoca - come segretario.
È nel destino dell´anziano dirigente lombardo assistere a continui strappi che compromettono i suoi ideali originari. Il partito della Rifondazione comunista, da lui concepito come una formazione «unitaria» a sinistra, con Bertinotti cambia passo. Viene percorso da «un´accelerazione estremista», s´ispira a un «comunismo ribellistico che io definisco "dannunziano"». Nell´ottobre di sei anni fa, «in quelli che annovero fra i giorni più amari della mia vita», cade in parlamento il governo presieduto da Romano Prodi. Responsabile di questo capolavoro alla rovescia è il partito che proprio Cossutta ha creato e che Bertinotti ora dirige.
Tutto daccapo. Cossutta se ne va, inventa un nuovo partito, i Comunisti italiani, destinato a rappresentare «la sinistra del centrosinistra». È finora, l´ultima sua incarnazione politica. Ha già settantadue anni, in quel 1998, l´ex dirigente di base di Sesto San Giovanni. E può ben dire, parlando di sé al plurale come in un´epigrafe: «Andiamo lontano perché veniamo da lontano».
IL LIBRO-INTERVISTA DI ARMANDO COSSUTTA
COMUNISTA SENZA ABIURE
NELLO AJELLO
Una storia comunista di Armando Cossutta e Gianni Montesano viene presentato oggi a Roma presso la Sala del Cenacolo (vicolo Valdina 3a) alle ore 17 da Massimo D´Alema, Ciriaco De Mita e Oliviero Diliberto. Presiede Eugenio Scalfari
«Sono stato e sono ancora un comunista, senza vergogne e senza abiure», è il motto che Armando Cossutta adotta per riassumere la propria biografia, intitolata, appunto, Una storia comunista e redatta in collaborazione con Gianni Montesano (Rizzoli, pagg. 288, euro 15,50). La definisce «una piccola cronaca senza grandi pretese», ma non può sfuggirne l´intensa passionalità. Attraversa sessant´anni della sinistra italiana, visti da una distanza temporale che non ne attenua anzi sembra accrescerne l´impatto emotivo e la carica polemica.
Il punto di osservazione iniziale è la Lombardia operaia, anzi ciò che a lungo se ne è considerato la «cittadella»: Sesto San Giovanni. Lì Cossutta, nato a Milano nel 1926, iniziò la carriera politica, dopo aver militato nelle file della Resistenza ed aver subìto il carcere. Segretario della sezione comunista della «Stalingrado d´Italia», vi incontra i massimi dirigenti del partito: da Togliatti, alla cui lezione si professerà fedele, a quel Luigi Longo, del quale appena può tesse l´elogio. Del primo, Togliatti, apprezza la razionale freddezza, la perseveranza con la quale privilegiò, nei fatti, «la strada della democrazia» rispetto a quella dell´«insurrezione»: l´occupazione della Prefettura di Milano, nell´autunno del ´47, da parte di «una fiumana» di militanti del Pci sotto la guida di Giancarlo Pajetta - un topos della nostra narrativa politica - viene riproposta in queste pagine con vivacità e a completo onore del segretario del Pci che ne intuì a prima vista l´inutilità operativa (al punto, testimonia Cossutta, che in quelle ore «l´irritazione di Togliatti era ben più forte di quella di Scelba e De Gasperi»).
Di Longo, Cossutta ricorda la perentoria semplicità: alla vigilia di quel 28 aprile del ´45, quando il comandante partigiano Walter Audisio incaricato di giustiziare Mussolini manifesta qualche comprensibile esitazione, Longo lo gela per telefono: «Senti Valerio, o tu fucili Mussolini o noi fuciliamo te». Un episodio che sembra sfumare in una truce oleografia. Meno epici risultano certi tratti del carattere di Longo che Cossutta rievoca con leggerezza. Come quando, per troncare dibattiti che si preannunziano inesauribili, il successore di Togliatti posa sul tavolo di riunione il proprio cappello invitando i compagni a deporvi ciascuno un bigliettino con il suo voto: contiamoci e non se ne parli più. Così, nel dicembre del ´64, venne scelto, in qualità di candidato comunista al Quirinale, Saragat al posto di quel Fanfani che taluni - fra i quali Pietro Ingrao - patrocinavano. Decisioni ben più sofferte Longo aveva assunto rendendo pubblico il memoriale togliattiano di Jalta e si sarebbe accollato criticando con asprezza l´invasione sovietica della Cecoslovacchia (agosto 1968).
L´aura mitologica che aleggia su questi episodi sembra intorbidarsi nel periodo successivo, quando Cossutta passa all´opposizione nel partito, diventando capo della corrente denominata, all´ingrosso, «filosovietica». E ciò determinerà uno stop alla sua carriera, che aveva conosciuto un´ascesa continua fino a sfociare, nel 1966, nell´incarico di coordinatore dell´ufficio di segreteria e nella funzione di «sovrintendente all´amministrazione» del partito. Per farla breve, almeno fino al 1974, fu lui a procurare al Pci i finanziamenti che provenivano dall´Unione Sovietica: il cosiddetto «oro di Mosca».
Bersagliato per decenni dagli avversari politici, Cossutta non ha mai nascosto quel suo ruolo, rivendicandone anzi la legittimità in un universo bipolare, in cui ciascuna delle parti in lotta aveva i suoi finanziatori internazionali: la Dc gli Stati Uniti, il Pci l´Urss. Anche quando, sulla metà degli anni Settanta, i finanziamenti di provenienza moscovita si affievoliscono o cessano del tutto, egli continua a percepire contributi, magari modesti, di provenienza sovietica, stavolta a vantaggio di iniziative giornalistiche facenti capo alla sua «area» all´interno del partito o comunque predisposte verso Mosca.
Moralmente ineccepibile in quanto persona, l´ex agitatore di Sesto San Giovanni è ormai una sorta di manager internazionale di partito. E questa funzione collima con la sua visione politica generale. Sotto Berlinguer, egli sarà favorevole al compromesso storico come intuizione di fondo, ma assai critico verso i governi di solidarietà nazionale appoggiati dal Pci. Considererà «infelice» l´intervista con la quale, nell´estate del ´76, Berlinguer afferma di «sentirsi più al sicuro» sotto la protezione della Nato. Per non parlare della dichiarazione in cui lo stesso leader, alla fine del 1981, dichiarerà esaurita la «capacità propulsiva» della rivoluzione di Ottobre. Riviste oggi, le tesi berlingueriane gli sembrano anticipare quella «mutazione genetica» del partito di Togliatti e di Longo che condurrà al cambio del nome. D´altronde, già a partire dai tardi anni Settanta, il «caso Cossutta» era andato accentrando intorno a sé il dissenso comunista.
«Atto distruttivo» e «suicida», manifestazione di «pentitismo politico», «recisione delle radici», «nuovismo a tutti i costi»: così, in questa Storia comunista, si parla della "Bolognina" e del cambio di nome e di collocazione politica dell´ex Pci: colpevoli i «quarantenni scalpitanti guidati da Occhetto e da Massimo D´Alema». Cossutta si colloca alla testa dei comunisti del «no» e degli oppositori di quella «Cosa» che sarà poi il Pds e l´attuale Ds.
La nascita del partito della Rifondazione comunista, nel maggio del ´91, avrà proprio in Cossutta il massimo artefice: e, tre anni più tardi, sarà opera sua la stessa scelta di Fausto Bertinotti - un dirigente sindacale non di gran nome, all´epoca - come segretario.
È nel destino dell´anziano dirigente lombardo assistere a continui strappi che compromettono i suoi ideali originari. Il partito della Rifondazione comunista, da lui concepito come una formazione «unitaria» a sinistra, con Bertinotti cambia passo. Viene percorso da «un´accelerazione estremista», s´ispira a un «comunismo ribellistico che io definisco "dannunziano"». Nell´ottobre di sei anni fa, «in quelli che annovero fra i giorni più amari della mia vita», cade in parlamento il governo presieduto da Romano Prodi. Responsabile di questo capolavoro alla rovescia è il partito che proprio Cossutta ha creato e che Bertinotti ora dirige.
Tutto daccapo. Cossutta se ne va, inventa un nuovo partito, i Comunisti italiani, destinato a rappresentare «la sinistra del centrosinistra». È finora, l´ultima sua incarnazione politica. Ha già settantadue anni, in quel 1998, l´ex dirigente di base di Sesto San Giovanni. E può ben dire, parlando di sé al plurale come in un´epigrafe: «Andiamo lontano perché veniamo da lontano».
monito del Presidente della Corte Costituzionale
Repubblica 21.10.04
Davanti a Ciampi l'appello del presidente della Consulta
"Riforme da ponderare bene"
Primo intervento di Onida mentre il testo sta per approdare al Senato. "Sono in gioco equilibri essenziali"
SILVIO BUZZANCA
ROMA - State attenti a quello che fate con le riforme costituzionali. E se proprio volete cambiare la Costituzione, cercate di farlo coinvolgendo tutti coloro che possono dare un contributo. Valerio Onida, neo presidente della Corte Costituzionale, approfitta della prima occasione pubblica - la consegna, alla presenza di Carlo Azeglio Ciampi, del premio Chiarelli al predecessore Gustavo Zagrebelsky - per lanciare un appello alla riflessione a partiti e istituzioni. Onida parla chiaramente da presidente della Consulta, dice che «la Corte costituzionale ben consapevole del suo ruolo di guardiana della Costituzione, che le spetta insieme alle altre istituzioni di garanzia e in particolare al capo dello Stato». Il presidente della Consulta rievoca i quasi 60 anni di vita della Corte e si augura che «questa casa comune», venga «rispettata come merita».
Onida spiega che è proprio «la consapevolezza della natura delicata e cruciale dei meccanismi della giustizia costituzionale» che lo induce «ad esprimere, sommessamente, l´auspicio che prima di mettere mano, con decisioni definitive, a modifiche degli equilibri essenziali assicurati da questi meccanismi, come è per la composizione stessa della Corte Costituzionale, si ponderino bene le possibili conseguenze». Onida aggiunge che non basta riflettere sulle conseguenze. Bisogna anche scegliere un metodo che coinvolga «intorno al Parlamento, che è la fonte, insieme eventualmente al corpo elettorale, del potere di revisione costituzionale, il più ampio arco di istanze istituzionali e di sedi di riflessione». Un invito alla riflessione condiviso da Zagrebelsky che nel suo intervento ha difeso il ruolo super partes della Consulta. Secondo il presidente merito la Corte non può diventare un campo di battaglia fra gli schieramenti politici trasformandosi in una sorta di "terza Camera". Altrimenti, conclude, «la giustizia costituzionale si trasformerebbe in farsa costituzionale».
[...]
Repubblica 21.10.04
LE IDEE
Quei quindici giudici custodi della Carta
giustizia, politica e costituzione
Questa è forse la funzione principale al di sopra delle contese di parte
Fissare i principi sostanziali della vita comune e le regole di esercizio del potere
Il massimo tradimento dei chierici che noi siamo sarebbe quello di trasformarci in una sorta di terza Camera
Un organismo costituzionale schierato meriterebbe di essere soppresso: non se ne capirebbe l'utilità
È improprio parlare di maggioranza e minoranza tra di noi : l'obbiettivo è la soluzione più condivisa
GUSTAVO ZAGREBELSKY
Due sono le nozioni di politica e possono entrare in rapporto. La prima è la cooperazione tra alleati, per creare convivenza e inclusione sociale, cioè, secondo Aristotele, amicizia. La seconda è conflitto tra avversari per il sopravvento, dove conquista ed esercizio del potere pubblico sono la posta in gioco. Teniamo per ora sullo sfondo questa duplicità: convivenza e competizione. Sarà presto utile.
Tra le ragioni della giustizia costituzionale, cioè del controllo giudiziario su procedure e contenuti delle decisioni collettive - le leggi, in primo luogo - c'è quella che vado a esporre.
In un´ideale società rigorosamente omogenea, composta di esseri umani identici per capacità, ideali, interessi, gusti e aspirazioni, l´adozione delle decisioni collettive potrebbe essere affidata indifferentemente - per passare da un estremo all´altro - a un´assemblea che delibera all´unanimità o a un singolo che decide in generale, da solo e per tutti. Chi faccia parte dell´assemblea o chi sia questo solitario legislatore sarebbe, poi, del tutto indifferente; onde costoro potrebbero anche scegliersi a caso, tirarsi a sorte. Situazioni di questo genere si sono realizzate nel tempo della mitologia costituzionale classica (alludo alla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele), in società che non conoscevano (o celavano piuttosto le) differenze ed erano perciò felicissime (o, più verosimilmente, infelicissime).
Non è evidentemente così nelle tormentate società democratiche del nostro tempo, segnate da differenze e divisioni d´ogni genere. Qui sono oggetto della cura più attenta le procedure di selezione dei governanti, poiché esse comportano selezione di interessi, ideali e prospettive di vita collettiva. La deliberazione all´unanimità, poi, è esclusa per l´evidente ragione che l´assenza di omogeneità la renderebbe impossibile.
La delega casuale a un unico soggetto, infine, è scartata per il carattere totalmente arbitrario che essa assumerebbe in una società divisa. Non resta che fare ricorso alla regola della maggioranza. Ma ciò comporta, come è stato detto, che i regimi democratici celino una proprietà della quale non si ama parlare volentieri: impongono alla minoranza di piegarsi e accettare le decisioni della maggioranza.
Può questa imposizione essere incondizionata? Possono ammettersi decisioni della maggioranza totalmente ripulsive per la minoranza?
Il problema si pone con acutezza nelle odierne società democratiche, pluraliste e non omogenee. Perché possa accettarsi il governo della maggioranza occorre che in particolare la parte minoritaria sia rassicurata sulla circostanza che, quale che sia l´esito del voto popolare, non ne deriveranno conseguenze esiziali per il perdente. Senza questa rassicurazione, di fronte al rischio di soppressione o persecuzione da parte del "vincitore democratico", ogni elezione sarebbe una battaglia all´ultimo sangue: l´esatto contrario di quel che vuole essere la democrazia, cioè una via pacifica e consensuale per risolvere divergenze e conflitti.
Qui si mostra una, forse la principale, funzione della Costituzione: fissare i presupposti della convivenza fra tutti, cioè i principi sostanziali della vita comune e le regole di esercizio del potere pubblico accettati da tutti, posti perciò al di fuori, anzi, al di sopra della contesa politica; principi e regole sui quali - in una parola - non si vota. O meglio, non si vota più, una volta iscritti in una Carta costituzionale. Per riprendere antiche e venerabili concezioni, si può dire che la Costituzione fissa il pactum societatis, con il quale ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme, nel reciproco rispetto che protegge dal conflitto all´ultimo sangue. Sulla base di questo primo accordo, può essere stipulato il pactum subiectionis, con il quale ci si promette reciprocamente di ubbidire - di assoggettarsi - alle decisioni del governo legittimo, cioè del potere della maggioranza che agisce secondo le regole e nel rispetto dei principi contenuti nel pactum societatis. È facile comprendere come le due nozioni di politica enunciate all´inizio - la politica come cooperazione e la politica come conflitto - hanno a che vedere, la prima, con il pactum societatis e, la seconda, con il pactum subiectionis: nozioni entrambe necessarie, perché l´unione senza soggezione è impotente e la soggezione senza unione è tirannica.
Sono distinzioni, schemi teorici, privi di aggancio con la vita politica concreta, dove tutto si mescola indistintamente? Per nulla. In democrazia, i governanti resi saggi dalla lezione dell´esperienza, fatta spesso a loro spese, sanno che il rispetto del pactum societatis, cioè della Costituzione, è garanzia di un minimo comune denominatore di omogeneità politica e che ciò è la condizione indispensabile per il governo. Il primo compito della Costituzione, l´integrazione in questo minimo di unità, viene prima di quello, altrettanto essenziale ma secondo, di organizzare le istituzioni e i procedimenti di governo. Ogni uomo politico democratico che si preoccupi della cosiddetta governabilità, cioè (contro l´uso corrente del termine) delle condizioni che rendono la società suscettibile di essere governata, è consapevole che il mantenimento delle condizioni di omogeneità costituzionale, cioè il rispetto della Costituzione e, ancor prima, la fiducia nell´altrui lealtà costituzionale sono la principale di queste condizioni. In mancanza, verrebbe meno la disponibilità della minoranza ad accettare come legittime le decisioni della maggioranza. Nel caso estremo, il conflitto si risolverebbe fuori della democrazia: o con il rovesciamento del governo o con il soffocamento della minoranza. Entro questi due casi-limite, sta comunque il logoramento del governo e la perdita di efficacia della sua azione. Perciò, contro l´apparenza - o, meglio, guardando oltre l´illusione - si può dire che la Costituzione, con i suoi vincoli e i suoi limiti, anzi: proprio per i vincoli e i limiti, svolgendo un´imprescindibile funzione d´integrazione, è strumento di governabilità, non ostacolo o impaccio per il governo. Ove prevale l´opinione opposta, ivi c´è incoscienza o spirito d´avventura.
La discesa è ovvia: una Corte che non è e deve temere di essere o anche solo di apparire (la descrizione si intreccia con la prescrizione; l´essere con il dover essere; la constatazione con l´esigenza; la realtà con l´apparenza) organo della e nella politica come conflitto, cioè organo politico del secondo tipo. Siamo invece e dobbiamo essere organo politico del primo tipo, politico dunque non nel senso in cui lo sono il parlamento, il governo, i partiti politici, i comportamenti elettorali.
La giustizia costituzionale non è prosecuzione in altra forma della contesa che si svolge in questi luoghi. Il massimo tradimento di questi chierici che noi siamo (o siamo stati) sarebbe quello di trasformarci in una terza camera dove continua per interposte persone il confronto tra le parti del conflitto politico. Una Corte costituzionale politicamente (sempre nel secondo significato) schierata meriterebbe di essere soppressa, perché, se a favore della maggioranza, non se ne capirebbe l´utilità se non come copertura e inganno della pubblica opinione; se contro, se ne capirebbe l´utilità ma mancherebbe totalmente di legittimità. Il massimo danno che possiamo fare, da noi stessi, all´istituzione di cui facciamo parte è operare, e dare l´impressione di operare come quinta colonna.
La Corte costituzionale è custode del pactum societatis, garanzia delle condizioni d´insieme minime della vita collettiva. A essa spetta la difesa dei principi costituzionali sui quali "non si può votare". Il massimo affronto non è quello di sentirci dire: sbagliate!, ma di essere trattati come attori del conflitto politico. Il che è quanto talora, anzi frequentemente avviene a opera di un´informazione politico-giudiziaria incapace di cogliere le differenze, con la gratuita e pregiudiziale distribuzione tra i giudici di appartenenze politiche. Essa alimenta in modo acritico e rozzo l´idea che tutto e in tutte le sedi (anche nelle stanze dei loro giornali?) si riduca a lotta tra partiti.
Si comprende allora quel certo disagio che avvertiamo se la soluzione di un caso costituzionale coincide con quella auspicata, per i suoi fini, da una parte politica (di maggioranza o di opposizione, non cambia), anche se è sorretta dalle più incontrovertibili delle ragioni costituzionali: disagio che deriva dal rischio di confusione tra i due distinti ordini di ragioni. Consciamente o inconsciamente, e aggiungo: conformemente al ruolo della Corte, avvertiamo la preferibilità, ove possibile, di soluzioni che non siano quelle né di una né dell´altra parte. Non credo di ingannarmi se segnalo una certa tendenza psicologica alla "terza via", nei dispositivi e nelle motivazioni delle nostre decisioni, soprattutto sui temi più controversi politicamente. Penso a cause pendenti di grande rilievo politico e culturale, su temi che dividono le opinioni. La "terza via" che eventualmente venga escogitata dalla Corte l´espone normalmente all´accusa di ambiguità "politica" e consente spesso alle parti contrapposte di cantare, pro parte, vittoria; ma si tratta appunto della politica del secondo tipo, alla quale la Corte, giustificatamente, cerca di sfuggire.
Si dirà: eppure alla Corte ci si conta, si vota, e si vota proprio per decidere questioni, come quelle costituzionali, sulle quali "non si dovrebbe votare". Se non sono lecite maggioranze e minoranze tra gli elettori o tra i rappresentanti in Parlamento, come può accadere che votino i quindici giudici della Corte; che proprio tra di loro ci si divida? Dove vanno a finire i nostri buoni propositi, se col voto, una parte schiaccia l´altra?
Queste domande pongono una questione seria. In effetti, esiste tra noi una certa ritrosia a "passare ai voti". Non rivelo certo segreti dicendo che, sulle questioni più importanti, quelle di vero diritto costituzionale, si cerca di non votare o, meglio, di decidere senza che sia necessario ricorrere al voto o di renderlo una semplice formalità. È saggezza della Corte darsi tempo, non forzare i tempi. È un´elementare constatazione di psicologia che, in un collegio, la prima volta ci si schiera, e quindi ci si divide, anche profondamente; la seconda volta, prevale l´esigenza della composizione, e dunque ci si dispone a comprendere le ragioni altrui. Prima si milita, poi si coopera. È buona cosa che la Corte italiana, a differenza di organi suoi omologhi di altri ordinamenti, non sia costretta a vincoli temporali di decisione.
L´optimum sarebbe l´unanimità. L´obbiettivo realistico è la soluzione più condivisa.
Ma, si dirà ancora, la Corte nelle sue decisioni esprime degli indirizzi. Sì, ma non certo nel senso dell´indirizzo politico di un governo o di una maggioranza parlamentare. Ogni causa è a sé. Non esiste maggioranza precostituita alle singole decisioni né elaborazione di indirizzi generali, che richiedano attuazione. Un programma che si frapponesse tra la singola decisione e la Costituzione sarebbe in contrasto con il dovere di fedeltà alla Costituzione in generale, dovere che esclude ogni vincolo particolare, come un programma di parte.
Se di indirizzo di politica giudiziaria si può parlare, è solo in senso retrospettivo, come bilancio a posteriori di un operato che non ubbidisce a disegni prefigurati. In Parlamento, invece, esiste una maggioranza che deve durare in funzione di un programma. Se si divide, venendo meno la continuità d´azione, non ha più ragione di esistere. Perciò, in un organo parlamentare è normale che le decisioni siano prese sempre dalla stessa maggioranza fino a quando una maggioranza diversa non sostituisca la precedente. Presso la Corte non è così. Le decisioni si prendono giorno per giorno e in relazione a ogni singola questione. Nella medesima giornata, le aggregazioni da cui scaturiscono le decisioni sono le più variabili. In Parlamento, la minoranza accetta di essere tale, in attesa di qualche ribaltamento elettorale, per diventare a sua volta maggioranza. Ma qui? Pensate che ci siano giudici che accetterebbero di restare a far parte di un organo alla formazione del cui indirizzo sono stabilmente, magari per l´intero mandato, esclusi? O che accetterebbero di non contare nulla fino a un´eventuale ma non certo prevedibile mutamento di equilibri interni? Del resto, se presso la Corte esistesse un indirizzo politico, non sarebbe naturale che il Presidente ne fosse l´espressione e il garante? Ma è notorio che il criterio primo che ne determina l´elezione è l´anzianità: non la politica, dunque, ma la natura.
Ma, si dirà infine, alla Corte siedono pur sempre persone con un passato politico (nel secondo senso della parola). Così è infatti, conformemente al sistema della loro nomina e elezione (uno dei meno politici, comunque, tra quelli che il diritto comparato registra). Ma occorre valutare, oltre alla durata novennale del mandato (il più lungo tra tutti quelli previsti dalla Costituzione) e alle garanzie di totale indipendenza, la condizione psicologica dei giudici: il rispetto di sé e l´amor proprio.
I chiamati alla carica di giudice costituzionale sono di norma forti personalità con un degnissimo passato, anche politico, da difendere. È necessario che sia così, non solo per ragioni lapalissiane, ma anche e soprattutto perché è garanzia di indipendenza dalla politica contingente. Tutto è meglio dei tiepidi o dei Nicodemi che non hanno o nascondono le loro fedeltà. Essi, le mezze figure, non hanno motivo di rispetto di sé e possono essere più facilmente di altri indotti a cedere ad altri rispetti.
L´amor di sé, infine, spinge chiunque, e anche i giudici costituzionali a voler valere, fino magari alla presidenza della Corte stessa. Ma, per valere, occorre conquistarsi la fiducia dei colleghi. Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame. Qui, il passato conta per il solo nostro foro interno (il rispetto di sé), non per gli altri. Non siamo interessati da dove vengano i nostri colleghi. Questo riguarda chi li nomina o li elegge. Conta invece, e conta molto, quel che si è si fa nel collegio, nella diuturna opera del giudicare. Se un giudice si esponesse nel lavoro quotidiano alla critica, tra noi distruttiva, di essere longa manus politica sarebbe perduto. L´amor di sé sarebbe presto costretto a ricredersi.
La Corte, come ho cercato di mostrare, è il frutto congiunto sia di ragioni giuridiche che di atteggiamenti spirituali e motivi psicologici. Le une hanno influito sugli altri e viceversa. L´equilibrio è fragilissimo e può essere facilmente spezzato e dobbiamo esserne consapevoli. Spirito e psicologia orientati al superiore interesse della protezione della Costituzione dalle turbolenze della contesa politica sono affare dei giudici. I presupposti giuridici sono affare del legislatore. Siamo certi, vogliamo essere certi che, al primo posto di tante sue cure riformatrici, c´è il mantenimento della Corte, salda nel luogo costituzionale che le compete.
L´ultima garanzia, tuttavia, non sta né nei giudici né nella maggioranza legislatrice. Sta oltre e riguarda tutti. Riprendo dall´inizio. Sta nel bisogno diffuso, in una generale volontà di Costituzione: intendo dire della costituzione come pactum societatis, presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva. Qualora quel bisogno e quella volontà andassero perduti, prevalendo nel nostro Paese l´idea diabolica (da repubblica dei diavoli) della costituzione come campo di battaglia e sopraffazione, la politica di parte spirerà incontrastata anche in queste stanze e la giustizia costituzionale si trasformerà in una farsa costituzionale.
Davanti a Ciampi l'appello del presidente della Consulta
"Riforme da ponderare bene"
Primo intervento di Onida mentre il testo sta per approdare al Senato. "Sono in gioco equilibri essenziali"
SILVIO BUZZANCA
ROMA - State attenti a quello che fate con le riforme costituzionali. E se proprio volete cambiare la Costituzione, cercate di farlo coinvolgendo tutti coloro che possono dare un contributo. Valerio Onida, neo presidente della Corte Costituzionale, approfitta della prima occasione pubblica - la consegna, alla presenza di Carlo Azeglio Ciampi, del premio Chiarelli al predecessore Gustavo Zagrebelsky - per lanciare un appello alla riflessione a partiti e istituzioni. Onida parla chiaramente da presidente della Consulta, dice che «la Corte costituzionale ben consapevole del suo ruolo di guardiana della Costituzione, che le spetta insieme alle altre istituzioni di garanzia e in particolare al capo dello Stato». Il presidente della Consulta rievoca i quasi 60 anni di vita della Corte e si augura che «questa casa comune», venga «rispettata come merita».
Onida spiega che è proprio «la consapevolezza della natura delicata e cruciale dei meccanismi della giustizia costituzionale» che lo induce «ad esprimere, sommessamente, l´auspicio che prima di mettere mano, con decisioni definitive, a modifiche degli equilibri essenziali assicurati da questi meccanismi, come è per la composizione stessa della Corte Costituzionale, si ponderino bene le possibili conseguenze». Onida aggiunge che non basta riflettere sulle conseguenze. Bisogna anche scegliere un metodo che coinvolga «intorno al Parlamento, che è la fonte, insieme eventualmente al corpo elettorale, del potere di revisione costituzionale, il più ampio arco di istanze istituzionali e di sedi di riflessione». Un invito alla riflessione condiviso da Zagrebelsky che nel suo intervento ha difeso il ruolo super partes della Consulta. Secondo il presidente merito la Corte non può diventare un campo di battaglia fra gli schieramenti politici trasformandosi in una sorta di "terza Camera". Altrimenti, conclude, «la giustizia costituzionale si trasformerebbe in farsa costituzionale».
[...]
Repubblica 21.10.04
LE IDEE
Quei quindici giudici custodi della Carta
giustizia, politica e costituzione
Questa è forse la funzione principale al di sopra delle contese di parte
Fissare i principi sostanziali della vita comune e le regole di esercizio del potere
Il massimo tradimento dei chierici che noi siamo sarebbe quello di trasformarci in una sorta di terza Camera
Un organismo costituzionale schierato meriterebbe di essere soppresso: non se ne capirebbe l'utilità
È improprio parlare di maggioranza e minoranza tra di noi : l'obbiettivo è la soluzione più condivisa
GUSTAVO ZAGREBELSKY
Due sono le nozioni di politica e possono entrare in rapporto. La prima è la cooperazione tra alleati, per creare convivenza e inclusione sociale, cioè, secondo Aristotele, amicizia. La seconda è conflitto tra avversari per il sopravvento, dove conquista ed esercizio del potere pubblico sono la posta in gioco. Teniamo per ora sullo sfondo questa duplicità: convivenza e competizione. Sarà presto utile.
Tra le ragioni della giustizia costituzionale, cioè del controllo giudiziario su procedure e contenuti delle decisioni collettive - le leggi, in primo luogo - c'è quella che vado a esporre.
In un´ideale società rigorosamente omogenea, composta di esseri umani identici per capacità, ideali, interessi, gusti e aspirazioni, l´adozione delle decisioni collettive potrebbe essere affidata indifferentemente - per passare da un estremo all´altro - a un´assemblea che delibera all´unanimità o a un singolo che decide in generale, da solo e per tutti. Chi faccia parte dell´assemblea o chi sia questo solitario legislatore sarebbe, poi, del tutto indifferente; onde costoro potrebbero anche scegliersi a caso, tirarsi a sorte. Situazioni di questo genere si sono realizzate nel tempo della mitologia costituzionale classica (alludo alla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele), in società che non conoscevano (o celavano piuttosto le) differenze ed erano perciò felicissime (o, più verosimilmente, infelicissime).
Non è evidentemente così nelle tormentate società democratiche del nostro tempo, segnate da differenze e divisioni d´ogni genere. Qui sono oggetto della cura più attenta le procedure di selezione dei governanti, poiché esse comportano selezione di interessi, ideali e prospettive di vita collettiva. La deliberazione all´unanimità, poi, è esclusa per l´evidente ragione che l´assenza di omogeneità la renderebbe impossibile.
La delega casuale a un unico soggetto, infine, è scartata per il carattere totalmente arbitrario che essa assumerebbe in una società divisa. Non resta che fare ricorso alla regola della maggioranza. Ma ciò comporta, come è stato detto, che i regimi democratici celino una proprietà della quale non si ama parlare volentieri: impongono alla minoranza di piegarsi e accettare le decisioni della maggioranza.
Può questa imposizione essere incondizionata? Possono ammettersi decisioni della maggioranza totalmente ripulsive per la minoranza?
Il problema si pone con acutezza nelle odierne società democratiche, pluraliste e non omogenee. Perché possa accettarsi il governo della maggioranza occorre che in particolare la parte minoritaria sia rassicurata sulla circostanza che, quale che sia l´esito del voto popolare, non ne deriveranno conseguenze esiziali per il perdente. Senza questa rassicurazione, di fronte al rischio di soppressione o persecuzione da parte del "vincitore democratico", ogni elezione sarebbe una battaglia all´ultimo sangue: l´esatto contrario di quel che vuole essere la democrazia, cioè una via pacifica e consensuale per risolvere divergenze e conflitti.
Qui si mostra una, forse la principale, funzione della Costituzione: fissare i presupposti della convivenza fra tutti, cioè i principi sostanziali della vita comune e le regole di esercizio del potere pubblico accettati da tutti, posti perciò al di fuori, anzi, al di sopra della contesa politica; principi e regole sui quali - in una parola - non si vota. O meglio, non si vota più, una volta iscritti in una Carta costituzionale. Per riprendere antiche e venerabili concezioni, si può dire che la Costituzione fissa il pactum societatis, con il quale ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme, nel reciproco rispetto che protegge dal conflitto all´ultimo sangue. Sulla base di questo primo accordo, può essere stipulato il pactum subiectionis, con il quale ci si promette reciprocamente di ubbidire - di assoggettarsi - alle decisioni del governo legittimo, cioè del potere della maggioranza che agisce secondo le regole e nel rispetto dei principi contenuti nel pactum societatis. È facile comprendere come le due nozioni di politica enunciate all´inizio - la politica come cooperazione e la politica come conflitto - hanno a che vedere, la prima, con il pactum societatis e, la seconda, con il pactum subiectionis: nozioni entrambe necessarie, perché l´unione senza soggezione è impotente e la soggezione senza unione è tirannica.
Sono distinzioni, schemi teorici, privi di aggancio con la vita politica concreta, dove tutto si mescola indistintamente? Per nulla. In democrazia, i governanti resi saggi dalla lezione dell´esperienza, fatta spesso a loro spese, sanno che il rispetto del pactum societatis, cioè della Costituzione, è garanzia di un minimo comune denominatore di omogeneità politica e che ciò è la condizione indispensabile per il governo. Il primo compito della Costituzione, l´integrazione in questo minimo di unità, viene prima di quello, altrettanto essenziale ma secondo, di organizzare le istituzioni e i procedimenti di governo. Ogni uomo politico democratico che si preoccupi della cosiddetta governabilità, cioè (contro l´uso corrente del termine) delle condizioni che rendono la società suscettibile di essere governata, è consapevole che il mantenimento delle condizioni di omogeneità costituzionale, cioè il rispetto della Costituzione e, ancor prima, la fiducia nell´altrui lealtà costituzionale sono la principale di queste condizioni. In mancanza, verrebbe meno la disponibilità della minoranza ad accettare come legittime le decisioni della maggioranza. Nel caso estremo, il conflitto si risolverebbe fuori della democrazia: o con il rovesciamento del governo o con il soffocamento della minoranza. Entro questi due casi-limite, sta comunque il logoramento del governo e la perdita di efficacia della sua azione. Perciò, contro l´apparenza - o, meglio, guardando oltre l´illusione - si può dire che la Costituzione, con i suoi vincoli e i suoi limiti, anzi: proprio per i vincoli e i limiti, svolgendo un´imprescindibile funzione d´integrazione, è strumento di governabilità, non ostacolo o impaccio per il governo. Ove prevale l´opinione opposta, ivi c´è incoscienza o spirito d´avventura.
* * *
Passo ora, dall´empireo dei fondamenti dello Stato costituzionale, qualcuno potrebbe dire - sbagliando - dalle nuvole dei concetti, scendere ai problemi della giustizia costituzionale.
La discesa è ovvia: una Corte che non è e deve temere di essere o anche solo di apparire (la descrizione si intreccia con la prescrizione; l´essere con il dover essere; la constatazione con l´esigenza; la realtà con l´apparenza) organo della e nella politica come conflitto, cioè organo politico del secondo tipo. Siamo invece e dobbiamo essere organo politico del primo tipo, politico dunque non nel senso in cui lo sono il parlamento, il governo, i partiti politici, i comportamenti elettorali.
La giustizia costituzionale non è prosecuzione in altra forma della contesa che si svolge in questi luoghi. Il massimo tradimento di questi chierici che noi siamo (o siamo stati) sarebbe quello di trasformarci in una terza camera dove continua per interposte persone il confronto tra le parti del conflitto politico. Una Corte costituzionale politicamente (sempre nel secondo significato) schierata meriterebbe di essere soppressa, perché, se a favore della maggioranza, non se ne capirebbe l´utilità se non come copertura e inganno della pubblica opinione; se contro, se ne capirebbe l´utilità ma mancherebbe totalmente di legittimità. Il massimo danno che possiamo fare, da noi stessi, all´istituzione di cui facciamo parte è operare, e dare l´impressione di operare come quinta colonna.
La Corte costituzionale è custode del pactum societatis, garanzia delle condizioni d´insieme minime della vita collettiva. A essa spetta la difesa dei principi costituzionali sui quali "non si può votare". Il massimo affronto non è quello di sentirci dire: sbagliate!, ma di essere trattati come attori del conflitto politico. Il che è quanto talora, anzi frequentemente avviene a opera di un´informazione politico-giudiziaria incapace di cogliere le differenze, con la gratuita e pregiudiziale distribuzione tra i giudici di appartenenze politiche. Essa alimenta in modo acritico e rozzo l´idea che tutto e in tutte le sedi (anche nelle stanze dei loro giornali?) si riduca a lotta tra partiti.
Si comprende allora quel certo disagio che avvertiamo se la soluzione di un caso costituzionale coincide con quella auspicata, per i suoi fini, da una parte politica (di maggioranza o di opposizione, non cambia), anche se è sorretta dalle più incontrovertibili delle ragioni costituzionali: disagio che deriva dal rischio di confusione tra i due distinti ordini di ragioni. Consciamente o inconsciamente, e aggiungo: conformemente al ruolo della Corte, avvertiamo la preferibilità, ove possibile, di soluzioni che non siano quelle né di una né dell´altra parte. Non credo di ingannarmi se segnalo una certa tendenza psicologica alla "terza via", nei dispositivi e nelle motivazioni delle nostre decisioni, soprattutto sui temi più controversi politicamente. Penso a cause pendenti di grande rilievo politico e culturale, su temi che dividono le opinioni. La "terza via" che eventualmente venga escogitata dalla Corte l´espone normalmente all´accusa di ambiguità "politica" e consente spesso alle parti contrapposte di cantare, pro parte, vittoria; ma si tratta appunto della politica del secondo tipo, alla quale la Corte, giustificatamente, cerca di sfuggire.
Si dirà: eppure alla Corte ci si conta, si vota, e si vota proprio per decidere questioni, come quelle costituzionali, sulle quali "non si dovrebbe votare". Se non sono lecite maggioranze e minoranze tra gli elettori o tra i rappresentanti in Parlamento, come può accadere che votino i quindici giudici della Corte; che proprio tra di loro ci si divida? Dove vanno a finire i nostri buoni propositi, se col voto, una parte schiaccia l´altra?
Queste domande pongono una questione seria. In effetti, esiste tra noi una certa ritrosia a "passare ai voti". Non rivelo certo segreti dicendo che, sulle questioni più importanti, quelle di vero diritto costituzionale, si cerca di non votare o, meglio, di decidere senza che sia necessario ricorrere al voto o di renderlo una semplice formalità. È saggezza della Corte darsi tempo, non forzare i tempi. È un´elementare constatazione di psicologia che, in un collegio, la prima volta ci si schiera, e quindi ci si divide, anche profondamente; la seconda volta, prevale l´esigenza della composizione, e dunque ci si dispone a comprendere le ragioni altrui. Prima si milita, poi si coopera. È buona cosa che la Corte italiana, a differenza di organi suoi omologhi di altri ordinamenti, non sia costretta a vincoli temporali di decisione.
L´optimum sarebbe l´unanimità. L´obbiettivo realistico è la soluzione più condivisa.
Ma, si dirà ancora, la Corte nelle sue decisioni esprime degli indirizzi. Sì, ma non certo nel senso dell´indirizzo politico di un governo o di una maggioranza parlamentare. Ogni causa è a sé. Non esiste maggioranza precostituita alle singole decisioni né elaborazione di indirizzi generali, che richiedano attuazione. Un programma che si frapponesse tra la singola decisione e la Costituzione sarebbe in contrasto con il dovere di fedeltà alla Costituzione in generale, dovere che esclude ogni vincolo particolare, come un programma di parte.
Se di indirizzo di politica giudiziaria si può parlare, è solo in senso retrospettivo, come bilancio a posteriori di un operato che non ubbidisce a disegni prefigurati. In Parlamento, invece, esiste una maggioranza che deve durare in funzione di un programma. Se si divide, venendo meno la continuità d´azione, non ha più ragione di esistere. Perciò, in un organo parlamentare è normale che le decisioni siano prese sempre dalla stessa maggioranza fino a quando una maggioranza diversa non sostituisca la precedente. Presso la Corte non è così. Le decisioni si prendono giorno per giorno e in relazione a ogni singola questione. Nella medesima giornata, le aggregazioni da cui scaturiscono le decisioni sono le più variabili. In Parlamento, la minoranza accetta di essere tale, in attesa di qualche ribaltamento elettorale, per diventare a sua volta maggioranza. Ma qui? Pensate che ci siano giudici che accetterebbero di restare a far parte di un organo alla formazione del cui indirizzo sono stabilmente, magari per l´intero mandato, esclusi? O che accetterebbero di non contare nulla fino a un´eventuale ma non certo prevedibile mutamento di equilibri interni? Del resto, se presso la Corte esistesse un indirizzo politico, non sarebbe naturale che il Presidente ne fosse l´espressione e il garante? Ma è notorio che il criterio primo che ne determina l´elezione è l´anzianità: non la politica, dunque, ma la natura.
Ma, si dirà infine, alla Corte siedono pur sempre persone con un passato politico (nel secondo senso della parola). Così è infatti, conformemente al sistema della loro nomina e elezione (uno dei meno politici, comunque, tra quelli che il diritto comparato registra). Ma occorre valutare, oltre alla durata novennale del mandato (il più lungo tra tutti quelli previsti dalla Costituzione) e alle garanzie di totale indipendenza, la condizione psicologica dei giudici: il rispetto di sé e l´amor proprio.
I chiamati alla carica di giudice costituzionale sono di norma forti personalità con un degnissimo passato, anche politico, da difendere. È necessario che sia così, non solo per ragioni lapalissiane, ma anche e soprattutto perché è garanzia di indipendenza dalla politica contingente. Tutto è meglio dei tiepidi o dei Nicodemi che non hanno o nascondono le loro fedeltà. Essi, le mezze figure, non hanno motivo di rispetto di sé e possono essere più facilmente di altri indotti a cedere ad altri rispetti.
L´amor di sé, infine, spinge chiunque, e anche i giudici costituzionali a voler valere, fino magari alla presidenza della Corte stessa. Ma, per valere, occorre conquistarsi la fiducia dei colleghi. Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame. Qui, il passato conta per il solo nostro foro interno (il rispetto di sé), non per gli altri. Non siamo interessati da dove vengano i nostri colleghi. Questo riguarda chi li nomina o li elegge. Conta invece, e conta molto, quel che si è si fa nel collegio, nella diuturna opera del giudicare. Se un giudice si esponesse nel lavoro quotidiano alla critica, tra noi distruttiva, di essere longa manus politica sarebbe perduto. L´amor di sé sarebbe presto costretto a ricredersi.
* * *
Per queste ragioni è possibile definire in breve e in sintesi la Corte un´omeòstasi, un equilibrio che si forma quasi automaticamente tra forze autoregolative che la mantengono sulla rotta e la preservano dagli sbandamenti.
La Corte, come ho cercato di mostrare, è il frutto congiunto sia di ragioni giuridiche che di atteggiamenti spirituali e motivi psicologici. Le une hanno influito sugli altri e viceversa. L´equilibrio è fragilissimo e può essere facilmente spezzato e dobbiamo esserne consapevoli. Spirito e psicologia orientati al superiore interesse della protezione della Costituzione dalle turbolenze della contesa politica sono affare dei giudici. I presupposti giuridici sono affare del legislatore. Siamo certi, vogliamo essere certi che, al primo posto di tante sue cure riformatrici, c´è il mantenimento della Corte, salda nel luogo costituzionale che le compete.
L´ultima garanzia, tuttavia, non sta né nei giudici né nella maggioranza legislatrice. Sta oltre e riguarda tutti. Riprendo dall´inizio. Sta nel bisogno diffuso, in una generale volontà di Costituzione: intendo dire della costituzione come pactum societatis, presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva. Qualora quel bisogno e quella volontà andassero perduti, prevalendo nel nostro Paese l´idea diabolica (da repubblica dei diavoli) della costituzione come campo di battaglia e sopraffazione, la politica di parte spirerà incontrastata anche in queste stanze e la giustizia costituzionale si trasformerà in una farsa costituzionale.
dal VI secolo ac?
le basi della storia del pensiero cinese
il manifesto 20.10.04
Il Grande Tutto in cinquemila parole
Un rinnovato confronto con un grande classico del pensiero cinese, uno dei libri più letti e amati nel mondo, Laozi. Genesi del Daodejing, a cura di Attilio Andreini per Einaudi
AMINA CRISMA
«Senza nome (wu ming) è dei Diecimila esseri il cominciamento / Ha nome (you ming) quel che dei Diecimila esseri è la Madre». E' la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di audaci accostamenti di contrari e proteso a misurarsi con l'indicibile, a costituire la cifra stilistica del Laozi, o Daodejing («Classico della Via e della Virtù», o «Classico della Via e della sua Potenza»), e a fare di questo testo del pensiero cinese uno dei libri più letti e amati. Secondo solo alla Bibbia per numero di traduzioni, ha avuto nel corso del tempo versioni nelle lingue più svariate e su di esso si è esercitata un'imponente esegesi; e tuttavia, nonostante la molteplicità di letture e interpretazioni a cui ha dato luogo, sembra resistere alla presa, come se quell'insondabile fondo a cui sovente allude - il «mistero oltre il mistero», «l'arcano degli arcani», segreta unità del Grande Tutto - si irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi una sorta di perdurante inafferrabilità. Non meno enigmatica e fascinosa è la figura dell'autore a cui la tradizione lo attribuisce, Laozi («il Vecchio Maestro»), indicato dalla leggenda come l'iniziatore del taoismo. Di Laozi, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo a.C., in realtà non si sa nulla di certo, neppure se sia veramente esistito. Una favola vuole che abbia composto l'opera prima di sparire misteriosamente, andandosene a Occidente; e questa storia conoscerà una rinnovata fortuna con l'introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell'era volgare, allorché si diffonderà la tendenza a presentare il Buddha come Laozi reincarnato.
Il Grande Tutto in cinquemila parole
Un rinnovato confronto con un grande classico del pensiero cinese, uno dei libri più letti e amati nel mondo, Laozi. Genesi del Daodejing, a cura di Attilio Andreini per Einaudi
AMINA CRISMA
«Senza nome (wu ming) è dei Diecimila esseri il cominciamento / Ha nome (you ming) quel che dei Diecimila esseri è la Madre». E' la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di audaci accostamenti di contrari e proteso a misurarsi con l'indicibile, a costituire la cifra stilistica del Laozi, o Daodejing («Classico della Via e della Virtù», o «Classico della Via e della sua Potenza»), e a fare di questo testo del pensiero cinese uno dei libri più letti e amati. Secondo solo alla Bibbia per numero di traduzioni, ha avuto nel corso del tempo versioni nelle lingue più svariate e su di esso si è esercitata un'imponente esegesi; e tuttavia, nonostante la molteplicità di letture e interpretazioni a cui ha dato luogo, sembra resistere alla presa, come se quell'insondabile fondo a cui sovente allude - il «mistero oltre il mistero», «l'arcano degli arcani», segreta unità del Grande Tutto - si irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi una sorta di perdurante inafferrabilità. Non meno enigmatica e fascinosa è la figura dell'autore a cui la tradizione lo attribuisce, Laozi («il Vecchio Maestro»), indicato dalla leggenda come l'iniziatore del taoismo. Di Laozi, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo a.C., in realtà non si sa nulla di certo, neppure se sia veramente esistito. Una favola vuole che abbia composto l'opera prima di sparire misteriosamente, andandosene a Occidente; e questa storia conoscerà una rinnovata fortuna con l'introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell'era volgare, allorché si diffonderà la tendenza a presentare il Buddha come Laozi reincarnato.
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Il Dao (la Via), da cui prende il nome la cosiddetta scuola taoista (daojia), vocabolo chiave del Laozi, è un termine definibile se non in via negationis («Incerta cosa, e vaga, è la Via! ...»). Già presente nella lingua cinese, con il significato di «via», «metodo», «procedimento», «regola di vita», qui invece assume una peculiare accezione che si può delineare ricorrendo alle parole di Isabelle Robinet: il Dao si configura come «'Verità ultima', una, trascendente, invisibile, impercettibile, situata al di là di qualsiasi rapporto di differenziazione, di qualsiasi giudizio e di qualsiasi antagonismo», «fonte di qualsiasi vita, estensiva e universale». Il Dao evoca la totalità come realtà unitaria, come eterna processualità che si dispiega nella dialettica di «non esserci» (wu) ed «esserci» (you), di latente e manifesto - una relazione che sarà al centro, nel III secolo d.C., della riflessione della cosiddetta «scuola del mistero» (xuanxue) e che nel commento al Laozi di Wang Bi (226-249) troverà una delle sue più significative formulazioni. Il suo grembo inesauribilmente fecondo è il vuoto - invisibile fondo d'immanenza da cui promana la molteplicità visibile; la sua potenza («virtù», de) sta nel «non agire» (wu wei), nella sovrana efficacia della spontaneità del divenire: «il Dao ha la sua costanza nel non agire, eppure per suo tramite tutto si compie».
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E' dunque un movimento di ritorno verso l'origine, di ricongiunzione alla fertile sorgente dell'unità del Tutto che il libro configura: un percorso a ritroso, per «succhiare il latte al seno della Madre», che si attua nel polemico capovolgimento di quelli che appaiono come i valori umani a cui s'ispira l'educazione confuciana: «Praticare lo studio è sempre più accrescersi, praticare il Dao è sempre più decrescere». Lasciandosi alle spalle ogni artificiosa imposizione derivante dalla civiltà e dalla cultura, si tratta di far ritorno a una semplicità analoga a quella del legno grezzo, di ritrovare l'intatta energia vitale (qi) che pervade la mollezza del corpo del neonato. E come il ritorno costituisce il movimento stesso del Dao, così la debolezza rappresenta la paradossale modalità in cui si esprime la sua incomprimibile forza - un paradosso che nell'opera è sovente illustrato con l'immagine dell'acqua, della quale «nulla al mondo è più cedevole» e, tuttavia, «niente la supera nell'intaccare ciò che è duro e forte».
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Propone un rinnovato confronto con questo grande classico, impervio quanto seducente, l'edizione del Laozi a cura di Attilio Andreini che appare ora da Einaudi (Laozi. Genesi del Daodejing, pp. XLII-253, € 22,50) -, e che si connota innanzitutto per una precisa scelta stilistica, volta a restituire l'intensa qualità poetica del testo e la forza espressiva del suo arduo linguaggio. Questa non è peraltro l'unica sorpresa per il lettore che abbia familiarità con le traduzioni correnti, poiché quest'edizione non si attiene all'ordinamento convenzionale del testo, ma a quello della più antica redazione completa del Laozi finora in nostro possesso, il manoscritto su seta rinvenuto a Mawangdui nel 1973, e risalente circa al 200 a.C., nel quale le due sezioni del libro (Daojing, Classico della Via, e Dejing, Classico della Virtù) sono invertite rispetto al textus receptus. Essa assume inoltre a riferimento un'ancor più antica stesura parziale dell'opera, il cosiddetto Laozi di Guodian, manoscritto su bambù scoperto nel `93 e risalente al 350-300 a.C. - e nell'imponente apparato critico di corredo, assumono un ruolo di rilievo gli ultimi sviluppi della cospicua esegesi - cinese e occidentale - su questo importante ritrovamento.
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In questa prospettiva, che mette a frutto le acquisizioni più recenti dell'indagine filologica, si viene radicalmente a riformulare la percezione stessa del testo: si ha a che fare qui con il processo del suo farsi, con quella fluida gestazione che lo configurava come opera aperta, circolante in più redazioni e varianti, ben prima che il filtro delle biblioteche imperiali e la codificazione del II e III secolo d.C. intervenissero a fissarne la versione canonica, tramandata dalla tradizione successiva.
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Come ricorda il saggio introduttivo di Maurizio Scarpari, il problema della formazione del Laozi si inscrive nella più ampia questione dello e concerne lo statuto della testualità nella Cina pre-imperiale, ossia in quella fertile epoca di libero dibattito, dal V al III secolo a.C., che costituì l'autentica età assiale del Paese di Mezzo, e alla quale pose fine la fondazione (221 a.C.) dell'impero centralizzato. Rispetto alla cultura dell'epoca aspramente conflittuale quanto creativa che l'aveva preceduto, l'impero degli Han (206 a.C.-220 d.C.) si rappresentò come erede, ma in un certo senso ne fu anche l'esecutore testamentario. Si raccolse e si organizzò entro il nuovo quadro istituzionale il lascito intellettuale del passato: collazionando sparsi e disparati insiemi di listarelle di bambù legate da fragili lacci di corda si costruirono i libri in quanto texti recepti, e, parallelamente, si procedette anche a costruire la classificazione delle «scuole filosofiche». Pressoché esclusivamente attraverso tale mediazione, fino a poco tempo fa, potevamo metterci in contatto con il pensiero antico, e che cosa tale mediazione avesse comportato - che cosa in essa fosse andato rimaneggiato, perduto o dimenticato - poteva essere solo argomento di congettura.
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Ma il coperchio apposto in età imperiale al retaggio dell'epoca degli Stati Combattenti si va ora sollevando, per effetto delle scoperte, di dirompente portata, degli ultimi anni, e delle quali si è ancora lontani dall'aver tratto tutte le implicazioni. Dai manoscritti su seta emersi negli anni `70 dalle tombe di Mawangdui nello Hunan alle centinaia di listarelle di bambù dissepolte a Guodian nello Hubei nel '93 e sulle quali ancora si sta lavorando - e già molto si va disputando -, i reperti ci restituiscono un universo di scritti magmatico e in larga misura sconosciuto, in cui compaiono, insieme a sorprendenti versioni di testi già noti, opere di cui s'era persa ogni traccia e memoria, come inedite cosmogonie - Taiyi sheng shui, «Il Supremo Uno genera l'acqua» - e stupendi frammenti. Quest'universo è ancora in buona parte da decifrare e interpretare, ma una cosa risulta già chiara: esso appare ben poco corrispondente alle ordinate tassonomie in cui l'hanno tradotto e ridotto i solerti letterati dell'età imperiale. Fra le classificazioni da loro operate e la proteiforme congerie di scritti che gli ultimi ritrovamenti ci rivelano si disegna uno iato cospicuo, che induce a revocare in dubbio molte delle consolidate certezze su cui riposavano finora le interpretazioni invalse del pensiero antico.
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Sono le nozioni stesse di «libro» e di «scuola» a divenire ora oggetto di una radicale problematizzazione: i «libri» appaiono fluidi aggregati dai labili confini, le «scuole» appaiono etichette appiccicate a posteriori a realtà non univoche né chiaramente delimitabili, ma plurali, multiformi, intrecciate. E' probabile che dovremo presto disfarci di molti degli schemi che ci sono consueti, di molte convenzionali etichettature. Una prospettiva che potrà apparire iconoclasta a chi è affezionato alle abituali catalogazioni, ma se si provasse a farne a meno, si potrebbe anche scoprire che la sua aura solenne non ne risulterebbe affatto intaccata, e forse anzi un diverso ascolto si offrirebbe al suo imponente, suggestivo, maestoso proferire.
Saddam Hussein
Repubblica 21.10.04
Nel carcere superprotetto la visita del ministro iracheno Amin
"Saddam è depresso e vede lo psichiatra"
DAL NOSTRO INVIATO
AMMAN - Saddam Hussein è depresso, cupo e soffre di insonnia. Le ultime notizie sull´ex dittatore iracheno arrivano dal ministro per i Diritti umani, Bekhtiar Mohammad Amin. Lo ha incontrato nel carcere superprotetto, allestito dagli americani vicino all´aeroporto internazionale di Bagdad. Una visita breve, poco più di mezz´ora che, stando alle dichiarazioni riportate dalla stampa irachena, avrebbe colpito lo stesso ministro. «L´ho trovato molto depresso», ha riferito Amin, «giù di morale e non riesce a dormire la notte. Ho saputo che Saddam viene visitato due volte al giorno da un medico e che ogni due settimane riceve la visita di una psichiatra».
Vigilato 24 ore su 24, rinchiuso in un luogo tenuto segretissimo, l´ex raìs può usufruire di tre ore d´aria al giorno, consuma tre pasti regolari, ottiene tutte le medicine di cui ha bisogno. Ma, stando al ministro dei Diritti umani, non si abitua all´idea di aver chiuso con la storia. Essere prigioniero non è certo una condizione esaltante. Ma quello che pesa di più sul morale dell´ex dittatore sono l´assenza di notizie dall´esterno e l´incertezza sul suo futuro. Sa bene che presto verrà processato e teme di essere condannato a morte; ha paura di trovarsi, per una volta, dall´altra parte dello scranno e di fare la fine che lui stesso, spesso con grande disinvoltura e una ferocia unica, decretava per altri.
Le notizie sullo stato d´animo di Saddam Hussein sono piuttosto ricorrenti in Iraq. Fanno parte delle leggende che si rincorrono da un capo all´altro del paese. Lo stesso premier Iyad Allawi, tre mesi fa, disse di averlo trovato depresso, tremante, ossessionato dall´idea di essere giudicato e condannato a morte. Svelò di aver ricevuto almeno cinque richieste di grazia dallo stesso Saddam. Eppure, quando l´ex dittatore approdò nell´aula del giudice che gli comunicò i capi d´imputazione del suo processo, tutto il mondo ebbe una sensazione ben diversa. Il raìs tirò fuori la sua classica grinta, si mostrò combattivo, tenne testa al magistrato, si dichiarò ancora presidente dell´Iraq e rifiutò di apporre qualsiasi firma sui documenti che considerava illegittimi. Un gioco delle parti. Con un Saddam depresso e cupo, ogni due settimane dallo psichiatra, nella solitudine della sua cella. E un Saddam che lancia il suo sguardo di terrore davanti alle tv irachene e del mondo.
(d. m.)
Nel carcere superprotetto la visita del ministro iracheno Amin
"Saddam è depresso e vede lo psichiatra"
DAL NOSTRO INVIATO
AMMAN - Saddam Hussein è depresso, cupo e soffre di insonnia. Le ultime notizie sull´ex dittatore iracheno arrivano dal ministro per i Diritti umani, Bekhtiar Mohammad Amin. Lo ha incontrato nel carcere superprotetto, allestito dagli americani vicino all´aeroporto internazionale di Bagdad. Una visita breve, poco più di mezz´ora che, stando alle dichiarazioni riportate dalla stampa irachena, avrebbe colpito lo stesso ministro. «L´ho trovato molto depresso», ha riferito Amin, «giù di morale e non riesce a dormire la notte. Ho saputo che Saddam viene visitato due volte al giorno da un medico e che ogni due settimane riceve la visita di una psichiatra».
Vigilato 24 ore su 24, rinchiuso in un luogo tenuto segretissimo, l´ex raìs può usufruire di tre ore d´aria al giorno, consuma tre pasti regolari, ottiene tutte le medicine di cui ha bisogno. Ma, stando al ministro dei Diritti umani, non si abitua all´idea di aver chiuso con la storia. Essere prigioniero non è certo una condizione esaltante. Ma quello che pesa di più sul morale dell´ex dittatore sono l´assenza di notizie dall´esterno e l´incertezza sul suo futuro. Sa bene che presto verrà processato e teme di essere condannato a morte; ha paura di trovarsi, per una volta, dall´altra parte dello scranno e di fare la fine che lui stesso, spesso con grande disinvoltura e una ferocia unica, decretava per altri.
Le notizie sullo stato d´animo di Saddam Hussein sono piuttosto ricorrenti in Iraq. Fanno parte delle leggende che si rincorrono da un capo all´altro del paese. Lo stesso premier Iyad Allawi, tre mesi fa, disse di averlo trovato depresso, tremante, ossessionato dall´idea di essere giudicato e condannato a morte. Svelò di aver ricevuto almeno cinque richieste di grazia dallo stesso Saddam. Eppure, quando l´ex dittatore approdò nell´aula del giudice che gli comunicò i capi d´imputazione del suo processo, tutto il mondo ebbe una sensazione ben diversa. Il raìs tirò fuori la sua classica grinta, si mostrò combattivo, tenne testa al magistrato, si dichiarò ancora presidente dell´Iraq e rifiutò di apporre qualsiasi firma sui documenti che considerava illegittimi. Un gioco delle parti. Con un Saddam depresso e cupo, ogni due settimane dallo psichiatra, nella solitudine della sua cella. E un Saddam che lancia il suo sguardo di terrore davanti alle tv irachene e del mondo.
(d. m.)
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