L´etica dell´inquietudine
Vent´anni fa moriva il pensatore francese
Le sue tesi che spaziano dal mondo antico al moderno fanno ancora discutere
Un convegno a Venezia per ricordare il filosofo che morì di Aids nel 1984
Negli ultimi anni dedicò le sue ricerche ai temi della saggezza, dello scetticismo e del come prendersi cura di sé
di ARNOLD I. DAVIDSON
Che cosa significa «esercizio spirituale» in un contesto laico e per di più in un contesto contemporaneo? Da un punto di vista concettuale, e non soltanto storico, per studiare gli esercizi spirituali dobbiamo cominciare con la filosofia antica, come Pierre Hadot ha definitivamente mostrato nel suo capolavoro "Esercizi spirituali e filosofia antica". Non è per caso che alla fine della sua vita, cercando una nuova concezione dell´etica, Foucault si è rivolto alla filosofia antica. Dopo una lettura attenta dei saggi di Pierre Hadot, lettura che di certo si innestava su interessi filosofici propri, Foucault ha scoperto nella filosofia antica, e soprattutto nella filosofia stoica e cinica (ma anche in Platone e nel monachesimo cristiano), un luogo inequivocabile degli esercizi spirituali etici, di solito designati da lui tecniche o pratiche del sé.
La scomparsa dell´idea degli esercizi spirituali è un aspetto fondamentale dell´assenza nella filosofia contemporanea di un campo semantico e concettuale molto complicato e dettagliato. Vorrei ritagliare da questo campo il concetto di saggezza, dato che è un concetto quasi irreperibile nella filosofia contemporanea e strettamente legato all´idea degli esercizi spirituali. Oggi viene chiamata saggezza quella che non è altro che una forma di autocompiacimento. Però la storia filosofica dell´idea di saggezza dimostra invece che concettualmente la saggezza è il contrario dell´autocompiacimento, dell´autosoddisfazione.
Nella filosofia antica, la saggezza è, prima di tutto, per dirla con Pierre Hadot, «prerogativa degli dèi, il vero e proprio contrassegno della distanza che separa gli dèi e gli uomini». La filosofia è per l´appunto l´amore per la saggezza, se la saggezza è concepita come una norma trascendente, un ideale trascendente, quasi inaccessibile. Così si è espresso Hadot a proposito dei filosofi stoici: «Questa figura ideale di saggio, il filosofo stoico sa che non potrà mai realizzarla; essa tuttavia esercita su di lui un´attrazione, suscita in lui entusiasmo e amore, è come un appello a vivere meglio, a prendere coscienza della perfezione da raggiungere». Nella concezione antica, la pratica ovvero l´esercizio della filosofia, la ricerca della saggezza, non può mai finire. La saggezza implica l´ascesi, degli esercizi del sé; la saggezza è attiva. È un ideale a cui ci si può soltanto avvicinare, mediante esercizi del sé; e il carattere ideale della saggezza fa sì che questi esercizi debbano essere sempre riattivati, sempre ricominciati.
Vorrei anche richiamare l´attenzione, per ragioni filosoficamente analoghe, all´idea di cura di sé che si trova nell´ultimo Foucault. Nell´Ermeneutica del soggetto Foucault sottolinea che nell´età ellenistica la cura di sé costituiva «una pratica costante». È un principio della «cura permanente, che dura per tutta la vita». Porta a esempio un testo di Epicuro: «Non è mai né troppo presto né troppo tardi per prendersi cura della propria anima. Si deve dunque filosofare sia quando si è giovani sia quando si è vecchi»; e cita la frase di Galeno: «Per diventare un uomo completo, ciascuno ha bisogno di esercitarsi, per così dire, per tutta la vita». Foucault sintetizza così: «Occuparsi di sé non è, dunque, una semplice preparazione momentanea alla vita; è una forma di vita». D´altronde Foucault insiste sull´aspetto pratico della cura di sé, mostrando che si tratta di «una forma di attività» e che «lo stesso termine di epimeleia non designa semplicemente un atteggiamento della coscienza o una forma di attenzione rivolta a se stessi, ma indica piuttosto un´occupazione regolata, un lavoro con i suoi procedimenti e i suoi obiettivi». Non si può insomma aver cura di sé senza un´attività costante: un´attività che consiste appunto nel fare esercizio, nel fare un lavoro su se stessi.
Non è il caso, qui e ora, di elencare i diversi tipi di esercizi. Voglio solo sottolineare che la trasformazione di sé che ne risulta suppone non un sapere dimostrato o un sapere rivelato, bensì un sapere praticato: vale a dire un saper fare, un saper vivere, quello che Foucault chiama «un sapere spirituale» e che a me piace chiamare a volte una «ascetica di sé». Il sapere pratico, praticato, degli esercizi spirituali è, dice Foucault, un sapere ?etopoietico´: «Ethopoiein significa fare dell´ethos, produrne, modificare o trasformare l´ethos, la maniera di essere, il modo d´esistenza di un individuo. Ciò che è ethopoios è qualcosa che possiede la qualità di trasformare il modo d´essere di un individuo».
Vorrei ricordare un fatto del resto ben noto, e cioè che Foucault non amava affatto la saggezza trascendente di cui parla Hadot. Foucault ha sempre criticato, con forza, ogni concezione della moralità come luogo di valori trascendenti. E al tempo stesso ha sempre criticato ogni forma di autocompiacimento etico nella storia della filosofia. Foucault cercava una morale de l´inconfort, un´etica dell´inquietudine per rendere mobile l´immobilità. «Distaccarsi da se stessi» è, in qualche modo, il motto di questa morale de l´inconfort. Voglio comunque ricordare che lo stesso Hadot afferma che una concezione giusta della figura del saggio deve tener conto delle nuove condizioni storiche. E ora vorrei fare una domanda, a mo´ di provocazione: c´è un equivalente immanente della saggezza trascendente? Si può dare una relazione con sé che abbia la forza e la mobilità della saggezza, senza però essere trascendente? Ecco, io suggerisco che l´equivalente immanente della saggezza trascendente sia per l´appunto quella estetica dell´esistenza che è una delle nozioni-chiave dell´ultimo Foucault.
Posso adesso soltanto aggiungere qualche considerazione sull´estetica dell´esistenza: un´idea che resta tuttavia da studiare in modo dettagliato. In effetti si tende a interpretare l´estetica dell´esistenza come un tipo di self-realisation psicologica; ma è proprio contro questa interpretazione - il culto californiano del sé - che Foucault ha elaborato la sua idea di estetica dell´esistenza. Foucault l´ha detto senza mezzi termini, in una frase indimenticabile: «L´arte di vivere, è uccidere la psicologia». Del resto l´estetica dell´esistenza e la stilizzazione della vita devono appunto essere pensate contro l´insieme di nozioni che fanno capo all´idea di legge morale, un´idea di legge, per così dire, come sistema o macchina di giudizio, con i suoi tribunali, giudici, sentenze, sanzioni.
Secondo Foucault, il bisogno di un´estetica dell´esistenza è da rapportare all´esigenza di una tecnica del sé, una tecnica di vita che comporta un nuovo atteggiamento verso noi stessi, un atteggiamento critico. In una conferenza pronunciata negli Stati Uniti nel 1980 (ancora inedita in francese e in italiano), Foucault stabilisce la connessione della cura di sé con quella che chiama la ricerca di un altro tipo di filosofia critica: «Non si tratta di una filosofia critica intesa a definire condizioni e limiti di possibilità della conoscenza di un oggetto; si tratta piuttosto di una filosofia critica volta alla ricerca delle condizioni e delle possibilità, ancora indeterminate, di una trasformazione del soggetto, di una trasformazione di noi stessi.» Queste condizioni e queste possibilità ancora da individuare e da elaborare ci svegliano dal nostro sonno etico; esigono però - e questo Foucault lo ha di certo messo in chiaro - un prezzo da pagare.
Il nostro compito è di ritrovare nella storia e di inventare per noi stessi gli esercizi di sé. In tal modo possiamo rianimare sia la nostra idea di etica sia le arti di vivere. La nostra concezione dell´etica viene deformata da un´idea troppo giuridica della moralità; inoltre abbiamo quasi perso la nozione classica delle arti di vivere, come se non potessimo ricollegare le arti di vivere all´organizzazione etica di una vita. È una deformazione e una perdita che non dobbiamo continuare a sopportare.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 2 aprile 2004
le scelte culturali del Corsera
perché ancora James Hillman?
Corriere della Sera 2.4.04
Il celebre psicanalista sarà oggi a Milano per partecipare al convegno organizzato da «Liberal» su educazione e istruzione
Hillman: il futuro? Si chiama matematica
di Pierluigi Panza
Scrutare da cinquant’anni i miti che sono alla base dell’inconscio collettivo non impedisce allo psicanalista James Hillman di tracciare un futuro senza un ruolo determinante per la psicologia. «Non c’è futuro senza lo studio della matematica - afferma -, e se nel mondo la cultura estetica fosse maggiormente diffusa, non ci sarebbe bisogno della psicologia». Nato nel 1926 ad Atlantic City, Hillman si è laureato al Trinity College di Dublino e ha cominciato la sua attività come terapeuta. Quindi è stato direttore del «Carl Gustav Jung Institute» di Zurigo e, nel 1960, ha pubblicato il suo primo bestseller, Emotion, con il quale ha fondato la Psicologia degli archetipi. Oggi, alle 12 e 30, sarà al Centro congressi Cariplo di Milano dove terrà l’intervento «Il numero e i suoi nemici» (ma dice che sarebbe meglio il titolo «La resistenza verso la matematica») nell’ambito del convegno «L’educazione e l’istruzione nel XXI secolo. La civiltà, la qualità, la libertà» promosso dalla fondazione «Liberal». A seguire gli interventi di numerosi docenti universitari italiani.
Professore, come mai uno studioso degli archetipi e dell’inconscio come lei elogia la matematica?
«La supremazia della cultura occidentale dipende dalla tecnologia, e questa dalla matematica. Dagli studi scientifico-matematici dipende il nostro futuro, e la disaffezione degli studenti verso queste materie è un problema serio: senza matematica non avremo futuro».
In Italia, si parla ancora di «due culture», umanistica e scientifica e, per un retaggio crociano, spesso di supremazia degli studi umanistici...
«È una vecchia idea, nata nel Rinascimento. Il problema, oggi, è la specializzazione che caratterizza l’insegnamento delle discipline scientifiche e che allontana i giovani, volgendo il loro interesse verso ideali nobili di comunità, solidarietà... In futuro, bisogna che lo studio della scienza sia connesso con questi ideali e non resti confinato. Oggi, i computer e la tecnologia governano anche la guerra e gli armamenti: per questo il sentimento dell’uomo è sempre più lontano dall’appassionarsi per gli studi scientifici. La scienza appare come una forza distruttiva. E così aumenta la disaffezione dei giovani verso le discipline matematiche».
Si può ritenere che una sorta di omologazione o globalizzazione dei metodi d’insegnamento possa favorire il superamento delle incomprensioni e dei conflitti tra le nuove generazioni?
«Noi abbiamo una scienza comune e, non si dimentichi, la nostra matematica e la nostra filosofia vengono anche dagli arabi. Ma la cultura non è omologabile. Educare significa costruire una persona, non imporre. La globalizzazione fa venir meno proprio l’individualità della persona: educare, invece, è tirar fuori da me quanto io già sono».
Che pericoli vede all’orizzonte nei nuovi metodi educativi?
«Il pericolo è che avvenga ciò che già sta iniziando negli Stati Uniti. Qui si inizia a sovrintendere l’educazione culturale, specie quella degli studi arabi, con organizzazioni semigovernative. C’è un’infiltrazione del governo nella libertà d’insegnamento. Prima, l’educazione era un sistema separato dal sistema politico, diversamente da quanto avviene in Italia e in Francia! Ora tende a servire fini politici».
Nella nostra società delle comunicazioni, nella cosiddetta «società dello spettacolo», i «media» esercitano un’influenza determinante. Avranno un ruolo strategico anche nella didattica, anche nell’apprendimento?
«Non ho nessuna fiducia nei "media", salvo che in uno: Internet. Questo è un media alternativo, o un "submedia", ed è un importante strumento di ricerca individuale. Ma l’educazione di Internet deve essere "a coté" di quella ufficiale».
Quanto a televisioni e giornali...
«Potrebbero essere importanti come strumenti, ma sono influenzati politicamente, religiosamente, ideologicamente. La parola programma, che si usa per la televisione, è molto brutta; l’arte, ad esempio, non ha programma, non è mai stata soggetta a un programma. Programma significa propaganda, perché fa parte di una struttura. I programmi sono influenzati dai governi».
Lei, in un’intervista, ha parlato di «importanza della bellezza». Quanto conterà negli studi del futuro quell’«educazione estetica» invocata da Goethe, Schiller e dall’idealismo tedesco come base per la formazione di un individuo completo?
«Sarà la più importante possibilità da sfruttare. Ho scritto ora un libro intitolato A terrible love of war (uscirà in autunno in Italia da Adelphi, ndr) in cui sostengo che dove si diffonde intensità estetica, ovvero passione come i giovani hanno per la musica e per l’arte, c’è meno attrazione per la guerra. L’intensità estetica allontana la guerra. Non a caso negli Stati Uniti gli spazi per l’educazione estetica si sono enormemente rimpiccioliti».
E per la sua psicologia che spazio ci sarà?
«Non saprei. Se la cultura estetica fosse maggiormente diffusa non ci sarebbe bisogno di psicologia. Ma il problema è che troppe persone abbandonano gli studi di matematica. Si deve tuttavia considerare che non esistono solo forme di comprensione linguistiche o matematiche del mondo, come i test universitari oggi farebbero credere. Come ha mostrato Howard Gardener in un suo celebre libro, esistono almeno sette diverse forme di intelligenza: quella logico-matematica è una sola tra queste! Per questo è necessaria una diversificazione negli studi e non un’omologazione. Ma senza che si abbandoni la matematica».
Ma come insegnarla, allora?
«La scuola deve insegnare la matematica con più immaginazione e meno autorità. Certo, la matematica ha un suo aspetto teorico che ne rende l’insegnamento per forza un po’ autoritario; e, per questo, gli studenti scappano! Io sono uno psicologo, e quindi studio i sintomi, e ritengo che questo esercizio dell’autorità faccia scappare i giovani».
E per lo studio dei miti ci sarà ancora posto nella società tecnologizzata e globalizzata?
«Il mito resterà essenziale nello studio della storia. Nella psiche e nella descrizione dei grandi eventi il mito riemerge sempre: per questo motivo si parla ancora delle Crociate; attraggono gli studi sul pianeta Marte e Omero con l’ Iliade vengono riscoperti per capire le guerre di oggi».
Professore, lei parla dei giovani, ma la società europea è sempre più vecchia. Che ruolo potranno avere gli anziani nell’indirizzare l’educazione delle future generazioni?
«Devono raccontare ai giovani chi sono stati. Non devono imporre, non devono sgridare. Devono far loro vedere come sono stati, dire: "Ecco eravamo così". Mostrare, parlare e ricordare le radici. La storia parte dalla riscoperta di come erano gli anziani che ancora ci sono. Sono il tramite verso gli studi storici».
Il celebre psicanalista sarà oggi a Milano per partecipare al convegno organizzato da «Liberal» su educazione e istruzione
Hillman: il futuro? Si chiama matematica
di Pierluigi Panza
Scrutare da cinquant’anni i miti che sono alla base dell’inconscio collettivo non impedisce allo psicanalista James Hillman di tracciare un futuro senza un ruolo determinante per la psicologia. «Non c’è futuro senza lo studio della matematica - afferma -, e se nel mondo la cultura estetica fosse maggiormente diffusa, non ci sarebbe bisogno della psicologia». Nato nel 1926 ad Atlantic City, Hillman si è laureato al Trinity College di Dublino e ha cominciato la sua attività come terapeuta. Quindi è stato direttore del «Carl Gustav Jung Institute» di Zurigo e, nel 1960, ha pubblicato il suo primo bestseller, Emotion, con il quale ha fondato la Psicologia degli archetipi. Oggi, alle 12 e 30, sarà al Centro congressi Cariplo di Milano dove terrà l’intervento «Il numero e i suoi nemici» (ma dice che sarebbe meglio il titolo «La resistenza verso la matematica») nell’ambito del convegno «L’educazione e l’istruzione nel XXI secolo. La civiltà, la qualità, la libertà» promosso dalla fondazione «Liberal». A seguire gli interventi di numerosi docenti universitari italiani.
Professore, come mai uno studioso degli archetipi e dell’inconscio come lei elogia la matematica?
«La supremazia della cultura occidentale dipende dalla tecnologia, e questa dalla matematica. Dagli studi scientifico-matematici dipende il nostro futuro, e la disaffezione degli studenti verso queste materie è un problema serio: senza matematica non avremo futuro».
In Italia, si parla ancora di «due culture», umanistica e scientifica e, per un retaggio crociano, spesso di supremazia degli studi umanistici...
«È una vecchia idea, nata nel Rinascimento. Il problema, oggi, è la specializzazione che caratterizza l’insegnamento delle discipline scientifiche e che allontana i giovani, volgendo il loro interesse verso ideali nobili di comunità, solidarietà... In futuro, bisogna che lo studio della scienza sia connesso con questi ideali e non resti confinato. Oggi, i computer e la tecnologia governano anche la guerra e gli armamenti: per questo il sentimento dell’uomo è sempre più lontano dall’appassionarsi per gli studi scientifici. La scienza appare come una forza distruttiva. E così aumenta la disaffezione dei giovani verso le discipline matematiche».
Si può ritenere che una sorta di omologazione o globalizzazione dei metodi d’insegnamento possa favorire il superamento delle incomprensioni e dei conflitti tra le nuove generazioni?
«Noi abbiamo una scienza comune e, non si dimentichi, la nostra matematica e la nostra filosofia vengono anche dagli arabi. Ma la cultura non è omologabile. Educare significa costruire una persona, non imporre. La globalizzazione fa venir meno proprio l’individualità della persona: educare, invece, è tirar fuori da me quanto io già sono».
Che pericoli vede all’orizzonte nei nuovi metodi educativi?
«Il pericolo è che avvenga ciò che già sta iniziando negli Stati Uniti. Qui si inizia a sovrintendere l’educazione culturale, specie quella degli studi arabi, con organizzazioni semigovernative. C’è un’infiltrazione del governo nella libertà d’insegnamento. Prima, l’educazione era un sistema separato dal sistema politico, diversamente da quanto avviene in Italia e in Francia! Ora tende a servire fini politici».
Nella nostra società delle comunicazioni, nella cosiddetta «società dello spettacolo», i «media» esercitano un’influenza determinante. Avranno un ruolo strategico anche nella didattica, anche nell’apprendimento?
«Non ho nessuna fiducia nei "media", salvo che in uno: Internet. Questo è un media alternativo, o un "submedia", ed è un importante strumento di ricerca individuale. Ma l’educazione di Internet deve essere "a coté" di quella ufficiale».
Quanto a televisioni e giornali...
«Potrebbero essere importanti come strumenti, ma sono influenzati politicamente, religiosamente, ideologicamente. La parola programma, che si usa per la televisione, è molto brutta; l’arte, ad esempio, non ha programma, non è mai stata soggetta a un programma. Programma significa propaganda, perché fa parte di una struttura. I programmi sono influenzati dai governi».
Lei, in un’intervista, ha parlato di «importanza della bellezza». Quanto conterà negli studi del futuro quell’«educazione estetica» invocata da Goethe, Schiller e dall’idealismo tedesco come base per la formazione di un individuo completo?
«Sarà la più importante possibilità da sfruttare. Ho scritto ora un libro intitolato A terrible love of war (uscirà in autunno in Italia da Adelphi, ndr) in cui sostengo che dove si diffonde intensità estetica, ovvero passione come i giovani hanno per la musica e per l’arte, c’è meno attrazione per la guerra. L’intensità estetica allontana la guerra. Non a caso negli Stati Uniti gli spazi per l’educazione estetica si sono enormemente rimpiccioliti».
E per la sua psicologia che spazio ci sarà?
«Non saprei. Se la cultura estetica fosse maggiormente diffusa non ci sarebbe bisogno di psicologia. Ma il problema è che troppe persone abbandonano gli studi di matematica. Si deve tuttavia considerare che non esistono solo forme di comprensione linguistiche o matematiche del mondo, come i test universitari oggi farebbero credere. Come ha mostrato Howard Gardener in un suo celebre libro, esistono almeno sette diverse forme di intelligenza: quella logico-matematica è una sola tra queste! Per questo è necessaria una diversificazione negli studi e non un’omologazione. Ma senza che si abbandoni la matematica».
Ma come insegnarla, allora?
«La scuola deve insegnare la matematica con più immaginazione e meno autorità. Certo, la matematica ha un suo aspetto teorico che ne rende l’insegnamento per forza un po’ autoritario; e, per questo, gli studenti scappano! Io sono uno psicologo, e quindi studio i sintomi, e ritengo che questo esercizio dell’autorità faccia scappare i giovani».
E per lo studio dei miti ci sarà ancora posto nella società tecnologizzata e globalizzata?
«Il mito resterà essenziale nello studio della storia. Nella psiche e nella descrizione dei grandi eventi il mito riemerge sempre: per questo motivo si parla ancora delle Crociate; attraggono gli studi sul pianeta Marte e Omero con l’ Iliade vengono riscoperti per capire le guerre di oggi».
Professore, lei parla dei giovani, ma la società europea è sempre più vecchia. Che ruolo potranno avere gli anziani nell’indirizzare l’educazione delle future generazioni?
«Devono raccontare ai giovani chi sono stati. Non devono imporre, non devono sgridare. Devono far loro vedere come sono stati, dire: "Ecco eravamo così". Mostrare, parlare e ricordare le radici. La storia parte dalla riscoperta di come erano gli anziani che ancora ci sono. Sono il tramite verso gli studi storici».
le neuroscienze americane sull'autismo
Le Scienze 31.03.2004
Autismo e anormalità cerebrali
La mielinizzazione potrebbe essere collegata ai disturbi
Usando tecnologie di visualizzazione avanzate, un team di ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston ha identificato porzioni specifiche della materia bianca del cervello che risultano anormalmente grandi nei bambini con autismo o disturbi dello sviluppo del linguaggio. La scoperta conferma che la crescita eccessiva della materia bianca, già osservata in precedenza, si verifica dopo la nascita e suggerisce un possibile legame con il processo di mielinizzazione, nel quale gli assoni delle cellule nervose vengono ricoperte da un materiale chiamato mielina. Lo studio è stato pubblicato sul numero di aprile della rivista "Annals of Neurology".
I ricercatori hanno notato che le aree che mostrano il maggior aumento di volume sono quelle dove gli assoni si mielinizzano, uno stadio fondamentale nella maturazione che consente agli impulsi nervosi di essere trasmessi in maniera appropriata. Sia nei pazienti autistici sia in quelli con disturbi del linguaggio, le aree più espanse erano infatti quelle che mielinizzano per ultime nel normale sviluppo e dove la mielinizzazione richiede un periodo di tempo più lungo.
"Sapere che la materia bianca è maggiormente ingrandita nell'area che sviluppa mielina più tardi - afferma Martha Herbert, principale autrice dello studio - ci aiuterà a restringere la finestra di tempo nella quale cercare le cause di questi problemi, e dovrebbe portarci a focalizzare meglio le ricerche future".
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Autismo e anormalità cerebrali
La mielinizzazione potrebbe essere collegata ai disturbi
Usando tecnologie di visualizzazione avanzate, un team di ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston ha identificato porzioni specifiche della materia bianca del cervello che risultano anormalmente grandi nei bambini con autismo o disturbi dello sviluppo del linguaggio. La scoperta conferma che la crescita eccessiva della materia bianca, già osservata in precedenza, si verifica dopo la nascita e suggerisce un possibile legame con il processo di mielinizzazione, nel quale gli assoni delle cellule nervose vengono ricoperte da un materiale chiamato mielina. Lo studio è stato pubblicato sul numero di aprile della rivista "Annals of Neurology".
I ricercatori hanno notato che le aree che mostrano il maggior aumento di volume sono quelle dove gli assoni si mielinizzano, uno stadio fondamentale nella maturazione che consente agli impulsi nervosi di essere trasmessi in maniera appropriata. Sia nei pazienti autistici sia in quelli con disturbi del linguaggio, le aree più espanse erano infatti quelle che mielinizzano per ultime nel normale sviluppo e dove la mielinizzazione richiede un periodo di tempo più lungo.
"Sapere che la materia bianca è maggiormente ingrandita nell'area che sviluppa mielina più tardi - afferma Martha Herbert, principale autrice dello studio - ci aiuterà a restringere la finestra di tempo nella quale cercare le cause di questi problemi, e dovrebbe portarci a focalizzare meglio le ricerche future".
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Moby Dick, il bene e il male
Il Mattino 2.4.04
Moby Dick il mito della balena
«MOBY DICK», LA BALENA BIANCA
Pubblicato nel 1851, il capolavoro di Melville ha il respiro biblico
della lotta tra il bene e il male, dell’epica sacra densa di fantasmi
di Matteo Palumbo
«Call me Ishmael» («Chiamatemi Ismaele»). Sono le parole imperative, eppure con un’ombra di ambiguità, con cui inizia «Moby Dick», il romanzo-leggenda che Hermann Melville pubblicò nel 1851. Chi parla è un testimone: l’unico sopravvissuto, come apprenderanno i lettori, di una storia ordita di pazzia e, insieme, di cieco, assoluto desiderio. Fin dall’inizio, in quella perentoria richiesta di un nome da adottare, risuona, tuttavia, una nota inquietante. Chi si presenta, infatti, sembra nascondersi piuttosto che rivelarsi. Quel nome «Ismaele», che dovrebbe essere garanzia certa, funziona come un contrassegno arbitrario. Diventa solo l’espressione di un patto, sancito tra il personaggio che racconta e chi lo ascolta. L’identità certa, indubbia, mentre sembra costituirsi, in realtà si cela.
Il caso del nome è esemplare. L’impossibilità di illuminare il significato di ciò che accade diventa la caratteristica principale dell’intera storia, fino a coinvolgere la natura dei protagonisti che la compongono: la balena, naturalmente, il Moby Dick del titolo, e colui che le dà una caccia senza pietà, il comandante Achab. Tra i due contendenti, in una lotta all’ultimo respiro, non sarà possibile indicare nettamente chi sia il bene e chi sia il male, oppure dove stia la ragione e dove la violenza: entrambi ambigui, demoniaci e divini, parti di una guerra senza fine, in cui formano una paradossale, inseparabile coppia.
L’autore, quando scrisse il suo testo più famoso, aveva alla spalle molti mestieri. Era stato impiegato di banca, maestro, mozzo su una nave. Nel 1841 si era arruolato in marina, ma, arrivato nei mari del Sud, aveva disertato e aveva vissuto per qualche tempo con una tribù di cannibali. L’esperienza del mare sarebbe stata determinante. Ritornato in patria, Melville cominciò a scrivere, rielaborando i frammenti delle sue avventure. Le scorrerie sugli Oceani gli offrirono un materiale prezioso, che colmò le sue pagine e diventò la sostanza del suo mondo fantastico. In maniere diverse e con accenti differenti, ora idillici, ora, invece, cupi e tremendi, l’universo di marinai e di selvaggi sarebbe diventato lo scenario dominante delle sue opere. Nacquero testi come Typee e Omoo, Mardi e White-Jacket: un giornale di bordo, questo, apparso solo un anno prima di Moby Dick, che dimostra l’interesse non più per i primitivi e per la loro esistenza, quanto, piuttosto, per l’equipaggio di una nave, considerato un microcosmo rivelatore delle dinamiche che regolano la vita intera degli uomini.
Quando Melville affronta Moby Dick, mette precisamente al centro del suo testo la vita dell’equipaggio e il viaggio per mare: simbolo topico della vita degli uomini in mezzo agli eventi che li colpiscono. La vicenda di Moby Dick, se si può d’altra parte riassumere facilmente nelle sue linee essenziali, presenta una serie complicata di storie individuali e di aspetti eccentrici, che trasformano la forma del romanzo in un sistema composito di modalità narrative. Al racconto vero e proprio di Ismaele è premesso, per esempio, un corpus di citazioni, estratte da opere letterarie e non, che riguardano la balena, il suo nome e la sua presenza nell’immaginario umano. È il preludio di una tendenza che riapparirà più volte nel testo. Il racconto di Ismaele ingloba, infatti, capitoli di taglio scientifico e tecnico, che riguardano la natura dell’animale contro cui Achab combatte la sua tremenda battaglia. Sono sofisticati trattati di cetologia, con discussioni analitiche intorno alla classificazione di vari tipi di balena, o interventi che spiegano alcuni fenomeni marini. Tuttavia, anche in casi come questi, in cui la narrazione prende la via della disquisizione scientifica, il tema dell’opera irrompe prepotentemente. Le nozioni, esposte in una chiave tutta oggettiva e con una minuzia perfino pedante, all’improvviso si trasformano e diventano il segno di una seconda realtà, spirituale e mentale, che si nasconde dietro la nuda faccia del fenomeno. Questa potenza allegorica, d’altra parte, è il cuore del libro di Melville. Trasforma la caccia alla balena di un comandante maniaco, ossessionato da una sola idea, in un’«epica ontologica», dentro cui si gioca la partita infinita con il destino e con la morte. L’acqua - scrive Melville - «è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto».
Gli oggetti visibili sono solo «maschere di cartone», dietro le cui apparenze «qualcosa di sconosciuto sporge le sue fattezze». Moby Dick, come romanzo e come animale, è precisamente questa duplicità inscindibile di visibile e di invisibile, di materiale e di spirituale, che non si può mai del tutto sciogliere in una sicura equivalenza. Proprio in questo senso, è un’allegoria: polisemica, indeterminata, mobile. Su un ordito di avventure concrete si disegna, nello sviluppo del racconto, la trama di un’altra lotta, metafisica e spirituale, tra forze contrarie e irriducibili.
La stessa nave su cui si svolge l’intero viaggio di Achab e del suo stravagante esercito, il «Pequod», ha un aspetto doppio e allusivo. È una «nobile nave, ma in qualche modo una nave malinconica». È, forse, inevitabile che sia così, giacché «tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia». Su questo battello prendono posto uomini di natura, di razza e di carattere diverso. Ci sono tre capitani in seconda: Starbuck, che si affida alla ragionevolezza e alla misura per resistere all’orrore incombente; Stubb, coraggioso e perennemente spavaldo; Flask, ostinato e fanaticamente intrepido, che ritiene le balene null’altro che «una specie di topo, o sorcio d’acqua, ingigantito». Accanto a loro, ci sono i fiocinatori che devono attaccare la Balena Bianca. Anche in questo caso, coesistono, in un modo ancora più vistoso, tipologie diverse. C’è Quiqueg, un gigantesco indigeno dei mari del Sud, con il corpo interamente rivestito di tatuaggi; c’è Tashtego, pellerossa, e Deggu, nero africano. A questi tre va ancora aggiunto il misterioso e diabolico Fedallah.
Chi, naturalmente, tra tutti emerge è Achab. Motore dell’azione, egli è la volontà suprema, che unifica i comportamenti di tutti. «È un uomo grande, non è religioso e pare un dio; non parla molto, ma quando parla potete stare ad ascoltare. Achab è fuori dal comune, è stato all'università e in mezzo ai cannibali, è abituato a cose meravigliose più profonde del mare, ha piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene. Lui è Achab, e nell’antichità Achab era un re coronato». Come il Dio incontestato di questo mondo, vi infonde l’anima e ne sollecita gli impulsi. Porta sul suo corpo ferito il segno eterno del nemico, alla cui caccia ha ormai votato l’intera esistenza. Quella Balena Bianca, che deve essere scovata attraverso tutti i mari conosciuti e di cui bisogna intuire spostamenti e traiettorie, in una ricerca assillante ed esclusiva, è la sua ossessione: la ragione stessa dello stare al mondo. Perciò Achab non è semplicemente pazzo. Possiede una statura più grande, che lo trasforma in una specie di «ambiguo Faust» (Leslie Fiedler) proteso a infrangere tutti i limiti che gli si parano innanzi. Solo agli altri può apparire semplicemente matto. Al contrario, egli è «demoniaco». Incarnazione suprema dalla «pazzia impazzita». Per il capitano del «Pequod» la Balena Bianca è la figura di un’entità astratta. Acceso da questa furia, Achab «accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza dal tempo di Adamo».
Il romanzo di Melville assume, perciò, il respiro di un’epica sacra. Tutti i suoi lettori hanno sottolineato le corrispondenze volontarie che esso istituisce con la Bibbia, a cominciare dai nomi che accompagnano il susseguirsi dei fatti: Ismaele, ovviamente, e poi Giona, Elia, la Balena-Leviatano, per concludere naturalmente con Achab, l’empio re d’Israele, di cui i cani «leccarono il sangue». Cesare Pavese, a cui si deve una traduzione memorabile del testo di Melville, invitava a leggerlo tenendo a mente la Bibbia. Gli autori a cui Melville si richiama sono d’altra parte di per sé indicativi. Moby Dick, infatti, riecheggia Poe, riprende Hawthorne, guarda a Shakespeare.
Quando Moby Dick fu pubblicato, non ebbe nessun successo. Furono gli anni successivi a trasformare il libro in una di quelle «opere mondo» (Moretti), nel cui specchio un’intera cultura poteva trovare riflessi tutti i fantasmi, i terrori e i deliri del «lato oscuro della terra». L’uomo, per il creatore di Achab, dovrebbe assimilare le capacità della balena, restando, come il suo modello, caldo in mezzo al ghiaccio, partecipe del mondo senza appartenergli, freddo all’Equatore e con il sangue in circolazione al Polo. Ma questa aspirazione di equilibrio e di salvezza non può essere altro che un mito, astratto e irraggiungibile: «delle creature, quante poche sono grandi come le balene».
Moby Dick il mito della balena
«MOBY DICK», LA BALENA BIANCA
Pubblicato nel 1851, il capolavoro di Melville ha il respiro biblico
della lotta tra il bene e il male, dell’epica sacra densa di fantasmi
di Matteo Palumbo
«Call me Ishmael» («Chiamatemi Ismaele»). Sono le parole imperative, eppure con un’ombra di ambiguità, con cui inizia «Moby Dick», il romanzo-leggenda che Hermann Melville pubblicò nel 1851. Chi parla è un testimone: l’unico sopravvissuto, come apprenderanno i lettori, di una storia ordita di pazzia e, insieme, di cieco, assoluto desiderio. Fin dall’inizio, in quella perentoria richiesta di un nome da adottare, risuona, tuttavia, una nota inquietante. Chi si presenta, infatti, sembra nascondersi piuttosto che rivelarsi. Quel nome «Ismaele», che dovrebbe essere garanzia certa, funziona come un contrassegno arbitrario. Diventa solo l’espressione di un patto, sancito tra il personaggio che racconta e chi lo ascolta. L’identità certa, indubbia, mentre sembra costituirsi, in realtà si cela.
Il caso del nome è esemplare. L’impossibilità di illuminare il significato di ciò che accade diventa la caratteristica principale dell’intera storia, fino a coinvolgere la natura dei protagonisti che la compongono: la balena, naturalmente, il Moby Dick del titolo, e colui che le dà una caccia senza pietà, il comandante Achab. Tra i due contendenti, in una lotta all’ultimo respiro, non sarà possibile indicare nettamente chi sia il bene e chi sia il male, oppure dove stia la ragione e dove la violenza: entrambi ambigui, demoniaci e divini, parti di una guerra senza fine, in cui formano una paradossale, inseparabile coppia.
L’autore, quando scrisse il suo testo più famoso, aveva alla spalle molti mestieri. Era stato impiegato di banca, maestro, mozzo su una nave. Nel 1841 si era arruolato in marina, ma, arrivato nei mari del Sud, aveva disertato e aveva vissuto per qualche tempo con una tribù di cannibali. L’esperienza del mare sarebbe stata determinante. Ritornato in patria, Melville cominciò a scrivere, rielaborando i frammenti delle sue avventure. Le scorrerie sugli Oceani gli offrirono un materiale prezioso, che colmò le sue pagine e diventò la sostanza del suo mondo fantastico. In maniere diverse e con accenti differenti, ora idillici, ora, invece, cupi e tremendi, l’universo di marinai e di selvaggi sarebbe diventato lo scenario dominante delle sue opere. Nacquero testi come Typee e Omoo, Mardi e White-Jacket: un giornale di bordo, questo, apparso solo un anno prima di Moby Dick, che dimostra l’interesse non più per i primitivi e per la loro esistenza, quanto, piuttosto, per l’equipaggio di una nave, considerato un microcosmo rivelatore delle dinamiche che regolano la vita intera degli uomini.
Quando Melville affronta Moby Dick, mette precisamente al centro del suo testo la vita dell’equipaggio e il viaggio per mare: simbolo topico della vita degli uomini in mezzo agli eventi che li colpiscono. La vicenda di Moby Dick, se si può d’altra parte riassumere facilmente nelle sue linee essenziali, presenta una serie complicata di storie individuali e di aspetti eccentrici, che trasformano la forma del romanzo in un sistema composito di modalità narrative. Al racconto vero e proprio di Ismaele è premesso, per esempio, un corpus di citazioni, estratte da opere letterarie e non, che riguardano la balena, il suo nome e la sua presenza nell’immaginario umano. È il preludio di una tendenza che riapparirà più volte nel testo. Il racconto di Ismaele ingloba, infatti, capitoli di taglio scientifico e tecnico, che riguardano la natura dell’animale contro cui Achab combatte la sua tremenda battaglia. Sono sofisticati trattati di cetologia, con discussioni analitiche intorno alla classificazione di vari tipi di balena, o interventi che spiegano alcuni fenomeni marini. Tuttavia, anche in casi come questi, in cui la narrazione prende la via della disquisizione scientifica, il tema dell’opera irrompe prepotentemente. Le nozioni, esposte in una chiave tutta oggettiva e con una minuzia perfino pedante, all’improvviso si trasformano e diventano il segno di una seconda realtà, spirituale e mentale, che si nasconde dietro la nuda faccia del fenomeno. Questa potenza allegorica, d’altra parte, è il cuore del libro di Melville. Trasforma la caccia alla balena di un comandante maniaco, ossessionato da una sola idea, in un’«epica ontologica», dentro cui si gioca la partita infinita con il destino e con la morte. L’acqua - scrive Melville - «è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto».
Gli oggetti visibili sono solo «maschere di cartone», dietro le cui apparenze «qualcosa di sconosciuto sporge le sue fattezze». Moby Dick, come romanzo e come animale, è precisamente questa duplicità inscindibile di visibile e di invisibile, di materiale e di spirituale, che non si può mai del tutto sciogliere in una sicura equivalenza. Proprio in questo senso, è un’allegoria: polisemica, indeterminata, mobile. Su un ordito di avventure concrete si disegna, nello sviluppo del racconto, la trama di un’altra lotta, metafisica e spirituale, tra forze contrarie e irriducibili.
La stessa nave su cui si svolge l’intero viaggio di Achab e del suo stravagante esercito, il «Pequod», ha un aspetto doppio e allusivo. È una «nobile nave, ma in qualche modo una nave malinconica». È, forse, inevitabile che sia così, giacché «tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia». Su questo battello prendono posto uomini di natura, di razza e di carattere diverso. Ci sono tre capitani in seconda: Starbuck, che si affida alla ragionevolezza e alla misura per resistere all’orrore incombente; Stubb, coraggioso e perennemente spavaldo; Flask, ostinato e fanaticamente intrepido, che ritiene le balene null’altro che «una specie di topo, o sorcio d’acqua, ingigantito». Accanto a loro, ci sono i fiocinatori che devono attaccare la Balena Bianca. Anche in questo caso, coesistono, in un modo ancora più vistoso, tipologie diverse. C’è Quiqueg, un gigantesco indigeno dei mari del Sud, con il corpo interamente rivestito di tatuaggi; c’è Tashtego, pellerossa, e Deggu, nero africano. A questi tre va ancora aggiunto il misterioso e diabolico Fedallah.
Chi, naturalmente, tra tutti emerge è Achab. Motore dell’azione, egli è la volontà suprema, che unifica i comportamenti di tutti. «È un uomo grande, non è religioso e pare un dio; non parla molto, ma quando parla potete stare ad ascoltare. Achab è fuori dal comune, è stato all'università e in mezzo ai cannibali, è abituato a cose meravigliose più profonde del mare, ha piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene. Lui è Achab, e nell’antichità Achab era un re coronato». Come il Dio incontestato di questo mondo, vi infonde l’anima e ne sollecita gli impulsi. Porta sul suo corpo ferito il segno eterno del nemico, alla cui caccia ha ormai votato l’intera esistenza. Quella Balena Bianca, che deve essere scovata attraverso tutti i mari conosciuti e di cui bisogna intuire spostamenti e traiettorie, in una ricerca assillante ed esclusiva, è la sua ossessione: la ragione stessa dello stare al mondo. Perciò Achab non è semplicemente pazzo. Possiede una statura più grande, che lo trasforma in una specie di «ambiguo Faust» (Leslie Fiedler) proteso a infrangere tutti i limiti che gli si parano innanzi. Solo agli altri può apparire semplicemente matto. Al contrario, egli è «demoniaco». Incarnazione suprema dalla «pazzia impazzita». Per il capitano del «Pequod» la Balena Bianca è la figura di un’entità astratta. Acceso da questa furia, Achab «accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza dal tempo di Adamo».
Il romanzo di Melville assume, perciò, il respiro di un’epica sacra. Tutti i suoi lettori hanno sottolineato le corrispondenze volontarie che esso istituisce con la Bibbia, a cominciare dai nomi che accompagnano il susseguirsi dei fatti: Ismaele, ovviamente, e poi Giona, Elia, la Balena-Leviatano, per concludere naturalmente con Achab, l’empio re d’Israele, di cui i cani «leccarono il sangue». Cesare Pavese, a cui si deve una traduzione memorabile del testo di Melville, invitava a leggerlo tenendo a mente la Bibbia. Gli autori a cui Melville si richiama sono d’altra parte di per sé indicativi. Moby Dick, infatti, riecheggia Poe, riprende Hawthorne, guarda a Shakespeare.
Quando Moby Dick fu pubblicato, non ebbe nessun successo. Furono gli anni successivi a trasformare il libro in una di quelle «opere mondo» (Moretti), nel cui specchio un’intera cultura poteva trovare riflessi tutti i fantasmi, i terrori e i deliri del «lato oscuro della terra». L’uomo, per il creatore di Achab, dovrebbe assimilare le capacità della balena, restando, come il suo modello, caldo in mezzo al ghiaccio, partecipe del mondo senza appartenergli, freddo all’Equatore e con il sangue in circolazione al Polo. Ma questa aspirazione di equilibrio e di salvezza non può essere altro che un mito, astratto e irraggiungibile: «delle creature, quante poche sono grandi come le balene».
"Un film parlato"
la recensione di Roberto Silvestri
il manifesto 2.4.04
Un requiem molto laico per l'Europa
Un film parlato È il titolo del capolavoro imperfetto del cineasta Manoel de Oliveira che, su una nave da crociera, racconta le civiltà del mediterraneo, Grecia, Roma, Napoleone...
di ROBERTO SILVESTRI
Il re cattolico e teenager Sebastiano scomparve nella «battaglia dei tre sovrani», in Marocco, tanti secoli fa. Il mito lusitano racconta però che non morì per lama islamica e infedele. Semplicemente svanì. Ma, i portoghesi ne sono certi, tornerà in una giorno di nebbia in groppa al suo cavallo bianco e allora l'impero cristiano (tanto agognato, e non solo da Mel Gibson) sarà di nuovo forte e unito sotto il suo comando... Aspettando quel giorno bigio, e riflettendo attraverso le due o tre cose che sa, sulla storia secolare dell'umanità, il cineasta portoghese Manoel de Oliveira che il secolo di vita l'ha quasi raggiunto e dunque ricorda molto bene le cose di tanto tanto tempo fa, ha realizzato uno dei suoi capolavori, Un film parlato.
Che ci interessa ancora più degli altri perché, come il rock, è opera discutibile, imperfetta, piena di crepe, permeabile da dubbi, critiche, riserve... È infatti, questa cosa, una strana, inquietante, continua sorpresa. Quasi un film nazionalista, fiero e secessionista, comunque un'opera su: «perché il terrorismo islamico terrorizza tanto tutto l'occidente?» Risposta: è vero, la grande cultura araba del XII secolo curò il medioevo con massicce flebo di Aristotele e d'amor cortese, forse prefigurò perfino l'Illuminismo e la frenesia scientifica ma la sua colpa storica rimane la distruzione della «très grand bibliotéque» d'Alessandria d'Egitto...Bè, questa notizia è semplicemente falsa. Non fu il cristianissimo Cirillo a bruciare tutto? È una leggenda, un altro mito cristiano, quasi quanto quello del «re infante».
Ma i film di de Oliveira non sono mai pedagogici né realistici. Sono fiabe dell'immaginazione raccontate (e raccomandate) solo a un pubblico che faccia della «prassi» il proprio hobby. Ai lettori del manifesto questo film non dovrebbe sfuggire.
Il regista portense Manoel de Oliveira, 95 anni, con Un film parlato ha deciso di abbandonare la sua tradizionale e leggendaria agilità mentale, fisica e spirituale per inginocchiarsi, meno laico del solito, sul feretro della nostra civiltà. E pregare, a seconda della recezione, o perché resusciti più pura o perché scompaia (come sembra indicarci il finale insostenibile) per sempre. Il requiem in onore di Eurolandia (o ne è l'ironica, ma criptica, «marcia funebre per una marionetta»?) ha la forma di una lezione di storia (e d'arte e cultura) «on the road». Leonor Silveira fa Rosa Maria, docente universitaria di storia, e per metà film porta in piroscafo nel mediterraneo la figlioletta Maria Joana, e le racconta in stile Rossellini e con l'aiuto di connazionali gentili e charmant (Luis Miguel Cintra che fa se stesso) e pope greco-ortodossi, pescivendoli e libroni, la grandezza della cultura egiziana, fenicia, greca e romana, e come la rivoluzione francese e Napoleone seppero poi rielaborarla e renderla planetaria e borghese. Il fiume Tejo, e poi Ceuta/Marsiglia, Napoli/Pompei, Atene/Acropoli, Alessandria/Il Cairo, Istanbul euroasiatica sono gli approdi di questo viaggio al termine dell'apoteosi cristiana, finché seppe ben separarsi dall'eresia religiosa islamica il cui egualitarismo comunitario nuoceva troppo agli affari, non come quello puritano o quacchero transatlantico, e il cui dispotismo, anche ottomano, resta tutt'oggi schema tattico da principianti della scienza del controllo sociale e del profitto...
Poi, secondo tempo, il piroscafo prende la rotta del Mar Rosso e da lì, passando per il suq-solo-suq di Aden (e la regina di Saba? e la grandezza culturale dell'Islam? non ne sapremo nulla, mannaggia), si dirige a Bombay, dove la professoressa riabbraccerà il marito pilota di linea e i tre partiranno per una ancora più magnifica vacanza...L'ammiraglio del piroscafo, americano di origine polacca (John Malkovich), ha un lungo «quartetto a cena» con grandi dame: la manager francese, l'ex modella italiana Stefania Sandrelli e la attrice e cantante greca Irene Papas (non ci negherà un frammento dela sua arte canora) che sintetizzano, in un tavolo solo e con quattro lingue parlate simultaneamente, lo charme e l'orrore, il calore la tragedia, la grandezza e la ferocia dei due millenni incriminati oggi dai tre quarti del globo. Solo la lingua portoghese resta isolata e incompresa al tavolo, quando anche Leonor Silveira sarà ospite con la bimba, fiera del suo nuovo regalo, una bambola in chador. Altri i tragitti mentali e navali cantati da Camoes, quelli «Lusiadi», da Vasco da Gama in poi: Goa, l'Africa, il Brasile, Macao... Poco europea, più che europea vista la sua non indifferente tradizione schiavistica, la terra lusofona non sarà per caso, in alleanza con Lula, la carta segreta per raddrizzare i micidiali squilibri del mondo, con «stile manuelino»?
Un finale, imprevedibile e agghiacciante, risponde pessimisticamente a questa speranza. Come il re infante, anche Rosa Maria e Maria Joana, per mano di Al Quaeda, svaniranno nella nebbia... In nome del padre (la Grecia), del figlio (Roma), dello spirito santo (la rivoluzione francese). Amen (Bush jr.).
Un requiem molto laico per l'Europa
Un film parlato È il titolo del capolavoro imperfetto del cineasta Manoel de Oliveira che, su una nave da crociera, racconta le civiltà del mediterraneo, Grecia, Roma, Napoleone...
di ROBERTO SILVESTRI
Il re cattolico e teenager Sebastiano scomparve nella «battaglia dei tre sovrani», in Marocco, tanti secoli fa. Il mito lusitano racconta però che non morì per lama islamica e infedele. Semplicemente svanì. Ma, i portoghesi ne sono certi, tornerà in una giorno di nebbia in groppa al suo cavallo bianco e allora l'impero cristiano (tanto agognato, e non solo da Mel Gibson) sarà di nuovo forte e unito sotto il suo comando... Aspettando quel giorno bigio, e riflettendo attraverso le due o tre cose che sa, sulla storia secolare dell'umanità, il cineasta portoghese Manoel de Oliveira che il secolo di vita l'ha quasi raggiunto e dunque ricorda molto bene le cose di tanto tanto tempo fa, ha realizzato uno dei suoi capolavori, Un film parlato.
Che ci interessa ancora più degli altri perché, come il rock, è opera discutibile, imperfetta, piena di crepe, permeabile da dubbi, critiche, riserve... È infatti, questa cosa, una strana, inquietante, continua sorpresa. Quasi un film nazionalista, fiero e secessionista, comunque un'opera su: «perché il terrorismo islamico terrorizza tanto tutto l'occidente?» Risposta: è vero, la grande cultura araba del XII secolo curò il medioevo con massicce flebo di Aristotele e d'amor cortese, forse prefigurò perfino l'Illuminismo e la frenesia scientifica ma la sua colpa storica rimane la distruzione della «très grand bibliotéque» d'Alessandria d'Egitto...Bè, questa notizia è semplicemente falsa. Non fu il cristianissimo Cirillo a bruciare tutto? È una leggenda, un altro mito cristiano, quasi quanto quello del «re infante».
Ma i film di de Oliveira non sono mai pedagogici né realistici. Sono fiabe dell'immaginazione raccontate (e raccomandate) solo a un pubblico che faccia della «prassi» il proprio hobby. Ai lettori del manifesto questo film non dovrebbe sfuggire.
Il regista portense Manoel de Oliveira, 95 anni, con Un film parlato ha deciso di abbandonare la sua tradizionale e leggendaria agilità mentale, fisica e spirituale per inginocchiarsi, meno laico del solito, sul feretro della nostra civiltà. E pregare, a seconda della recezione, o perché resusciti più pura o perché scompaia (come sembra indicarci il finale insostenibile) per sempre. Il requiem in onore di Eurolandia (o ne è l'ironica, ma criptica, «marcia funebre per una marionetta»?) ha la forma di una lezione di storia (e d'arte e cultura) «on the road». Leonor Silveira fa Rosa Maria, docente universitaria di storia, e per metà film porta in piroscafo nel mediterraneo la figlioletta Maria Joana, e le racconta in stile Rossellini e con l'aiuto di connazionali gentili e charmant (Luis Miguel Cintra che fa se stesso) e pope greco-ortodossi, pescivendoli e libroni, la grandezza della cultura egiziana, fenicia, greca e romana, e come la rivoluzione francese e Napoleone seppero poi rielaborarla e renderla planetaria e borghese. Il fiume Tejo, e poi Ceuta/Marsiglia, Napoli/Pompei, Atene/Acropoli, Alessandria/Il Cairo, Istanbul euroasiatica sono gli approdi di questo viaggio al termine dell'apoteosi cristiana, finché seppe ben separarsi dall'eresia religiosa islamica il cui egualitarismo comunitario nuoceva troppo agli affari, non come quello puritano o quacchero transatlantico, e il cui dispotismo, anche ottomano, resta tutt'oggi schema tattico da principianti della scienza del controllo sociale e del profitto...
Poi, secondo tempo, il piroscafo prende la rotta del Mar Rosso e da lì, passando per il suq-solo-suq di Aden (e la regina di Saba? e la grandezza culturale dell'Islam? non ne sapremo nulla, mannaggia), si dirige a Bombay, dove la professoressa riabbraccerà il marito pilota di linea e i tre partiranno per una ancora più magnifica vacanza...L'ammiraglio del piroscafo, americano di origine polacca (John Malkovich), ha un lungo «quartetto a cena» con grandi dame: la manager francese, l'ex modella italiana Stefania Sandrelli e la attrice e cantante greca Irene Papas (non ci negherà un frammento dela sua arte canora) che sintetizzano, in un tavolo solo e con quattro lingue parlate simultaneamente, lo charme e l'orrore, il calore la tragedia, la grandezza e la ferocia dei due millenni incriminati oggi dai tre quarti del globo. Solo la lingua portoghese resta isolata e incompresa al tavolo, quando anche Leonor Silveira sarà ospite con la bimba, fiera del suo nuovo regalo, una bambola in chador. Altri i tragitti mentali e navali cantati da Camoes, quelli «Lusiadi», da Vasco da Gama in poi: Goa, l'Africa, il Brasile, Macao... Poco europea, più che europea vista la sua non indifferente tradizione schiavistica, la terra lusofona non sarà per caso, in alleanza con Lula, la carta segreta per raddrizzare i micidiali squilibri del mondo, con «stile manuelino»?
Un finale, imprevedibile e agghiacciante, risponde pessimisticamente a questa speranza. Come il re infante, anche Rosa Maria e Maria Joana, per mano di Al Quaeda, svaniranno nella nebbia... In nome del padre (la Grecia), del figlio (Roma), dello spirito santo (la rivoluzione francese). Amen (Bush jr.).
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