L'Unità 26.11.04
Centrosinistra
DILIBERTO: SONO PRONTO ALLA FEDERAZIONE CON BERTINOTTI
"Non ho la sindrome del divorziato, perciò sono pronto a fare una federazione insieme a Fausto Bertinotti". Oliviero Diliberto torna a lanciare la proposta di dar vita a una federazione di sinistra. "Se tutti coloro che non accettano la federazione democratica che va sotto il nome dell'Ulivo si uniranno insieme - spiega il segretario dei Comunisti italiani durante la trasmissione di Pierluigi Diaco "Servizio Pubblico", su Radio 24 - si può raggiungere anche il quindici per cento dei consensi: basta sommare il 2,5 che abbiamo preso noi alle ultime europee, lo stesso risultato che hanno fatto registrare i Verdi, il 6 per cento di Rifondazione, il 2,2 della lista di Occhetto e Di Pietro, oltre al peso che ha il correntone all'interno dei Ds". Nel progetto di Diliberto, "una forte confederazione di sinistra serve a spostare più a sinistra l'asse della coalizione guidata da Romano Prodi, perché sparpagliati conteremmo poco e certamente di meno di quanto accadrebbe se fossimo uniti". La conclusione: "Il mio partito è a disposizione per questo progetto".
Né i Verdi, né Rifondazione, né esponenti del correntone diessino hanno risposto ieri alla proposta rilanciata dal leader dei Comunisti italiani (un altro appello lo aveva fatto qualche settimana fa durante una conferenza stampa a Montecitorio).
Diliberto, dai microfoni di Radio 24, si è detto anche "del tutto disinteressato alla questione del nome" della coalizione del centrosinistra: "Quando hanno deciso di chiamare la coalizione Gad non ci hanno informato perché sapevano che tanto ci andava bene. La vera questione di cui dobbiamo parlare è il programma".
Fortemente negativo è invece il segretario del Pdci sull'idea di svolgere delle elezioni primarie per incoronare Prodi leader della coalizione di centrosinistra: "Se le vogliono fare le faremo ma la mia opinione sulle primarie è nota. Non servono a nulla e rischiano soltanto di danneggiare l'immagine di Prodi". Secondo il leader dei Comunisti italiani anche questa, come quella del nome, è una discussione che "non appassiona gli italiani".
Dice invece: "Voglio capire dai miei alleati cosa intendono fare della riforma Moratti, delle casse dello Stato che verranno ancor di più devastate dal presunto taglio delle tasse del centrodestra, del fatto che Berlusconi vuol prendere i soldi dalle pensioni di invalidità e se gli italiani lo sapessero scenderebbero tutti in piazza. Ecco - conclude Diliberto - queste sono le questioni che dobbiamo affrontare".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 26 novembre 2004
sinistra
... e Bertinotti risponde
Corriere della Sera 26.11.04
BERTINOTTI: SPETTACOLO IRRITANTE, INSENSATA L'USCITA DI RUTELLI
intervista di Monica Guerzoni
ROMA - Gad o Alleanza per Fausto Bertinotti pari sono, purché il centrosinistra la smetta di arrovellarsi attorno alle sigle e cominci a costruire l'alternativa a Berlusconi. Lo schieramento che ha ritrovato l'unità sotto la leadership di Romano Prodi, ricorda il segretario di Rifondazione, un nome lo aveva scelto l'11 ottobre scorso. E allora perche perder tempo in esercitazioni linguistiche invece di approfittare "di questo straordinario momento di mobilitazione nel Paese?".
Ce lo spieghi lei, segretario.
"E' una discussione insensata a cui non intendo partecipare. Provo un fastidio intellettuale per lo scivolare in un dibattito stucchevole, francamente irritante di fronte all'enormità del problema sociale, economico e politico del Paese. Noi un nome lo avevamo trovato. Avevamo proposto coalizione democratica, Prodi aveva preferito Grande alleanza democratica e mi parve cogliesse l'essenziale. Alleanza per alludere a un processo ampio, complesso, aperto a una pluralità di soggetti. E democratica come primo lineamento di programma di uno schieramento che vuole ricostruire la democrazia".
Finché Rutelli non ha detto quelche molti pensavano, cioè che l'acronimo Gad non funziona.
"Una discussione sul niente. Rutelli non ha sollevato la questione in un dibattito, mentre l'unica volta che se ne è parlato insieme, l'11 ottobre, nessuno aveva fatto obiezioni. Rimettere in discussione un nome già ripetutamente usato mi pare davvero insensato".
Quindi Alleanza, e pazienza per il partito di Fini...
"Mi pare un problema puramente estetico, un'alleanza puo essere alleanza di Satana o alleanza di Dio. Chi alimenta questo dibattito fa del male alla costruzione di una alternativa e non mi pare giusto offrire al Paese uno spettacolo così poco interessante. Invece di discutere su terreni impropri e devianti affrontiamo il problema di programma dell'alleanza, decidiamo un metodo in base al quale si sciolgono le controversie. Quanto al nome, basta sedersi attorno a un tavolo e la soluzione si trova".
Mastella e i Verdi si dicono pronti ad estendere il più fortunato "Ulivo" a tutto il centrosinistra, e lei?
"E elementare che non potrei mai accettare un nome già usato in un altro contesto e per un altro contenitore"
Le interessa la federazione proposta da Diliberto?
"Abbiamo gia scartato l'ipotesi in radice. Non siamo interessati a fare l'imitazione della, peraltro non fortunata, esperienza della federazione su cui si cimentano i riformisti. La sinistra di alternativa deve nascere con altre modalità e ci stiamo lavorando, assieme a forze della cultura e della società civile, dentro un processo di riforma della politica e non aggregando forze politiche così come sono".
Il primo vertice della Gad è stato l'11 ottobre, il secondo si farà lunedì. Nell'intervallo la polemica su primarie e Regionali e ora la questione del nome. Il suo bilancio sull'efficacia dell'opposizione?
"L'intenzione di ricostruire la democrazia contro l'idea neoautoritaria di Berlusconi era una buona partenza, ma ora no, l'opposizione non è efficace affatto. Gli manca quella capacità di coesione attorno a obiettivi di lotta, una opposizione valida oggi lancerebbe proposte alternative su materie fiscali e distribuzione del reddito e metterebbe all'ordine del giorno il problema della crisi di governo".
OGGI (venerdì 26.04) AL PICCOLO ELISEO:
APCOM
PRC/ BERTINOTTI: GAD ORA INADEGUATA. E NOI NON SAREMO SERVILI
26/11/2004 - 19:00
Ora non difendere l'esistente, ma riprogettare democrazia
Roma, 26 nov. (Apcom) - «Puntiamo sulla desistenza della Gad, ma la Gad è al momento totalmente inadeguata a rispondere a questo governo». Con queste parole il leader del Prc, Fausto Bertinotti, ha infiammato la platea del Piccolo Eliseo, in occasione della presentazione del suo documento congressuale "Alternativa di società", che ha riscosso il 59% dei consensi nello scorso Comitato politico nazionale del partito. «Bisogna alzare il livello di mobilitazione», così Bertinotti esorta il centrosinistra, che lui si ostina a chiamare "Grande alleanza democratica" completamente indifferente al dibattito sul cambiamento del nome della coalizione in "Alleanza". Bertinotti insiste: «Bisogna mettere in luce la crisi di questo governo e del suo blocco sociale e arrivare rapidamente ad elezioni anticipate».
Davanti alle "controriforme" del governo Berlusconi, dietro le quali, secondo Bertinotti, c'è la «ratio della cancellazione delle autonomie istituzionali», non è necessaria «una difesa dell'esistente, ma una riprogettazione della democrazia», motivo per il quale Bertinotti insiste sul nome di Grande alleanza democratica. «Sul programma di governo del centrosinistra vorrei che ci capissimo», ha detto il segretario del Prc, questa volta rivolgendosi direttamente a quanti nel suo partito contestano la sua linea (saranno quattro i documenti alternativi al suo che verranno presentati al VI Congresso nazionale del partito a marzo). «Un programma è anche un accordo tra forze politiche che governano - ha detto - ma quello che è importante è fondare una costituente programmatica che viva nelle esperienze sociali, politiche e istituzionali del Paese e costruisca un'alternativa di società».
Per Bertinotti "programma" vuol dire «abrogazione totale della legge Moratti ma non per tornare alla Berlinguer», vuol dire «abrogazione della legge 30 e della Bossi-Fini», no agli Ogm, no a guerra e terrorismo, no al neoliberismo. Quindi ha incalzato: «L'operazione fatta sulle tasse dal governo ci induce ad uno scatto contro quello che qualcuno ha definito "terrorismo dei ricchi"».
Virando l'intervento dal palco, su un pulpito contrassegnato da bandiera rossa con falce e martello in bassorilievo (dietro il manifesto congressuale, accanto bandiere di partito e della pace), Bertinotti ha offerto il suo affondo: «Il cuore del nostro congresso non è il governo, ma come si costruisce un'alternativa di società per abbattere Berlusconi. Anche la pratica di governo cui potremmo essere chiamati non deve essere considerata come pratica servile rispetto alla costruzione di un'alternativa di società». Immancabili i riferimenti ai "cavalli di battaglia" della nuova linea: «La non-violenza non è una fissazione o uno sfizio, ma l'approdo di passaggi significativa della nostra politica. Senza Genova, senza la critica allo stalinismo, senza la convinzione sulla non-violenza saremmo una inutile formazione ortodossa. Naturalmente - ha concluso - nessuno ci garantisce che si possa arrivare a costruire una alternativa di società andando al governo. Ma, come diceva Gramsci, "Provare e riprovare è compito fondamentale di un rivoluzionario". Abbiamo rotto con Prodi in passato, questo partito è lo stesso di allora e ora ci vuole riprovare».
BERTINOTTI: SPETTACOLO IRRITANTE, INSENSATA L'USCITA DI RUTELLI
intervista di Monica Guerzoni
ROMA - Gad o Alleanza per Fausto Bertinotti pari sono, purché il centrosinistra la smetta di arrovellarsi attorno alle sigle e cominci a costruire l'alternativa a Berlusconi. Lo schieramento che ha ritrovato l'unità sotto la leadership di Romano Prodi, ricorda il segretario di Rifondazione, un nome lo aveva scelto l'11 ottobre scorso. E allora perche perder tempo in esercitazioni linguistiche invece di approfittare "di questo straordinario momento di mobilitazione nel Paese?".
Ce lo spieghi lei, segretario.
"E' una discussione insensata a cui non intendo partecipare. Provo un fastidio intellettuale per lo scivolare in un dibattito stucchevole, francamente irritante di fronte all'enormità del problema sociale, economico e politico del Paese. Noi un nome lo avevamo trovato. Avevamo proposto coalizione democratica, Prodi aveva preferito Grande alleanza democratica e mi parve cogliesse l'essenziale. Alleanza per alludere a un processo ampio, complesso, aperto a una pluralità di soggetti. E democratica come primo lineamento di programma di uno schieramento che vuole ricostruire la democrazia".
Finché Rutelli non ha detto quelche molti pensavano, cioè che l'acronimo Gad non funziona.
"Una discussione sul niente. Rutelli non ha sollevato la questione in un dibattito, mentre l'unica volta che se ne è parlato insieme, l'11 ottobre, nessuno aveva fatto obiezioni. Rimettere in discussione un nome già ripetutamente usato mi pare davvero insensato".
Quindi Alleanza, e pazienza per il partito di Fini...
"Mi pare un problema puramente estetico, un'alleanza puo essere alleanza di Satana o alleanza di Dio. Chi alimenta questo dibattito fa del male alla costruzione di una alternativa e non mi pare giusto offrire al Paese uno spettacolo così poco interessante. Invece di discutere su terreni impropri e devianti affrontiamo il problema di programma dell'alleanza, decidiamo un metodo in base al quale si sciolgono le controversie. Quanto al nome, basta sedersi attorno a un tavolo e la soluzione si trova".
Mastella e i Verdi si dicono pronti ad estendere il più fortunato "Ulivo" a tutto il centrosinistra, e lei?
"E elementare che non potrei mai accettare un nome già usato in un altro contesto e per un altro contenitore"
Le interessa la federazione proposta da Diliberto?
"Abbiamo gia scartato l'ipotesi in radice. Non siamo interessati a fare l'imitazione della, peraltro non fortunata, esperienza della federazione su cui si cimentano i riformisti. La sinistra di alternativa deve nascere con altre modalità e ci stiamo lavorando, assieme a forze della cultura e della società civile, dentro un processo di riforma della politica e non aggregando forze politiche così come sono".
Il primo vertice della Gad è stato l'11 ottobre, il secondo si farà lunedì. Nell'intervallo la polemica su primarie e Regionali e ora la questione del nome. Il suo bilancio sull'efficacia dell'opposizione?
"L'intenzione di ricostruire la democrazia contro l'idea neoautoritaria di Berlusconi era una buona partenza, ma ora no, l'opposizione non è efficace affatto. Gli manca quella capacità di coesione attorno a obiettivi di lotta, una opposizione valida oggi lancerebbe proposte alternative su materie fiscali e distribuzione del reddito e metterebbe all'ordine del giorno il problema della crisi di governo".
OGGI (venerdì 26.04) AL PICCOLO ELISEO:
APCOM
PRC/ BERTINOTTI: GAD ORA INADEGUATA. E NOI NON SAREMO SERVILI
26/11/2004 - 19:00
Ora non difendere l'esistente, ma riprogettare democrazia
Roma, 26 nov. (Apcom) - «Puntiamo sulla desistenza della Gad, ma la Gad è al momento totalmente inadeguata a rispondere a questo governo». Con queste parole il leader del Prc, Fausto Bertinotti, ha infiammato la platea del Piccolo Eliseo, in occasione della presentazione del suo documento congressuale "Alternativa di società", che ha riscosso il 59% dei consensi nello scorso Comitato politico nazionale del partito. «Bisogna alzare il livello di mobilitazione», così Bertinotti esorta il centrosinistra, che lui si ostina a chiamare "Grande alleanza democratica" completamente indifferente al dibattito sul cambiamento del nome della coalizione in "Alleanza". Bertinotti insiste: «Bisogna mettere in luce la crisi di questo governo e del suo blocco sociale e arrivare rapidamente ad elezioni anticipate».
Davanti alle "controriforme" del governo Berlusconi, dietro le quali, secondo Bertinotti, c'è la «ratio della cancellazione delle autonomie istituzionali», non è necessaria «una difesa dell'esistente, ma una riprogettazione della democrazia», motivo per il quale Bertinotti insiste sul nome di Grande alleanza democratica. «Sul programma di governo del centrosinistra vorrei che ci capissimo», ha detto il segretario del Prc, questa volta rivolgendosi direttamente a quanti nel suo partito contestano la sua linea (saranno quattro i documenti alternativi al suo che verranno presentati al VI Congresso nazionale del partito a marzo). «Un programma è anche un accordo tra forze politiche che governano - ha detto - ma quello che è importante è fondare una costituente programmatica che viva nelle esperienze sociali, politiche e istituzionali del Paese e costruisca un'alternativa di società».
Per Bertinotti "programma" vuol dire «abrogazione totale della legge Moratti ma non per tornare alla Berlinguer», vuol dire «abrogazione della legge 30 e della Bossi-Fini», no agli Ogm, no a guerra e terrorismo, no al neoliberismo. Quindi ha incalzato: «L'operazione fatta sulle tasse dal governo ci induce ad uno scatto contro quello che qualcuno ha definito "terrorismo dei ricchi"».
Virando l'intervento dal palco, su un pulpito contrassegnato da bandiera rossa con falce e martello in bassorilievo (dietro il manifesto congressuale, accanto bandiere di partito e della pace), Bertinotti ha offerto il suo affondo: «Il cuore del nostro congresso non è il governo, ma come si costruisce un'alternativa di società per abbattere Berlusconi. Anche la pratica di governo cui potremmo essere chiamati non deve essere considerata come pratica servile rispetto alla costruzione di un'alternativa di società». Immancabili i riferimenti ai "cavalli di battaglia" della nuova linea: «La non-violenza non è una fissazione o uno sfizio, ma l'approdo di passaggi significativa della nostra politica. Senza Genova, senza la critica allo stalinismo, senza la convinzione sulla non-violenza saremmo una inutile formazione ortodossa. Naturalmente - ha concluso - nessuno ci garantisce che si possa arrivare a costruire una alternativa di società andando al governo. Ma, come diceva Gramsci, "Provare e riprovare è compito fondamentale di un rivoluzionario". Abbiamo rotto con Prodi in passato, questo partito è lo stesso di allora e ora ci vuole riprovare».
copyright @ 2004 APCOM
all'ombra di un genio
Antonio Salieri, «devoto a Dio, all'imperatore, alla musica»
Panorama 26.11.04
Antonio Salieri
Devoto a Dio, all'imperatore e alla musica. Uomo di potere irascibile e ossessionato dal più giovane rivale. Studiosi e musicologi austriaci svelano un enigma musicale
CHI ERA DAVVERO L'ANTI MOZART
di Stefania Berbenni
Il foglietto era finito in uno dei tanti faldoni racchiusi nell'armadio, in una stanza adibita ad archivio, piccola, luminosa, di fianco alla classe dove viene insegnato "il buon italiano" ai bambini di Vienna. Vi si legge: "La messa di morto per me sarà eseguita nella chiesa italiana in questa umile maniera. Il sacerdote sortirà per legger la sua messa di stile basso". Lo scritto prosegue con indicazioni dettagliate sui vari brani del Requiem. Firmato Antonio Salieri.
Il foglietto è sotto i miei occhi e anche la chiesa lì citata, severa e imponente con una riproduzione delI'Ultima cena leonardesca, un groviglio di scale che la fa asspmigliare a un castello gotico e un altare senza fronzoli. Si chiama Minontenkirche e per un editto di Giuseppe II è di proprietà della Congregazione italiana Madonna della Neve. Salieri era uno degli affiliati, come lo furono Metastasio, Da Ponte,Vivaldi. Un onorato socio, sempre ricordato, anche poche sere fa con quel Requiem composto di sua mano, di "umile maniera" come confessa il documento ritrovato dì recente, preziosa testimonianza per i musicologi.
Nel Settecento gli italiani residenti a Vienna erano 7 mila, tanto da giustificare la pubblicazione dì una Gazzetta di Vienna anche quella conservata nel singolare archivio. "Un'organizzazione laica che ha come sede una chiesa" racconta Sergio Valentinì, l'attuale prefetto della Congregazione.
Bizzarro sistema di matrioske nel secolo dei Lumi: Vienna stava al centro della politica e della cultura europea, dentro c'era la Minoritenkirche la quale conteneva la Congregazione italiana, forte e temuta, e nella sua pancia si trovavano non pochi potenti dei tempi.
Salieri, membro dell'allora direttivo, era fra i più quotati. Per 36 anni quel signore severo nei modi come nei lineamenti fu il grande burattinaio della cultura musicale viennese: teneva in mano i destini di compositori, orchestrali, teatranti. E aspiranti tali. Un Richelieu delle note, perché, per 36 anni appunto, fu maestro di cappella a corte, carica che non solo comportava il dirigere l'orchestra imperiale nelle occasioni pìu varie, dalla messa ai concerti, ma selezionare opere e musicisti, assegnare incarichi e danari, stabilire "ciò che era consono" per il pubblico viennese.
Eppure, fatta eccezione per musicologi e colti non fasulli, Salieri era un illustre sconosciuto fino al 1984, anno di nascita di un film travolgente e contestato, Amadeus di Milos Forman. Da allora non valse più la frase di eco manzoniana "Salieri, chi era costui?", perché il maestro di cappella divenne popolare quanto il coprotagonista del film, Wolfgang Amadeus Mozart (ma lui è un genio). Rifacendosi a una pièce di Peter Schaffer del 1979, che a sua volta citava uno spettacolo di Alexander Puškin del 1830, Mozart e Salieri, Forman sostenne la tesi dell'assassinio per avvelenamento: geloso, frustrato, conscio della superiorità artistica di Mozart, Salieri si sarebbe sbarazzato del rivale.
Prove documentali non esistono e il primo a ricordarlo è Walter Brauneis, affiliato della Congregazione italiana, studioso di Salieri: "La rivalità fra i due è provata, ad alimentarla erano anche i circoli teatrali di allora. Le rispettive produzioni teatrali erano in aperta concorrenza. Non mancano testimonianze eccellenti sulla diceria di un possibile assassinio: penso a Beethoven, Rossini. Ma la domanda è: perché? Per screditare Salieri, ormai vecchio e troppo potente. A corte, in molti volevano sostituirlo".
Dalla balaustra superiore della Cappella di corte la visione prospettica aiuta a immaginare cosa volesse dire fare musica, qui, nel Settecento: sotto l'imperatore, la famiglia, i notabili, sopra Salieri che dirigeva l'orchestra. Musica sacra, naturalmente, spesso da lui stesso composta. Un fedele, metodico, devoto musicista della corona, sempre elegante, sempre compunto, gestore ferreo delle risorse, severo con chiunque, se stesso compreso. Uwe Christian Harrer è l'equivalente di Salieri ai giorni nostri: sta dentro il palazzo, gestisce l'orchestra, il coro, l'archivio. Ha accompagnato Panorama nelle stanze che furono dell'illustre predecessore, in chiesa, sulla balaustra. Dice: "Era un musicista ma anche un burocrate, serviva Dio e l'imperatore. Era un religioso e un impiegato. Desiderava essere pio e grande compositore". La genialità era toccata a Mozart, invece. "Salieri se ne accorse. Capì anche che era sopravvissuto alla sua musica, invecchiata più di lui. Lui dimenticato, l'altro eternizzato dalle partiture scritte" ricorda Walter Brauneis.
Poche le incisioni salieriane, rare le rappresentazioni e i testi. Per fortuna Amadeus ha solleticato nuova curiosità fra gli studiosi. Quale sarà l'effetto della scelta di Riccardo Muti, che ha voluto L'Europa riconosciuta ad apertura di stagione nel 7 dicembre piu importante per il teatro, quello del ritorno al Piermarini dopo il lungo restauro? L'opera fu rappresentata una sola volta, nel 1778, per inaugurare la Scala. Nessun direttore la incise, esiste solo il libretto. Quanto si sa del Salieri musicista? "Fu drammatico e potente nelle opere, trattenuto nella musica sacra" risponde Uwe Christian Harrer. Semplificando: Salieri è l'ordine, spesso stupefacente, perfetto, Mozart il disordine, il primo si muove dentro i geneneri,s erio, buffo, applica la Riforma gluckiana e si rivela conoscitore di composizione e contrappunto. E' anche un eccellente insegnante: tra i suoi allievi ci sono Beethoven, Liszt, Schubert, Hummel. L'altro scompagina, spiazza, inventa, ride, si prende in giro, va dentro l'umanità dei personaggi, sacrificati da Salieri in schemi precostituiti. Ordine e disordine... Uno ha paura di ciò che non è codificato, l'altro delle strutture rigide.
Si dice che Salieri fosse spesso irascibile, irrequieto e che soffrisse di improvvisi attacchi dl pianto. "Era astemio, ma si faceva mandare dei dolcetti da Legnago, "capezzoli di Venere", perché era goloso" ricorda Sergio Valentini "aiutò orfani, mantenne la disciplina. Era monogamo, integro".
Quando scrisse L'Europa riconosciuta, Salieri aveva 28 anni, Mozart 22. Era stato Christoph Willibald Gluck a proporlo in sua vece per l'apertura del nuovo teatro; non aveva fatto il nome di Mozart per evitare che il mondo si accorgesse che esisteva un compositore molto pìu bravo di lui? C'e una scena indimenticabile in Amadeus: Mozart sta morendo, Salieri gli è a fianco, freneticamente scrive le note che "l'avversario" gli detta. E' il Requiem mozartiano, un capolavoro (rimasto incompiuto). Niente a che vedere con quello da eseguire nella chiesa italiana in questa umile maniera".
Antonio Salieri
Devoto a Dio, all'imperatore e alla musica. Uomo di potere irascibile e ossessionato dal più giovane rivale. Studiosi e musicologi austriaci svelano un enigma musicale
CHI ERA DAVVERO L'ANTI MOZART
di Stefania Berbenni
Il foglietto era finito in uno dei tanti faldoni racchiusi nell'armadio, in una stanza adibita ad archivio, piccola, luminosa, di fianco alla classe dove viene insegnato "il buon italiano" ai bambini di Vienna. Vi si legge: "La messa di morto per me sarà eseguita nella chiesa italiana in questa umile maniera. Il sacerdote sortirà per legger la sua messa di stile basso". Lo scritto prosegue con indicazioni dettagliate sui vari brani del Requiem. Firmato Antonio Salieri.
Il foglietto è sotto i miei occhi e anche la chiesa lì citata, severa e imponente con una riproduzione delI'Ultima cena leonardesca, un groviglio di scale che la fa asspmigliare a un castello gotico e un altare senza fronzoli. Si chiama Minontenkirche e per un editto di Giuseppe II è di proprietà della Congregazione italiana Madonna della Neve. Salieri era uno degli affiliati, come lo furono Metastasio, Da Ponte,Vivaldi. Un onorato socio, sempre ricordato, anche poche sere fa con quel Requiem composto di sua mano, di "umile maniera" come confessa il documento ritrovato dì recente, preziosa testimonianza per i musicologi.
Nel Settecento gli italiani residenti a Vienna erano 7 mila, tanto da giustificare la pubblicazione dì una Gazzetta di Vienna anche quella conservata nel singolare archivio. "Un'organizzazione laica che ha come sede una chiesa" racconta Sergio Valentinì, l'attuale prefetto della Congregazione.
Bizzarro sistema di matrioske nel secolo dei Lumi: Vienna stava al centro della politica e della cultura europea, dentro c'era la Minoritenkirche la quale conteneva la Congregazione italiana, forte e temuta, e nella sua pancia si trovavano non pochi potenti dei tempi.
Salieri, membro dell'allora direttivo, era fra i più quotati. Per 36 anni quel signore severo nei modi come nei lineamenti fu il grande burattinaio della cultura musicale viennese: teneva in mano i destini di compositori, orchestrali, teatranti. E aspiranti tali. Un Richelieu delle note, perché, per 36 anni appunto, fu maestro di cappella a corte, carica che non solo comportava il dirigere l'orchestra imperiale nelle occasioni pìu varie, dalla messa ai concerti, ma selezionare opere e musicisti, assegnare incarichi e danari, stabilire "ciò che era consono" per il pubblico viennese.
Eppure, fatta eccezione per musicologi e colti non fasulli, Salieri era un illustre sconosciuto fino al 1984, anno di nascita di un film travolgente e contestato, Amadeus di Milos Forman. Da allora non valse più la frase di eco manzoniana "Salieri, chi era costui?", perché il maestro di cappella divenne popolare quanto il coprotagonista del film, Wolfgang Amadeus Mozart (ma lui è un genio). Rifacendosi a una pièce di Peter Schaffer del 1979, che a sua volta citava uno spettacolo di Alexander Puškin del 1830, Mozart e Salieri, Forman sostenne la tesi dell'assassinio per avvelenamento: geloso, frustrato, conscio della superiorità artistica di Mozart, Salieri si sarebbe sbarazzato del rivale.
Prove documentali non esistono e il primo a ricordarlo è Walter Brauneis, affiliato della Congregazione italiana, studioso di Salieri: "La rivalità fra i due è provata, ad alimentarla erano anche i circoli teatrali di allora. Le rispettive produzioni teatrali erano in aperta concorrenza. Non mancano testimonianze eccellenti sulla diceria di un possibile assassinio: penso a Beethoven, Rossini. Ma la domanda è: perché? Per screditare Salieri, ormai vecchio e troppo potente. A corte, in molti volevano sostituirlo".
Dalla balaustra superiore della Cappella di corte la visione prospettica aiuta a immaginare cosa volesse dire fare musica, qui, nel Settecento: sotto l'imperatore, la famiglia, i notabili, sopra Salieri che dirigeva l'orchestra. Musica sacra, naturalmente, spesso da lui stesso composta. Un fedele, metodico, devoto musicista della corona, sempre elegante, sempre compunto, gestore ferreo delle risorse, severo con chiunque, se stesso compreso. Uwe Christian Harrer è l'equivalente di Salieri ai giorni nostri: sta dentro il palazzo, gestisce l'orchestra, il coro, l'archivio. Ha accompagnato Panorama nelle stanze che furono dell'illustre predecessore, in chiesa, sulla balaustra. Dice: "Era un musicista ma anche un burocrate, serviva Dio e l'imperatore. Era un religioso e un impiegato. Desiderava essere pio e grande compositore". La genialità era toccata a Mozart, invece. "Salieri se ne accorse. Capì anche che era sopravvissuto alla sua musica, invecchiata più di lui. Lui dimenticato, l'altro eternizzato dalle partiture scritte" ricorda Walter Brauneis.
Poche le incisioni salieriane, rare le rappresentazioni e i testi. Per fortuna Amadeus ha solleticato nuova curiosità fra gli studiosi. Quale sarà l'effetto della scelta di Riccardo Muti, che ha voluto L'Europa riconosciuta ad apertura di stagione nel 7 dicembre piu importante per il teatro, quello del ritorno al Piermarini dopo il lungo restauro? L'opera fu rappresentata una sola volta, nel 1778, per inaugurare la Scala. Nessun direttore la incise, esiste solo il libretto. Quanto si sa del Salieri musicista? "Fu drammatico e potente nelle opere, trattenuto nella musica sacra" risponde Uwe Christian Harrer. Semplificando: Salieri è l'ordine, spesso stupefacente, perfetto, Mozart il disordine, il primo si muove dentro i geneneri,s erio, buffo, applica la Riforma gluckiana e si rivela conoscitore di composizione e contrappunto. E' anche un eccellente insegnante: tra i suoi allievi ci sono Beethoven, Liszt, Schubert, Hummel. L'altro scompagina, spiazza, inventa, ride, si prende in giro, va dentro l'umanità dei personaggi, sacrificati da Salieri in schemi precostituiti. Ordine e disordine... Uno ha paura di ciò che non è codificato, l'altro delle strutture rigide.
Si dice che Salieri fosse spesso irascibile, irrequieto e che soffrisse di improvvisi attacchi dl pianto. "Era astemio, ma si faceva mandare dei dolcetti da Legnago, "capezzoli di Venere", perché era goloso" ricorda Sergio Valentini "aiutò orfani, mantenne la disciplina. Era monogamo, integro".
Quando scrisse L'Europa riconosciuta, Salieri aveva 28 anni, Mozart 22. Era stato Christoph Willibald Gluck a proporlo in sua vece per l'apertura del nuovo teatro; non aveva fatto il nome di Mozart per evitare che il mondo si accorgesse che esisteva un compositore molto pìu bravo di lui? C'e una scena indimenticabile in Amadeus: Mozart sta morendo, Salieri gli è a fianco, freneticamente scrive le note che "l'avversario" gli detta. E' il Requiem mozartiano, un capolavoro (rimasto incompiuto). Niente a che vedere con quello da eseguire nella chiesa italiana in questa umile maniera".
Stefania Rossini (lei!)
su Donald W. Winnicott
L'Espresso 26.11.04
Il seno della mamma. Il matrimonio bianco. Fino agli incesti "psicoanalitici". Un biografo racconta i segreti di Winnicott, tra i più amati e geniali seguaci di Freud.
TROPPE DONNE SUL LETTINO
di Stefania Rossini
Sigmund Freud diffidava talmente dei suoi futuri biografi da decidersi a distruggere gran parte delle sue carte private per difendersi dal loro sguardo intrusivo. Donald W. Winnicott non se ne è curato. Uomo aperto e comunicativo, teorico prolifico e generoso, ha lasciato tante tracce di se da far pensare che non temesse costruzioni postume sul suo percorso intellettuale e sulle sue vicende private. Chissà se oggi, dopo aver letto alcune pagine della monumentale biografia che gli ha dedicato Robert Rodman ("Winnicott. Vita e opere", Cortina editore, tra pochi giorni in libreria), se ne pentirebbe.
Rodman è uno psicoanalista che opera in California, precisamente a Beverly Hills, e ha un occhio, diciamo così, psico-hollywoodiano su come si racconta una storia. Pur avendo già curato con grande rigore una prestigiosa edizione critica delle lettere di Winnicott, deve aver deciso che una biografia è un'altra cosa e che il pepe del particolare scabroso e dell'interpretazione sagace aiutano a narrare meglio una vita. Forse ha ragione, perché il volume che ha scritto si legge d'un fiato nonostante la mole quasi eccessiva della documentazione. Ma è anche vero che, uscito in Usa appena un anno fa, il libro ha diviso i winnicottiani sparsi per il mondo. Accolto con entusiasmo da molti cultori appassionati delle sue opere, come la filosofa statunitense Martha Nussbaum, non ha convinto tutti gli psicoanalisti che si rifanno al suo pensiero, che sono stati infastiditi dall'insistenza interpretativa di alcuni aspetti privati e intimi della sua vita.
Tra questi spicca il riferimento frequente, quasi un filo narrativo, alla sua presunta impotenza sessuale. Un matrimonio mai consumato, ma portato avanti per 26 anni con una donna palesemente disturbata, la prima moglie Alice Taylor, è il punto di leva che serve a Rodman per incursioni psicologiche in un'infanzia con troppe donne (una mamma che non "accettava di eccitarsi mentre lo allattava", due sorelle rimaste sempre vergini, una tata), in un rapporto freddo con il padre e in problemi di identità legati addirittura all'aspetto. A 9 anni il piccolo Donald si sarebbe guardato allo specchio decidendo di essere "troppo carino", mentre da adulto la sua voce sarebbe rimasta "femminea". Secondo Rodman, Winnicott troverà pace, e forse anche appagamento sessuale, solo nell'incontro con la seconda moglie, Clare Britton, sposata nel 1952. Si deciderà a lasciare la prima moglie dopo sette anni di relazione clandestina con Clare, dopo aver aspettato la morte del padre novantaquattrenne alla cui figura non riusciva a contrapporsi e dopo un primo grave infarto.
Tutta roba documentata, intendiamoci, o comunque basata, in un lavoro di ricerca durato più di vent'anni, su centinaia di lettere, di carte e di colloqui con persone che erano state vicine al grande analista. Come la moglie Clare che, prima di morire nell'84, aveva consegnato al biografo tutta la corrispondenza, o come Marion Milner (la celebre autrice di "Le mani del dio vivente") che ha incontrato più volte Rodman, dandogli numerosi suggerimenti.
Il contatto con i superstiti di quella grande fioritura teorica che, tra gli anni Trenta e i Sessanta, ha fatto di Londra la culla della nuova psicoanalisi, forma del resto la parte più interessante del libro. E ci porta di peso all'interno di quell'intreccio di umori e di persone che qui si dipana in tutta la sua intricata geografia.
Con particolari spesso inediti, c'è il rapporto con la grande maestra Melanie Klein: folgorazione iniziale, collaborazione e poi un distacco così netto che fece dire a Winnicott: "Quando comincio a parlare con Melanie della sua teoria della prima infanza, mi sento come uno che parla di colori con un daltonico". Intanto Melanie era stata il suo supervisore clinico, mentre lui era l'analista del figlio di lei, Eric, e concludeva la sua seconda analisi con Joan Rivier, intima della Klein. Si può aggiungere che Donald analizzò la Milner mentre lei si occupava della famosa paziente Susan, per anni ospitata generosamente a casa Winnicott, e così per molti altri episodi noti e non noti. Incesti psicoanalitici, si direbbe oggi. Ma Rodman ha l'accortezza di ricordarci che, tra pionieri ancora intenti a definire gli strumento per l'esplorazione dell'inconscio, i criteri etici odierni sarebbero anacronistici.
Quando arrivarono gli anni '50, la biografia ha un salto di qualità e la lente si concentra sulla smagliante produzione di Winnicott che, con il suo secondo matrimonio, sembra aver trovato anche la definitiva vena creativa. Restano palesi antipatie personali del biografo, come quella verso Masud Khan, allievo e grande amico di Winnicott, che Rodman detesta più di quanto il controverso psicoanalista morto pazzo, ma autore di pagine meravigliose, si meriti. Si aggiungono note su altri protagonisti della scena psicoanalitica inglese, come Wilfred Bion, ma la forza delle nuove idee di Winnicott sullo sviluppo infantile occupa pienamente la descrizione dei suoi ultimi decenni di vita.
Pediatra di formazione, Winnicott non aveva mai abbandonato il bamabino come oggetto centrale del proprio interesse speculativo. Per questo non si era mai chiuso del tutto in uno studio: aveva fatto lezioni alla radio, lavorato nelle istituzioni ed era anche stato in un'organizzazione che si prendeva cura di bambini difficili allontanati da Londra durante la guerra. Più tardi aveva persino aperto una casa accanto alla propria dove ospitava quegli adolescenti in difficoltà che, a suo parere, non dovevano vivere con genitori intrusivo o persecutori. La sua attenzione teorica si concentrò sulle fasi precoci dello sviluppo e sul rapporto madre-bambino, lasciando in eredità alcuni concetti originali di cui la psicoanalisi non può più fare a meno.
La più conosciuta è la teorizzazione della "mamma sufficientemente buona", cioè quella mamma capace di adattarsi totalmente ai bisogni del bambino, ma anche capace poi di ritirarsi, facendolo passare dall'illusione onnipotente alla graduale disillusione che ne farà un individuo separato. La più difficile è "l'angoscia del crollo", vicina a un sentire terrorifico impensabile, che spesso i pazienti in analisi temono al punto da preferire a essa il buio della psicosi. Però, dice Winnicott, si tratta di un'angoscia già vissuta in un'epoca della prima infanzia in cui non esisteva ancora la capacità di sostenerne l'impatto.
Ma l'idea più affascinante resta quella dell'"area transizionale" occupata nell'infanzia da quel ponte che il bambino costruisce tra la fusione con la madre e il mondo esterno, e che nell'età adulta diventa il luogo dell'esperienza culturale.
Tra gli aneddoti che Rodman dedica all'argomento c'è una curiosa lettera che Winnicott, ormai settantenne, indirizzò ad Arthur Miller. Voleva sapere se il commediografo avesse tratto dalla lettura dei suoi lavori l'idea degli oggetti transizionali presenti in "Jane's blanket". E aggiunse: "Spesso mi sono chiesto se anche Schulz che ha descritto quel personaggio dei Peanuts con un oggetto transizionale abbia letto ciò che ho scritto". Miller gli rispose freddamente che ci aveva pensato da solo, mentre l'autore di Linus e della sua coperta non si fece vivo. Scrive Rodman che qui "il narcisismo di Winnicott è piuttosto evidente: voleva avere una prova di quanto i suoi contributi avessero modificato il modo delle persone di osservare la realtà". Ma non si accorge che ha già risposto lui stesso in 500 pagine che, sia pure con andamento controverso, raccontano la vita semplice e il pensiero smagliante dell'uomo che ha innovato come forse nessun altro la dottrina di Freud.
Il seno della mamma. Il matrimonio bianco. Fino agli incesti "psicoanalitici". Un biografo racconta i segreti di Winnicott, tra i più amati e geniali seguaci di Freud.
TROPPE DONNE SUL LETTINO
di Stefania Rossini
Sigmund Freud diffidava talmente dei suoi futuri biografi da decidersi a distruggere gran parte delle sue carte private per difendersi dal loro sguardo intrusivo. Donald W. Winnicott non se ne è curato. Uomo aperto e comunicativo, teorico prolifico e generoso, ha lasciato tante tracce di se da far pensare che non temesse costruzioni postume sul suo percorso intellettuale e sulle sue vicende private. Chissà se oggi, dopo aver letto alcune pagine della monumentale biografia che gli ha dedicato Robert Rodman ("Winnicott. Vita e opere", Cortina editore, tra pochi giorni in libreria), se ne pentirebbe.
Rodman è uno psicoanalista che opera in California, precisamente a Beverly Hills, e ha un occhio, diciamo così, psico-hollywoodiano su come si racconta una storia. Pur avendo già curato con grande rigore una prestigiosa edizione critica delle lettere di Winnicott, deve aver deciso che una biografia è un'altra cosa e che il pepe del particolare scabroso e dell'interpretazione sagace aiutano a narrare meglio una vita. Forse ha ragione, perché il volume che ha scritto si legge d'un fiato nonostante la mole quasi eccessiva della documentazione. Ma è anche vero che, uscito in Usa appena un anno fa, il libro ha diviso i winnicottiani sparsi per il mondo. Accolto con entusiasmo da molti cultori appassionati delle sue opere, come la filosofa statunitense Martha Nussbaum, non ha convinto tutti gli psicoanalisti che si rifanno al suo pensiero, che sono stati infastiditi dall'insistenza interpretativa di alcuni aspetti privati e intimi della sua vita.
Tra questi spicca il riferimento frequente, quasi un filo narrativo, alla sua presunta impotenza sessuale. Un matrimonio mai consumato, ma portato avanti per 26 anni con una donna palesemente disturbata, la prima moglie Alice Taylor, è il punto di leva che serve a Rodman per incursioni psicologiche in un'infanzia con troppe donne (una mamma che non "accettava di eccitarsi mentre lo allattava", due sorelle rimaste sempre vergini, una tata), in un rapporto freddo con il padre e in problemi di identità legati addirittura all'aspetto. A 9 anni il piccolo Donald si sarebbe guardato allo specchio decidendo di essere "troppo carino", mentre da adulto la sua voce sarebbe rimasta "femminea". Secondo Rodman, Winnicott troverà pace, e forse anche appagamento sessuale, solo nell'incontro con la seconda moglie, Clare Britton, sposata nel 1952. Si deciderà a lasciare la prima moglie dopo sette anni di relazione clandestina con Clare, dopo aver aspettato la morte del padre novantaquattrenne alla cui figura non riusciva a contrapporsi e dopo un primo grave infarto.
Tutta roba documentata, intendiamoci, o comunque basata, in un lavoro di ricerca durato più di vent'anni, su centinaia di lettere, di carte e di colloqui con persone che erano state vicine al grande analista. Come la moglie Clare che, prima di morire nell'84, aveva consegnato al biografo tutta la corrispondenza, o come Marion Milner (la celebre autrice di "Le mani del dio vivente") che ha incontrato più volte Rodman, dandogli numerosi suggerimenti.
Il contatto con i superstiti di quella grande fioritura teorica che, tra gli anni Trenta e i Sessanta, ha fatto di Londra la culla della nuova psicoanalisi, forma del resto la parte più interessante del libro. E ci porta di peso all'interno di quell'intreccio di umori e di persone che qui si dipana in tutta la sua intricata geografia.
Con particolari spesso inediti, c'è il rapporto con la grande maestra Melanie Klein: folgorazione iniziale, collaborazione e poi un distacco così netto che fece dire a Winnicott: "Quando comincio a parlare con Melanie della sua teoria della prima infanza, mi sento come uno che parla di colori con un daltonico". Intanto Melanie era stata il suo supervisore clinico, mentre lui era l'analista del figlio di lei, Eric, e concludeva la sua seconda analisi con Joan Rivier, intima della Klein. Si può aggiungere che Donald analizzò la Milner mentre lei si occupava della famosa paziente Susan, per anni ospitata generosamente a casa Winnicott, e così per molti altri episodi noti e non noti. Incesti psicoanalitici, si direbbe oggi. Ma Rodman ha l'accortezza di ricordarci che, tra pionieri ancora intenti a definire gli strumento per l'esplorazione dell'inconscio, i criteri etici odierni sarebbero anacronistici.
Quando arrivarono gli anni '50, la biografia ha un salto di qualità e la lente si concentra sulla smagliante produzione di Winnicott che, con il suo secondo matrimonio, sembra aver trovato anche la definitiva vena creativa. Restano palesi antipatie personali del biografo, come quella verso Masud Khan, allievo e grande amico di Winnicott, che Rodman detesta più di quanto il controverso psicoanalista morto pazzo, ma autore di pagine meravigliose, si meriti. Si aggiungono note su altri protagonisti della scena psicoanalitica inglese, come Wilfred Bion, ma la forza delle nuove idee di Winnicott sullo sviluppo infantile occupa pienamente la descrizione dei suoi ultimi decenni di vita.
Pediatra di formazione, Winnicott non aveva mai abbandonato il bamabino come oggetto centrale del proprio interesse speculativo. Per questo non si era mai chiuso del tutto in uno studio: aveva fatto lezioni alla radio, lavorato nelle istituzioni ed era anche stato in un'organizzazione che si prendeva cura di bambini difficili allontanati da Londra durante la guerra. Più tardi aveva persino aperto una casa accanto alla propria dove ospitava quegli adolescenti in difficoltà che, a suo parere, non dovevano vivere con genitori intrusivo o persecutori. La sua attenzione teorica si concentrò sulle fasi precoci dello sviluppo e sul rapporto madre-bambino, lasciando in eredità alcuni concetti originali di cui la psicoanalisi non può più fare a meno.
La più conosciuta è la teorizzazione della "mamma sufficientemente buona", cioè quella mamma capace di adattarsi totalmente ai bisogni del bambino, ma anche capace poi di ritirarsi, facendolo passare dall'illusione onnipotente alla graduale disillusione che ne farà un individuo separato. La più difficile è "l'angoscia del crollo", vicina a un sentire terrorifico impensabile, che spesso i pazienti in analisi temono al punto da preferire a essa il buio della psicosi. Però, dice Winnicott, si tratta di un'angoscia già vissuta in un'epoca della prima infanzia in cui non esisteva ancora la capacità di sostenerne l'impatto.
Ma l'idea più affascinante resta quella dell'"area transizionale" occupata nell'infanzia da quel ponte che il bambino costruisce tra la fusione con la madre e il mondo esterno, e che nell'età adulta diventa il luogo dell'esperienza culturale.
Tra gli aneddoti che Rodman dedica all'argomento c'è una curiosa lettera che Winnicott, ormai settantenne, indirizzò ad Arthur Miller. Voleva sapere se il commediografo avesse tratto dalla lettura dei suoi lavori l'idea degli oggetti transizionali presenti in "Jane's blanket". E aggiunse: "Spesso mi sono chiesto se anche Schulz che ha descritto quel personaggio dei Peanuts con un oggetto transizionale abbia letto ciò che ho scritto". Miller gli rispose freddamente che ci aveva pensato da solo, mentre l'autore di Linus e della sua coperta non si fece vivo. Scrive Rodman che qui "il narcisismo di Winnicott è piuttosto evidente: voleva avere una prova di quanto i suoi contributi avessero modificato il modo delle persone di osservare la realtà". Ma non si accorge che ha già risposto lui stesso in 500 pagine che, sia pure con andamento controverso, raccontano la vita semplice e il pensiero smagliante dell'uomo che ha innovato come forse nessun altro la dottrina di Freud.
Simona Maggiorelli, su Avvenimenti in edicola
pensiero debole e canone occidentale
Da Avvenimenti n 47 in edicola
La fine del pensiero debole
A Palermo un convegno per discutere sugli ultimi trent’anni di letteratura
di Simona Maggiorelli
A cavalcioni del nostro eurocentrismo, per secoli, ci siamo guardati allo specchio sicuri che il canone occidentale – sostanziosa sfilza di grandi libri, classici, testi irrinunciabili, da Omero a Dante , a Shakespeare fino ai grandi del Novecento europeo - dominasse a buon diritto la scena del mondo. Questo fino a quando, da regioni sterminate e lontane come la Cina, dal continente africano, dai Caraibi, dall’India si sono levate voci letterarie, diversissime fra loro, e molte di donna, che non si facevano complessi di parlare forte e chiaro, di praticare un proprio stile originale, con una vitalità di scrittura che li portava improvvisamente a erompere al centro della scena. Miracoli della globalizzazione e del mercato editorale. Anche. Ma quando queste voci si sono dimostrate durature e hanno cominciato a fioccare Nobel cinesi, arabi, africani, qualche nostra certezza ha utilmente preso a vacillare. Da granitico che era, “il canone occidentale”,(la definizione è del critico Harold Bloom) ha cominciato a scricchiolare, a diventare “ canone oscillante”. Come recita il titolo del convegno che riunisce a Palermo il gotha della critica letteraria per riflettere su quello che è avvenuto negli ultimi 30 anni, con l’esplodere del mercato editoriale, con il boom di internet e nuovi media, con circuiti sempre più diversificati e accelerati di informazioni. Un tema vastissimo su cui, fino al 27 novembre nella palermitana villa Zito, si confrontano generazioni diverse di studiosi: da illustri italianisti come Cesare Segre, a docenti universitari come Remo Ceserani, Giulio Ferroni e Romano Luperini, tutti e tre autori, con metodi e risultati differenti, di importanti manuali. E ancora, (ma la lista sarebbe ancora lunga) docenti e scrittori eccentrici come Salvatore Silvano Nigro e critici militanti come Alfonso Berardinelli e Filippo La Porta . Il clou, nella serata finale, con l’intervento di George Steiner, uno dei pochi critici letterari che, di fatto, piace a uno pubblico ampio, al di là di quello specialistico.
Maschio, bianco e morto
Solo con questo tipo di “phisique du rôle”, attaccano femministe, afro e omosessuali d’Oltreoceano è possibile aspirare ad entrare nell’olimpo della Letteratura. La polemica sul canone occidentale, prima ancora della teorizzazione di Bloom, è nata lì nelle università americane, dove, dice Remo Ceserani, “ in assenza di un sistema scolastico unificato, senza un ministero della pubblica istruzione e con una scuola media inferiore molto carente, nei college, specie quelli liberal, gli studenti leggono i cosiddetti grandi libri, considerati essenziali per avere una formazione di base: dalla Bibbia, ai poemi omerici, fino a Proust. Inclusi Dante e il Principe di Machiavelli”. Una bizzarra collana di perle d’Occidente verso la quale, afroamericani, ispanici , man mano che la società americana è diventata sempre più stratificata, hanno cominciato a sentirsi sempre più a disagio.
“Una polemica che specie nei cultural studies sociologici a volte ha assunto toni eccessivi”, smorza i toni Giulio Ferroni, che a Palermo parla di “ Decanonizzazioni”. “Un titolo ironico - dice - per l’uso smodato che si fa del concetto di canone, soprattutto secondo il modello americano. La parte più radical pretende che studiare una monaca del 500 sia più importante che studiare Shakespeare”. “Teorie da giardino chiuso, fiori di campus universitari”, incalza il professore. “Che non hanno nulla a che fare con le dinamiche che dominano la società americana, che purtroppo sono ben altre, con momenti di fondamentalismo reazionario molto più arretrati rispetto ai presunti valori borghesi rappresentati dalla grande letteratura”. Per poi aggiungere provocatorio:”A forza di contestare la tradizione letteraria occidentale si rischia di fare il gioco del nemico. Riscoprire il valore alternativo della grande tradizione letteraria che produce valori di tolleranza, senso del diverso, dialogo, apertura,credo serva più di qualunque forma culturale parziale e locale”. Un esempio? “ Basta pensare a certe culture regionali, addirittura inventate, come quella dei Celti utilizzata dalla Lega. E c’è gente che ci crede”.
Inno all’autore di culto
Ma la contestazione del canone, secondo Ferroni produce anche un altro fenomeno tipico dei nostri tempi: Il cult. “Mentre i valori del canone vengono attaccati - dice il professore - compaiono i culti: sacche che si rifiutano di essere universali, chiuse in se stesse. Il fatto che ci sia l’autore di culto, la musica di culto, il cinema di culto fa sì che i culti si ignorino a vicenda, quello di cui abbiamo bisogno, invece, è di un terreno di dialogo. L’universalismo è l’unica strada per creare apertura”. L’origine del cosiddetto “cult”, del resto, non è difficile da individuare: come altri fenomeni che dominano il mercato editoriale, in primo luogo, è il frutto di un’operazione di marketing. “Uno dei fenomeni più vistosi dell’ultima trentina di anni- dice Romano Luperini - è stata la cesura che si è venuta a creare alla metà degli anni Settanta”. In Italia coincise con il passaggio dalla generazione dei Calvino, Volponi, Sciascia, Paolini, da una generazione di scrittori intellettuali in grado di occuparsi di cultura ma anche di politica, a due generazioni del cosiddetto post moderno: quella di Tabucchi e Tondelli e quella più giovane dei cannibali. “Queste due generazioni - sottolinea Luperini - hanno avuto un rapporto molto diverso con il pubblico. Nel frattempo l’unica mediazione è diventata l’editore. Manca ormai quasi totalmente la mediazione rappresentata da gruppi, da riviste, dalla critica. Il rapporto autore consumo è mediato solo dall’industria culturale, gli autori sono solo sul mercato o tuttalpiù si riuniscono in clan per ragioni di visibilità non per ragioni di poetica, manifesti e battaglie comuni”. Senza contare il cambiamento profondo avvenuto nelle case editrici, “dove i redattori culturali non si chiamano più Pavese, Vittorini, Calvino- ricorda Luperini - ma sono persone che lanciano libri come qualsiasi altro prodotto”. E ancora considerando che sono in buona parte le case editrici a pilotare come vengono rimodellate forme e confini del canone letterario, contribuendo a ridisegnarne la galassia.
In fondo a via Boccaccio
“Le antologie sono un fenomeno particolare - racconta Ceserani - un po’ come lo stradario, a suo modo una forma di canonizzazione. Il criterio risorgimentale fa sì che anche oscuri poeti si trovino in centro. Via Carducci è quasi sempre centrale. Dante è al centro, quasi mai Machiavelli. A Bologna è oltre la tangenziale. In un sistema italiano fortemente religioso ha sempre avuto poca fortuna - dice il professore che in città insegna Letterature comparate -. Boccaccio ha una stranissima stradina senza sfondo, perché Boccaccio è un po’ boccacesco e quindi un po’ pericoloso”. Il meccanismo dello stradario è simile a quello delle antologie. “ Sono fortemente conservative, chi è entrato è difficile che ne esca – dice Ceserani -. Mentre entrarci è complicato. Le antologie sono basate su altre antologie e si trascinano una dentro l’altra. E’ un’operazione di oscillazione del canone. Naturalmente ogni tanto qualcuno dice basta cambiamo l’antologia, le scelte”. E nel fare le scelte fondamentale resta sempre la prospettiva. “In un momento di integrazione europea -dice Luperini - sarebbe importante che gli strumenti che contribuiscono alla formazione del canone: programmi scolastici, manuali, antologie, fossero almeno aperti a uno sguardo europeo”. Uno sguardo allargato che già , per esempio, farebbe cadere a picco le quotazioni di Alfieri e Parini, che fuori da un ottica risorgimentale hanno poco senso, mentre per restare al Settecento, aumenterebbero moltissimo quelle di Goldoni. Un movimento verso una sprovincializzazione della cultura nostrana che, è evidente, cozzano vistosamente contro la riforma Moratti, una riforma di tipo nazionalistico, regionalistico, tradizionalistico”.
Briciole di post moderno
”Ma c’è una novità in questo quadro - assicura Luperini- gli studenti universitari non ne possono più dell’ilare nihilismo degli anni scorsi, s’impegnano. E’ la fine del pensiero debole, delle filosofie nihilistiche o ontologiche per cui interessarsi di problemi politico culturali sarebbe chiacchera come diceva Heidegger. Un nihilismo - continua il professore - che nelle università negli ultimi vent’anni ha preso il posto delle filosofie cosiddette essenzialistiche come marxismo e psicoanalisi e che poi è stato speso per colpire ogni forma di impegno, finendo per fare il gioco di Berlusconi”. Oggi insomma, questa cultura appare sempre più inadeguata rispetto alla nuova situazione storica. “La cabala, l’”indecidibile”, questa cultura oggi non regge più - dice Luperini - se ne sono accorti anche i loro teorici che hanno nel frattempo hanno cambiato filosofia”. E con punta acida: “Certo stupisce che nessuno di loro , a cominciare da Gianni Vattimo, abbia sentito il bisogno di fare la minima autocritica”. Un segnale di leggera ripresa, secondo il docente senese si scorgerebbe anche nella produzione letteraria, nell’ultimo Balestrini, ma anche in Nove e Ammanniti. E ci sarebbe tanto più in poesia con libri come quello di Ferrari, e Benedetti, “ tutto fuor che post moderni”. Più cauto il giudizio di Ceserani che con la sua solita bonomia abbozza: “Non ho mai creduto che la caduta del muro abbia cambiato il mondo o che lo abbia fatto l’11 settembre. I processi sono più lunghi, le grosse trasformazioni non avvengono in un giorno, quello che vedo intorno è una società molto globalizzata con pochissimo slancio modernista per cui non ci sono molti progetti di cambiamento del mondo” E in letteratura? “Un po’ di energie in giro ci sono: c’è molto sperimentalismo, anche se un po’ a vuoto. Di solito non sono così pessimista, ma noto poca libertà e creatività. Su tutto hanno una forte prevalenza delle leggi del mercato”.
La fine del pensiero debole
A Palermo un convegno per discutere sugli ultimi trent’anni di letteratura
di Simona Maggiorelli
A cavalcioni del nostro eurocentrismo, per secoli, ci siamo guardati allo specchio sicuri che il canone occidentale – sostanziosa sfilza di grandi libri, classici, testi irrinunciabili, da Omero a Dante , a Shakespeare fino ai grandi del Novecento europeo - dominasse a buon diritto la scena del mondo. Questo fino a quando, da regioni sterminate e lontane come la Cina, dal continente africano, dai Caraibi, dall’India si sono levate voci letterarie, diversissime fra loro, e molte di donna, che non si facevano complessi di parlare forte e chiaro, di praticare un proprio stile originale, con una vitalità di scrittura che li portava improvvisamente a erompere al centro della scena. Miracoli della globalizzazione e del mercato editorale. Anche. Ma quando queste voci si sono dimostrate durature e hanno cominciato a fioccare Nobel cinesi, arabi, africani, qualche nostra certezza ha utilmente preso a vacillare. Da granitico che era, “il canone occidentale”,(la definizione è del critico Harold Bloom) ha cominciato a scricchiolare, a diventare “ canone oscillante”. Come recita il titolo del convegno che riunisce a Palermo il gotha della critica letteraria per riflettere su quello che è avvenuto negli ultimi 30 anni, con l’esplodere del mercato editoriale, con il boom di internet e nuovi media, con circuiti sempre più diversificati e accelerati di informazioni. Un tema vastissimo su cui, fino al 27 novembre nella palermitana villa Zito, si confrontano generazioni diverse di studiosi: da illustri italianisti come Cesare Segre, a docenti universitari come Remo Ceserani, Giulio Ferroni e Romano Luperini, tutti e tre autori, con metodi e risultati differenti, di importanti manuali. E ancora, (ma la lista sarebbe ancora lunga) docenti e scrittori eccentrici come Salvatore Silvano Nigro e critici militanti come Alfonso Berardinelli e Filippo La Porta . Il clou, nella serata finale, con l’intervento di George Steiner, uno dei pochi critici letterari che, di fatto, piace a uno pubblico ampio, al di là di quello specialistico.
Maschio, bianco e morto
Solo con questo tipo di “phisique du rôle”, attaccano femministe, afro e omosessuali d’Oltreoceano è possibile aspirare ad entrare nell’olimpo della Letteratura. La polemica sul canone occidentale, prima ancora della teorizzazione di Bloom, è nata lì nelle università americane, dove, dice Remo Ceserani, “ in assenza di un sistema scolastico unificato, senza un ministero della pubblica istruzione e con una scuola media inferiore molto carente, nei college, specie quelli liberal, gli studenti leggono i cosiddetti grandi libri, considerati essenziali per avere una formazione di base: dalla Bibbia, ai poemi omerici, fino a Proust. Inclusi Dante e il Principe di Machiavelli”. Una bizzarra collana di perle d’Occidente verso la quale, afroamericani, ispanici , man mano che la società americana è diventata sempre più stratificata, hanno cominciato a sentirsi sempre più a disagio.
“Una polemica che specie nei cultural studies sociologici a volte ha assunto toni eccessivi”, smorza i toni Giulio Ferroni, che a Palermo parla di “ Decanonizzazioni”. “Un titolo ironico - dice - per l’uso smodato che si fa del concetto di canone, soprattutto secondo il modello americano. La parte più radical pretende che studiare una monaca del 500 sia più importante che studiare Shakespeare”. “Teorie da giardino chiuso, fiori di campus universitari”, incalza il professore. “Che non hanno nulla a che fare con le dinamiche che dominano la società americana, che purtroppo sono ben altre, con momenti di fondamentalismo reazionario molto più arretrati rispetto ai presunti valori borghesi rappresentati dalla grande letteratura”. Per poi aggiungere provocatorio:”A forza di contestare la tradizione letteraria occidentale si rischia di fare il gioco del nemico. Riscoprire il valore alternativo della grande tradizione letteraria che produce valori di tolleranza, senso del diverso, dialogo, apertura,credo serva più di qualunque forma culturale parziale e locale”. Un esempio? “ Basta pensare a certe culture regionali, addirittura inventate, come quella dei Celti utilizzata dalla Lega. E c’è gente che ci crede”.
Inno all’autore di culto
Ma la contestazione del canone, secondo Ferroni produce anche un altro fenomeno tipico dei nostri tempi: Il cult. “Mentre i valori del canone vengono attaccati - dice il professore - compaiono i culti: sacche che si rifiutano di essere universali, chiuse in se stesse. Il fatto che ci sia l’autore di culto, la musica di culto, il cinema di culto fa sì che i culti si ignorino a vicenda, quello di cui abbiamo bisogno, invece, è di un terreno di dialogo. L’universalismo è l’unica strada per creare apertura”. L’origine del cosiddetto “cult”, del resto, non è difficile da individuare: come altri fenomeni che dominano il mercato editoriale, in primo luogo, è il frutto di un’operazione di marketing. “Uno dei fenomeni più vistosi dell’ultima trentina di anni- dice Romano Luperini - è stata la cesura che si è venuta a creare alla metà degli anni Settanta”. In Italia coincise con il passaggio dalla generazione dei Calvino, Volponi, Sciascia, Paolini, da una generazione di scrittori intellettuali in grado di occuparsi di cultura ma anche di politica, a due generazioni del cosiddetto post moderno: quella di Tabucchi e Tondelli e quella più giovane dei cannibali. “Queste due generazioni - sottolinea Luperini - hanno avuto un rapporto molto diverso con il pubblico. Nel frattempo l’unica mediazione è diventata l’editore. Manca ormai quasi totalmente la mediazione rappresentata da gruppi, da riviste, dalla critica. Il rapporto autore consumo è mediato solo dall’industria culturale, gli autori sono solo sul mercato o tuttalpiù si riuniscono in clan per ragioni di visibilità non per ragioni di poetica, manifesti e battaglie comuni”. Senza contare il cambiamento profondo avvenuto nelle case editrici, “dove i redattori culturali non si chiamano più Pavese, Vittorini, Calvino- ricorda Luperini - ma sono persone che lanciano libri come qualsiasi altro prodotto”. E ancora considerando che sono in buona parte le case editrici a pilotare come vengono rimodellate forme e confini del canone letterario, contribuendo a ridisegnarne la galassia.
In fondo a via Boccaccio
“Le antologie sono un fenomeno particolare - racconta Ceserani - un po’ come lo stradario, a suo modo una forma di canonizzazione. Il criterio risorgimentale fa sì che anche oscuri poeti si trovino in centro. Via Carducci è quasi sempre centrale. Dante è al centro, quasi mai Machiavelli. A Bologna è oltre la tangenziale. In un sistema italiano fortemente religioso ha sempre avuto poca fortuna - dice il professore che in città insegna Letterature comparate -. Boccaccio ha una stranissima stradina senza sfondo, perché Boccaccio è un po’ boccacesco e quindi un po’ pericoloso”. Il meccanismo dello stradario è simile a quello delle antologie. “ Sono fortemente conservative, chi è entrato è difficile che ne esca – dice Ceserani -. Mentre entrarci è complicato. Le antologie sono basate su altre antologie e si trascinano una dentro l’altra. E’ un’operazione di oscillazione del canone. Naturalmente ogni tanto qualcuno dice basta cambiamo l’antologia, le scelte”. E nel fare le scelte fondamentale resta sempre la prospettiva. “In un momento di integrazione europea -dice Luperini - sarebbe importante che gli strumenti che contribuiscono alla formazione del canone: programmi scolastici, manuali, antologie, fossero almeno aperti a uno sguardo europeo”. Uno sguardo allargato che già , per esempio, farebbe cadere a picco le quotazioni di Alfieri e Parini, che fuori da un ottica risorgimentale hanno poco senso, mentre per restare al Settecento, aumenterebbero moltissimo quelle di Goldoni. Un movimento verso una sprovincializzazione della cultura nostrana che, è evidente, cozzano vistosamente contro la riforma Moratti, una riforma di tipo nazionalistico, regionalistico, tradizionalistico”.
Briciole di post moderno
”Ma c’è una novità in questo quadro - assicura Luperini- gli studenti universitari non ne possono più dell’ilare nihilismo degli anni scorsi, s’impegnano. E’ la fine del pensiero debole, delle filosofie nihilistiche o ontologiche per cui interessarsi di problemi politico culturali sarebbe chiacchera come diceva Heidegger. Un nihilismo - continua il professore - che nelle università negli ultimi vent’anni ha preso il posto delle filosofie cosiddette essenzialistiche come marxismo e psicoanalisi e che poi è stato speso per colpire ogni forma di impegno, finendo per fare il gioco di Berlusconi”. Oggi insomma, questa cultura appare sempre più inadeguata rispetto alla nuova situazione storica. “La cabala, l’”indecidibile”, questa cultura oggi non regge più - dice Luperini - se ne sono accorti anche i loro teorici che hanno nel frattempo hanno cambiato filosofia”. E con punta acida: “Certo stupisce che nessuno di loro , a cominciare da Gianni Vattimo, abbia sentito il bisogno di fare la minima autocritica”. Un segnale di leggera ripresa, secondo il docente senese si scorgerebbe anche nella produzione letteraria, nell’ultimo Balestrini, ma anche in Nove e Ammanniti. E ci sarebbe tanto più in poesia con libri come quello di Ferrari, e Benedetti, “ tutto fuor che post moderni”. Più cauto il giudizio di Ceserani che con la sua solita bonomia abbozza: “Non ho mai creduto che la caduta del muro abbia cambiato il mondo o che lo abbia fatto l’11 settembre. I processi sono più lunghi, le grosse trasformazioni non avvengono in un giorno, quello che vedo intorno è una società molto globalizzata con pochissimo slancio modernista per cui non ci sono molti progetti di cambiamento del mondo” E in letteratura? “Un po’ di energie in giro ci sono: c’è molto sperimentalismo, anche se un po’ a vuoto. Di solito non sono così pessimista, ma noto poca libertà e creatività. Su tutto hanno una forte prevalenza delle leggi del mercato”.
http://www.rifondazione.it/vm/cs/2004/0411231529.htm
Partito della Rifondazione Comunista
comunicato stampa
del 23 novembre 2004 ore 15.29
BERTINOTTI OGGI PRESENTA
IL DOCUMENTO CONGRESSUALE
Venerdì 26 novembre alle ore 16.30, il segretario nazionale di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti presenterà il documento “l’alternativa di società” in vista del VI congresso nazionale del Prc che si terrà dal 3 al 6 marzo.
L’iniziativa, che sarà introdotta dalla segretaria della federazione di Roma del Prc, Maria Cristina Perugia si terrà presso il teatro Piccolo Eliseo in Via Nazionale, 183 a Roma.
Partito della Rifondazione Comunista
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del 23 novembre 2004 ore 15.29
BERTINOTTI OGGI PRESENTA
IL DOCUMENTO CONGRESSUALE
Venerdì 26 novembre alle ore 16.30, il segretario nazionale di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti presenterà il documento “l’alternativa di società” in vista del VI congresso nazionale del Prc che si terrà dal 3 al 6 marzo.
L’iniziativa, che sarà introdotta dalla segretaria della federazione di Roma del Prc, Maria Cristina Perugia si terrà presso il teatro Piccolo Eliseo in Via Nazionale, 183 a Roma.
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