lunedì 13 giugno 2005

l'opinione del
prof. MASSIMO FAGIOLI
su "Liberazione" di sabato 11.6

(seppure con un refuso...)

una segnalazione di Annalina Ferrante, Carlo Patrignani e numerose altre compagne e compagni


Liberazione 11.6.05, pagina 6
POLITICA
REFERENDUM
SEVERINO E FAGIOLI:
ANDREMO A VOTARE PER 4 SÌ


Andare a votare è un dovere civico e poi votare quattro sì è il modo più giusto e corretto per contrastare una legge assurda e ostile per la donna ed il rapporto uomo - donna. É questa l'opinione dei due maggiori pensatori viventi: Emanuele Severino, il filosofo dell'"Essere" protagonista nel lontano 1969 della clamorosa espulsione dall'Università cattolica di Milano e Massimo Fagioli lo psichiatra dell'Analisi collettiva espulso nel 1976 dalla Società italiana di psicoanalisi.
«Andrò a votare e voterò quattro sì: lo Stato deve togliersi di mezzo nei rapporti privati e addirittura intimi e in particolare nel rapporto uomo - donna» dichiara Emanuele Severino. Il filosofo mette in chiaro due cose: «la legge è sempre il frutto di compromessi pratici e politici» e quindi «l'aspetto politico non è il prevalente, il più importante: certo che la laicità dello Stato va tutelata. Le motivazioni non sono dunque politiche. «La Chiesa è per l'astensione? Io non la condivido ma - precisa Severino - ha una sua legittimità.
Per lo psichiatra Massimo Fagioli «La vita umana inizia con la nascita e questo va legato ad un discorso di trasformazione: è per lo stimolo luminoso che c'è l'attivazione cerebrale che mette in moto la respirazione, trasformando la circolazione». È con la nascita che «si forma il pensiero, la caratteristica - nota lo psichiatra - esclusivamente umana».


questo articolo è pubblicato anche sul blog della
Libreria Amore e Psiche
raggiungibile all'indirizzo:
http://www.amorepsichelibreria.splinder.com/
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anoressia

La Provincia 13.6.05
Teenager nel mirino Anoressia «sponsorizzata» su Internet

UDINE Numerosi siti web che incoraggiano l'anoressia tra le adolescenti si stanno diffondendo su Internet, rischiando di far passare per «moda» quella che è ormai universalmente riconosciuta quale grave malattia. Lo ha denunciato in una nota il vicepresidente del Comitato nazionale di garanzia Internet e minori, Daniele Damele. La «moda di Ana», diminutivo usato nei siti per definire l'anoressia - secondo quanto riferito da Damele - viene dagli Stati Uniti ma si sta rapidamente diffondendo grazie alla rete, rischiando di dar vita a un vero e proprio «movimento». Oltre a riproporre falsi modelli di bellezza, i siti in questione si spingono a proporre campi estivi in cui si insegna a non mangiare e a vomitare e la vendita on-line di farmaci stimolanti il vomito. Forum e chat connessi sono poi infarciti di infausti consigli su come diventare anoressiche. «Siti pro-anoressia, chat riservate a ragazze che si scambiano informazioni su come fare a dimagrire, a vomitare, a non mangiare sono diffusissimi, purtroppo, anche nel nostro Paese - ha osservato l'esponente del Comitato Internet e Minori - ed è importante che i giornali e tutti gli organi d'informazione ne parlino». «Credo che sia molto importante - ha aggiunto - denunciare questi fenomeni che hanno una così ampia diffusione nel sociale da poter essere considerati una "moda" e occorre combatterli spiegando con la stessa enfasi che di questa "moda" si può morire». «I mass media - raccomanda infine Damele - si facciano carico di denunciare queste realtà dando spazio a modelli in grado di contrastare queste tendenze dall'esito spesso fatale».

fondamentalismo cristiano

L'Unità 13 Giugno 2005
SCIENZA E RELIGIONE Mentre in Italia la teoria dell’evoluzione viene cassata dai programmi scolastici, «Nature» lancia l’allarme
«Intelligent design»: negli Usa la fede ora batte Darwin anche negli atenei
di Telmo Pievani

La teologia naturale è tornata. Nelle università americane la teoria del «disegno intelligente», ovvero dell'esistenza di un progetto di origine divina inscritto nella storia naturale, si sta diffondendo rapidamente e conquista il consenso di studenti e docenti. Il fenomeno ha raggiunto dimensioni così preoccupanti da indurre la prestigiosa rivista Nature a dedicare all'Intelligent Design (ID) la copertina del numero del 28 aprile. «Piuttosto che ignorarlo», leggiamo dall'editoriale, «gli scienziati dovrebbero comprenderne l'attrattiva e aiutare gli studenti a riconoscerne le alternative».
Un compito meritevole ma improbo, se è vero, come testimoniano molti scienziati impegnati in dibattiti pubblici, che il desiderio di conciliare a ogni costo scienza e fede porta i sostenitori del disegno intelligente a prestare ben poco ascolto agli argomenti addotti dagli evoluzionisti per dimostrarne l'inconsistenza scientifica. Ora il pubblico italiano ha l'opportunità di aggiungere alle evidenze empiriche dell'evoluzione anche una ricostruzione storica preziosa di lontani fatti (siamo nella prima metà dell'Ottocento) che portarono alla confutazione dell'ID come teoria scientifica e al suo opportuno trasferimento nel regno delle disquisizioni teologiche.
Stiamo parlando di «Una lunga pazienza cieca», la storia dell'evoluzionismo fra Settecento e primo Novecento pubblicata dallo storico delle scienze naturali dell'Università di Firenze, Giulio Barsanti, per i tipi di Einaudi. Si tratta di un racconto appassionante per la sua mancanza di linearità, esente da trame banali popolate di «precursori» lungo la strada di un progresso inevitabile verso la «verità». È una storia senza paradigmi e rivoluzioni, ma piena di percorsi anche contraddittori, nonché di chicche storiche sorprendenti, che porta alla teoria dell'evoluzione darwiniana e alla sua trasformazione in un ampio «programma di ricerca» nel Novecento. È un antidoto alle semplificazioni dei dibattiti attuali, un ragionamento scarno, basato sul rapporto fra speculazioni teoriche e base empirica, che accompagna il lettore lungo quel drammatico «romanzo di formazione» attraverso il quale la scienza moderna approdò a una visione laica del mondo vivente.
Il finale sembrerebbe felice: non solo Darwin non è morto, ma ritorna di attualità il suo «naturalismo» dopo le infatuazioni riduzioniste dei genetisti della prima metà del Novecento. La formulazione originaria della sua teoria, con tutti gli aggiornamenti necessari, vive oggi una rinascita e rappresenta la logica fondamentale per comprendere le trasformazioni del mondo vivente. Una bella risposta per chi ancora oggi in Italia parla di «più teorie» dell'evoluzione in contrasto l'una con l'altra e tutte egualmente ipotetiche.
Tuttavia, non smette di fare scandalo quella «idea pericolosa» di Darwin: la complessità dei viventi non ha bisogno di un «progettista», perché l'azione «cieca» e cumulativa della selezione naturale, un meccanismo demografico automatico che si integra ad altri fattori, è sufficiente per renderne interamente conto. La specie umana appartiene a pieno titolo a questa creatività naturale e non sono documentati, se vogliamo restare nell'ambito della spiegazione scientifica, «salti ontologici».
Così, dall'opera del reverendo Paley del 1802 alla copertina di Nature del 2005, sono passati due secoli e lo scontro continua, negli stessi termini, come se Darwin non fosse esistito. Alcuni episodi, quali l'abiura imposta a Buffon o il violento dibattito fiorentino del 1869 sulle origini dell'uomo, inducono Barsanti a sospettare che la «lunga pazienza cieca» non sia soltanto una definizione dell'evoluzione biologica, ma anche la qualità migliore degli evoluzionisti. In tal senso, le analogie fra la teologia naturale inglese (valga per tutte la deliziosa e devotissima «teologia botanica» di Duncan del 1825) e l'ID attuale, per non dire dei deliri antievoluzionisti di alcune testate giornalistiche italiane, sono illuminanti.
Ogni paese ha le proprie strategie. L'ID non è nelle nostre corde: noi abbiamo direttamente tolto l'evoluzione dai programmi scolastici e poi abbiamo chiesto a una commissione di insigni scienziati se non fosse il caso di reintrodurla. Questi, armati appunto di pazienza, hanno scritto un documento pieno di buon senso, ipotizzando che vi fosse stata una svista. Eppure gli arditi passaggi di taluni consulenti ministeriali su «evoluzione ed evoluzionismi» non sembravano mossi da una svista quando giustificavano la rimozione. Ma il giallo continua: il documento della Commissione, dopo una fugace anteprima, è scomparso. Forse c'è scritto che prima di fare i programmi di scienze bisognerebbe consultare anche gli scienziati, che Darwin aveva visto giusto, che la scienza non può accettare dogmi di fede, o altre oscenità di questo tipo. Un messaggio di laicità decisamente scottante di questi tempi.

la criminalità del cattolicesimo
il caso Mortara: l'incredibile apologia del papista Messori

Corriere della Sera 13.6.05
INEDITO
Caso Mortara: dopo 150 anni esce il memoriale del protagonista
Battezzato di nascosto, venne sottratto ai genitori ebrei:


Messori, dove e come ha ritrovato l'autobiografia di Edgardo Mortara?
«Padre Mortara la scrisse nel 1888, a 37 anni, in spagnolo, visto che allora predicava nei Paesi Baschi. Se ne fece (forse, ma non è certo) un opuscolo che non sappiamo quale diffusione abbia avuto all’epoca in Spagna ma che, a quanto consta, non fu tradotto in altre lingue né risulta in alcuna bibliografia. Che padre Mortara abbia condotto una vita devota sino alla morte, a quasi 90 anni, e proclamato e difeso sempre la santità del suo padre spirituale Pio IX, era noto. Ma questo suo memoriale si può considerare inedito. Il testo ricostruisce il caso del bambino ebreo bolognese, dal battesimo furtivo da parte di una domestica nel 1852, al trasporto a Roma per ordine di Pio IX nel 1858, all'ordinazione sacerdotale del 1873 a Poitiers, in Francia. E' custodito nell'archivio romano dei Canonici Regolari Lateranensi, presso la chiesa di San Pietro in Vincoli. Ma nessuno dei saggisti che si sono occupati di Mortara ha mai ritenuto di dover consultare questa autobiografia, scritta in terza persona dal protagonista stesso».
Perché?
«Perché del Mortara "vero", non quello dello strumento polemico, non è mai importato molto a nessuno. Da subito, la sua vicenda fu utilizzata. Da Cavour, che ne fece uno straordinario mezzo di propaganda contro lo Stato pontificio: senza il caso Mortara, che mise in difficoltà i cattolici francesi, Napoleone III non avrebbe potuto stringere gli accordi di Plombières e scatenare la guerra contro l'Austria. Dalle logge massoniche. E dalla comunità israelitica internazionale. Come il caso Dreyfus fu un propellente decisivo per il sionismo (e infatti Herzl se ne rallegrò), che altrimenti sarebbe rimasto una delle tante utopie ebraiche, così il caso Mortara fu alle origini della formazione dell'«Alliance Israélite Universelle», la prima organizzazione ebraica di autodifesa in una prospettiva mondiale, e poi dell'influente Board of American Israelites».
Queste sue affermazioni desteranno polemiche.
«Non sono io a farle. E' lo stesso responsabile della comunità ebraica romana dell'Ottocento, Sabatino Scazzocchio, a lagnarsi delle incursioni di estranei, compresi potenti rappresentanti dell'ebraismo mondiale, senza cui il caso si poteva risolvere. E' la politica, dice, non il bambino che interessa. Scazzocchio lo scrive al padre, Samuele Levi Mortara detto Momolo, in una lettera in cui loda "l'indole benigna e caritatevole di chi siede in alto". Cioè di Pio IX».
Lei stesso, nella lunga introduzione che precede il memoriale, ricorda che alla metà dell'Ottocento Roma è l'unica città occidentale ad avere ancora un ghetto.
«Però gli ebrei, pur liberi di farlo, non se ne vanno. E' singolare: negli anni in cui fuggono a navi intere dall'Europa orientale verso l'America, gli ebrei restano a Roma. Rifiutano di appoggiare la Repubblica mazziniana, e al ritorno di Pio IX vanno a rendergli omaggio. Quanto all'"indole benigna e caritatevole" di quel Papa diffamato, nel memoriale Mortara fa una rivelazione: Pio IX aveva deciso di crescerlo in un istituto bolognese, dove la famiglia avrebbe potuto visitarlo regolarmente; dopodiché, verso i diciassette anni, avrebbe deciso se proseguire sulla via del cristianesimo o tornare alla religione dei padri. Fu la resistenza dei suoi, sobillati da altri, a cominciare dal medico di famiglia massone, a costringere il Papa a condurre il piccolo Mortara a Roma. Dove lo accolse e lo amò sempre come un figlio».
Un figlio di soli sette anni. Le pagine dove racconta l'allontanamento dalla famiglia sono tragiche: la disperazione della madre, l'ira del padre, il suo sbigottimento infantile. Alla guardia chiede: «E ora mi taglierete la testa?»
«E' vero. Fu un dramma. E' anche vero che i funzionari pontifici presero accorgimenti per rendere il distacco il meno traumatico possibile. Ma è lo stesso Mortara a raccontarci come subito dopo la separazione della famiglia fu una misteriosa quiete, anzi gioia, a impadronirsi di lui; e come le prime parole della dottrina cattolica gli parvero familiari, al punto che se ne impadronì sin da subito. Un fenomeno in cui Mortara addita un disegno provvidenziale. Quando, dopo Porta Pia, arrivarono i piemontesi, fuggì all'estero per non farsi "liberare" dal seminario in cui volontariamente era entrato».
Messori, il caso Mortara è una ferita ancora aperta. Gli ebrei italiani protestarono quando Wojtyla beatificò Pio IX. E' possibile sostenere che il Pontefice non potesse comportarsi diversamente con quel bambino?
«Del caso Mortara, Pio IX avrebbe fatto volentieri a meno. Gliene vennero accuse, calunnie, dolori immensi; non a caso lo definì "il figlio delle lacrime". Subì pressioni di ogni tipo; anche da James Rothschild, finanziatore di tutti i governi d'Europa, compreso quello pontificio. Ma sempre il Papa rispose: Non possumus . Perché non aveva scelta; sia per il diritto civile, sia per il diritto canonico».
Che cosa c'entra il diritto civile?
«I Mortara avevano violato la legge dello Stato pontificio che imponeva agli ebrei di non tenere a servizio cristiani; e questo, proprio per evitare casi analoghi».
Proprio per questo?
«Fin dal Medioevo i Papi proibivano con norme severissime il battesimo di figli di genitori non cattolici; a meno che il bambino non fosse in pericolo di vita. E il piccolo Edgardo Mortara lo era. Per questo il battesimo impartitogli dalla domestica fu un atto non solo valido, per un cattolico, ma legittimo. Il diritto canonico non lascia alternative: il battesimo introduce un mutamento irrevocabile, impone di dare al battezzato un'educazione cattolica. Ancora oggi, dopo il Vaticano II, il nuovo codice canonico non innova al riguardo».
Sta dicendo che il caso Mortara potrebbe ripetersi ancora oggi?
«In punto di fatto, un nuovo caso Mortara oggi non è concepibile; e sono il primo a rallegrarmene. In punto di diritto, nel suo minuscolo Stato il Papa non potrebbe fare nulla di diverso da quel che fece Pio IX».
In ogni caso, questo riguarda i cattolici. Per gli ebrei, Mortara resta comunque un figlio sottratto alla famiglia.
«Sono consapevole, lo ripeto, che il caso Mortara fu un dramma. Lo riconobbi fin da quando me ne occupai per la prima volta, anni fa. Ma sostenni pure che Dio seppe scrivere dritto su righe storte. Ora le parole stesse del protagonista, rimaste inascoltate per un secolo e mezzo, lo confermano. Quanto alla malattia nervosa che fece penare a lungo questo sacerdote, potrebbe trattarsi di un male ereditario, di cui soffrivano altri membri della sua famiglia, compreso il padre, Momolo; come rivelò il processo intentatogli dopo l'Unità per l'omicidio di un'altra domest

il Ministero degli Interni di Sua Maestà

Corriere della Sera 13.6.05
Londra, rapporto del ministero dell'Interno. Piano per intervenire dall'asilo
«I delinquenti? Si vedono già a tre anni»
Finora non hanno funzionato i rimedi adottati, come telecamere di sorveglianza, maggiore illuminazione di notte e pene più severe
Paola De Carolis


LONDRA - Troppo piccoli per leggere, ma non per essere considerati criminali. Già a tre anni, secondo un rapporto del ministero degli Interni britannico, è possibile identificare quei bambini che crescendo avranno guai con la giustizia. Ecco, dunque, la necessità di tenerli sotto controllo, di rieducare i genitori, di toglierli, eventualmente, alle famiglie e affidarli a centri specializzati. Uno scenario degno di George Orwell? No. È quanto indicano le 250 pagine preparate per il premier Tony Blair sulla riduzione della criminalità. Le misure sulle quali in passato hanno fatto affidamento le forze dell’ordine - telecamere di sorveglianza, maggiore illuminazione di notte, pene più severe - non hanno avuto i risultati sperati, conclude la ricerca.
L’unica soluzione, a lungo termine, è identificare i soggetti a rischio e impedire che imbocchino la via sbagliata. In teoria il discorso non fa una piega. Prevenire, dopotutto, è meglio che curare, nonché meno costoso. È l’idea di portare il concetto nelle scuole materne del Paese, trasformando le maestre d’asilo in informatrici, ad avere qualcosa di incredibile. Il compito di puntare il dito contro il bimbo che mostra i primi segni di crescere male spetterebbe a loro, le insegnanti cui ogni giorno milioni di genitori affidano i propri figli. Il piccolo Johnny non vuole giocare con gli altri bimbi? Guai a toccargli la merenda? Sembra violento nei confronti degli altri? Poco importa che abbia solo tre anni e ogni probabilità di imparare, con il tempo, a comportarsi diversamente. Per le autorità è un soggetto a rischio.
Le statistiche, d’altronde, parlano chiaro. Quei bambini che a tre anni possono essere definiti «fuori controllo», sottolinea il rapporto, una volta adolescenti avranno quattro volte le possibilità di essere incriminati per un reato violento rispetto ai coetanei più «tranquilli». «Obbligare le scuole - si legge nel rapporto, anticipato ieri dal Sunday Times - ad adottare una linea dura contro il bullismo (...) è il modo di ridurre il numero di giovani che cadono nella trappola della criminalità». Se è vero, sottolinea la ricerca, che le misure «dure» non sempre funzionano, è anche vero che, prendendo i ragazzini in tempo, è possibile correggerne il comportamento con provvedimenti più soft: insegnargli a leggere meglio, a scrivere bene, a interagire con gli altri potrebbe bastare a «far loro cambiare direzione». Secondo il Sunday Times, il rapporto, elaborato la scorsa estate e mai diffuso, mette in evidenza le diverse posizioni del ministero degli Interni e dell’Istruzione.
Quest’ultimo sarebbe più propenso a scusare i comportamenti violenti a scuola, dando la colpa, più che al bambino, all’ambiente nel quale è cresciuto. L’Home Office, invece, vorrebbe un approccio duro e intransigente. La parziale pubblicazione del rapporto coincide con un importante annuncio da parte del neo-ministro per la scuola pubblica, Ruth Kelly, che oggi dovrebbe rendere nota la sua intenzione di stanziare 430 milioni di sterline per permettere a ragazzini tra i 4 e i 14 anni di rimanere a scuola dieci ore al giorno, dalle 8 alle 18. Lo scopo: permettere ai genitori di svolgere una normale giornata lavorativa senza doversi organizzare con vicini o baby-sitter, ma anche offrire a bimbi e teenager la possibilità di studiare una lingua in più, di prendere lezioni di musica o di fare sport. Secondo quanto anticipato dai giornali britannici, non dovrebbe spettare necessariamente agli insegnanti di ruolo restare con le scolaresche sino a sera: ogni istituto potrà usare i fondi per assumere, volendo, personale aggiuntivo.

Corriere della Sera 13.6.05
«No alle criminalizzazioni Un patto scuola-famiglia» Lo psicoterapeuta Scaparro: la conflittualità è normale, certi marchi non si tolgono più
Gabriela Jacomella

«La parola "criminale", affiancata a un bambino di tre anni, non può assolutamente essere tollerata. Neanche se la si usa in senso potenziale». È lapidario il commento di Fulvio Scaparro, psicoterapeuta, alla proposta britannica di "schedare" i bimbi troppo inquieti. «E poi, chi ha l’esperienza necessaria per stabilire che un bimbo ha potenzialità criminali? Paradossalmente, allora, tutti le abbiamo...».
In Gran Bretagna, però, l’allarme per il bullismo scolastico ha raggiunto livelli di guardia.
«L’allarme bullismo c’è anche in Italia, ma non si può pensare di prenderli da piccoli per fargli passare la voglia in maniera preventiva. La conflittualità è normale in questa fase della crescita: chiunque abbia un figlio piccolo sa perfettamente che, per quanto seguito, può avere per vari motivi reazioni più o meno aggressive, fa parte della natura umana. Qui c’è il rischio di "etichettare" bambini e ragazzi con un marchio che spesso rimane per tutta la vita. No, la soluzione non è questa. E nemmeno si può pensare di spostare un bambino dal suo ambiente solo perché ci sarebbero degli ipotetici "segnali" negativi».
Quale può essere, allora, un modo positivo per intervenire?
«Io sono d’accordo sulla necessità di coinvolgere le famiglie. I guai, del resto, emergono in situazioni familiari di chiusura, quando il rapporto con il mondo scolastico è inesistente. Quello che serve è un patto iniziale tra famiglia e scuola, per un contatto stretto e costante tra genitori e insegnanti. Non è solo il bambino che deve andare a scuola, ma anche il padre, la madre. È necessario che ci sia equilibrio tra l’educazione impartita in aula e quello che si impara a casa. Se non c’è dialogo tra questi due mondi, non c’è speranza».