lunedì 13 dicembre 2004

le opere di Domenico Fargnoli a Firenze
arte e sanità umana, Massimo Fagioli, Analisi collettiva

ricevuto da Eros Cococcetta

L'Unità 11 Dicembre 2004
edizione nazionale, "orizzonti", pag. 25

A Firenze una mostra che mette insieme psichiatria e arte: l’artista è uno psichiatra che studia le relazioni tra psiche e espressione

L’«uomo nuovo» dipinge con la mente
di Gianni Caverni
l'articolo è corredato dall'immagine di un'opera di Domenico Fargnoli, chi volesse ricevere nella propria casella di posta il .pdf dell'intera pagina dell'Unità, può richiederla con una e.mail. Ndr
"È ormai da troppi anni che è diffusa la convinzione che la malattia mentale favorisca il lavoro creativo, non è vero: la schizofrenia è l’opposto della creatività": lo dice Domenico Fargnoli, psichiatra ed artista, che abbiamo incontrato a Firenze, alla vigilia della chiusura della sua mostra alla galleria Via Larga, mostra che segue quella che si è tenuta in settembre nei Magazzini del Sale a Siena.
I suoi grandi vivacissimi quadri si rincorrono coprendo tutte le pareti in un allestimento che volontariamente somiglia all’accatastamento. Qui parte delle superfici dipinte possono anche essere nascoste, forse sottintese, da un altro lavoro che sta sopra. Sculture ed installazioni contribuiscono ad affollare i non grandi spazi della galleria. Ferro, materia plastica, collage, vigorosi ed insistiti segni tracciati con grandi pastelli ad olio mostrano un mondo nel quale il caos non appare inquietante.
Homo novus Novus homo - Psichiatria e arte 2004 è l’impegnativo titolo della mostra; ne chiediamo ragione a Fargnoli: "La mostra fa riferimento a contenuti nuovi che sono emersi grazie alla ricerca psichiatrica. Vuole essere espressione di sanità, fonte primaria per l’espressione artistica, contro l’idolatria della patologia".
Psichiatra a Siena e Firenze, Fargnoli si è formato professionalmente nell’ambito teorico dell’analisi collettiva di Massimo Fagioli ed è redattore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla.
"Bisogna distinguere fra assistenza e cura in psichiatria - precisa Fargnoli -, la cura è la trasformazione completa nella direzione di un modo nuovo di essere uomo, il passaggio fondamentale è l’analisi collettiva attraverso setting di grandi gruppi. È possibile un nuovo modo di pensare come è possibile la prassi della non violenza: il problema più grosso è l’anaffettività".
Tornando alla pittura "è un grave errore, molto diffuso purtroppo, assegnare potere terapeutico alla pratica artistica, è vero il contrario, l’arte è espressione di una condizione sana nella quale la creatività trova terreno fertile: uno dei grandi meriti di Fagioli è stato l’aver collegato una nuova concezione della mente umana ad una nuova concezione dell’arte".
Da poco più di un anno www.senzaragione.it è il sito dell’associazione culturale omonima che raccoglie intorno a Fargnoli una quarantina di persone, architetti, artisti, psichiatri e comunque chi sia interessato ai temi dell’arte e a "contribuire alla diffusione dei risultati condotti dalla scuola romana di psicoterapia e psichiatria nella ricerca sulla realtà psichica ed in particolare tra quest’ultima ed i suoi rapporti con l’arte", come si legge nel primo tra i fini sociali indicati nel suo statuto. Un anno di vita, 12.000 presenze, questi i numeri del sito nel quale il lavoro artistico e non di Fargnoli ha un ruolo importante. Nel libro che accompagna la mostra una buona parte è dedicata al forum nel quale molti sono stati gli interventi che si sono articolati intorno a capitoli come La trasformazione, il passato non ritorna oppure Psichiatria e poesia, ricerca del dialogo o infine Il mercato dell’arte, le opere d’arte e il loro commercio": numerosi, ripetuti e spesso appassionati gli interventi.

Livia Profeti
«Dalle bandiere arcobaleno ad un nuova identità»

fondazionedivittorio.it 10.12.04
Dalle bandiere arcobaleno ad un nuova identità
Alla ricerca di nuovi valori.
di Livia Profeti



Se è vero che la recente conferma elettorale di Bush - in una contesa che Vittorio Zucconi ha definito la prima “elezione globale” della storia - ha reso se possibile ancor più difficile la situazione di quel composito movimento mondiale che ha cercato di opporsi al concetto di guerra preventiva, è anche vero che questo infausto evento sembra aver avuto una sorta di effetto “risveglio” sul pensiero di sinistra, il quale da troppi anni appariva come crollato insieme al famoso muro.

Recentemente infatti si può cogliere da più parti la denuncia della necessità di nuovi valori in grado di rinnovare quanto meno la passione politica, alcuni però si spingono oltre e ritengono che per poter efficacemente contrastare un’ideologia di destra fondata sulla saldatura tra liberismo sfrenato e fondamentalismo cristiano, la vera sfida che la sinistra ha di fronte è la ricerca di un nuovo pensiero teorico, pena la propria scomparsa in un mondo dominato da questa nuova ideologia.
Anche se con ritardo quindi, almeno una parte della nostra classe politica sembra ora reclamare l’esigenza di una politica dei valori, cioè elementi “passionali”, coniugati però con una ricerca teorica la cui ipotesi attualmente più consistente è che sia il valore della non-violenza a poter costituire il punto di partenza per l’elaborazione di altri valori, i quali siano in grado, senza rinnegare l’originario sogno di trasformazione della società, di riformare, se non addirittura “rifondare” l’identità teorica della sinistra.
In verità quel grande movimento di opinione, forse l’espressione più avanzata del senso comune civile occidentale, aveva cercato di far comprendere in molti modi l’importanza politica della propria idea della non-violenza troppo spesso bollata come velleitaria e utopica, ma il motivo della lenta comprensione da parte della “politica di professione” e di molti intellettuali al suo contorno probabilmente non è una semplice sordità, ma forse affonda le sue radici in una reale difficoltà di separazione da una forma di pensiero che proviene dal razionalismo scientista di un materialismo storico per il quale le dinamiche storico/sociali potevano essere indagate solo dal punto di vista economico, negando di conseguenza l’importanza di qualsiasi valore non materiale relegato all’ambito “sovrastrutturale”.
In ogni caso però il nascente tentativo attuale è comunque di grande interesse, perché se moltissime persone continuano comunque a “sentirsi” di sinistra nonostante il palese fallimento storico del comunismo e lo stato di evidente difficoltà dei nostri vari partiti politici, una ragione di questo senso di identità ci deve pur essere, e forse non è solo storica, ma affonda le sue radici
in un modo di essere, in determinati “valori”. Quali essi siano, se vadano solo compresi o anche scoperti, questa è probabilmente la grande sfida di una sinistra che nel suo cuore, oltre che nella sua testa, continua pervicamente a sentirsi tale.

Una sfida di grande complessità perché le questioni in ballo sono enormi e rischiano di spaventare. Solo per fare qualche esempio esse spaziano da considerazioni quali: come può un’espressione di negazione e privativa come la “non” violenza assumere al contrario il significato costruttivo di un’“azione” politica? Il concetto di “rivoluzione” deve sparire o può trasformarsi se si assume la non-violenza come valore fondante? Qual è la vera natura della violenza e della non-violenza? Esiste solo la violenza dell’oppressione materiale nelle sue varie forme oppure si può parlare anche di una violenza in qualche modo immateriale come quella di una “cultura violenta”, di relazioni tra i due tipi? Può la politica assumere elementi come i valori, tradizionalmente connotati negativamente in quanto irrazionali, senza contemporaneamente mettere in discussione questa stessa connotazione negativa?
Per mettere arbitrariamente e temporaneamente fine all’elenco forse un contributo potrebbe consistere proprio in una riflessione sui valori in quanto tali, perché se la sinistra è da questi che vuole ripartire non può esimersi da una riflessione sulla loro natura e sulla loro presenza nella vita umana.
In tale direzione ritengo che un primo stimolo possa provenire dalle teoria della razionalità di Max Weber, nella quale i valori (o fini in sé) ovvero le passioni, gli affetti, i desideri, gli ideali, le fedi religiose, ecc., hanno infatti un’importanza cardinale e sono elementi completamente irrazionali.

Secondo il fondatore della sociologia il comportamento umano “normale” si svolge per realizzare il perseguimento dei propri valori soggettivi, con pochi calcoli sulle conseguenze che ciò comporta perché questi sono ciò che dà senso alla propria vita e quindi è data loro una validità pressoché incondizionata. Questo primo tipo di “razionalità” detta gli scopi al secondo tipo, quella strumentale, la quale è più “calcolatrice” perché per raggiungere tale scopo si orienta valutando in modo maggiormente oggettivo i mezzi necessari e le loro conseguenze.
Sui valori la razionalità non ha alcun potere né di comprensione né di dominio, anche se essi non sono, in linea di principio, qualcosa di assolutamente inconoscibile in sé. Nell’impostazione weberiana il termine “irrazionale” - elemento perturbante dell’ideale razionalistico dell’agire umano - muta il suo significato tradizionale perché esso non è più qualcosa in cui la razionalità è “carente”, ma qualcosa di assolutamente diverso da essa e più significativo per la vita umana.

Nel rapporto tra valori e razionalità questa appare piuttosto “declassata” rispetto alla Ragione illuministica, perché non soltanto essa non è ciò che definisce un essere umano né i suoi processi storici, ma non è neppure il presupposto della comprensione, perché il comportamento interumano non è interpretabile esclusivamente in senso razionale.
Questa apertura di Max Weber alla dimensione irrazionale si conclude in realtà in modo abbastanza pessimistico, perché sebbene egli sostenga che non è la ragione ma sono i valori a determinare le scelte etiche positive, le dinamiche tra questi sono però caratterizzate da una “lotta” in cui ciascun valore tende ad assumere una posizione di nietzscheana potenza rispetto agli altri, intrinsecamente violenta. Mettendo tra parantesi queste conclusioni che risalgono ormai ad un secolo fa, ciò che è particolarmente interessante delle analisi weberiane non è solo la messa in evidenza del carattere irrazionale dei valori senza la mostrificazione di questo carattere, ma soprattutto la pericolosità dell’agire umano quando questo carattere viene meno. In altri termini, per Max Weber un atteggiamento umano orientato ai valori “può” essere violento, ma un altro in cui i valori siano completamente assenti “sicuramente” lo è, come viene esemplificato con la cosiddetta legge della razionalità crescente, che l’autore considerava un attributo centrale della modernità e che prende corpo a partire dal famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del Capitalismo.
Com’è noto in questo saggio viene sostenuto che l’antenato storico della moderna accumulazione infinita di capitali è l’angoscia protestante di vivere in un mondo nel quale non è più possibile “conquistare” la salvezza mediante il comportamento, e quindi il successo economico diventa una forma di consolazione perché interpretato in termini di elezione divina, presagio di beatitudine eterna. Con ciò l’etica protestante imprime un’accelerazione alla svalutazione cattolica del rapporto dell’uomo con il mondo, in quanto oltre all’esistenza terrena ciò che perde valore è anche l’azione umana. In questa nuova condizione esistenziale il legame per così dire “sano” tra valori e razionalità strumentale si allenta, iniziando un processo che si realizzerà compiutamente nel capitalismo moderno, nel quale, scomparso il valore (in questo caso religioso) che animava l’etica calvinista, la ricerca del profitto diventa fine a se stessa, ovvero un semplice scopo finisce con l’assumere il significato di un valore.
Si verifica cioè la famosa inversione dei fini e dei mezzi, e questo determina un predominio di razionalità strumentale nell’agire sociale con conseguente crescita di insensatezza, perché la razionalità strumentale non può essere fine a se stessa, ma deve trovare il suo “senso” fuori di sé, ovvero nella sfera dei valori extra-razionali. L’affermarsi di questo tipo di mentalità è la celeberrima “gabbia di durissimo acciaio” in cui l’evoluzione della cultura occidentale avrebbe finito con il rinchiudere lo stile di vita degli individui, come Weber aveva preconizzato già nel 1901 nel finale del saggio citato.

L’incapacità attuale della “politica di professione” di elaborare progetti che siano in grado di suscitare passioni ha molto a che fare con queste riflessioni weberiane, e l’importanza politica del senso comune avverso a formule astratte e distanti dal sentire quotidiano è stata ben compresa ad esempio dal Berlusconi nostrano, e si è rivelata fondamentale per la sua ascesa. Nel vuoto ideale conseguente alla fine del bipolarismo e nella riduzione della politica a strategie puramente razionali Berlusconi ha avuto la fredda capacità di convogliare la componente passionale degli elettori verso una sorta di sogno. Il problema non è stato tanto nel metodo, quanto nella natura di questo sogno, che sembra essere uscito dal “candido avorio che avvolge d’inganni la mente” piuttosto che “dal lucido corno che virtù incorona”, come ci insegna Omero.
In altre parole, meno poetiche, la politica di Berlusconi non è realmente quella dei propagandati valori di semplicità, schiettezza e persino bontà con la quale egli ha inizialmente sedotto la passionalità di molti dei suoi ingenui elettori. I reali valori di questi - che si può definire ingenui quanto si vuole ma l’ingenuità non è un torto - sono stati lucidamente usati come mezzi per raggiungere weberianamente altri scopi, ma non reali valori. Se la sinistra vuole essere radicalmente diversa da questo brutto gioco di prestigio di breve durata deve cercare e rivendicare i propri valori in modo pulito, rifiutandone nettamente l’uso di stampo berlusconiano.

Per quanto riguarda invece un’idea possibile su “quali” valori c’è un aspetto dell’analisi weberiana che colpisce in senso problematico: se un comportamento sociale freddamente razionale, privo di tensioni morali, si afferma come conseguenza della scomparsa di valori irrazionali, come è possibile che storicamente tale progressiva scomparsa sia scaturita proprio da una mentalità come quella calvinista della quale tutto si può dire tranne che fosse carente di valori, in quel caso religiosi? C’era qualcosa in quei valori stessi che può avere in qualche modo aperto la strada alla loro sparizione?
La questione non è di facile soluzione, l’unica ipotesi che mi sento di avanzare è che tale scomparsa nell’affermarsi della mentalità capitalista sia stata facilitata dalla ulteriore separazione protestante, ancora più netta rispetto all’etica cattolica dalla quale pur deriva, tra la razionalità/materialità dell’azione umana e l’irrazionalità/immaterialità del valore che secondo Weber deve orientarla. E’ come se un irrazionale che nega i suoi legami con la concretezza dell’esistenza umana, pur se presentissimo, contenga in nuce il germe della propria sparizione, oppure, detto altrimenti, forse questo irrazionale non è così nettamente diverso e altro dalla razionalità da non rischiare di perdersi in essa.
Chi non è religioso non pensa che i valori morali siano esclusivo appannaggio della religione, però questa è l’unica forma di irrazionalità sinora tollerata dalla nostra cultura razionalistica, anche se in un precario equilibrio da “separati in casa” che rischia sempre di rompersi perché in passato (ed anche nel presente) questo irrazionale è spesso in contrasto con quella esigenza di libertè della quale possiamo approfondire il senso finché si vuole, ma dalla quale non possiamo indietreggiare. Il valore della non-violenza non sembra in contrasto né con la libertà né con le altre sue due sorelle francesi, ma potrebbe essere anche radicato nella materialità umana in modo tale da svilupparne le potenzialità “etiche” anziché facilitarne la sparizione? La ricerca è appena iniziata, ma se dovessi necessariamente pronunciarmi io opterei per il si.
Livia Profeti.
10 Dicembre 2004
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citato al Giovedì e al Palazzo dei Congressi
Immanuel Kant e la natura umana...

Repubblica 7.12.04
Lezioni su guerra e pace
IL DECISIVO INFLUSSO DI HOBBES
Un decennio cruciale per l'evolversi del pensiero
di MAURO VISENTIN

L'inedito di Kant, che viene qui in parte anticipato , è senza dubbio riconducibile al suo pensiero antropologico per quanto riguarda i contenuti che espone, ma nella sua materialità è costituto dall'elaborazione degli appunti di alcuni studenti del corso di antropologia che egli tenne per oltre trent'anni presso l'università Albertina della Pomerania orientale.
Queste Lezioni kantiane (curate da Gerardo Cunico che le ha antologicamente raccolte in un volume, edito da Diabasis, con il titolo Guerra e pace: politica, religiosa, filosofica, 1775- 1798) abbracciano un decennio cruciale per l'evoluzione del pensiero kantiano: quello che gravita intorno alla pubblicazione della Critica della ragion pura. Anni occupati, certo, da un'intensa riflessione sui problemi della conoscenza, ma, come dimostrano questi corsi di antropologia, anche da un lavorio ininterrotto sulle questioni del male, della natura e della destinazione ultima dell'uomo.
La cosa che forse colpisce di più, qui, è l'accentuazione del motivo, notoriamente caro a Kant, dell'«insocievolezza» in un senso quasi hobbesiano. Al punto che, nel corso del 1775-76, non si saprebbe dire se prevalga l'influenza di Hobbes (mai espressamente citato) o quella, generalmente ritenuta decisiva dai critici, di Rousseau. Per l'uomo, vi si dice, non c'è animale altrettanto temibile e pericoloso dell'uomo stesso. Il male e la tendenza ad aggredire i suoi simili gli sono connaturati. Perciò, sorge la società civile: per proteggere e difendere la vita e la proprietà dei singoli.
Così da un male nasce un bene e si può anzi credere che tutto questo sia frutto di un disegno provvidenziale. Solo a partire dal secondo corso si delinea con più precisione l'idea che l'animalità e la naturalità allo stato puro siano rousseauianamente prive di conflitti e che questi nascano dalla contaminazione, nell'uomo, della natura animale con la libertà e la ragione, cioè siano un prodotto sociale, il prodotto di una socialità non ancora compiutamente moralizzata.
Nello stesso tempo, essi sono però anche il pungolo che spinge l'umanità proprio verso la moralizzazione della costituzione civile, quindi verso il superamento di tutti i conflitti e verso una completa uguaglianza (non si comprende se e quando realizzabile).
Insomma, quasi una filosofia della storia hegeliana avant la lettre, caratterizzata da una natura originariamente armonica che si scinde in due poli contrapposti - animalità e spiritualità - e che torna, proprio in virtù del loro contrasto, a ricomporsi alla fine dei tempi.

Repubblica, stessa pagina:
L'uomo selvaggio e l'uomo spirituale
Pubblichiamo alcuni frammenti da un corso di antropologia inedito in italiano che prendono spunto da Rousseau
Il difficile cammino dell'umanità condizionata dalle origini ferine verso un futuro sconosciuto di riscatto culturale
La malvagità sta nella natura, nell'ostilità contro i propri simili
È impossibile scoprire in che modo la provvidenza ci salverà dalle guerre
di IMMANUEL KANT

L'uomo in quanto animale è un animale assai insocievole.[...] L'uomo può ben guardarsi da tutti gli animali, una volta che conosca la loro natura e il loro comportamento, ma non dal suo simile, perché questo è una creatura astuta [...] può presentarsi come amico e tuttavia agire da malvagio, è capace di fingere e di celarsi e di inventare sempre nuovi modi di rendersi pericoloso per gli altri.[...] Tra le specie animali l'uomo non va annoverato tra gli animali rapaci. [...] Ma a riguardo della sua propria specie, a riguardo degli altri uomini, egli va senz'altro considerato un animale rapace, in quanto è diffidente, violento e ostile contro i suoi simili. [...] Questa malvagità sta nella natura di tutti gli uomini. Ma poiché questo è un ordinamento universale della natura, sebbene miri immediatamente a qualcosa di male, deve pure avere mediatamente uno scopo.[...] Lo scopo della Provvidenza è «questo»: Dio vuole che gli uomini popolino tutta la terra. [...] Il mezzo migliore per favorire ciò è l'insocievolezza, la gelosia e la discordia a riguardo della proprietà. Questo ha separato gli uomini gli uni dagli altri e li ha sparsi su tutta la terra.[...]
Inoltre, quando gli uomini abitano gli uni accanto agli altri e hanno cominciato a coltivarsi, quando si sono innalzati dai semplici bisogni della natura ai bisogni artificiali, allora inizia la proprietà e allora gli uomini finiscono sempre per cadere in una guerra. [...] Per natura nessuno è sicuro della sua proprietà, in quanto, se l'uno recinge per sé un «certo» terreno e si procura «così» frutti e ortaggi, ecco venire un altro, che non si è dato alcuna fatica per questo, ma che ha voglia di questi frutti e glieli strappa, se è più forte di lui.[...] Se dunque si vuole avere una proprietà, si deve avere protezione e sicurezza.[...] Pertanto deve essere instaurato un diritto congiunto a forza. Grazie a che cosa è dunque sorta la costituzione più civilizzata tra gli uomini? Grazie alla malvagità della natura umana. [...] Il male è qui la fonte del bene.[...] Da una parte dunque la natura ci ha destinato all'animalità, dall'altra invece, ossia a riguardo della perfezione dell'umanità, all'ordine civile. Attraverso l'ordine civile dobbiamo necessariamente recare pregiudizio allo stato di natura.[...]
Dunque la costituzione civile fa violenza all´animalità. [...] Questa è l'importante questione di Rousseau, il quale indaga se il vero stato dell'uomo sia lo stato di natura oppure la costituzione civile.[...] Si è creduto che Rousseau preferisse l'uomo di natura all'uomo dell'arte e la sua opinione sembra effettivamente inclinare dal lato dell'uomo naturale. [...] Ma «l'uomo naturale» è felice e innocente solo in senso negativo: il suo stato non comporta infelicità, ma neppure «positiva» felicità. Il bene in lui non è vizio, ma neppure virtù. [...] Soltanto nello stato civile l'uomo sviluppa i suoi talenti. [...] Lo stato civile ha il vantaggio di poter rendere l´uomo positivamente felice e virtuoso. [...] E qual è il momento dello stato civile perfetto? È l'instaurazione della società [...] di esseri uguali. [...] uno stato di cose che noi non abbiamo speranza di vivere. [...]

***
[...] L'animalità e l'istinto, presi nel loro insieme, hanno luogo negli animali, e sono del tutto buoni, perché qui tutto concorda. Buone sono anche la libertà e la ragione, che dovrebbero aver luogo nell'uomo secondo la sua vera destinazione. Invece l'animalità e la libertà, che si mostrano nello stato selvaggio dell'uomo, sono le fonti degli incentivi di ogni male e la sua origine. L'uomo è una creatura che ha bisogno di un signore, a differenza degli animali. La causa è la libertà e il suo abuso.[...] Ora questo signore l'uomo non può prenderselo che dalla sua propria specie umana, cosa che è una vera sventura per il genere umano, giacché questo signore, che l'uomo sceglie sopra di sé, è appunto anch'egli un uomo che a sua volta ha bisogno di un signore. Qui risiede anche la ragione per cui non è realizzabile una costituzione civile perfetta tra gli uomini.[...].

***
[...] L'uomo è fatto per la società o no? L'uomo non è fatto come l'ape per l'alveare, né è messo al mondo come un animale isolato. Piuttosto ha, da un lato, una tendenza alla società. [...] Dall'altro lato l'uomo ha anche un principio di insocievolezza. [...] Vi sono due punti estremi dei lumi e dei progressi della destinazione umana: (1) lo stato grezzo dell'uomo (lo stato di natura); (2) lo stato accostumato (lo stato di cultura). Lo stato intermedio tra questi due è quello peggiore. Nel primo stato l'uomo era felice in senso negativo, nel secondo sarà felice in senso positivo. Lo stato intermedio tra questi due è il momento del lusso, dell'affinamento, del gusto, della socialità ecc. Pertanto Rousseau ha certo ragione a preferire a questo stato lo stato di natura. Sennonché questo non vale dello stato moralizzato. [...] La vera età dell'uomo potrebbe chiamarsi «solo» l'epoca della perfetta cultura dell'umanità [...]. Quando questa si attuerà, la destinazione animale dell'uomo non sarà più in contrasto con la destinazione spirituale. Insomma, Rousseau nei suoi paradossi ha considerato solo una facciata del foglio. [...] Questo stesso contrasto tra la natura animale e la natura spirituale dell'uomo contribuisce infine ad attuare la destinazione finale dell'uomo. [...] Ogni male morale e ogni male fisico che l'uomo commette scaturisce dallo stato grezzo della natura rispetto all'uso della nostra libertà. Quando gli uomini si strinsero «tra loro in società», sorsero ogni sorta di mali, perché non avevano ancora escogitato le regole con cui limitare la libertà. [...] Nello stato civile l'uomo deve dirigersi in base alla concorrenza della volontà «altrui» [...]. Solo qui possono essere sviluppati tutti i suoi talenti e le sue capacità. [...]
Che un giorno noi raggiungeremo un tale stato di cose in cui il benessere universale dell'intera umanità non verrà più interrotto da guerre e da tante specie di mali [...] tutto questo è certo possibile sperarlo. Ma di quali mezzi la provvidenza si servirà a tale scopo, ci resta insolubile e impossibile da scoprire.[...]

citato al Martedì e al Giovedì
un articolo di Zefiro sull'incontro del 5 novembre

(questo articolo sta circolando per posta elettronica corredato da tre immagini: Massimo Fagioli e Pietro Ingrao, Pietro Ingrao e Fausto Bertinotti, la copertina del dvd sul quale è rappresentato l'evento di Villa Piccolomini; chi non le ricevesse con la posta elettronica può richiederla inviando una e-mail e pazientando un minimo. Ndr)

Zefiro, 30 novembre 2004

Non violenza: un confronto organizzato dalla libreria Amore e Psiche
Sinistra, sinistro, irrazionale
Bertinotti e Ingrao incontrano l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli

di Gloria Gabrielli

"Applausi a scena aperta ieri per il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti e per Pietro Ingrao. Duemila persone..." (Liberazione, 6 novembre). "...Una platea di duemila persone. Una folla richiamata dal tema della non violenza che accoglie l'anziano leader della sinistra e il segretario di Rifondazione comunista..." (Liberazione, 7 novembre). "Un grande evento culturale, un incontro e un confronto di alto valore e spessore politico da cui non sono emerse incompatibilità, anzi convergenze sul tema della non violenza" (Bertinotti, L'Unità, 7 novembre). "...La quantità di chi accorre è stupefacente. In fondo si tratta soltanto della presentazione di un libro pacifista di Fausto Bertinotti. Ritenevamo che l'incontro fosse riservato a pochi curiosi della politica. E invece gli spettatori sono almeno duemila, molti seduti in terra con le loro tecnoscarpette, le pance graziose e gli sguardi attenti, (...) Il segreto si chiama Massimo Fagioli". (Corriere della Sera, 10 novembre).
Questi alcuni dei commenti dei quotidiani dopo l'incontro che la libreria Amore e Psiche ha organizzato il 5 novembre a Villa Piccolomini con i due uomini politici che, dice Luca Bonaccorsi presentandoli, "Hanno lanciato una sfida dirompente nel rifondare la Sinistra in un nuovo pensiero che ha come valore fondante la non violenza...".
Ad accoglierli una "realtà storica innegabile", quella dell'Analisi Collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli. Il segretario di Rifondazione comunista ha subito il fascino del gruppo: "Confesso una grande emozione...".
L'incontro ha preso subito una piega di confronto serrato: "Molti di noi - imposta subito Bonaccorsi - credono non sia solo un fatto fisico ma sul pensiero...". Il segretario di Prc spiega: "Questa idea della non violenza, se non ci fosse stata prima, mi sarebbe venuta alla luce del risultato della vittoria di Bush (...) dovremmo sradicare l'idea del nemico, non ce la caviamo appiattendo l'idea del potere sul capitalismo, devi sottoporre alla critica il potere, non puoi prendere il potere buono per te. Non si dà la non violenza - ha poi specificato - senza la critica, è esercizio della capacità critica altrimenti c'è la passività. La non violenza è il mod più radicale di esprimere la critica all'ordine delle cose esistenti perché sta fuori dal suo linguaggio. L'incontro prosegue con David Armando, ricercatore CNR, che ha proposto alcune riflessioni sul volume "Agire la non violenza", atti del convegno di Rifondazione comunista tenutosi a Venezia in febbraio: "La rivoluzione ha sempre fatto ricorso alla violenza (...) bisogna cercare di mettere insieme i due termini di rifiuto della violenza con una prassi politica (...). Non mi convince l'impostazione pedagogica, dell'educazione del carattere, credo che sia un limite come appello della riflessione attuale di un appello generico di tipo russoviano alla naturale bontà dell'uomo".
L'ingresso di Pietro Ingrao strappa un grande applauso: "Il secolo che abbiamo alle spalle - ricorda Ingrao - dette l'impressione che Hitler avesse vinto. Mi ricordo quando pensavamo tutto perduto. Ora è diverso, però stiamo attenti. Negli Usa ha vinto l'uomo della guerra preventiva. Appena usciamo di qua, ricordiamoci, ricordate alla gente questa paura. Ma anche la speranza: la guerra preventiva, noi, i popoli del mondo non la faremo passare. È questo il mio augurio (...). Parte decisiva della vittoria di Bush è venuta dalle fasce sociali che non sono ricche. Io oggi sono davanti a questa angoscia: i nostri hanno votato l'uomo della guerra preventiva. Mi sento imbarazzato a ricordare queste verità davanti a una platea così calda e direi fidente".
"Senza sogni non si vince - chiosa il segretario del Prc - la non violenza è l'inizio del nostro sogno".
Ma il grande protagonista è stato forse il pubblico. Le domande dell'Analisi Collettiva, incalzanti, hanno posto un confronto stretto e profondo: "Sull'intervista a Vittorio Foa...: perché quando il comunismo finisce, quei valori popolari sono stati un po' ignorati? Come mai chi è stato comunista non rivendica almeno quei valori come valori popolari di grande impegno?". E ancora, su interviste a Ingrao di qualche giorno prima: "Se il dramma attuale è quello di restare di Sinistra, in quest'ultima intervista dici che non si tratta di restare di Sinistra ma ci voglio leggere una rifondazione della Sinistra non una riaggregazione, non è vero onorevole Ingrao?". "Qui ho sentito che in politica la non violenza mira sempre alla conquista del potere, mi pare di avere letto che chi non vuole questo allora fa l'anacoreta come Dossetti o Lazzaretti... a me questo tirarsi fuori dalla società sembra che non corrisponda ad alcuna identità auspicabile". Poi, riferendosi più direttamente allo psichiatra Massimo Fagioli e alla sua prassi: "Qui c'è qualcuno che non ha remore nel definire quello che da quasi tutti viene definito un grande pensatore dell'umanità imbecille, idiota e criminale, la domanda che mi pongo è: quest'uomo è violento? Eppure fisicamente non tocca nessuno. Però vuole distruggere quello che lui chiama idolo falso e bugiardo. Insisto: dove sta la violenza? Nell'idolo falso e bugiardo che vuole insinuare nella mente di tutti che gli uomini sono naturalmente violenti perché figli tutti di Caino o in quest'altro che dice che questa cosiddetta teoria è una truffa? Corrispondentemente tutta una certa cultura che sostiene il primo, nella misura in cui propaga cose false, in special modo sulla realtà umana, è una cultura violenta? È più violenta questa cultura o il padrone della fabbrica? C'è più violenza nel provocare sofferenza fisica o nel distruggere la mente altrui?". "Al convegno di Venezia si è parlato di realtà interna umana... tutti gli orientamenti politici non si propongono di trasformare il mondo, lo fa solo Marx e il comunismo. Invece ho sentito nella nostra ricerca che il mondo, la natura non si deve trasformare, si può al più correggere, ho sentito che chi deve trasformarsi è l'uomo. Sono due impostazioni mentali opposte o non si sono parlati e capiti? Inoltre chi ha trasformato il mondo nel senso della distruzione è stato il capitalismo e questo deterioramento sta accanto alla più totale anaffettività nei riguardi dell'uomo e della sua realtà mentale. Mi sembra che in politica c'è un grande problema: l'uomo non viene mai considerato o meglio non viene considerata la sua realtà interna. Questo dare l'uomo per costituito per cui non deve fare nessuna realizzazione, non è ancora una eredità della bibbia per cui l'uomo è stato creato così com'è e resterà così per sempre? Foa parla molto di realtà umana e attribuisce ad essa il comportamento ed anche le idee dei politici... che la realtà mentale personale determini o influenzi gli orientamenti dei politici?. "Ho il coraggio di dire che la base teorica della nostra ricerca si può chiamare ricerca sull'irrazionale... la parola 'Sinistra' in politica deriva dalla parola sinistro, che significa perturbante, inquietante ed anche cattivo, violento. È vero che l'immagine della Sinistra si può legare alla parola irrazionale perché ha vicino a sé parole come utopia, ideali, se così è, noi di Sinistra abbiamo il bisogno assoluto della nuova teoria sull'irrazionale, che non è più sinistra anche se diventa più perturbante, perché propone una nuova identità che invece di essere distruttiva è senza la scissione tra razionale e irrazionale, cioé è libera e creativa...". E ancora riferendosi a Massimo Fagioli: "... in questo rifiuto di quella che viene considerata una cultura sulla realtà umana ovvero la psicoanalisi, in questo rifiuto c'è violenza o non violenza nel senso di dimostrare l'inesistenza come scienza?". "... Ghandi quando portava allo sciopero 500 milioni di indiani paralizzava una intera nazione, forse dobbiamo discutere se questa è una non violenza...".
Le domande dell'Analisi Collettiva di Fagioli hanno portato i due leader a chiedere un livello più accessibile per "... combinare l'esplorazione con i terreni più impegnativi con la capacità di far entrare questa ricerca con la pratica politica...", ha detto Bertinotti; "Perbacco quanto parlate difficile", ha sottolineato Ingrao. Però il segretario di Rifondazione ha anche osservato: "Seppure questa fantastica realtà fa ricerca sulla psiche e sul profondo dell'essere umano è capace di relazionarsi con la cultura, con la politica, con quel che accade nel mondo". Infine è intervenuta Giulia Ingrao, rivolgendosi al fratello e a Bertinotti "(...) le vostre analisi sono da condividere pienamente, ma sono un punto di partenza (...) si deve far diventare la non violenza il punto di partenza per la trasformazione dell'essere umano. Le idee nuove ci sono, partono da un uomo non dimezzato...".
Tanti gli applausi per terminare con una domanda anche a Marco Bellocchio, presente in sala: "il film 'I pugni in tasca' distrugge il neorealismo perché non racconta fatti materiali. Quanto è violenta questa forma di cinematografia che nel film di vent'anni dopo propone una trasformazione della ribellione del '68? Bellocchio ripropone il nuovo eroe de "L'ora di religione", ribelle non violento, che stavolta non muore".
Gli applausi, calorosi, scroscianti, concludono l'incontro, lasciano nell'aria una delle tante domande: "Che fare allora?" "La speranza siete voi".

Gloria Gabrielli
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depressione
Martino Riggio sulla Gazzetta del Sud

Gazzettadelsud.it
Depressione
Il “male oscuro” è curabile ma senza abuso di farmaci

l'articolo che segue è un lavoro di Carlo Patrignani per l'Agi

ROMA – I dati inoppugnabili dell'Oms sull'alta incidenza delle malattie mentali in termini di disabilità e di sofferenza individuale, non solo evidenziano la mancanza di una valida “ricerca psichiatrica” ma impongono una riflessione sull'uso ed abuso dei farmaci. Nel 2003, in Italia, sono state consumate tra antidepressivi, ansiolitici e antipsicotici 128 mila confezioni per una spesa di 172 milioni di euro. «Non si può negare la malattia mentale che non è affatto diversità, come curare non è prendersi cura», dice lo psichiatra Martino Riggio, per il quale «lo psichiatra cura la malattia non la diversità: se il malato di mente non è diverso da te, da me perchè mai dovrei curarlo?». Bisogna affermare che la malattia mentale non è malattia del cervello. Pertanto il farmaco serve da “extrema ratio” per sedare una crisi.

un articolo in rete di Carlo Patrignani
Massimo Fagioli, l'Analisi Collettiva, ed altri...

emilianet.it
I have a dream: non violence

di Carlo Patrignani

l'articolo è pubblicato su QUESTA PAGINA

ROMA (6 dic. 2004) - 'I have a dream: non violence'. E' questo della 'non violenza' il sogno che Fausto Bertinotti e Pietro Ingrao vogliono costruire come risposta alla violenza, alla guerra, ad ogni tipo di guerra. "Mai piu' guerre, ma pacifismo assoluto", dice Ingrao. Un sogno 'la non violenza' che ha il pieno consenso entusiasta di Emanuele Macaluso, di Gino Strada, di Nicola Tranfaglia, di Valerio Caprara e di migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, accorsi agli incontri pubblici presenti i due ideatori del 'sogno'. A Roma, il 5 novembre, a Villa Piccolomini duemila persone hanno discusso con Bertinotti ed Ingrao, altrettante, il 27 novembre, a Reggio Emilia con Ingrao e Strada.

E' stato un Evento Culturale di alto spessore (ha riconosciuto Giuliano Zincone in un fondo di prima pagina sul 'Corriere della Sera') l'incontro-confronto tra Bertinotti ed Ingrao da una parte e l'Analisi Collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli dall'altra. "Riflettere sulla non violenza, come fanno Bertinotti ed Ingrao, e' importante: non ci sono tabu' in tal senso per cui ci si puo' confrontare anche con Massimo Fagioli e con una realta' culturale diversa dalla politica su questa affascinante ricerca della non-violenza, su come renderla prassi quotidiana", afferma Macaluso, uno dei leader storici dell'ex-Pci. "Lo psichiatra, lo studioso della menta umana, ci sta bene in questa ricerca sulla non-violenza che si prefigge il nobile obiettivo del cambiamento culturale degli uomini: mettere in primo piano il rifiuto della violenza e della guerra".
"È tra l'altro perfettamente coerente con la stessa Carta Costituzionale", aggiunge lo storico Tranfaglia. "Mi ha fatto piacere la notizia dell'incontro tra lo psichiatra capace ancora di mobilitare tante persone e molti giovani e due politici del calibro di Ingrao e Bertinotti", sottolinea Caprara, docente di Storia e Critica del Cinema all'Universita' degli Studi Orientali di Napoli.

"Non violenza' non e' rinuncia - evidenziano Bertinotti ed Ingrao - alla critica, al conflitto, alla dialettica, anzi e' il corollario, il supporto giusto per far valere la critica. "Chi non vuole restar fermo ad idolatrare il passato ed i suoi idoli deve aprirsi al confronto con gli altri - osserva Macaluso - per cui va bene la sollecitazione ad una ricerca che e' figlia dell'epoca in cui viviamo fatta di grandi cambiamenti: dalle relazioni tra gli uomini alle condizioni sociali, dall'emergere di nuove esigenze alle risposte da dare alle aspettative dei giovani. Ecco perche' non si puo' star immobili". A Villa Piccolomini e' saltato il tabu' del confronto tra la Sinistra e una realta' che ha piu' di trent'anni - l'Analisi Collettiva - e' temuta ma al tempo stesso guardata a vista. Occorre trovare idee e forme nuove di ribellione che non finiscano nel fallimento (il '68 ma piu' ancora il '77-'78, le Br e il terrorismo) ma in un cambiamento possibile che non deve tanto riguardare il mondo quanto la trasformazione degli esseri umani: the idea is to change the world by changing the human being.

"Siamo davanti ad un cambiamento profondo del concetto di guerra: un tempo chi la faceva - i dittatori - la giustificava con ragioni di difesa o perche' si riteneva offeso, oggi - osserva Ingrao il 90enne 'compagno disarmato' - si fa la guerra preventiva e domani si fara' la guerra per salvare il mondo, per un Ordine da conferire al mondo". Ma non ci sono "ragioni plausibili a sostegnio della guerra: come dimostrano le guerre moderne - avverte Strada - che non risolvono alcun problema, anzi procurano solo morte e distruzione". Quindi vanno bene tutte le iniziative - secondo il fondatore di Emergency - ed i confronti sulla non violenza per costruire il sogno. "E' certamente un fatto positivo questa riflessione sulla non violenza ed ancor di piu' - precisa Tranfaglia - che a fare questa ricerca siano i giovani, le nuove generazioni che sono la speranza, come ha detto Ingrao, del cambiamento". La ribellione che non fa vittime ma porta al cambiamento reale: questo l'obiettivo del 'sogno' che comporta pero' una grande opera di revisione ideologica della sinistra. Ma intanto si e' aperta una strada, gettata una premessa importante. "E' sempre piu' che legittimo il revisonismo idelogico come quello politico-culturale a patto che - conclude Macaluso - sia indirizzato e finalizzato al cambiamento".

sinistra
Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 13.12.04
CENTROSINISTRA
Pressing di Fassino e Prodi per convincerlo. Ma lui: al mio congresso non posso presentarmi in queste condizioni
Regionali, Bertinotti apre il caso politico
Il leader di Rifondazione vuole disertare il vertice dell’Alleanza: qui decidono tutto Ds e Margherita

ROMA - «Questa corsa è lunga, molto lunga, forse anche troppo lunga: un anno e mezzo...». Le apprensioni affidate da Romano Prodi ad alcuni leader del centrosinistra appaiono più che giustificate. Essere costretti a una campagna elettorale che durerà mesi e mesi, giacché, di fatto, si è già aperta, e, nel contempo, tentare di metter pace dentro una coalizione ancora non ben rodata, può essere logorante. Basti pensare alla giornata che attende oggi Prodi per rendersene conto. Fausto Bertinotti è intenzionato a non partecipare al vertice della Gad che si terrà nello studio (finalmente ristrutturato) dell’ex presidente della Commissione europea. Salvo tentativi in extremis da parte del Professore per convincere il segretario di Rifondazione a cambiare idea, stamattina, al suo posto, dovrebbe esserci il capogruppo del Prc alla Camera Franco Giordano. E’ altamente probabile che fino a stamattina (il summit è per mezzogiorno) il "pressing" di Prodi e di Piero Fassino nei confronti di Bertinotti sarà fortissimo. Nel frattempo, per evitare di amplificare i problemi dell’Alleanza, si è comunque deciso di giustificare ufficialmente quest’assenza con un "classico" della politica italiana. Se il leader del Prc insisterà sulla sua posizione si dirà che Bertinotti aveva «precedenti impegni». La realtà è ben diversa. E non sono in gioco solo le beghe delle candidature alle Regionali: la posta è più alta. Tant’è vero che anche se alla fine il segretario del Prc dovesse cedere alle insistenze di Prodi ciò non significherebbe che la situazione si è sbloccata. Perché il problema è di quelli non da poco. Formalmente tutto si riduce alla richiesta di Bertinotti di candidare Niki Vendola in Puglia. E al conseguente "altolà" di Massimo D’Alema. Secondo il presidente della Quercia, infatti, occorre scegliere un personaggio con maggiore "appeal" e non dare per scontato che in Puglia si perde. D’Alema ha parlato a lungo di questo problema con lo stesso Prodi nell’incontro che i due hanno avuto la settimana scorsa a Roma. Derubricare la contesa in atto a una questione di poltrone, però, sarebbe improprio. Il problema è un altro. Ed è da giorni che Bertinotti cerca di spiegarlo all’ex presidente della Commissione europea.
«Non è che io sto in questa alleanza perché non so dove andare o con chi andare - è il ragionamento del leader di Rifondazione -. Io ci sto convinto, ma allora deve essere chiara una cosa: le decisioni non possono essere prese solo dai Ds e dalla Margherita». Lo stesso vale per i candidati alla presidenza delle Regioni: non possono appartenere esclusivamente a questi due partiti. «In più - ed è l’altra riflessione che fa Bertinotti - io ho il congresso e non posso presentarmi a un appuntamento del genere a queste condizioni». Già. La linea del leader, sebbene per motivi opposti, viene contestata dalle diverse minoranze del partito e anche da una fetta della sua stessa maggioranza. Senza contare che Prodi non è certamente il "candidato ideale" dell’elettorato del Prc. Persino il neo direttore di Liberazione Piero Sansonetti, domenica, ha definito «arretrato» il discorso del candidato premier della Gad al Palalido. Perciò un Bertinotti al congresso che si presentasse a mani vuote, con il "candidato" Vendola bocciato dagli alleati, rischierebbe molto. Rischierebbe addirittura di perdere le assise (visto che attualmente ha con sé sicuramente solo il 53 per cento circa del partito). Un esito del genere, per la Gad, sarebbe una rovina. Con un altro segretario e un’altra Rifondazione - posizionata sulla linea dell’opposizione dura e pura e poco incline a un’alleanza programmatica con le altre forze del centrosinistra - diventerebbero problematiche non solo le elezioni regionali, ma anche quelle politiche.
Dunque, quello di Bertinotti è un nodo che in qualche modo va risolto. Certamente non con l’offerta di una manciata di vice presidenze regionali. Questo tentativo è già stato fatto sia da Prodi che da Fassino, ma il segretario di Rifondazione ha risposto con un «no grazie». Anche Franco Marini si sta adoperando per risolvere la questione. L’ex segretario del Ppi è convinto che «occorra dare la Puglia a Vendola», anche perché altrimenti il Prc non appoggerà i candidati del centrosinistra in Abruzzo e in Piemonte. Un punto a suo favore, però, Bertinotti lo ha segnato. Il nuovo simbolo della Gad sarà sprovvisto dell’Ulivo. La scelta, infatti, dovrebbe cadere sulla colomba disegnata da Folon.
Ma oggi Prodi dovrà affrontare anche altri problemi. C’è Clemente Mastella che chiede la Basilicata. D’Alema lo appoggia. Francesco Rutelli, invece, nicchia. E Mastella minaccia di presentare le liste dell’Udeur in Campania, Calabria e Lazio. Una mossa che danneggerebbe elettoralmente il centrosinistra. Questo nodo, però, potrebbe essere sciolto con maggiore facilità. In compenso dovrebbe finire a breve il tormentone della lista unitaria: con tutta probabilità vedrà la luce solo in Lombardia. Basta trovare il candidato adatto: dopo che circa una ventina di politici e non politici si sono negati perché lì la sconfitta è certa, ora si fa il nome dell’imprenditore ulivista Riccardo Sarfatti. Ma non è ancora detta l’ultima parola...

Crocifisso a scuola, la Consulta decide

Repubblica 13.12.04
Sullo sfondo del dibattito, i pronunciamenti "pesanti" del Vaticano. Il Quirinale dissente dagli abrogazionisti
Crocifisso a scuola, la Consulta decide
Vigilia di sentenza dopo l'esposto d'una cittadina non credente
Permettere o meno l'esposizione del simbolo cristiano negli istituti?
di MARCO POLITI

ROMA - È in dirittura d'arrivo la sentenza della Corte costituzionale sul crocifisso nelle scuole. Il presidente Valerio Onida ha intenzione di chiudere la partita prima dell'elezione dei nuovi giudici costituzionali, che dovrebbe aver luogo il 14 dicembre.
Al palazzo della Consulta il riserbo è impenetrabile. Eppure filtra l'ipotesi in queste ore che il crocifisso dovrebbe essere in qualche modo "salvato". Ma bisognerà vedere nero su bianco se i giudici costituzionali avranno ritenuto possibile una soluzione del genere alla luce della laicità espressa della Carta fondamentale e soprattutto del fatto che - caduto l'impianto della religione di stato, definitivamente archiviata dalla riforma concordataria di Craxi del 1984 - un "obbligo" di esposizione del simbolo della religione cristiana appare insostenibile. In Germania, ultima in ordine di tempo, è stato deciso così. Della questione si è discusso nell'udienza pubblica il 26 ottobre scorso. I "cattivi musulmani", impersonati da Adel Smith ad uso dei talk-show, non c'entrano. È stata una cittadina italiana di origine finlandese, Lautsi Soile, a sollevare nel 2002 l'interrogativo perché i suoi due figli non credenti dovessero studiare in aula sotto il crocifisso. Su impulso dell'Unione atei (Uaar) il Tar del Veneto ha quindi posto l'eccezione di legittimità costituzionale.
La Corte ha dovuto elaborare la sua decisione sullo sfondo di pronunciamenti di notevole peso. Il Vaticano ha espresso ai massimi livelli la sua totale contrarietà all'abolizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Già un anno fa Giovanni Paolo II, ricevendo un udienza il ministro dell´Interno Pisanu e i suoi colleghi europei, ha dichiarato che cancellare i simboli religiosi «risulterebbe poco democratico, perchè contrario all'anima delle nazioni ed ai sentimenti della maggioranza delle loro popolazioni». Anche il Quirinale non fa mistero di non condividere l'impostazione abrogazionista.
Una via di uscita potrebbe essere rappresentata dal cosiddetto "metodo bavarese", illustrato tempo fa proprio dall'Avvenire: «Il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche; se però alcuni studenti obiettano che esso lede la loro libertà di coscienza, le autorità scolastiche aprono un procedimento di conciliazione, che può condurre anche alla sua rimozione». Un modo, secondo il giornale dei vescovi, di «bilanciare esigenze opposte». Sulla questione dovrà peraltro pronunciarsi anche lo stesso Presidente della Repubblica. Nell'aprile 2003 è stato indirizzato al capo dello stato un ricorso straordinario contro la circolare Moratti, che nel 2002 ha imposto l'esposizione del simbolo. Ciampi deciderà dopo che il ministero dell'Istruzione avrà acquisito il parere del Consiglio di stato. La prossima sentenza della Corte costituzionale avrà naturalmente la sua influenza.

Giappone/Cina
il riarmo giapponese: un'altra mossa per la guerra preventiva che vuole Bush?

Repubblica 13.12.04
LO SCENARIO
Il governo Koizumi rivede la dottrina strategica: Pechino è la minaccia
Giappone, la Difesa non è tabù "Il vero nemico ora è la Cina"
Il documento rispecchia la nuova politica estera e di sicurezza nipponica
Il ministero degli Esteri cinese ha definito il piano "irresponsabile"
di FEDERICO RAMPINI

TOKYO - Washington applaude, la Cina grida al riarmo giapponese: a nessuno è sfuggita l'importanza del nuovo piano quinquennale per la difesa varato dal governo di Tokyo, un netto cambiamento di rotta rispetto alla tradizione pacifista del paese dopo la seconda guerra mondiale. Per la prima volta in un documento ufficiale il Giappone indica esplicitamente una «minaccia cinese» contro cui attrezzare la difesa nazionale. E ne trae le conseguenze: con questo piano quinquennale dà il via alla costruzione di un sistema di difesa anti-missile (in cooperazione con gli Stati Uniti), crea una forza di rapido intervento e potenzia la sua capacità aerea a lungo raggio.
Il piano strategico messo a punto dal governo e approvato dal Parlamento in questi giorni è l'ultima tappa di una trasformazione che il premier Junichiro Koizumi ha impresso alla politica estera e di sicurezza del Giappone. Non a caso l'approvazione di questo piano ha seguito di pochi giorni l'annuncio che il contingente di 600 militari nipponici resterà in Iraq per un altro anno: dopo che per mezzo secolo il Giappone aveva evitato di mandare truppe all'estero, l´intervento in Iraq in appoggio all'Amministrazione Bush è un altro "strappo" rispetto all'interpretazione letterale di una Costituzione che prevede solo l'uso difensivo delle proprie forze armate. Lo stesso Koizumi peraltro persegue da tempo il disegno di una revisione costituzionale che elimini alcuni vincoli e restrizioni al rafforzamento militare del suo paese. Questi cambiamenti strategici, approvati dagli Stati Uniti, sono motivati con la nuova situazione internazionale: la fine della guerra fredda, il graduale alleggerimento della presenza americana in Asia, l'emergere di una potenza economico-militare della Cina sempre più influente, e infine l'imprevedibile Corea del Nord. Al tempo stesso, la nuova dottrina strategica giapponese coincide con una rinascita dello spirito nazionalistico, che lo stesso Koizumi sottolinea con le sue visite annue al tempio Yasukuni dedicato ai caduti del seconda guerra mondiale (inclusi alcuni noti criminali di guerra). Si inserisce in un clima "revisionista" in cui i manuali scolastici a Tokyo vengono riscritti per giustificare l'imperialismo giapponese in Asia negli anni 30, suscitando proteste in Cina e in Corea.
Il nuovo piano quinquennale non rappresenta un boom di spesa militare, anzi il budget della difesa viene tagliato del 3,7%, a 233 miliardi di dollari. Ma la razionalizzazione della spesa si accompagna a una profonda revisione degli obiettivi. Diminuisce di 5.000 unità il numero di soldati, ma viene istituita una forza di rapido intervento di 15.000 uomini con divisioni di paracadutisti e reparti di elicotteri in grado di essere dispiegati rapidamente su teatri lontani. Viene modificato l'embargo sulla vendita di armi all'estero, in modo da aprire la strada a una stretta collaborazione tecnologica con l'apparato bellico americano: i giapponesi potranno fornire tecnologie avanzate al Pentagono, con l'obiettivo di costruire insieme agli americani il nuovo dispositivo anti-missilistico, che guarda alla Cina e alla Corea del Nord come ai due possibili fronti caldi del futuro. È previsto l'acquisto di aerei-cisterna per il rifornimento in volo, che diano all´aviazione militare nipponica la capacità di intervenire a lungo raggio: a breve termine questo dovrebbe servire nel caso si rendano necessarie azioni contro gli arsenali nucleari della Corea del Nord. Ma è la minaccia cinese che spicca come la vera novità, resa esplicita nel documento strategico di Tokyo: «La Cina - vi si legge - ha un grande impatto sulla sicurezza di questa regione. La Cina sta accelerando il rafforzamento delle sue attività nucleari e missilistiche, modernizza la sua flotta e la sua aviazione, espande il raggio d'intervento delle sue risorse navali. Dobbiamo vigilare su queste mosse».
Il mese scorso un sottomarino nucleare cinese è penetrato nelle acque territoriali del Giappone, creando una notevole tensione tra i due paesi. Tensione che non si è veramente sciolta, perché la Cina ha espresso solo «rincrescimento» senza presentare scuse formali, e pochi giorni fa si è resa protagonista di altri due sconfinamenti. Per i giapponesi queste vicende confermano che la Cina sta affermandosi come una potenza marittima sempre più invadente in Asia, anche per effetto di uno sviluppo economico travolgente, che porta Pechino a voler difendere rotte di esportazione e di approvvigionamento verso il resto del mondo.
William Breer del "Centre for Strategic and International Studies" di Washington ritiene che «il Giappone sta aprendo gli occhi di fronte all'ascesa della potenza cinese, che avrà effetti sugli equilibri militari in tutta l'Asia. D'altra parte lo stesso Giappone non si sente più condizionato dalla propria storia. È deciso ad adeguare il proprio dispositivo militare alle nuove minacce potenziali». Le reazioni cinesi sono dure. Il ministero degli Esteri di Pechino ha definito il nuovo piano strategico giapponese come «completamente irresponsabile e privo di fondamenti». Il portavoce del governo cinese Zhang Qiyue ha detto che «per ragioni storiche gli indirizzi strategici delle forze armate giapponesi sono una questione estremamente sensibile». Il direttore degli studi giapponesi all'Accademia delle Scienze Sociali di Pechino, Gao Hong, parla di una «corsa al riarmo». Lu Guozhong, un altro esperto cinese presso l'Istituto di studi internazionali di Pechino, dice ad alta voce quel che pensano molti suoi connazionali, e cioè che «il Giappone è in cerca di alibi per ri-militarizzarsi».
ed ecco cosa diceva il cardinale Ruini pochi giorni fa:
Avanti! 9.12.04
Ruini: dalla Cina il vero pericolo per la religione

L’offensiva laicista contro il cristianesimo? Il fondamentalismo islamico e il terrorismo che ha generato e ha scatenato in giro per il mondo? Tutte minacce da non sottovalutare, certo, ma non sono quelle che preoccupano di più. Bisogna invece guardarsi da quel che succede in Cina e che potrebbe propagarsi per il mondo. Per il cardinale Camillo Ruini la vera sfida arriva dalla “Tigre cinese”. Lo ha spiegato a chiare lettere qualche giorno fa, prima del viaggio in Cina del presidente Ciampi che tanto sta facendo discutere. L’occasione? A ricordo della sua prima messa celebrata cinquant’anni fa, quand’era semplice prete ordinato di fresco, il cardinale ha fatto ritorno per un paio di giorni nella sua diocesi natale di Reggio Emilia. E lì, il 23 novembre, ha espresso una “summa” del suo attuale pensiero sulla Chiesa e sul mondo, con proiezioni sul prossimo futuro. Ruini è vicario del Papa per la diocesi di Roma e presidente della Conferenza episcopale italiana. Il suo pensiero ha quindi un peso speciale nel determinare gli indirizzi della Chiesa, anche in vista d’un cambio di Papa. Tra le considerazioni più urgenti, appunto il giudizio sulla Cina. Poiché in questa civiltà la religione ha un ruolo minore e ignora la fede in un Dio personale, Ruini prevede che essa non aiuterà, in Occidente, un rafforzamento dell’identità cristiana – come oggi avviene con l’Islam – ma all’opposto un suo indebolimento. Che la Cina sia tenuta d’occhio, per così dire, dalla Santa sede, non è cosa nuova. L’agenzia “Asianews” da sempre monitora e denuncia la situazione e ora lancia un nuovo allarme. Esiste un documento segreto elaborato nel maggio scorso dal Dipartimento di propaganda del comitato centrale del Partito comunista cinese (Cpc), nel tentativo di frenare la crescita costante di religione e spiritualità fra i cinesi. Particolare attenzione è rivolta “ai giovani e ai vertici del partito”, i settori in cui si registrano molti casi di conversione. Il governo presta una particolare attenzione ai mezzi di comunicazione, con un riferimento preciso ad Internet, il “canale privilegiato per diffondere l’ideologia marxista”. Esso rappresenta una “nuova risorsa” per “moralizzare” i giovani, i maggiori utenti della rete nel paese. Nel mese di ottobre, durante un vertice sulle religioni a Pechino, il governo ha ribadito che “non bisogna avallare leggi basate sulla mentalità occidentale, perché “le condizioni in Cina sono speciali”. Infatti, per Pechino la libertà religiosa non è un diritto innato della persona, ma una concessione dello Stato. Il documento, segreto e distribuito ai soli membri del partito, è giunto in occidente attraverso membri del Partito contrari alla politica ateista del governo. Esso è stato diffuso dal sito canadese di “The Voice of the martyrs”. Il documento è diviso in otto punti. Per prima cosa viene sottolineato l’importanza di una maggiore ricerca, educazione e diffusione dell’ateismo marxista per frenare la crescita delle organizzazioni di culto, della scienza e della superstizione. Nell’ottica marxista è di estrema necessità “eliminare ogni fatuità e superstizione” e rimpiazzarla con le norme e i dogmi del “pensiero scientifico”. Al popolo vanno insegnati “i processi generali di sviluppo della società umana” in modo che sia il popolo stesso a “fondare la propria cultura sui principi del marxismo”. Per raggiungere tale scopo è necessario educare le persone alle “scienze naturali” in modo che possano riconoscere i principi ispiratori “dell’universo, i principi della vita, le regole dell’evoluzione e rapportarsi correttamente ai fenomeni naturali, alle catastrofi, alla vita, alla morte, alla nascita e alle malattie”. Un aspetto particolare riguarda la cura e la salute fisica, che va favorita aiutando il popolo a “vivere una vita sana, a svolgere attività fisica e a trovare momenti di svago”. Anche la salute, lo sport e il tempo libero devono rifarsi ai “principi ispiratori” dell’ateismo marxista e “alle sue direttive pratiche” fornite dai membri del partito. La superstizione, la cabala, la tradizione e la religione vanno estirpati dai vertici della dirigenza e dai giovani perché ritenuti dannosi. Per realizzare l’obiettivo bisogna creare appositi dipartimenti e centri di ricerca per permettere alle persone “dotate di talento” di approfondire gli studi negli “istituti di ricerca atei-marxisti e nei dipartimenti universitari”. Ma la diffusione del marxismo soprattutto deve servire a rafforzare la leadership al potere: i membri del partito devono “diffondere la cultura materialista e atea e devono diventare un modello da seguire per tutto il popolo”.

archeologia:
la cultura materiale dell'antichità

Repubblica 13.12.04
UN BRINDISI IN MESOPOTAMIA

Le indagini di un archeologo sulla cultura del vino nel mondo antico
È nel secondo millennio a. C. che la pratica si diffonde in tutto il Mediterraneo
Gli studi sono stati compiuti grazie a strumenti biomolecolari
di SERGIO FRAU

Uno dei suoi ricordi più belli? Quando gli affidarono due chili di avanzi, roba organica putrefatta: due chili di resti del banchetto funebre di Re Mida. Erano stati trovati in orci sepolti nel suo tumulo, a Gordio, in Turchia. Si mise al lavoro subito Patrick McGovern: spettroscopia agli infrarossi, cromatografia liquida e gassosa, spettrometria di massa.
In breve la conferma: erano davvero del 700 prima di Cristo quegli avanzi. Riuscì anche a stabilire nel dettaglio il menù: quel giorno, per dare l'ultimo saluto al re dal tocco d'oro, si mangiò - ben innaffiato da un "grog" di vino frigio misto a idromele che solo lì sapevano fare così buono - pecora grigliata e disossata. Grazie all'archeologia biomolecolare di McGovern saltarono fuori man mano pure tutti gli ingredienti che erano serviti a prepararla: miele, vino, olio, erbette, anice, finocchio. E persino il contorno: lenticchie.
Il vino d'annata è una sua specialità. Vino d'epoca che cerca dappertutto - in fondi di otri, in vasche per vendemmia, in coppe minoiche - questo ricercatore che oggi insegna Antropologia all'Università di Pennsylvania e ne dirige il Museum Applied Science for Archaelogy. Lo indaga ormai da più di 20 anni come solo un esperto specializzato in archeologia molecolare può fare, ormai, oggi con il vino degli Antichi. Ora con L'archeologo e l'uva - la sua ricerca che, edita da Carocci, arriva oggi nelle librerie (pagg. 335, euro 24,50) racconta la sua storia e le sorprese che gli ha regalato.
Fino al 1988 la più antica testimonianza chimica di vino conosciuta era data da anfore romane trovate al largo della Costa Azzurra. Fu proprio lui a dare il via a nuove analisi chimiche integrate, tanto che oggi può partire dai pettirossi ubriachi del Paleolitico di decine di migliaia di anni fa e - alluvionale, con le sue 335 pagine assai ben scritte, spesso frizzanti - arrivare a stapparci in diretta orci e botti di Egizi, Ittiti e Greci, passando anche nelle cantine di Filistei, Celti e, persino, in quelle di Noè.
Scrive: «I nostri antenati devono aver visto uccelli mangiare ghiottamente l´uva fermentata. La loro curiosità deve essere aumentata nel vedere che, talvolta, ne derivavano movimenti muscolari scoordinati, tanto da far cadere i pettirossi dal trespolo».
A lui, però, interessa l'uomo: quando ci provò lui? Già l'Uomo Paleolitico? Non è escluso: «Finora però nessun recipiente di pietra è stato sottoposto alle tecniche dell'archeologia molecolare» dice. Il suo campo di ricerca è ampio come l'Eurasia: «Da qualche parte in questa vasta regione la vite selvatica europea è stata portata a coltivazione e alla fine domesticata: forse più di una volta, in più di un posto». Operazione complessa quella, fatta da gente che, comunque, doveva saperla lunga (contro funghi, batteri, acari, siccità & C.) e che poteva permettersi di aspettare i sei anni che servono a una vigna per entrare in produzione.
Le risultanze archeologiche attuali gli indicano un posto ben preciso per ambientare (per ora) il "Big Bang" del primo brindisi: le aeree montuose del Vicino Oriente. Da lì disegna un albero genealogico del vino che ha le sue radici nell´area collinosa che costeggia la Mesopotamia settentrionale (a metà del VI millennio a.C.), si estende in seguito ai Monti Zagros e al Transcaucaso giorgiano e armeno, per allargarsi a dismisura in Egitto e Mesopotamia (fin dal 3.500 a.C.), e toccare Creta nel 2.200 a.C.
È nel II millennio prima di Cristo che bevono tutti, dappertutto, qui nel Mediterraneo: solo questione di soldi poterselo permettere. Un orcio via l'altro, un coccio via l'altro, lo studioso statunitense riesce non solo a capire cosa si beveva, ma anche chi, come, quando e quanto beveva. Come alleati ha il moscerino della frutta (il "Drosophila melanogaster"), un vermetto dell'uva, e il lievito. Di tutti e tre questi elementi di recente è stato possibile individuare i Dna che, ormai inglobati nei reperti, fanno da guida alle esplorazioni. Ne è nato il "Progetto Dna antico della vite" che - schedando, archiviando, comparando - sta mandando in frantumi non solo datazioni di siti ma anche intere ricostruzioni storiche finora affidate solo alle sentenze dell'archeologia vecchio stile.
Per lui il vino è pur sempre «una miscela insolitamente complessa di diversi alcoidi, aldeidi, acidi, carboidrati, esteri, proteine vitamine, molecole poliidroaromatiche tra cui tannini, antocianine, flavonoli, catechine», ma è proprio grazie a tutti questi composti (e ai segnali di vita che millenni dopo riescono a conservare), che oggi si è in grado di resuscitare nettari, odori e sapori che facevano più dolce la vita di satrapi e faraoni.
McGovern: «I geroglifici che significano "uva, vino, vigna" (presenti già dal 3.100 a.C.), sono tra le prove più significative che la viticoltura egizia fu altamente sofisticata fin dagli inizi». E anche: «Orci da vino vennero depositati a migliaia nelle tombe dei primi faraoni d'Egitto».
L'Aldilà degli Egizi era sereno e ad alta gradazione alcolica: molta birra e anche vino con tanto di cartigli faraonici impressi a sigillarlo e a stabilirne annate certe. C'era un mistero, però, all'inizio di tutto: nella tomba del primissimo faraone, Scorpione I, seppellito ad Abydos e archiviato come "dinastia 0" (perché del 3150 a.C. circa e, quindi, precedente a tutti gli altri), si trovarono recipienti che recenti analisi hanno appurato come orci da vino. Mai visti prima dagli archeologi al lavoro in Egitto, ma assai simili ad altri trovati sulla riva est del Mar Morto e in Transgiordania: roba d'importazione, dunque! McGovern fatte le analisi, ha fatto pure i conti: Scorpione I, per la sua vita ultraterrena, si era portato dietro 4.500 litri di vino. Da dove fosse arrivato tutto quel ben di Dio rimaneva, però, un problema.
Nuove indagini vennero fatte per confrontare la terracotta di Abydos con i 4.000 campioni archiviati da un ente che studia la composizione e le provenienze dell'argilla per vasi: nessuna argilla egiziana era stata usata per fabbricarli. Oggi si può dire che - con grande probabilità - quel primissimo vino egizio arrivò proprio dal Levante e che - visto il successo - solo dopo, si cominciarono a piantare quelle vigne nella zona del Delta che l'archeologia e le scene dipinte nelle tombe ci fanno testimoniano.
«In vino veritas» sembra giurarci McGovern grazie agli alambicchi. Revisioni storiche a raffica dalle sue analisi: la provenienza degli Hyksos in Egitto, stanziati a metà del II millennio a.C. nella loro capitale Avaris nel Delta? Non più da Biblos (come si è sostenuto per decenni), ma dalla regioni di Gaza, nella Palestina meridionale: lo attesta proprio l'argilla dei vasi da vino resinato che gemella le due zone. Non più "brocche da birra" quelle filistee, ma da vino: lo giura la chimica. Ed era uno strano "grog greco" (a base di vino resinato, birra d´orzo e idromele) quello che rendeva allegri i Cretesi del Periodo Minoico II, nel II millennio a.C. Tutte cose, queste, che ancora dieci anni fa non si sapevano.
Che il vino sia da sempre un vin santo, si sa. Oggi, però, i suoi prodigi si profilano sempre più chiari: è l'Osiride egizio a pensare ai vigneti; è il Dioniso greco che con il vino ne fa di tutti i colori; vigne e templi si diffondono insieme nell'Iraq meridionale e in mezzo mondo; i re ittiti per benedire un patto o un guerriero spargevano vino, come fosse sangue; ed è proprio a uno di loro, Suppiliuma, in trono nel XIV secolo a.C., che si deve lo slogan «Mangia, bevi e sii felice». Più prosaico il suo collega assiro Assurbanipal II - secoli dopo, quando inaugurò la nuova capitale, Nimrud - lasciò scritto di aver «irrigato le pance» dei suoi sudditi con 10 mila otri di vino e 10 mila coppe di birra.
Arriva dal pantheon di Ugarit un sacrilego cattivo esempio: «Gli dèi bevevano e mangiavano, bevevano vino fino alla sazietà, nuovo vino fino all´ubriachezza». E cos'erano le Dionisìe greche se non feste del vino novello?
«Con i vecchi metodi è stato fatto e continua a essere fatto un ottimo lavoro, ma con essi oggi si può rovinare materiale prezioso!». E - questo di McGovern - anche un altolà all'archeologia tradizionale? Più si va avanti - spiega - e più le nuove tecnologie ci aiuteranno a ricostruire meglio il nostro passato. Basterebbe forse tornare a perquisire - stavolta scientificamente, però, come fa lui - la roba esposta (o sepolta) da decenni nei musei e nei loro depositi. E questa la nuova frontiera della ricerca? Emozionante, entusiasmante, la sua promessa ipertecnologica: «Ci si stanno spalancando interi nuovi capitoli della storia dell'uomo e dell'ambiente».

Picasso mai visti, a Roma fino all'8 gennaio

Repubblica 13.12.04
In esposizione a Roma
I Capolavori di Picasso dei collezionisti americani
di Paolo Vagheggi

ROMA. Una storia fuori dall'ordinario per un capolavoro assoluto di Picasso: Ferdinand Howald e Uomo seduto con pipa. Nel nostro paese nessuno conosce Ferdinand Howald anche se l'Ohio, lo stato che lo vide crescere, è stato a lungo sulle prime pagine dei quotidiani per i risultati elettorali americani. Howald era figlio di un fabbro svizzero. Arrivò negli Stati Uniti da povero emigrante nella seconda metà dell'Ottocento. Lavorava e studiava. Si diplomò all'università dell'Ohio, si occupò dell'estrazione del carbone e negli ultimi dieci anni di vita, dal 1923 al 1934, di arte. In poco tempo acquistò alcuni tra i maggiori capolavori del cubismo tra cui Uomo seduto con pipa che alla sua morte fu donato al museo di Columbus.
Oggi il capolavoro è esposto a Roma, alla Fondazione Memmo-Palazzo Ruspoli nella mostra Picasso e la sua epoca. Donazioni ai musei americani (fino all'8 gennaio 2005, a cura di Pepe Karmel, catalogo Skira). È un piccola ma raffinata esposizione che narra in modo sublime l'amore per l'arte e per Picasso dei collezionisti americani, come Howald, e il loro mecenatismo, ancor oggi insuperato per numero e qualità delle opere donate. Senza pregiudizi politici.
Picasso il comunista non spaventava i coniugi Walter e Louise Arensberg, lui poeta, lei pianista e cantante, o Albert Eugene Galletin, le cui donazioni hanno dato vita e vigore al Philadelphia museum of Art, o Joseph H. Hirshhorn, che a 14 anni cominciò a lavorare come fattorino a Wall Street e a 18 era già ricco. Ora c´è un museo a Washington che porta il suo nome e ospita la sua raccolta: 4.000 quadri e 1.600 sculture.
Grandi mecenati dunque. E amarono un Picasso che una volta trasferito negli Stati Uniti suggestionò profondamente l'avanguardia americana: ispirò Arshile Gorky, De Kooning o i gesti circolari dell'action painting di Jackson Pollock, influenzò le ricerche espressive di Stuart Davis, Morgan Russell e Charles Demuth. Questo è quello che raccontano le quaranta opere - otto del maestro spagnolo e trentadue di artisti americani ed europei - che vengono esposte per la prima volta nel nostro paese.