Liberazione 12.12.04
«Liberiamo i reclusi dei nuovi manicomi»
Intervista ad Agostino Pirella,
compagno di Basaglia e tra i fondatori di Psichiatria Democratica
«Verifichiamo un fatto grave. Cioè che i giovani psichiatri che escono dalle università sono addestrati solo a fare diagnosi e a prescrivere psicofarmaci. Dobbiamo ridare la parola ai pazienti». Agostino Pirella, compagno di strada di Franco Basaglia fin dal primo manicomio liberato, tra i fondatori di Psichiatria democratica di cui è presidente onorario, spiega l'esigenza di fondare una scuola post-laurea. Proprio così: i basagliani, ieri riuniti a Roma, hanno lanciato la loro scuola di specializzazione, per dirla con Rocco Canosa, segretario nazionale di Pd: in linea con il rilancio delle iniziative di lotta contro l'esclusione del folle dalla società nel nome della sicurezza. Lotte che vedono l'impegno di Pd anche oltre i confini nazionali, l'obiettivo è abbattere i manicomi in tutta Europa.
Pirella cosa la preoccupa di più in questo momento?
Che i giovani che escono dall'università vengono addestrati ad usare un unico modello nell'approccio con il paziente, che taglia fuori ogni relazione, ogni analisi biografica, o storica e punta al binomio diagnosi e psicofarmaci. Da questo la necessità di riuscire a fare una scuola orientata da psichiatria democratica.
Torniamo a fare i conti con la segregazione della follia? Come si smaschera l'uso diverso del manicomio?
Se un servizio di diagnosi e cura, che è il primo avamposto che il paziente incontra durante la crisi, ha le porte chiuse, se usa la contenzione e chili di psicofarmaci non è differente dai vecchi manicomi. E' da questo avamposto che si riesce a capire un paziente grave, come si è costruita questa gravità, da che storia psichiatrica viene, che tipo di gestione psichiatrica ha avuto. Sostenendo il rifiuto assoluto della contenzione del paziente, il lavorare nei servizi di diagnosi e cura con le porte aperte, quindi con un rapporto paritario con il paziente, un rapporto anche di fiducia con il paziente. Invece nella stragrande maggioranza dei servizi di diagnosi e cura in Italia sono gestiti con modelli manicomiali. Tanto è vero che le stesse associazioni dei familiari dei pazienti hanno coniato il termine "minicomi" per indicare questi posti. C'è anche il problema di una modalità, chiamiamola sbagliata, di superamento dei manicomi che è stata quella di organizzare degli spazi in cui venti, quaranta, cinquanta pazienti sono rinchiusi in residenze, comunità, istituzioni varie ecc.
Tanti piccoli manicomi privati, spacciati per residenze di cura e accoglienza. Ma chi abita questi "minicomi"?
Queste residenze si sono gradualmente popolate di nuovi pazienti, di pazienti giovani che sono il frutto di un fallimento della gestione organizzativa e dello stile di lavoro degli operatori psichiatrici questi stessi che lavorano in prima linea nei servizi di diagnosi e cura. Purtroppo è così.
Chi sono questi nuovi reclusi?
C'è un certo numero di pazienti che in pisicofarmacologia vengono chiamati "non responde". Che non rispondono agli psicofarmaci, perché non sono curativi, ma sono in gran parte sedativi: diminuiscono l'attività di certi mediatori chimici che si ritiene siano responsabili delle malattie mentali. Ma tutto ciò è assolutamente da dimostrare. Così queste persone non sedate rimangono con le loro idee, i loro comportamenti e vengono rinchiuse.
Una segregazione prescritta?
Una segregazione vigente. Penso alle proposte di revisione della legge 180, penso all'ultima che porta il doppio nome Burani Procaccini, oppure alle revisioni di fatto che passano nei regolamenti regionali o nelle prassi: oggi si rinchiudono queste persone prima nelle case di cura poi nelle cosiddette residenze. Sempre più spesso abbiamo riscontrato l'uso di giudicarli queste persone incapaci di intendere e volere.
«I pazienti sono esseri umani come noi e come noi hanno bisogno di amore, di denaro e di una casa». Una citazione di Basaglia da lei stesso rilanciata. Ma questa come si traduce nella pratica dei servizi di salute mentale?
Tutto il movimento di psichiatria democratica da Basaglia in poi è stato proprio questo: riconoscimento del paziente, dialogo con il paziente, confronto con le sue idee. Perché noi possiamo anche considerare deliranti le idee di una persona, ma esse ci dicono qualcosa della sua visione del mondo. Nel delirio c'è una visione del mondo, un punto di vista con il quale confrontarsi. Tutte le nostre esperienze hanno dimostrato che è sempre possibile una via di accesso nel delirio, un momento di confronto con i pazienti. Ma non è ciò che oggi si risconta nei servizi di diagnosi e cura. Dove sempre più spesso si giudicano i pazienti come patologici, si incontrano familiari che non ne possono più, e la soluzione praticata è prima la pillola poi la reclusione. Nascono così i nuovi contenitori di follia, le case di cura, le comunità, le residenze protette.
Quali sono i pericoli di questo corto circuito?
E' esemplare la vicenda Ritalin. Perché è grave dare questo psicofarmaco ai bambini? Perché è una sostanza gravemente tossica che ha prodotto anche delle morti. Reca danni al cuore, ma crea anche assuefazione. Crea adolescenti dipendenti dal farmaco. Ma c'è un problema molto più grave ed è quello che prescrivendo il Ritalin noi precludiamo ogni esplorazione dei possibili motivi sociali, familiari e scolastici che creano quei comportamenti considerati fuori norma nel bambino. Ma è quanto accade anche con gli adulti.
Siamo alla follia di massa?
Fare una diagnosi significa inchiodare la persona ad un destino. Nella stragrande maggioranza dei casi quei comportamenti stigmatizzati sono legati ad un evento momentaneo, e penso ad esempio ai precari in cerca di un lavoro che non arriva. Ma anche agli immigrati, agli anziani. La nostra è una battaglia culturale e scientifica.