martedì 6 luglio 2004

spiriti negligenti

Corriere della Sera 6.7.04
LA NOSTRA COMMEDIA
Nella terra di mezzo, il non luogo che ci assomiglia
di SILVIA VEGETTI FINZI


La Divina Commedia
Canto III

Nel canto secondo, sul far dell'alba, Dante e Virgilio sono sulla spiaggia che circonda il monte del Purgatorio. Sul mare appare un lume che avanza rapidamente e fa via via più intensa la propria luce nell'avvicinarsi. È un angelo che traghetta le nuove anime, le quali presto si affollano intorno ai due poeti. Tra questi spiriti Dante riconosce l'amico Casella, musico, il quale intonerà in suo onoe la canzone «Amor che nella mente mi ragiona». Le anime estasiate dalla melodia si smemorano, ma giunge severo Catone che rimprovera questi «spiriti lenti» e li sprona a «correre al monte». Nell'eco del rimprovero del «veglio onesto»si apre il canto terzo, dove ci sarà l'incontro con una serie di spiriti negligenti (gdr)
Biondo era e bello e di gentile aspetto
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso
Quand'io mi fui umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse:«Or vedi»;
e ostrommi una piaga a sommo 'l petto
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperatrice;
ond'io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
dell'onor di Cicili e d'Aragona
e dichi il vero a lei, s'altro si dice

(Purgatorio, canto III vv. 107-117)

Cosa volete che vi dica, io son di quelli che si appassionano di più quando «vedono» quel che leggono, quando le vicende non emergono dal nulla e i personaggi prendono corpo sul palcoscenico della fantasia, tra le quinte del sogno. Nella Commedia la scenografia è materia e forma, struttura e contenuto al tempo stesso. Ma se tutti abbiamo, quasi per eredità dell'immaginario culturale, una potente raffigurazione dell'Inferno, ben pochi sono in grado di descrivere il Purgatorio. E' il destino delle posizioni intermedie, delle vie di mezzo, schiacciate dalla potenza degli estremi, in questo caso l'Inferno e il Paradiso. Del Purgatorio Dante ci dice che è l'opposto dell'Inferno, essendo costituito dalla terra espulsa dagli inferi, quando Luciferò vi precipitò. Immaginate una montagna ripida, a forma di cono tronco. I penitenti devono raggiungere la cima seguendo sette terrazzamenti, corrispondenti ai sette peccati capitali. Le anime si presentano come diafane nebulosità che del corpo hanno lo stampo, non la sostanza, sì che la capacità di far ombra è ciò che distingue i vivi dai morti. Nell'attesa della fine dei tempi, esse rimangono sospese tra i due regni eterni, l'Inferno e il Paradiso, e i due tempi della storia, il passato della colpa e il futuro della speranza. La loro dimensione è il viaggio, il transito, l'attraversamento, l'andare verso. In questo senso ci assomigliano. Anche noi tendiamo a sostare sempre più a lungo in quelli che Marc Augé chiama i «non luoghi», come stazioni, aereoporti, parcheggi e supermercati. Con la differenza che il nostro andare è contingente, casuale, erratico, il loro saldamente intenzionato in senso verticale, proteso alla salvezza eterna. Contrariamente all'Inferno, qui non vi è disperazione e i colori delle emozioni si fanno, da cupi che erano, lievi, sfumati. Mentre i personaggi rivelano chiaroscuri psicologici ignoti alle figure a sbalzo della dannazione eterna. Sarà anche per questo che sentiamo il Purgatorio come una rappresentazione più prossima alle nostre coordinate esistenziali, al nostro desiderio di medietà sociale e mentale. Il regno di mezzo simbolizza la possibilità di uno spazio e di un tempo, mobili e finiti, che consentano alla storia di rimettersi in cammino dopo l'eclisse delle utopie e delle ideologie totalizzanti. Lo storico Le Goff sostiene che il Purgatorio è stato inventato per rappresentare l'emergere della borghesia, frapposta tra la nobiltà e la plebe, e legittimare il desiderio del nuovo ceto di assurgere alle vette della scala sociale.
Dante tutto questo non lo sa e si propone piuttosto di descrivere e valutare il mondo come lui lo vede: la società feudale nella quale vive e i conflitti che la dilaniano. Il canto precedente era terminato con la fuga precipitosa, disordinata e un po' sconveniente di Dante e Virgilio, incalzati dai rimproveri di Catone. Notando l'imbarazzo provato dal Maestro, Dante sottolinea come sia proprio della persona nobile vergognarsi di ogni piccolo errore. «El mi parea da sé stesso rimorso: / o dignitosa coscienza e netta, / come t'è picciol fallo amaro morso!». Una valutazione che sarà ripresa da Nietzsche quando scrive: «L'uomo nobile si propone di non provocare vergogna e, al tempo stesso, s'impone di provare vergogna per tutto quanto soffre». E' una caratteristica dei nostri tempi l'aver sostituito la vergogna alla colpa. Ma, mentre Dante la connette alla coscienza morale, noi la ritroviamo piuttosto nell'inconscio. Caduto infatti il rigido sistema di divieti che caratterizzava la famiglia patriarcale, ci si confronta ora con l'ideale di sé piuttosto che con i giudizi degli altri. Un ideale più estetico che morale, più imposto dai mass media che trasmesso dall'educazione. Ma proprio perché astratti e impersonali, i modelli sociali risultano particolarmente intransigenti, tanto da provocare un diffuso senso d'inadeguatezza. Se si ascoltano gli adolescenti, si scopre che dicono più frequentemente «non posso, non ce la faccio» piuttosto che «non devo». E che, non la rabbia, come ai tempi della contestazione giovanile, ma la depressione è la più diffusa affezione dell'anima.
Il procedere delle argomentazioni conduce poi Dante e Virgilio a collegare l'elogio della coscienza, «dignitosa e netta», con i limiti della ragione umana che trova, proprio nel riconoscimento della sua insufficienza di fronte agli insondabili misteri della fede, la massima affermazione. E' difficile per noi comprendere la spiritualità medioevale: la centralità della Rivelazione, il senso della Provvidenza, la svalutazione della mera vita di fronte alla Vera vita. Tuttavia il richiamo al riconoscimento del limite, alla necessità di un'etica della misura suona quanto mai attuale in una civiltà, come la nostra, votata all'eccesso e spesso incapace di governare le derive dei suoi saperi. E poteri.
Mentre i due visitatori van così discorrendo, con uno straordinario colpo di scena un'anima si stacca dalla fitta schiera dei penitenti, imponendo d'un balzo la sua luminosa figura: è Manfredi. Di cui Dante dice: biondo era e bello e di gentile aspetto, nonostante le ferite che gli solcano il viso e il petto. A voi lettori la scelta dell'attore più adeguato a impersonarlo. Io propenderei per Orlando Bloom, non so voi. Dante non lo aveva mai incontrato ma ne conosce le vicende perché appartengono alla storia. Figlio legittimato di Federico II, incoronato, non senza contrasti ereditari, re di Sicilia e di Puglia, era morto ancor giovane combattendo contro Carlo I d'Angiò, chiamato in Italia dal Papa Clemente IV. Sepolto cavallerescamente dagli avversari, il suo corpo era stato nottetempo dissotterrato e disperso per ordine pontificio, in conformità all’espulsione incondizionata che colpiva eretici e scomunicati. Benché in punto di morte Manfredi, con un estremo gesto di fede, avesse affidato la sua anima a Dio, a quei che volentier perdona, la scomunica papale sembrava averlo comunque destinato all'Inferno.
Ma per la moderna sensibilità di Dante, l'anatema della Chiesa non coincide necessariamente con il volere supremo perché il peccatore può ricorrere direttamente a Dio e, quando il pentimento sia profondo, ottenerne la grazia senza intercessione alcuna. Prendendo una decisione eterodossa, non priva di turbamenti, il Poeta sottrae pertanto l'orgoglioso Manfredi alla dannazione eterna, cui tutti lo credevano destinato. Ora quell'anima ambiziosa e guerriera rievoca il passato con distacco, ma ancor l'offende l'oltraggio arrecato alle sue spoglie. Affiorano qui, in rapidi versi, tre grandi temi della riflessione dantesca: la nefasta commistione tra potere politico e religioso; il destino del corpo; la possibilità di chiedere la grazia direttamente a Dio, saltando l'intermediazione della Chiesa. Lascio a ciascuno il compito di cogliere, nelle vicende di quell'epoca tormentata, gli elementi di permanenza che ancora c'interrogano. Ma ciò che più importa all'orgoglioso Manfredi è di far sapere ai vivi che la sua condanna non è eterna. Prega perciò Dante d'informare del suo destino la «bella» e «brava» figlia Costanza, regina di Sicilia e di Aragona, ricordandole che le intercessioni (preghiere e penitenze) potrebbero abbreviare la sua pena. Stupisce che un canto così virile si concluda con uno squarcio di tenerezza paterna. Tanto più rivolta a una figlia, mentre la tradizione classica ha sempre prediletto l'asse padre-figlio. Ma la capacità di cogliere il cuore segreto degli uomini è il privilegio della grande poesia. Proprio da questa intuizione si può prender spunto per analizzare il rapporto padre-figlia, spesso sostituito, di questi tempi, da quello madre-figlia. Da quando anche le donne vivono nel mondo e non solo nella casa, il padre è divenuto una figura marginale, smarrendo la funzione, un tempo esclusiva, di rappresentare i valori, i principi e le regole sociali. Ormai l'educazione è gestita dalla sola madre o da entrambi i genitori, sempre però secondo un codice materno, fondato sulla permessività e l'indulgenza. Recuperare la figura del padre, valorizzare la sua affettività, confrontarsi con la visione virile del mondo, potrebbe essere allora un buon modo per crescere le figlie, non solo i figli. Se questo è vero, conferma la convinzione di Freud che, sulla strada della conoscenza, i poeti ci precedono sempre.