lunedì 22 marzo 2004


dal forum di MAWIVIDEO.IT

oltre alle precedenti

sono disponibili sul sito di mawivideo.it

la 3ª lezione della prof.ssa
Francesca Fagioli

la 4ª e la 5ª lezione del prof.
Andrea Masini

la 3ª lezione del prof.
Massimo Fagioli


tenutesi tra venerdì 19.3.04, e sabato 20.3.04

all'Università di Chieti

Marco Bellocchio a New York

New York Times March 21, 2004
BAMCINÉMATEK at BAM ROSE CINEMAS


Tribute to Marco Bellocchio. Today, 2, 4:30, 6:50, 9:10: Mr. Bellocchio's "My Mother's Smile." Thur., 4:30, 6:50, 9:10: "The Conviction." Fri., 2, 4:30, 6:50, 9:10: "The Prince of Homburg." Sat., 7: "Good Morning, Night"; discussion with Mr. Bellocchio follows.

New York Post March 21, 2004
GOOD MORNING, MARCO


MARCO Bellocchio's provocative films don't get many screenings in New York, a condition that BAM Rose Cinemas is helping to correct with a mini-retro.
The tribute includes a question-and-answer session with the 64-year-old Italian filmmaker after Saturday's 7 p.m. screening of "Good Morning, Night" (2003).
That's his politically charged drama about the kidnapping and murder of Italian Prime Minister Aldo Moro by Red Brigade terrorists in 1978.
Bellocchio's audacious feature debut, "Fists in the Pocket" (1965), unspools Wednesday.
Lou Castel is outstanding as a teenage epileptic driven to obscene acts of violence in a work that BAM film publicist Molly Gross calls "amazing on all levels." Critic Elliott Stein will impart words of wisdom after the 6:50 p.m. showing.
Also in the series, running through March 28, are "My Mother's Smile" (2002), "The Conviction" (1990), "The Prince of Homburg" (1997) and "The Nanny" (1999).
BAM Rose Cinemas is on Lafayette Avenue, off Flatbush Avenue, in Brooklyn; www.bam.org

due articoli di Simona Maggiorelli:
sulla mostre su Klee, e su quella su Rubens, e l'arte "mordi e fuggi"

Europa quotidiano, sabato 13 marzo 2004
Klee, Mediterraneo di colori
di Simona Maggiorelli


Al Vittoriano di Roma, da oggi, una mostra sull’incontro fra Klee e i paesaggi italiani. Una rotta verso sud che il pittore svizzero prese fin dal 1901, lasciati i corsi d’Accademia con Franz von Stuck. Inseguendo il mito letterario dell’Italienische Reise, ricorda il curatore Cluadio Strinati. Poi Klee tornerà ancora nel ’13, dopo l’esperienza del Cavaliere Azzurro, l’incontro con Kandinsky e il lungo viaggio in Tunisia. E visiterà la Sicilia nel ’24 passando per Taormina, Siracusa e Gela. Fino all’incontro con gli intellettuali, alla Biennale di Venezia del 1930 (anche se Klee non andò a vedere la piccola retrospettiva che gli era stata dedicata perché non amava Venezia, gli sembrava troppo austriaca). E oltre. Con molti soggiorni in Toscana e sulle coste del sud. Una lunga fedeltà all’Italia e alle luci del Mediterraneo a cui il pittore svizzero dedicò molta parte della sua opera. Centottanta tele, per la maggior parte provenienti dalla Fondazione Klee di Berna e dalla raccolta del figlio Felix, fanno il corpus della mostra romana “Paul Klee, in questo Paese”, che resterà aperta fino al 27 giugno.“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è” annotava Klee nel suo diario. Un’idea di ricerca che il pittore non abbandonò mai. Da qui nascono anche i paesaggi dipinti in Italia. Segni quasi calligrafici che galleggiano in un bruciante rosso. Paesaggi scomposti secondo coordinate geometriche, moduli ripetitivi di un’infinita variazione sul tema. Sembra un linguaggio gioioso, infantile, invece, è un drammatico susseguirsi di visioni senza tregua o un attimo di quiete. L’uomo e la natura si fanno labirintici nella sua opera. Come è stato notato, Klee non cerca di far emergere l’inconscio. Cerca le strutture primarie di ciò che vede, “vuole toccare il fondo, il principio”; il suo è un metodo di analisi. E sotto il colore sfolgorante si sente sempre una sottile angoscia. Da un quadro all’altro i medesimi temi che si rincorrono. Al massimo può cambiare la disposizione degli ingredienti, degli intrecci fra colore, poesia, geometria, filosofia, sogno, musica. Una materia, quest’ultima che Klee conosceva bene. Suonava il violino fin da quando era piccolo e più volte ha dichiarato di voler tentare di rappresentare plasticamente la musica. “Poche opere sono altrettanto vicine alla polifonia di quelle di Klee” ha scritto Paul Boulez, in un lungo saggio sul pittore svizzero. Una rappresentazione plastica della musica che spesso assume le sembianze di un paesaggio astratto. “Dipingo un paesaggio un po’ come la vista che si offre guardando dalle montagne della Valle dei Re verso la terra fertile- scriveva Klee alla moglie Lily nel ’29 – la polifonia tra il fondo e l’atmosfera deve essere mantenuta le più tenue possbile”.


Europa quotidiano
Mentre Rubens debutta a Genova, “capitale della cultura 2004”
Dilaga l’arte mordi e fuggi

Centinaia di mostre, spesso duplicazioni e triplicazioni, in città e provincia. Grandi eventi e manifestazioni di promozione turistica, con lo slogan “un campanile una mostra”. Da Varese a Torino, da Ferrara a Rimini, maestri come Chagall, Mirò, Guercino e un autentico reticolo delle avanguardie storiche, surrealismo, minimalismo, pop art, iperrealismo. Purtroppo le manifestazioni fanno più notizia della nascita di un museo o di nuove raccolte che possano diventare patrimonio stabile della città.
di SIMONA MAGGIORELLI


Una concentrazione altissima di mostre al debutto. Quasi in contemporanea. In questo primo scorcio di primavera se ne contano quasi un centinaio. Non solo nelle “solite” città d’arte, ma anche in piccoli centri di provincia, che si autopromuovono come meta turistica, sulle rotte di invitanti gite fuori porta. Insomma, ogni campanile, una mostra. O quasi. Nessun assessorato, di fatto, rinuncia al suo fiore all’occhiello. Le mostre, si sa, offrono la garanzia di un ritorno immediato di immagine, fanno notizia assai di più della nascita o della riapertura di un museo, del lento e stratificato lavoro culturale che necessita la costruzione di una collezione d’arte che poi possa diventare stabilmente patrimonio culturale di una città, per una consuetudine con l’arte che non sia solo “mordi e fuggi”. Ma, tant’è, il paniere è ricco, e merita senz’altro una qualche mappatura, anche se non sempre è facile distinguere il grano di iniziative sostanziate da studi e nuove ipotesi di ricerca, dal miglio di operazioni di più spudorato marketing; zigzagando fra le tante proposte di pregio e altre che insistono sugli stessi autori e temi, finendo per contendersi la medesima tranche di pubblico.
Se non un doppione, certo presenza ridondante appare la triplice occorrenza di Chagall: a Villa Ponce de Leon di Gavirate (Varese), fino al 12 aprile sono esposte 150 incisioni realizzate tra il ’31 e il ’56 e appena restaurate, tratte dalla lettura chagalliana della Bibbia. La stessa mostra, con qualche variante, a partire dal 25 aprile, al museo ebraico di Genova. Intanto, dal 25 marzo, debutta alla Gam di Torino una retrospettiva con 150 opere dell’ultimo Chagall, il più prolifico e cristallizzato su visioni fantastiche del circo e di saltimbanchi, ma anche su storie di patriarchi e immagini religiose rilette in chiave eterodossa.
Sul versante delle antiche culture del sud America grande attenzione intorno a Messico e Perù. Mentre si è appena conclusa la mostra fiorentina dedicata all’arte peruviana preispanica, lo stesso Aimi ne squaderna un’altra, fino al 2 maggio, nel Castello Sforzesco di Milano. In Palazzo Ruspoli, a Roma, intanto, da oggi al 18 luglio, una monografica dedicata agli Aztechi, annunciata come la «più vasta e completa realizzata fuori dal Messico». Certamente, meglio un parto trigemino che il vuoto.
Ma forse un po’ più sensibilità organizzativa nella scelta del periodo di programmazione, non avrebbe guastato.
Nell’ambito delle mostre dettate più da investiture politiche che da esigenze di ricerca, debutta oggi la monografica che Genova, capitale europea della cultura, dedica a Rubens. In Palazzo Ducale, Palazzo Spinola e Palazzo Rosso sfilano per la prima volta insieme le opere delle collezioni private delle famiglie genovesi, con prestiti dal Louvre, dalla National Gallery e dal Getty Museum di Los Angeles. In tutto 150 opere, con capolavori di Raffaello, Tiziano, Veronese, Van Dyck, Gentileschi, Reni e 15 tele di Rubens. La sottolineatura da grande evento, certo, non manca, ma sulla carta non mancano nemmeno forti motivi d’interesse.
Nella articolata rassegna che resterà aperta fino all’11 luglio, le opere del pittore fiammingo, viaggiatore e poliglotta – “pittore europeo ante litteram”, come spesso è stato detto – raccontano la storia della Repubblica genovese, attraverso quella delle famiglie che nel ‘600 resero la città ricca e con molti rapporti internazionali. Una storia genovese in qualche modo rimossa, messa da parte, con l’unità d’Italia e la “piemontizzazione” della città, che sparse per le vie genovesi più statue di Colombo e di Mazzini (al fin fine neanche genovesi) che riconoscimenti ai Doria, ai Costa, ai Raggi e alle altre casate che fecero di Genova una capitale della finanza internazionale. Proprio i nomi di queste e altre famiglie illustri del ‘600 genovese scandisce il ritmo delle dodici sale in cui si articola la mostra in palazzo Ducale.
Pitture e argenti, tele e suppellettili preziose. Con questo intercalare il curatore Piero Boccard ha voluto rendere chiaro come per famiglie come i Doria arte e gioielleria rappresentassero alla stessa stregua “beni di rifugio” su cui investire.
La traccia del collezionismo e dalla ricostruzione dell’egemonia culturale esercitata da alcuni potenti committenze private attraversa anche due importanti mostre in Emilia Romagna e nelle Marche. A Ferrara, fino al 13 giugno, si celebrano gli Este. Nel Castello ferrarese, il proto umanesimo di Donatello e Mantegna, la fantasia ariostesca e capricciosa di Dosso Dossi, il genio alchemico di Cosmé Tura, il colorismo veneto di Tiziano.
Oltre 200 opere in un percorso disegnato da Gae Aulenti e curato da Jadranka Bentini, che ripercorre il mecenatismo di Ercole I e Alfonso I, la cultura illuminata della loro corte rinascimentale.
Più a sud, in diverse città marchigiane, dal 4 aprile, si ricostruisce la storia della committenza dei duchi Della Rovere, di fatto i primi signori del ‘500 italiano a capire la miopia di una politica basata su continue ambizioni espansionistiche; i primi a cercare una risonanza oltre confine costruendosi una fama di mecenati, colti e raffinati. Così, insieme ai celebri ritratti di Francesco Maria I e di Eleonora Gonzaga di Tiziano, i ritratti ieratici del Bronzino, la bizzarria manierista di Berruguete e molto altro. Tra Urbino, Pesaro, Senigallia e Urbania, una tetralogia di mostre curate da Paolo Del Poggetto con Antonio Paolucci e altri.
Fra le mostre monografiche di maestri dal ‘400 al ‘600, in Palazzo Strozzi di Firenze – se ne è già parlato su queste pagine – va in scena la “fragile felicità” di Botticelli e Lippi, con la serie di capolavori della trasferta parigina arricchita per questa rentrée.
Alla Pinacoteca di Empoli, Carlo Sisi e Antonio Natali varano la prima ampia retrospettiva di Jacopo Chimenti da Empoli, protagonista della pittura fiorentina fra ‘500 e ‘600. Dal 27 marzo al 27 giugno, a Rimini nuova finestra sul ‘600, con L’inquieto Guercino nella Rocca Malatestiana. Firmata a più mani, da Bentini, Emiliani, Paolucci, Mazza, una mostra con 250 opere che presenta il risultato di 5 anni di ricerche e restauri, con alcuni inediti e tele poco viste, conservate in posti fuori mano.
Nell’ambito del contemporaneo, invece, si fanno più rade le proposte che esulino dal già visto, dalla riproposta dei soliti noti della pittura – pop art, minimalismo, transavanguardia ecc.
– dalle solite “rockstar” che infiammano il mercato e i media soprattutto televisivi. A parte Klee al Vittoriano, l’unica ampia rassegna dedicata a un autore delle avanguardie storiche, in questa congiuntura, è quella in Villa Olmo a Como Jean Mirò, alchimista del segno: un percorso di 150 opere del pittore catalano, fra pitture, sculture, arazzi e ceramiche, opere perlopiù del periodo meno dirompente e più prolifico, quello fra gli anni ’60 e ’70. Schegge di quegli anni anche in Palazzo dei Diamanati a Ferrara, con la prima retrospettiva italiana di Rauschenberg (fino al 16 giugno), precursore del minimalismo e della Pop art e ancora oggi sperimentatore di tecniche e materiali, soprattutto in intrecci con le arti sceniche. Dal 18 aprile, poi, il viaggio all’interno degli universi sgargianti della pop art idealmente prosegue alla Civica di Modena, dove è di scena l’arte della Swinging London. Sono le immagini fumettistiche e psichedeliche di Pop Art UK, da Clive Barker a Allen Jones. Pesca direttamente fra i miti dell’universo pop e della canzone la mostra Strange Messenger, opere grafiche e pittoriche di Patti Smith, al Padiglione d’arte contemporanea di Ferrara. Ci sarà anche lei, la diva degli anni ‘70 all’inaugurazione in programma questo pomeriggio alle 17,30 nello spazio espositivo di Corso Porta Mare. E mentre i grandi centri, Roma e Milano ancora languono di proposte (al neonato Maxi fino al 16 maggio, Alessandro Anselmi e Roberto Scezen, un architetto e un fotografo in doppia mostra e al Macro diretto da Danilo Eccher, le personali di Nicola De Maria, Elisabetta Benassi e Martin Pascal Tayou fino al 30 aprile), al Pecci di Prato, un’interessante retrospettiva dedicata a due artisti Domenico Gnoli e Francesco Lo Savio degli anni ’50 e ’60, stranamente quasi più noti all’estero che in Italia. Curata dall’ex condirettore del Centre Pompidou Daniel Soutif e da Bruno Corà, due percorsi paralleli a confronto, stessa generazione e sperimentazioni antitetiche: a tratti iperealista quella di Gnoli rappresentato con oltre 200 opere; astratta e concentrata sul rapporto spazio luce e sulla tridimensionalità architettonica quella di Lo Savio. In coda, la segnalazione di una massiccia presenza di iniziative firmate Vittorio Sgarbi. In queste settimane due mostre: dal 27 marzo ad Arezzo, Da Picasso a Botero, percorso ecumenico, fra artisti e decoratori, sul filo “della trascendenza metafisica nel Novecento”.
E dal 3 aprile ad Ascoli Piceno La ricerca dell’identità da Tiziano a De Chirico: ricerca ambiziosa dal ‘500 a oggi, che rispolverando studi freudiani sull’arte, di cui nel frattempo è stata dimostrata l’assoluta inattendibilità, pretende di chiarire “i meccanismi d’azione dell’inconscio” e attraverso i ritratti di pittori come Licini e Pirandello di inverare “la teoresi stessa della scissione dell’identità”. Ignorando gli sviluppi della scienza psichiatrica, asserendo che la malattia mentale sia la normale condizione umana.