The New York Times 1.5.04
The New Italian Icon
By A.O. SCOTT
There was a time, not long ago, when Italian movies -- and Italian movie stars -- arrived on our shores with pleasing regularity. That country's great actresses, in particular -- Anna Magnani, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Sophia Loren, to commence a list that easily could fill this page - became international icons of Mediterranean womanhood, vivid embodiments of earthy sensuality, maternal passion, histrionic suffering and volcanic capriciousness. But since the 1970's, Italian cinema has turned inward, toward quiet domestic drama and solemn political inquiry, and it has, with the exception of the occasional sentimental crowd-pleaser (''Il Postino,'' for instance), slipped out of fashion.
This is a shame, because the quality and breadth of Italian screen acting is as impressive as ever. Perhaps the most abundant support for this claim can be found in ''The Best of Youth'' a six-hour film by Marco Tulio Giondana, originally made for Italian television, which will be released theatrically by Miramax in July. The film, which follows a middle-class Roman family from the mid-1960's to the year 2000, features a cast of extraordinarily capable actors, none of them familiar faces. The most striking face, surely, belongs to Maya Sansa, a 28-year-old actress of Iranian and Italian descent who seems to carry in her dark eyes and soulful features a dramatic tradition that reaches back into antiquity and forward into the global cinematic future.
In ''The Best of Youth,'' her character, Mirella Utano, is a Sicilian photographer who arrives in the middle of the story, befriending one of the main characters, a handsome and volatile police officer. The sight of her sitting on a sun-flooded cafe terrace momentarily lifts his despair. Her subsequent appearances, always surprising, always welcome, bring with them the promise of connection, continuity and happiness to a family and a nation racked by the trauma and division of the 1970's.
In Marco Bellocchio's ''Good Morning, Night,'' shown at last year's New York Film Festival, Sansa is, by contrast, an icon of loneliness and torment. She plays one of the perpetrators of the era's most notorious political crimes -- the kidnapping and murder of the Christian Democratic leader Aldo Moro in 1978 -- and she seems to absorb all of that decade's agony into her sensitive face and delicate frame.
In these two films, Sansa, an actress of exquisite restraint, tiptoes in the footsteps of the great screen divas of the past. There is nothing melodramatic, let alone operatic, in her presentation, but her quietness is its own kind of charisma. The best Italian movies these days tend to be thoughtful, graceful and humane, and Sansa, for all her modesty, may be the ideal star to carry them to the wider world.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 1 maggio 2004
incidenza dell'anoressia e della bulimia in Piemonte
La Stampa 1.5.04
Riconoscere anoressia e bulimia
di Marco Accossato
Saranno in distribuzione a giorni, in tutte le farmacie di Torino e della provincia, 65 mila opuscoli gratuiti dal titolo «Anoressia Bulimia». E’ il contribuito che l’associazione Pr.A.To - acronimo di Prevenzione Anoressia Torino - darà all’attività del Centro Amenorree nato circa un anno fa all’ospedale Sant’Anna di corso Spezia, primo esempio italiano di équipe mista di ginecologi, endocrinologi, neuropsichiatri infantili e psichiatri specializzata nel prevenire le conseguenze devastanti dei disturbi alimentari.
In Piemonte 700 mila ragazze sono nell’età a rischio anoressia. Ogni anno, nella nostra regione, si registrano tra i 180 e i 360 nuovi casi di anoressia e tra i 360 e i 550 di bulimia. Il rifiuto del cibo, come l’abbuffarsi per poi vomitare, sono due aspetti di uno stesso problema: «Otto volte su dieci - spiega il professor Roberto Rigardetto, direttore dell'Istituto di Neuropsichiatria Infantile dell'Università di Torino e specialista del centro torinese - dietro un disturbo dell'alimentazione c'è un rapporto difficile in famiglia che all'inizio il pre-adolescente o l'adolescente riesce a compensare, ma oltre un certo limite esplode nell'anoressia o nella bulimia». «Il problema - aggiunge Rigardetto - è che una famiglia in crisi si concentra sull'aspetto fisico del problema, mentre deve essere aiutata a spostare l'attenzione a monte, sulle cause dei disturbi organici».
L'obiettivo del Centro nato nel 2003 al Sant'Anna è prevenire: tre ambulatori, un day service con tre lettini dove vengono visitate le pazienti, sottoposte ai test ormonali, alle ecografie e alle densitometrie ossee. Accanto al professor Rigardetto lavorano il professor Carlo Campagnoli - promotore del Centro - e il professor Secondo Fassino, direttore del centro pilota dei disturbi del comportamento dell'Asl 3.
Il contributo concreto dell’associazione Pr.A.To presieduto da Evelina Christillin non si fermerà al prezioso opuscolo da 34 pagine, redatto da alcuni soci fondatori e pubblicato col contributo della Fondazione Crt: mercoledì 26 maggio, dalle 17 alle 19, nell’aula magna dell’Istituto Avogadro, è organizzato un incontro durante il quale saranno descritti fra l’altro i tipici segnali d’allarme dell’anoressia e della bulimia. «Il 15 per cento delle ragazze anoressiche, ancor oggi, non ce la fa a superare la malattia e muore», ricorda il professor Rigardetto. «La prevenzione si basa innanzitutto sull’informazione - sottolinea la presidente Christillin -. Genitori, medici, insegnanti e operatori sociali devono essere sensibilizzati a riconoscere i segni di disagio, i comportamenti, i sintomi che sono espressione precoce di una possibile anoressia, indirizzando i giovani alle strutture sanitarie adeguate».
Repubblica ed. di Torino 1.5.04
Parte la campagna di prevenzione promossa dall´associazione "Prato": conferenze nelle scuole, distribuiti centomila opuscoli
Anoressia, in calo l'età
La soglia dei disturbi si abbassa a 11-12 anni
Sette ragazze su cento hanno una condotta alimentare scorretta
di TIZIANA CATENAZZO
Cresce l´emergenza anoressia e bulimia: 100 nuovi casi all´anno, a Torino, mentre in Piemonte sono 700 mila i soggetti a rischio; 1400 quelli affetti da anoressia conclamata e 5000 i bulimici. Ogni anno il numero dei nuovi casi passa da 180 a 360, per l´anoressia, e da 360 a 550 per la bulimia. E intanto la soglia di inizio dei disturbi si abbassa agli 11-12 anni. Ne hanno parlato ieri mattina all´ospedale Sant´Anna i soci fondatori di Pr.A.To, associazione per la prevenzione dell´anoressia a Torino: Evelina Christillin, che la presiede, Secondo Fassino, direttore del Centro universitario per la cura dei disturbi da comportamento alimentare (Dca), e Carlo Compagnoli, promotore del Centro amenorree nato l´anno scorso internamente all´ospedale. Per ribadire l´importanza della prevenzione e della diagnosi precoce di questi ?malesseri da benessere´: genitori, medici, insegnanti e operatori sociali devono riconoscere i segni di disagio, i comportamenti e i sintomi per indirizzare i giovani alle strutture sanitarie. Da qui, la campagna di informazione con il contributo della Crt: un testo informativo - distribuito in più di 100 mila copie attraverso le farmacie, medici di base, associazioni femminili, l´Unitre - e una serie di incontri di approfondimento, a partire dal 26 maggio all´Itis Avogadro. Il Centro amenorree del Sant´Anna è attivo da quasi un anno, e vi operano ginecologi, psichiatri e psicologi. «Abbiamo preso in carico 65 ragazze sopra i 18 anni- spiega Carlo Campagnoli - per un percorso diagnostico e un primo intervento psicologico motivazionale. Come prevenzione abbiamo visitato finora 183 ragazze con amenorrea da sottopeso, di cui 40 minorenni: due giovanissime presentavano già uno stato di deperimento tale da suggerire un immediato ricovero, mentre cinque maggiorenni sono state inviate al Centro Dca dell´Università, e 151 al day service. La valutazione psicologica ha evidenziato una situazione a rischio per il 77% delle minorenni e del 59% delle maggiorenni, e l´esame densitometrico ha rilevato che per il 50% delle minorenni la massa ossea è nettamente carente». Uno studio condotto l´anno scorso nelle scuole superiori piemontesi ha dimostrato che le ragazze sottopeso sono circa il 17%, e che il 7% di loro presenta una condotta alimentare problematica.
Riconoscere anoressia e bulimia
di Marco Accossato
Saranno in distribuzione a giorni, in tutte le farmacie di Torino e della provincia, 65 mila opuscoli gratuiti dal titolo «Anoressia Bulimia». E’ il contribuito che l’associazione Pr.A.To - acronimo di Prevenzione Anoressia Torino - darà all’attività del Centro Amenorree nato circa un anno fa all’ospedale Sant’Anna di corso Spezia, primo esempio italiano di équipe mista di ginecologi, endocrinologi, neuropsichiatri infantili e psichiatri specializzata nel prevenire le conseguenze devastanti dei disturbi alimentari.
In Piemonte 700 mila ragazze sono nell’età a rischio anoressia. Ogni anno, nella nostra regione, si registrano tra i 180 e i 360 nuovi casi di anoressia e tra i 360 e i 550 di bulimia. Il rifiuto del cibo, come l’abbuffarsi per poi vomitare, sono due aspetti di uno stesso problema: «Otto volte su dieci - spiega il professor Roberto Rigardetto, direttore dell'Istituto di Neuropsichiatria Infantile dell'Università di Torino e specialista del centro torinese - dietro un disturbo dell'alimentazione c'è un rapporto difficile in famiglia che all'inizio il pre-adolescente o l'adolescente riesce a compensare, ma oltre un certo limite esplode nell'anoressia o nella bulimia». «Il problema - aggiunge Rigardetto - è che una famiglia in crisi si concentra sull'aspetto fisico del problema, mentre deve essere aiutata a spostare l'attenzione a monte, sulle cause dei disturbi organici».
L'obiettivo del Centro nato nel 2003 al Sant'Anna è prevenire: tre ambulatori, un day service con tre lettini dove vengono visitate le pazienti, sottoposte ai test ormonali, alle ecografie e alle densitometrie ossee. Accanto al professor Rigardetto lavorano il professor Carlo Campagnoli - promotore del Centro - e il professor Secondo Fassino, direttore del centro pilota dei disturbi del comportamento dell'Asl 3.
Il contributo concreto dell’associazione Pr.A.To presieduto da Evelina Christillin non si fermerà al prezioso opuscolo da 34 pagine, redatto da alcuni soci fondatori e pubblicato col contributo della Fondazione Crt: mercoledì 26 maggio, dalle 17 alle 19, nell’aula magna dell’Istituto Avogadro, è organizzato un incontro durante il quale saranno descritti fra l’altro i tipici segnali d’allarme dell’anoressia e della bulimia. «Il 15 per cento delle ragazze anoressiche, ancor oggi, non ce la fa a superare la malattia e muore», ricorda il professor Rigardetto. «La prevenzione si basa innanzitutto sull’informazione - sottolinea la presidente Christillin -. Genitori, medici, insegnanti e operatori sociali devono essere sensibilizzati a riconoscere i segni di disagio, i comportamenti, i sintomi che sono espressione precoce di una possibile anoressia, indirizzando i giovani alle strutture sanitarie adeguate».
Repubblica ed. di Torino 1.5.04
Parte la campagna di prevenzione promossa dall´associazione "Prato": conferenze nelle scuole, distribuiti centomila opuscoli
Anoressia, in calo l'età
La soglia dei disturbi si abbassa a 11-12 anni
Sette ragazze su cento hanno una condotta alimentare scorretta
di TIZIANA CATENAZZO
Cresce l´emergenza anoressia e bulimia: 100 nuovi casi all´anno, a Torino, mentre in Piemonte sono 700 mila i soggetti a rischio; 1400 quelli affetti da anoressia conclamata e 5000 i bulimici. Ogni anno il numero dei nuovi casi passa da 180 a 360, per l´anoressia, e da 360 a 550 per la bulimia. E intanto la soglia di inizio dei disturbi si abbassa agli 11-12 anni. Ne hanno parlato ieri mattina all´ospedale Sant´Anna i soci fondatori di Pr.A.To, associazione per la prevenzione dell´anoressia a Torino: Evelina Christillin, che la presiede, Secondo Fassino, direttore del Centro universitario per la cura dei disturbi da comportamento alimentare (Dca), e Carlo Compagnoli, promotore del Centro amenorree nato l´anno scorso internamente all´ospedale. Per ribadire l´importanza della prevenzione e della diagnosi precoce di questi ?malesseri da benessere´: genitori, medici, insegnanti e operatori sociali devono riconoscere i segni di disagio, i comportamenti e i sintomi per indirizzare i giovani alle strutture sanitarie. Da qui, la campagna di informazione con il contributo della Crt: un testo informativo - distribuito in più di 100 mila copie attraverso le farmacie, medici di base, associazioni femminili, l´Unitre - e una serie di incontri di approfondimento, a partire dal 26 maggio all´Itis Avogadro. Il Centro amenorree del Sant´Anna è attivo da quasi un anno, e vi operano ginecologi, psichiatri e psicologi. «Abbiamo preso in carico 65 ragazze sopra i 18 anni- spiega Carlo Campagnoli - per un percorso diagnostico e un primo intervento psicologico motivazionale. Come prevenzione abbiamo visitato finora 183 ragazze con amenorrea da sottopeso, di cui 40 minorenni: due giovanissime presentavano già uno stato di deperimento tale da suggerire un immediato ricovero, mentre cinque maggiorenni sono state inviate al Centro Dca dell´Università, e 151 al day service. La valutazione psicologica ha evidenziato una situazione a rischio per il 77% delle minorenni e del 59% delle maggiorenni, e l´esame densitometrico ha rilevato che per il 50% delle minorenni la massa ossea è nettamente carente». Uno studio condotto l´anno scorso nelle scuole superiori piemontesi ha dimostrato che le ragazze sottopeso sono circa il 17%, e che il 7% di loro presenta una condotta alimentare problematica.
comico laicismo e trasgressione nella civiltà araba e islamica
La Stampa TuttoLibri 1.5.04
Tra fiori del bacio e del coito, è il laico Iraq la culla della trasgressione araba
di Egi Volterrani
RIDONO gli arabi? Sì, ridono, ridono…più o meno come noi: più o meno. Certo la risata come effetto scatenato dalla creazione (o dalla invenzione) comica non si accompagna bene con fanatismo, integralismo, attitudini accidiose. Ma fanatismo e integralismo, nel mondo islamico, accomunano solo una ben modesta minoranza di individui, che è ancora esigua: in gran parte, dipende da noi (noi occidentali) non alimentarne la crescita con le nostre paure, con i nostri pregiudizi e le nostre generalizzazioni. Senza risalire alla Santa Inquisizione, fanatismo e integralismo hanno del resto caratterizzato, attraverso i secoli, un vasto settore della nostra produzione letteraria. Però, e qui sta il "più o meno", mentre "da noi" gli astrusi sproloqui moralisti di Bierce, contro il Valzer e contro il Diavolo che ci infila in mezzo la coda, oggi, fanno schiattare i più dalle risate, "da loro", nel mondo arabo, nessuno ride, piuttosto trema, quando legge le teorie wahabiste o la fatwa per Salman Rushdie. Ciò deriva da un atteggiamento di profonda diffidenza e ben radicato che la religione islamica manifesta nei confronti della creazione letteraria (che di sua natura è incompatibile con l'islam-rivelazione). Ma questo dovrebbe essere oggetto di un'altra chiacchierata, sul rifiuto della Jahilyya, della cultura araba preislamica. In tutte le culture, il comico è legato al paradosso, alla spacconata, alla sproporzione, eccetera. Ma soprattutto alla trasgressione. Nella cultura islamica, secondo il grande poeta siriano Adonis, anche la poesia vive soltanto nella trasgressione. E, come la poesia, dunque, meglio se il comico è insolito e inventato e se è avvolto da un pur diafano alone di mistero. Nel mondo mediterraneo, arabo, turco e europeo, fin dai tempi antichi, i cantastorie, il teatro dei pupi e quello dei burattini (in Egitto Karaguz), le storie infinite come quelle di Giufà (Djiufar in arabo, Gioanìn, quello senza paura, in Piemonte, personaggi indagati bene da Francesca Corrao in numerose pubblicazioni), i Novellieri (dal "Decamerone" a "Le Cento e una notte", da "Lo Cunto de li Cunti" alle "Mille e una Notte") sono stati vettori di stereotipi del comico e del satirico ai quali si ricorre tuttora. Testi di tal genere, o con la stessa funzione, o destino, non mancano nella letteratura araba più antica. Addirittura preislamici e ancora oggi citati sono i racconti di taverna di Tarafa, e le satire ciniche di Al Harit. Dopo l'avvento dell'Islam, la culla della poesia anche di vena umoristica è stato l'Iraq, di tutto il mondo arabo il paese di maggior spessore culturale, il più laico e trasgressivo, dove sono fioriti gli spiriti più liberi. Poesia raffinata, umorismo e trasgressione convivono nell'opera di Abu Nuwas (Bassora, 757-815). Elegantissime e sorprendenti sono le metafore di Hariri (Bassora, 1054-1122) nelle sue Maqamat (Sedute). Al Jawzi, nato a Bagdad nel 1117, è il primo classico letterario dell'umorismo arabo tradotto in una lingua occidentale, in italiano, con il suo "Il sale nella Pentola", (Il leone verde, Torino, 2003). Grande fama ebbe ed ha ancora il testo di Ali al-Baghdadi (XIV sec.) sulle astuzie delle mogli infedeli ("Gli Splendidi Fiori del Bacio e del Coito"). Dopo l'arrivo dei Turchi (a Bagdad nel 1055), fiorirono le epopee cavalleresche, delle quali la più nota, "Il Romanzo di Baibars", racconta le spacconate di quel sultano mamelucco e potrebbe ricordare "Il Morgante Maggiore" di Luigi Pulci. Dunque, "così ridevano". E ancora ridono, ma non solo di ricordi. Venendo infatti alla letteratura araba recente, pochi hanno riso per il "Pessottimista", romanzo pacifista umoristico di Emil Habibi, sindaco arabo di Betlemme: con le migliori intenzioni, il lettore è scoraggiato dal tema che ispira quel libro, la guerra di Palestina: un tema a dir poco sinistro. Anche i classici della letteratura araba moderna, come Kateb Yacine, per quanto in un complesso contesto di satira politica ("Il Cadavere Accerchiato", Epoché Edizioni, Milano, 2004), ricorrono a stereotipi classici, come l'asino che "fa" le monete d'oro, o la polvere d'intelligenza, che ricorda il vestito nuovo dell'imperatore. Ma l'ironia sfrenata e caustica di Abu Abed, libanese dal baffo nero e il turbante rosso, viaggia sulle pagine di Internet e diverte quotidianamente gli arabi di tutte le generazioni (Abuabed.net). Della letteratura umoristica araba contemporanea, il testo che più mi è piaciuto è stato "Le Notti di Azed", di Lotfi Akalay (Bompiani, 1997). Più volte ho pianto dal ridere, dove l'autore dimentica di aver fatto morire la madre del protagonista e la fa ricomparire con grande nonchalance, quando sostituisce sotto il culo di un personaggio una poltrona con un divano, perché serve così, in un batter di ciglio. E poi accende la luce in stanze sature di gas e nulla accade, e assicura imperturbabile che un tale "quel giorno ha viaggiato per una settimana attraverso la Spagna". Il tutto nel racconto di un drammatico rapporto di coppia, in un Marocco dove conta soltanto il denaro…
Tra fiori del bacio e del coito, è il laico Iraq la culla della trasgressione araba
di Egi Volterrani
RIDONO gli arabi? Sì, ridono, ridono…più o meno come noi: più o meno. Certo la risata come effetto scatenato dalla creazione (o dalla invenzione) comica non si accompagna bene con fanatismo, integralismo, attitudini accidiose. Ma fanatismo e integralismo, nel mondo islamico, accomunano solo una ben modesta minoranza di individui, che è ancora esigua: in gran parte, dipende da noi (noi occidentali) non alimentarne la crescita con le nostre paure, con i nostri pregiudizi e le nostre generalizzazioni. Senza risalire alla Santa Inquisizione, fanatismo e integralismo hanno del resto caratterizzato, attraverso i secoli, un vasto settore della nostra produzione letteraria. Però, e qui sta il "più o meno", mentre "da noi" gli astrusi sproloqui moralisti di Bierce, contro il Valzer e contro il Diavolo che ci infila in mezzo la coda, oggi, fanno schiattare i più dalle risate, "da loro", nel mondo arabo, nessuno ride, piuttosto trema, quando legge le teorie wahabiste o la fatwa per Salman Rushdie. Ciò deriva da un atteggiamento di profonda diffidenza e ben radicato che la religione islamica manifesta nei confronti della creazione letteraria (che di sua natura è incompatibile con l'islam-rivelazione). Ma questo dovrebbe essere oggetto di un'altra chiacchierata, sul rifiuto della Jahilyya, della cultura araba preislamica. In tutte le culture, il comico è legato al paradosso, alla spacconata, alla sproporzione, eccetera. Ma soprattutto alla trasgressione. Nella cultura islamica, secondo il grande poeta siriano Adonis, anche la poesia vive soltanto nella trasgressione. E, come la poesia, dunque, meglio se il comico è insolito e inventato e se è avvolto da un pur diafano alone di mistero. Nel mondo mediterraneo, arabo, turco e europeo, fin dai tempi antichi, i cantastorie, il teatro dei pupi e quello dei burattini (in Egitto Karaguz), le storie infinite come quelle di Giufà (Djiufar in arabo, Gioanìn, quello senza paura, in Piemonte, personaggi indagati bene da Francesca Corrao in numerose pubblicazioni), i Novellieri (dal "Decamerone" a "Le Cento e una notte", da "Lo Cunto de li Cunti" alle "Mille e una Notte") sono stati vettori di stereotipi del comico e del satirico ai quali si ricorre tuttora. Testi di tal genere, o con la stessa funzione, o destino, non mancano nella letteratura araba più antica. Addirittura preislamici e ancora oggi citati sono i racconti di taverna di Tarafa, e le satire ciniche di Al Harit. Dopo l'avvento dell'Islam, la culla della poesia anche di vena umoristica è stato l'Iraq, di tutto il mondo arabo il paese di maggior spessore culturale, il più laico e trasgressivo, dove sono fioriti gli spiriti più liberi. Poesia raffinata, umorismo e trasgressione convivono nell'opera di Abu Nuwas (Bassora, 757-815). Elegantissime e sorprendenti sono le metafore di Hariri (Bassora, 1054-1122) nelle sue Maqamat (Sedute). Al Jawzi, nato a Bagdad nel 1117, è il primo classico letterario dell'umorismo arabo tradotto in una lingua occidentale, in italiano, con il suo "Il sale nella Pentola", (Il leone verde, Torino, 2003). Grande fama ebbe ed ha ancora il testo di Ali al-Baghdadi (XIV sec.) sulle astuzie delle mogli infedeli ("Gli Splendidi Fiori del Bacio e del Coito"). Dopo l'arrivo dei Turchi (a Bagdad nel 1055), fiorirono le epopee cavalleresche, delle quali la più nota, "Il Romanzo di Baibars", racconta le spacconate di quel sultano mamelucco e potrebbe ricordare "Il Morgante Maggiore" di Luigi Pulci. Dunque, "così ridevano". E ancora ridono, ma non solo di ricordi. Venendo infatti alla letteratura araba recente, pochi hanno riso per il "Pessottimista", romanzo pacifista umoristico di Emil Habibi, sindaco arabo di Betlemme: con le migliori intenzioni, il lettore è scoraggiato dal tema che ispira quel libro, la guerra di Palestina: un tema a dir poco sinistro. Anche i classici della letteratura araba moderna, come Kateb Yacine, per quanto in un complesso contesto di satira politica ("Il Cadavere Accerchiato", Epoché Edizioni, Milano, 2004), ricorrono a stereotipi classici, come l'asino che "fa" le monete d'oro, o la polvere d'intelligenza, che ricorda il vestito nuovo dell'imperatore. Ma l'ironia sfrenata e caustica di Abu Abed, libanese dal baffo nero e il turbante rosso, viaggia sulle pagine di Internet e diverte quotidianamente gli arabi di tutte le generazioni (Abuabed.net). Della letteratura umoristica araba contemporanea, il testo che più mi è piaciuto è stato "Le Notti di Azed", di Lotfi Akalay (Bompiani, 1997). Più volte ho pianto dal ridere, dove l'autore dimentica di aver fatto morire la madre del protagonista e la fa ricomparire con grande nonchalance, quando sostituisce sotto il culo di un personaggio una poltrona con un divano, perché serve così, in un batter di ciglio. E poi accende la luce in stanze sature di gas e nulla accade, e assicura imperturbabile che un tale "quel giorno ha viaggiato per una settimana attraverso la Spagna". Il tutto nel racconto di un drammatico rapporto di coppia, in un Marocco dove conta soltanto il denaro…
civiltà precristiana: il riso, cosa divina
La Stampa TuttoLibri 1.5.04
Sull’Olimpo, il riso era incontenibile
di Silvia Ronchey
PLATONE condannava Omero per avere osato raccontare «il riso inestinguibile ("asbestos gelos") degli dèi». Aveva un'enormità tale, quel riso, quando esplodeva fra gli immortali, una tale potenza, da sconvolgere il filosofo. La gamma del riso olimpico era vasta e variegata. C'era il riso d'ordine, come l'ha chiamato Cristiano Grottanelli, quel riso di esclusione che ridimensiona e umilia figure anomale e basse, come Efesto e Tersite. C'era il riso rituale, come Vladimir Propp ha classificato quello di Demetra alla vista di Baubo, la vecchia oscena. C'era anche il riso dell'ira, come quando Era dalle bianche braccia ride con le labbra aggrottando le sopracciglia nere. Ma in genere quando scoppiavano a ridere gli dèi dell'Olimpo si torcevano e si sbellicavano. La prima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi pagani è quella che Odisseo narra ai Feaci nel settimo canto dell'Odissea. Quando Afrodite tradì Efesto con Ares, il Sole fece la spia. Lo sposo tradito scese furibondo nella sua fucina e forgiò delle catene fortissime, che nessuno avrebbe potuto infrangere, sottili però come fili di ragno, che nessuno avrebbe potuto scorgere. Vi imbozzolò il talamo della sua casa, poi finse di partire. Quando Ares e Afrodite andarono a letto, una volta entrati restarono immobilizzati, incapaci di muovere anche solo le dita del piede. C'è chi dice che la scena di Ares, Afrodite e Efesto abbia un significato esoterico, legato all'armonia cosmica e alla musica delle sfere. I due divini amanti erano anche oggetti astrali. Sia quel che sia, appena Efesto li chiamò, gli dèi si raccolsero sulla soglia di bronzo e rimasero per un attimo immobili nel portico a guardare. Poi scoppiarono in un incontenibile "fou rire" di cento memorabili versi. L'ultima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi echeggia in un'opera successiva alla loro morte, denunciata dal sacerdote delfico Plutarco, quando era già nato Cristo. «Il grande dio Pan è morto», aveva scritto. Quattro secoli dopo, Giuliano, l'imperatore filosofo, sognò di richiamare gli dèi in vita, restaurando il paganesimo o meglio imponendo all'impero una religione universale, sincretistica, in cui il Sole degli orientali si confondesse con lo Zeus degli ellèni, il dio filosofico di Platone con quello dei galilei. Giuliano non riuscì nel suo tardivo progetto, ma scrisse un pamphlet intitolato I Cesari o Il Simposio o I Saturnali. In quelle pagine riunì di nuovo per l'ultima volta sull'Olimpo gli antichi dèi, in occasione appunto della festa romana in cui il mondo per un giorno va alla rovescia. E invitò a unirsi a loro gli imperatori divinizzati, per scegliere chi far salire come re del carnevale pagano sul trono di Zeus. Il satiro Sileno faceva da buffone. Giulio Cesare era altezzoso, Ottaviano un camaleonte, Tiberio un vecchio satiro, Vespasiano uno spilorcio, Tito un libidinoso, Domiziano un pazzo da legare con un collare di ferro, Adriano assorto in riflessioni senza capo né coda. Nella descrizione di Giuliano solo Alessandro Magno, ospite d'onore, e Marco Aurelio, il cesare filosofo, si salvavano dalle beffe con cui il satiro faceva ridere i vecchi dèi ridestati dal loro sonno. Ma non era nulla rispetto agli imperatori che dovevano ancora venire. Nulla, in particolare, rispetto a Costantino. Il primo imperatore cristiano è ammesso solo come uditore, per indegnità, ma aspetta baldanzosamente il suo turno. Ipnotizzato dalla dea Lussuria, vanta distrattamente le sue vittorie. Sono state provvisorie come i giardini di Adone, ribatte Sileno. Quando Ermes gli chiede che cosa si proponesse, Costantino confessa: «Possedere un mucchio di soldi, per spendere molto e soddisfare i miei desideri e quelli dei miei amici». Sileno scoppia a ridere: «Volevi fare il banchiere e non ti sei accorto di avere fatto una vita da cuoco e da pettinatrice». Risate. Il gioco è finito. Ora ciascuno deve scegliersi un dio. E' l'ultimo quadro della rappresentazione del Simposio di Giuliano l'Apostata. Il trasformista Costantino non trova un modello di vita abbastanza flessibile tra gli dèi dell'Olimpo. Sono tutti, come direbbero gli anglosassoni, un tantino troppo square: la coerenza al proprio carattere è imperativa nella definizione della divinità pagana come nel comportamento dei suoi fedeli. Così, il fondatore di Costantinopoli butta le braccia al collo a Lussuria, che lo traveste da donna e lo porta a Perdizione. Lì i due incontrano Gesù Cristo, sempre disponibile al perdono, che grida come un imbonitore: «Chi ha corrotto, chi ha ucciso, chi è stato maledetto e respinto da tutti, venga qui, venga fiducioso! Lavandolo con quest'acqua, lo purificherò in un attimo! E anche se ricade nelle stesse colpe, qualche preghiera e gli concederò di ritornare puro!». Un riso incontenibile, un "asbestos gelos", si alza dall'uditorio. L'ultimo riso degli dèi.
Sull’Olimpo, il riso era incontenibile
di Silvia Ronchey
PLATONE condannava Omero per avere osato raccontare «il riso inestinguibile ("asbestos gelos") degli dèi». Aveva un'enormità tale, quel riso, quando esplodeva fra gli immortali, una tale potenza, da sconvolgere il filosofo. La gamma del riso olimpico era vasta e variegata. C'era il riso d'ordine, come l'ha chiamato Cristiano Grottanelli, quel riso di esclusione che ridimensiona e umilia figure anomale e basse, come Efesto e Tersite. C'era il riso rituale, come Vladimir Propp ha classificato quello di Demetra alla vista di Baubo, la vecchia oscena. C'era anche il riso dell'ira, come quando Era dalle bianche braccia ride con le labbra aggrottando le sopracciglia nere. Ma in genere quando scoppiavano a ridere gli dèi dell'Olimpo si torcevano e si sbellicavano. La prima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi pagani è quella che Odisseo narra ai Feaci nel settimo canto dell'Odissea. Quando Afrodite tradì Efesto con Ares, il Sole fece la spia. Lo sposo tradito scese furibondo nella sua fucina e forgiò delle catene fortissime, che nessuno avrebbe potuto infrangere, sottili però come fili di ragno, che nessuno avrebbe potuto scorgere. Vi imbozzolò il talamo della sua casa, poi finse di partire. Quando Ares e Afrodite andarono a letto, una volta entrati restarono immobilizzati, incapaci di muovere anche solo le dita del piede. C'è chi dice che la scena di Ares, Afrodite e Efesto abbia un significato esoterico, legato all'armonia cosmica e alla musica delle sfere. I due divini amanti erano anche oggetti astrali. Sia quel che sia, appena Efesto li chiamò, gli dèi si raccolsero sulla soglia di bronzo e rimasero per un attimo immobili nel portico a guardare. Poi scoppiarono in un incontenibile "fou rire" di cento memorabili versi. L'ultima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi echeggia in un'opera successiva alla loro morte, denunciata dal sacerdote delfico Plutarco, quando era già nato Cristo. «Il grande dio Pan è morto», aveva scritto. Quattro secoli dopo, Giuliano, l'imperatore filosofo, sognò di richiamare gli dèi in vita, restaurando il paganesimo o meglio imponendo all'impero una religione universale, sincretistica, in cui il Sole degli orientali si confondesse con lo Zeus degli ellèni, il dio filosofico di Platone con quello dei galilei. Giuliano non riuscì nel suo tardivo progetto, ma scrisse un pamphlet intitolato I Cesari o Il Simposio o I Saturnali. In quelle pagine riunì di nuovo per l'ultima volta sull'Olimpo gli antichi dèi, in occasione appunto della festa romana in cui il mondo per un giorno va alla rovescia. E invitò a unirsi a loro gli imperatori divinizzati, per scegliere chi far salire come re del carnevale pagano sul trono di Zeus. Il satiro Sileno faceva da buffone. Giulio Cesare era altezzoso, Ottaviano un camaleonte, Tiberio un vecchio satiro, Vespasiano uno spilorcio, Tito un libidinoso, Domiziano un pazzo da legare con un collare di ferro, Adriano assorto in riflessioni senza capo né coda. Nella descrizione di Giuliano solo Alessandro Magno, ospite d'onore, e Marco Aurelio, il cesare filosofo, si salvavano dalle beffe con cui il satiro faceva ridere i vecchi dèi ridestati dal loro sonno. Ma non era nulla rispetto agli imperatori che dovevano ancora venire. Nulla, in particolare, rispetto a Costantino. Il primo imperatore cristiano è ammesso solo come uditore, per indegnità, ma aspetta baldanzosamente il suo turno. Ipnotizzato dalla dea Lussuria, vanta distrattamente le sue vittorie. Sono state provvisorie come i giardini di Adone, ribatte Sileno. Quando Ermes gli chiede che cosa si proponesse, Costantino confessa: «Possedere un mucchio di soldi, per spendere molto e soddisfare i miei desideri e quelli dei miei amici». Sileno scoppia a ridere: «Volevi fare il banchiere e non ti sei accorto di avere fatto una vita da cuoco e da pettinatrice». Risate. Il gioco è finito. Ora ciascuno deve scegliersi un dio. E' l'ultimo quadro della rappresentazione del Simposio di Giuliano l'Apostata. Il trasformista Costantino non trova un modello di vita abbastanza flessibile tra gli dèi dell'Olimpo. Sono tutti, come direbbero gli anglosassoni, un tantino troppo square: la coerenza al proprio carattere è imperativa nella definizione della divinità pagana come nel comportamento dei suoi fedeli. Così, il fondatore di Costantinopoli butta le braccia al collo a Lussuria, che lo traveste da donna e lo porta a Perdizione. Lì i due incontrano Gesù Cristo, sempre disponibile al perdono, che grida come un imbonitore: «Chi ha corrotto, chi ha ucciso, chi è stato maledetto e respinto da tutti, venga qui, venga fiducioso! Lavandolo con quest'acqua, lo purificherò in un attimo! E anche se ricade nelle stesse colpe, qualche preghiera e gli concederò di ritornare puro!». Un riso incontenibile, un "asbestos gelos", si alza dall'uditorio. L'ultimo riso degli dèi.
Richard Dawkins: l'importanza del darwinismo
Repubblica 1.5.04
LE TAPPE PRINCIPALI
UN GRANDE SCIENZIATO SPIEGA CHE COSA È STATA LA CONQUISTA DARWINIANA
PERCHÉ DIFENDO L´EVOLUZIONE CONTRO IL PERICOLO OSCURANTISTA
Le prove. I fossili ci dicono che la vita si è evoluta sulla Terra per più di 30 milioni di anni. Un arco di tempo impensabile per la mente umana
La vita. In che modo gli esseri viventi hanno iniziato a esistere? La risposta di Darwin è che sia entrato in gioco il caso, ma non un singolo e unico caso
di RICHARD DAWKINS
Le scoperte di Darwin sono, al pari di quelle di Einstein, universali ed eterne, mentre le conclusioni cui giunsero Marx e Gesù sono limitate e caduche. All´inizio del ventunesimo secolo, la reputazione di Darwin tra i più importanti biologi della storia (in opposizione ai non-biologi influenzati da preconcetti religiosi) è tuttora eccelsa come lo è da quando è morto. Persino il Papa si è espresso, inequivocabilmente, in suo favore.
Qual è, allora, l´enigma di Darwin? Quale la sua soluzione? Di tutti i trilioni e trilioni di modi di cui le parti di un corpo dispongono per potersi mettere insieme, soltanto un´infinitesima minoranza dà la possibilità di vivere, di procacciarsi il cibo, di nutrirsi e di riprodursi. E´ vero, vi sono molti esseri viventi diversi - almeno dieci milioni, se contiamo il numero delle singole specie oggi viventi - ma per quanto numerosi essi possano essere, vi saranno pur sempre molti più infiniti modi di non-essere!
Possiamo pertanto concludere con ragionevole certezza che gli esseri viventi sono miliardi di volte troppo complessi - troppo statisticamente improbabili - per aver iniziato a vivere per mera casualità. Ed è del tutto improbabile che siano stati "creati" poiché l´esistenza del Creatore stesso sarebbe ancora più inverosimile. In che modo, dunque, hanno iniziato a esistere gli esseri viventi? La risposta esatta - la risposta di Darwin - è che sia entrato in gioco il caso, ma non un caso unico, un distinto episodio casuale. Ciò che si è verificato è piuttosto tutta una serie di piccoli episodi casuali, ciascuno di essi talmente piccolo da essere un plausibile prodotto di quello che lo aveva preceduto, episodi occorsi l´uno dopo l´altro, in sequenza. Questi minuscoli avvenimenti casuali furono prodotti da mutazioni genetiche - errori occasionali - occorse nel materiale genico. Molti dei cambiamenti conseguenti furono deleteri e condussero alla morte. Una minoranza di essi invece risultò rappresentare un piccolo progresso, che portò a migliorare la sopravvivenza e la riproduzione. Tuttavia questo processo di selezione naturale, questi cambiamenti che risultarono essere vantaggiosi alla fine si diffusero in tutte le specie diventando la norma. Il quadro complessivo era quindi pronto per la piccola trasformazione successiva del processo evolutivo. Dopo un migliaio circa - supponiamo - di questi piccoli cambiamenti in serie, in cui ciascuna trasformazione costituiva la premessa di quella successiva, il risultato finale divenne, grazie a un processo di accumulo, ben più complesso per potersi dire il prodotto di un unico episodio casuale.
Sebbene teoricamente sia possibile che un occhio si sviluppi dal nulla, con una singola evoluzione molto fortunata, in pratica ciò è inconcepibile. Occorrerebbe una fortuna smisurata, che implichi simultaneamente delle trasformazioni in un gran numero di geni. Possiamo dunque escludere una simile coincidenza pressoché miracolosa. E´ invece perfettamente plausibile che l´occhio così come esso è oggi si sia evoluto a partire da qualcosa di molto simile ad esso ma non del tutto, un occhio per così dire appena un po´ meno sofisticato. Con lo stesso ragionamento, questo occhio appena un po´ meno sofisticato si è evoluto a partire da un occhio leggermente meno sofisticato ancora, e così via. Se si tiene conto di un numero sufficientemente grande di differenze sufficientemente piccole tra una fase evolutiva e la precedente, si dovrebbe essere in grado di delineare l´evoluzione di un occhio intero, complesso e funzionante, a partire dalla nuda pelle. Quante fasi intermedie è lecito postulare? Ciò dipende dal tempo con il quale abbiamo a che fare. E´ dunque esistito un tempo sufficientemente lungo affinché dal nulla si sviluppasse in piccole fasi successive un occhio?
I fossili ci dicono che la vita è andata evolvendosi sulla Terra per più di tremila milioni di anni. E´ del tutto inconcepibile per la mente umana abbracciare una simile immensità di tempo. Per nostra natura - e per nostra fortuna - noi consideriamo la nostra aspettativa di vita come un periodo di tempo sufficientemente lungo, ma non possiamo ragionevolmente sperare di vivere neppure un secolo. Sono trascorsi 2000 anni da quando visse Gesù, un periodo di tempo sufficientemente lungo per rendere indistinta la differenza che intercorre tra storia e mito. Riusciamo a immaginare un milione di simili archi di tempo, che si susseguono snodandosi all´infinito? Supponiamo che avessimo voglia di scrivere l´intera storia su un unico lungo rotolo di carta: se stipassimo tutta la storia dopo Cristo su un metro di questo rotolo di carta, quanto lunga dovrebbe essere la parte di esso dedicata alla storia prima di Cristo, fino all´origine dell´evoluzione? La risposta è che la parte di storia ante Cristo si estenderebbe da Milano a Mosca.
Si pensi alle implicazioni di tutto ciò nei confronti della moltitudine di trasformazioni evolutive che possono essersi compiute. Le razze canine domestiche - i pechinesi, i barboncini, gli spaniel, i san Bernardo e i chihuahua - derivano tutte dai lupi, in un arco di tempo misurabile in centinaia, al massimo migliaia di anni: non più di un paio di metri lungo la strada del rotolo di carta da Milano a Mosca. Si pensi alla moltitudine di trasformazioni necessarie a passare da un lupo a un pechinese. E ora si moltiplichi questa moltitudine di trasformazioni per un milione: così facendo, diventa agevole ritenere che un occhio possa essere nato da un non-occhio attraverso fasi impercettibili.
Si sostiene spesso che affinché possa esservi un occhio è necessario che esistano tutte le parti di un occhio, oppure l´occhio non sarà funzionante. Metà occhio, così si ritiene, non è molto meglio che non avere l´occhio tout court. Non si vola con mezza ala. Non si può udire con mezzo orecchio. Pertanto non può esservi stata una serie di evoluzioni intermedie successive che hanno portato all´occhio, all´ala o all´orecchio moderno. Questo tipo di ragionamento è così superficiale che ci si può soltanto chiedere quali siano le ragioni inconsce per volerci credere. E´ ovviamente falso che un mezzo occhio sia inutile. Chi soffre di cataratta e si è sottoposto alla rimozione chirurgica del cristallino non può vedere molto bene senza occhiali, ma vedrà comunque molto meglio di chi non ha del tutto gli occhi. Senza un cristallino non si mette a fuoco un´immagine precisa, ma si può tuttavia evitare di inciampare in un ostacolo e si può identificare la sagoma di un predatore in agguato.
Il ragionamento analogo - che non si possa volare con una mezza ala - è smentito anch´esso, da un vasto numero di animali che riesce con successo a effettuare dei voli o dei movimenti più o meno planati, e tra essi mammiferi di taglie diverse, lucertole, rane, serpenti e calamari. Molti diversi tipi di animali che vivono sugli alberi hanno tra i loro arti dei lembi di pelle che costituiscono quasi delle porzioni di ala. Se si cade da un albero, qualsiasi lembo di pelle, qualsiasi ulteriore superficie del corpo che aumenti l´area di impatto può salvare la vita. Per quanto piccolo o grande sia questo lembo di pelle, deve pur sempre esserci una soglia critica in corrispondenza della quale, se si cade da un albero di quella altezza, la vita sarebbe stata salva proprio ed esclusivamente in virtù di una superficie di pelle lievemente maggiore. Quindi, quando i discendenti di questo esemplare avranno evoluto un lembo di pelle appena più grande, le loro vite saranno salve grazie a una superficie appena maggiore di quella necessaria a salvarli se fossero caduti da un albero appena più alto. E così via, per fasi impercettibilmente graduali, per centinaia e centinaia di anni, si è arrivati all´ala nella sua completezza.
Occhi e ali non possono essersi evoluti in un´unica fase. Sarebbe stato come avere la fortuna di trovare il numero della combinazione che apre il forziere di una grande banca. Ma se si girassero a caso i quadranti del forziere, e ogni volta che ci si avvicina alla combinazione esatta la porta del forziere si aprisse di una sola fessura alla volta, ben presto si riuscirebbe ad aprire il forziere. In sostanza, questo è il segreto di come l´evoluzione per mezzo della selezione naturale abbia raggiunto ciò che ci pareva del tutto impossibile realizzare. Ciò che non può plausibilmente derivare da predecessori molto diversi, può plausibilmente derivare da un predecessore solo leggermente diverso: ammesso che vi sia una serie sufficientemente lunga di predecessori solo leggermente diversi, da una cosa se ne può ottenere una qualsiasi altra.
L´evoluzione, dunque, è teoricamente capace di svolgere il compito che, una volta, pareva essere prerogativa di Dio. Ma c´è qualcosa che comprovi che l´evoluzione ha effettivamente avuto luogo? La risposta è sì. Le prove sono assolutamente sovrabbondanti. Milioni di fossili sono reperibili esattamente nei luoghi ed esattamente alla profondità alla quale dovremmo attenderci di trovarli se l´evoluzione avesse avuto luogo. Cosa ancora più significativa, non un singolo fossile è mai stato trovato laddove la teoria evoluzionistica non si sarebbe mai aspettata di trovarlo, sebbene abbia anche potuto verificarsi un caso di questo tipo: un mammifero fossile nella roccia così antico da precedere addirittura i pesci, per esempio, sarebbe stato sufficiente a confutare l´intera teoria evoluzionistica.
Le modalità di diffusione degli animali viventi e delle piante sui continenti e nelle isole del mondo sono esattamente quelle che ci si dovrebbe aspettare di rilevare qualora si fossero evoluti da antenati comuni per fasi lentissime e graduali. Le modalità di somiglianza tra gli animali e le piante sono esattamente quelle che ci si dovrebbe aspettare di riscontrare se alcune specie fossero parenti stretti e altre parenti più lontani tra loro. Tutto ciò era molto convincente già all´epoca di Darwin. Oggi, grazie a quanto ci comprova la genetica molecolare, si dovrebbe essere dei dementi per dubitarne. Le prove a favore dell´evoluzione sono così schiaccianti che per salvare la teoria della creazione occorrerebbe presumere che Dio abbia deliberatamente lasciato un´enorme quantità di indizi per far sì che sembrasse che avesse avuto luogo l´evoluzione. In altre parole, i fossili, la distribuzione geografica degli animali, la disposizione dei codici del Dna e così via sarebbero soltanto una gigantesca truffa. E c´è qualcuno che abbia voglia di venerare un Dio capace di simili inganni? E´ sicuramente più rispettoso, e scientificamente plausibile al tempo stesso, considerare le prove per quello che sono. Tutte le creature viventi sono imparentate tra loro, tutte discendono da un unico remoto progenitore che visse oltre 3.000 milioni di anni fa. L´evoluzione è un dato di fatto, ed è uno dei più importanti dati di fatto che conosciamo. Privare i bambini dell´opportunità di apprenderla sarebbe un barbarismo educativo da epoche buie.
Traduzione di Anna Bissanti
LE TAPPE PRINCIPALI
UN GRANDE SCIENZIATO SPIEGA CHE COSA È STATA LA CONQUISTA DARWINIANA
PERCHÉ DIFENDO L´EVOLUZIONE CONTRO IL PERICOLO OSCURANTISTA
Le prove. I fossili ci dicono che la vita si è evoluta sulla Terra per più di 30 milioni di anni. Un arco di tempo impensabile per la mente umana
La vita. In che modo gli esseri viventi hanno iniziato a esistere? La risposta di Darwin è che sia entrato in gioco il caso, ma non un singolo e unico caso
di RICHARD DAWKINS
Le scoperte di Darwin sono, al pari di quelle di Einstein, universali ed eterne, mentre le conclusioni cui giunsero Marx e Gesù sono limitate e caduche. All´inizio del ventunesimo secolo, la reputazione di Darwin tra i più importanti biologi della storia (in opposizione ai non-biologi influenzati da preconcetti religiosi) è tuttora eccelsa come lo è da quando è morto. Persino il Papa si è espresso, inequivocabilmente, in suo favore.
Qual è, allora, l´enigma di Darwin? Quale la sua soluzione? Di tutti i trilioni e trilioni di modi di cui le parti di un corpo dispongono per potersi mettere insieme, soltanto un´infinitesima minoranza dà la possibilità di vivere, di procacciarsi il cibo, di nutrirsi e di riprodursi. E´ vero, vi sono molti esseri viventi diversi - almeno dieci milioni, se contiamo il numero delle singole specie oggi viventi - ma per quanto numerosi essi possano essere, vi saranno pur sempre molti più infiniti modi di non-essere!
Possiamo pertanto concludere con ragionevole certezza che gli esseri viventi sono miliardi di volte troppo complessi - troppo statisticamente improbabili - per aver iniziato a vivere per mera casualità. Ed è del tutto improbabile che siano stati "creati" poiché l´esistenza del Creatore stesso sarebbe ancora più inverosimile. In che modo, dunque, hanno iniziato a esistere gli esseri viventi? La risposta esatta - la risposta di Darwin - è che sia entrato in gioco il caso, ma non un caso unico, un distinto episodio casuale. Ciò che si è verificato è piuttosto tutta una serie di piccoli episodi casuali, ciascuno di essi talmente piccolo da essere un plausibile prodotto di quello che lo aveva preceduto, episodi occorsi l´uno dopo l´altro, in sequenza. Questi minuscoli avvenimenti casuali furono prodotti da mutazioni genetiche - errori occasionali - occorse nel materiale genico. Molti dei cambiamenti conseguenti furono deleteri e condussero alla morte. Una minoranza di essi invece risultò rappresentare un piccolo progresso, che portò a migliorare la sopravvivenza e la riproduzione. Tuttavia questo processo di selezione naturale, questi cambiamenti che risultarono essere vantaggiosi alla fine si diffusero in tutte le specie diventando la norma. Il quadro complessivo era quindi pronto per la piccola trasformazione successiva del processo evolutivo. Dopo un migliaio circa - supponiamo - di questi piccoli cambiamenti in serie, in cui ciascuna trasformazione costituiva la premessa di quella successiva, il risultato finale divenne, grazie a un processo di accumulo, ben più complesso per potersi dire il prodotto di un unico episodio casuale.
Sebbene teoricamente sia possibile che un occhio si sviluppi dal nulla, con una singola evoluzione molto fortunata, in pratica ciò è inconcepibile. Occorrerebbe una fortuna smisurata, che implichi simultaneamente delle trasformazioni in un gran numero di geni. Possiamo dunque escludere una simile coincidenza pressoché miracolosa. E´ invece perfettamente plausibile che l´occhio così come esso è oggi si sia evoluto a partire da qualcosa di molto simile ad esso ma non del tutto, un occhio per così dire appena un po´ meno sofisticato. Con lo stesso ragionamento, questo occhio appena un po´ meno sofisticato si è evoluto a partire da un occhio leggermente meno sofisticato ancora, e così via. Se si tiene conto di un numero sufficientemente grande di differenze sufficientemente piccole tra una fase evolutiva e la precedente, si dovrebbe essere in grado di delineare l´evoluzione di un occhio intero, complesso e funzionante, a partire dalla nuda pelle. Quante fasi intermedie è lecito postulare? Ciò dipende dal tempo con il quale abbiamo a che fare. E´ dunque esistito un tempo sufficientemente lungo affinché dal nulla si sviluppasse in piccole fasi successive un occhio?
I fossili ci dicono che la vita è andata evolvendosi sulla Terra per più di tremila milioni di anni. E´ del tutto inconcepibile per la mente umana abbracciare una simile immensità di tempo. Per nostra natura - e per nostra fortuna - noi consideriamo la nostra aspettativa di vita come un periodo di tempo sufficientemente lungo, ma non possiamo ragionevolmente sperare di vivere neppure un secolo. Sono trascorsi 2000 anni da quando visse Gesù, un periodo di tempo sufficientemente lungo per rendere indistinta la differenza che intercorre tra storia e mito. Riusciamo a immaginare un milione di simili archi di tempo, che si susseguono snodandosi all´infinito? Supponiamo che avessimo voglia di scrivere l´intera storia su un unico lungo rotolo di carta: se stipassimo tutta la storia dopo Cristo su un metro di questo rotolo di carta, quanto lunga dovrebbe essere la parte di esso dedicata alla storia prima di Cristo, fino all´origine dell´evoluzione? La risposta è che la parte di storia ante Cristo si estenderebbe da Milano a Mosca.
Si pensi alle implicazioni di tutto ciò nei confronti della moltitudine di trasformazioni evolutive che possono essersi compiute. Le razze canine domestiche - i pechinesi, i barboncini, gli spaniel, i san Bernardo e i chihuahua - derivano tutte dai lupi, in un arco di tempo misurabile in centinaia, al massimo migliaia di anni: non più di un paio di metri lungo la strada del rotolo di carta da Milano a Mosca. Si pensi alla moltitudine di trasformazioni necessarie a passare da un lupo a un pechinese. E ora si moltiplichi questa moltitudine di trasformazioni per un milione: così facendo, diventa agevole ritenere che un occhio possa essere nato da un non-occhio attraverso fasi impercettibili.
Si sostiene spesso che affinché possa esservi un occhio è necessario che esistano tutte le parti di un occhio, oppure l´occhio non sarà funzionante. Metà occhio, così si ritiene, non è molto meglio che non avere l´occhio tout court. Non si vola con mezza ala. Non si può udire con mezzo orecchio. Pertanto non può esservi stata una serie di evoluzioni intermedie successive che hanno portato all´occhio, all´ala o all´orecchio moderno. Questo tipo di ragionamento è così superficiale che ci si può soltanto chiedere quali siano le ragioni inconsce per volerci credere. E´ ovviamente falso che un mezzo occhio sia inutile. Chi soffre di cataratta e si è sottoposto alla rimozione chirurgica del cristallino non può vedere molto bene senza occhiali, ma vedrà comunque molto meglio di chi non ha del tutto gli occhi. Senza un cristallino non si mette a fuoco un´immagine precisa, ma si può tuttavia evitare di inciampare in un ostacolo e si può identificare la sagoma di un predatore in agguato.
Il ragionamento analogo - che non si possa volare con una mezza ala - è smentito anch´esso, da un vasto numero di animali che riesce con successo a effettuare dei voli o dei movimenti più o meno planati, e tra essi mammiferi di taglie diverse, lucertole, rane, serpenti e calamari. Molti diversi tipi di animali che vivono sugli alberi hanno tra i loro arti dei lembi di pelle che costituiscono quasi delle porzioni di ala. Se si cade da un albero, qualsiasi lembo di pelle, qualsiasi ulteriore superficie del corpo che aumenti l´area di impatto può salvare la vita. Per quanto piccolo o grande sia questo lembo di pelle, deve pur sempre esserci una soglia critica in corrispondenza della quale, se si cade da un albero di quella altezza, la vita sarebbe stata salva proprio ed esclusivamente in virtù di una superficie di pelle lievemente maggiore. Quindi, quando i discendenti di questo esemplare avranno evoluto un lembo di pelle appena più grande, le loro vite saranno salve grazie a una superficie appena maggiore di quella necessaria a salvarli se fossero caduti da un albero appena più alto. E così via, per fasi impercettibilmente graduali, per centinaia e centinaia di anni, si è arrivati all´ala nella sua completezza.
Occhi e ali non possono essersi evoluti in un´unica fase. Sarebbe stato come avere la fortuna di trovare il numero della combinazione che apre il forziere di una grande banca. Ma se si girassero a caso i quadranti del forziere, e ogni volta che ci si avvicina alla combinazione esatta la porta del forziere si aprisse di una sola fessura alla volta, ben presto si riuscirebbe ad aprire il forziere. In sostanza, questo è il segreto di come l´evoluzione per mezzo della selezione naturale abbia raggiunto ciò che ci pareva del tutto impossibile realizzare. Ciò che non può plausibilmente derivare da predecessori molto diversi, può plausibilmente derivare da un predecessore solo leggermente diverso: ammesso che vi sia una serie sufficientemente lunga di predecessori solo leggermente diversi, da una cosa se ne può ottenere una qualsiasi altra.
L´evoluzione, dunque, è teoricamente capace di svolgere il compito che, una volta, pareva essere prerogativa di Dio. Ma c´è qualcosa che comprovi che l´evoluzione ha effettivamente avuto luogo? La risposta è sì. Le prove sono assolutamente sovrabbondanti. Milioni di fossili sono reperibili esattamente nei luoghi ed esattamente alla profondità alla quale dovremmo attenderci di trovarli se l´evoluzione avesse avuto luogo. Cosa ancora più significativa, non un singolo fossile è mai stato trovato laddove la teoria evoluzionistica non si sarebbe mai aspettata di trovarlo, sebbene abbia anche potuto verificarsi un caso di questo tipo: un mammifero fossile nella roccia così antico da precedere addirittura i pesci, per esempio, sarebbe stato sufficiente a confutare l´intera teoria evoluzionistica.
Le modalità di diffusione degli animali viventi e delle piante sui continenti e nelle isole del mondo sono esattamente quelle che ci si dovrebbe aspettare di rilevare qualora si fossero evoluti da antenati comuni per fasi lentissime e graduali. Le modalità di somiglianza tra gli animali e le piante sono esattamente quelle che ci si dovrebbe aspettare di riscontrare se alcune specie fossero parenti stretti e altre parenti più lontani tra loro. Tutto ciò era molto convincente già all´epoca di Darwin. Oggi, grazie a quanto ci comprova la genetica molecolare, si dovrebbe essere dei dementi per dubitarne. Le prove a favore dell´evoluzione sono così schiaccianti che per salvare la teoria della creazione occorrerebbe presumere che Dio abbia deliberatamente lasciato un´enorme quantità di indizi per far sì che sembrasse che avesse avuto luogo l´evoluzione. In altre parole, i fossili, la distribuzione geografica degli animali, la disposizione dei codici del Dna e così via sarebbero soltanto una gigantesca truffa. E c´è qualcuno che abbia voglia di venerare un Dio capace di simili inganni? E´ sicuramente più rispettoso, e scientificamente plausibile al tempo stesso, considerare le prove per quello che sono. Tutte le creature viventi sono imparentate tra loro, tutte discendono da un unico remoto progenitore che visse oltre 3.000 milioni di anni fa. L´evoluzione è un dato di fatto, ed è uno dei più importanti dati di fatto che conosciamo. Privare i bambini dell´opportunità di apprenderla sarebbe un barbarismo educativo da epoche buie.
Traduzione di Anna Bissanti
darwinismo, cristianesimo e "darwinismo sociale"
Repubblica 1.5.04
Chi ha paura di quest'uomo?
perché attaccano le sue teorie
Le tesi evoluzioniste del grande scienziato sono da anni fatte oggetto di pesanti accuse dai creazionisti
Anche nel nostro paese il dibattito ha toccato toni da crociata e minacciato il futuro dell´insegnamento
di Umberto Galimberti
In una lettera del 1872 indirizzata al paleontologo scozzese Hugh Falconer, Charles Darwin scriveva che «la sua teoria dell´evoluzione sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish)». Centocinquant´anni dopo, la profezia, almeno qui da noi, si è avverata, e la teoria darwiniana dell´evoluzione, che oggi neppure il magistero ecclesiastico contesta, ha rischiato di essere eliminata dai testi scolastici che, alla spiegazione scientifica dell´evoluzione, avrebbero dovuto preferire la narrazione mitico-simbolica della creazione.
Di questo si è discusso ampiamente in questi giorni sui nostri giornali, per cui non vale qui la pena di ritornare, se non per rimarcare l´enorme fatica che fa la scienza a prendere piede nella nostra cultura, per una sorta di malinteso "umanismo" che, sotto la falsa apparenza di nobilitare l´uomo, nasconde almeno due truci intenzioni che qui vorremmo evidenziare.
La teoria creazionista, concependo l´uomo a immagine di Dio, gli conferisce il privilegio del dominio incontrastato sull´intera natura. Leggiamo infatti nel primo libro della Bibbia: «Poi Iddio disse: facciamo l´uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza; domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie» (Genesi 1,26).
Per la mentalità greca antica questa concezione sarebbe stata considerata la più alta espressione di Hybris, di tracotanza, di inaudito oltrepassamento del limite. E questo perché, per il greco antico, la natura «che nessun uomo e nessun Dio fece» (Eraclito) rappresentava quello sfondo immutabile le cui leggi, regolate dal vincolo della necessità (ananke), costituivano il punto di riferimento da cui trarre indicazioni per il governo della città e per la buona conduzione di sé. Qui Platone è stato chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell´universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi 903 c).
All´opposto della mentalità greca, la tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura non come lo sfondo immutabile su cui l´uomo deve regolarsi, ma come il prodotto della "volontà" di Dio che l´ha creata a disposizione della "volontà" dell´uomo, a cui è concesso l´incontrastato dominio.
Questa concezione del "dominio", che non è greca ma giudaico-cristiana, se un tempo era compatibile con le dimensioni della terra e la scarsa densità della popolazione umana, oggi, a rapporto invertito, non è più praticabile. E sulla base della tradizione giudaico-cristiana, che ha sempre concepito la morale come una regolatrice dei rapporti fra gli uomini, non disponiamo di una morale che si faccia carico degli enti di natura, come la salvaguardia dell´aria, dell´acqua, della vegetazione, del clima, del mondo animale, con particolare riferimento alle specie in via di estinzione non per selezione naturale, ma ad opera dell´uomo.
E allora a me viene il dubbio che la teoria evoluzionista darwiniana, che, al pari del pensiero greco, colloca l´uomo nella grande catena dell´essere senza accordargli alcun privilegio rispetto alle altre specie viventi, sia messa a tacere a favore della teoria creazionista non tanto per salvaguardare la dignità dell´uomo fin dalla sua origine divina, quanto per garantirsi, in nome di Dio, il dominio incontrastato sulla terra come vuole l´insensibilità del profitto, del denaro e del mercato oggi globalizzato.
A fianco di questa prima malcelata intenzione, che vuole legittimarsi su base religiosa, ce n´è una seconda, ancora più truce, che utilizza impropriamente la teoria evoluzionista di Darwin per giustificare gli stessi risultati a cui è approdata, probabilmente suo malgrado, la teoria creazionista.
Volendo riassumere in una formula la teoria di Darwin potremmo dire: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri viventi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque un´unica causa dell´evoluzione, il cui meccanismo, per dirla in modo un po´ truculento, è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi che pazientemente si possono identificare.
Questa teoria, che Darwin aveva limitato all´ambito biologico, è stata impropriamente estesa all´ambito sociale e, sotto la denominazione di "darwinismo", si è fatta passare per "legge naturale", per cui anche nella società il pesce grosso può mangiare il pesce piccolo.
Equiparare l´evoluzione sociale all´evoluzione naturale significa riconoscere libertà illimitata a chi è più forte, accettazione indiscussa della disuguaglianza, nessun intervento dello Stato per aiutare i più svantaggiati, con tutto ciò che ne consegue praticamente in ordine all´assistenza agli anziani, lo sfruttamento delle donne e dei minori, le cure mediche a chi non dispone di risorse, l´istruzione a chi non può permetterselo, fino alla malattia, la fame e la morte per chi non ha denaro. E´ evidente che qui a garantire la «sopravvivenza del più adatto» non sono più le risorse biologiche come prevede la teoria di Darwin, ma le risorse economiche, ossia la ricchezza e la potenza che la ricchezza garantisce.
Il capitalismo non controllato, il mercato non regolato, la mancata distribuzione della ricchezza attraverso la tassazione che garantisce lo stato sociale sono le espressioni più evidenti della teoria biologica darwiniana impropriamente applicata alla società. Marx (che proprio a Darwin intendeva dedicare Il Capitale) propose di correggere il darwinismo sociale con il progetto comunista che, naufragato nella sua versione integrale in Russia e in Cina, ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che oggi vediamo sottoposto a una continua limatura nei paesi capitalisti, e del tutto assente nel resto del mondo.
A questo punto risulta a tutti evidente che gli esiti finali della teoria creazionista, che prevede il dominio incontrastato dell´uomo sulla terra, e l´impropria applicazione alla società della teoria evoluzionista di Darwin vanno perfettamente d´accordo, perché l´astuzia della ragione, coniugata alla malafede, fa sotterraneamente camminare in perfetta armonia gli esiti pratici di teorie che in superficie vengono presentate come opposte e inconciliabili.
L´assenza di cultura, di pensiero e di riflessione critica del nostro tempo, mescolata all´egoismo individuale completano il quadro desolante di un´umanità che all´uso della terra ha sostituito l´usura, e al rispetto dell´uomo il diritto della forza. La storia a questo punto ribolle, come sempre accade quando il suo artefice, l´uomo, regola la sua vita sul registro animale.
Chi ha paura di quest'uomo?
perché attaccano le sue teorie
Le tesi evoluzioniste del grande scienziato sono da anni fatte oggetto di pesanti accuse dai creazionisti
Anche nel nostro paese il dibattito ha toccato toni da crociata e minacciato il futuro dell´insegnamento
di Umberto Galimberti
In una lettera del 1872 indirizzata al paleontologo scozzese Hugh Falconer, Charles Darwin scriveva che «la sua teoria dell´evoluzione sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish)». Centocinquant´anni dopo, la profezia, almeno qui da noi, si è avverata, e la teoria darwiniana dell´evoluzione, che oggi neppure il magistero ecclesiastico contesta, ha rischiato di essere eliminata dai testi scolastici che, alla spiegazione scientifica dell´evoluzione, avrebbero dovuto preferire la narrazione mitico-simbolica della creazione.
Di questo si è discusso ampiamente in questi giorni sui nostri giornali, per cui non vale qui la pena di ritornare, se non per rimarcare l´enorme fatica che fa la scienza a prendere piede nella nostra cultura, per una sorta di malinteso "umanismo" che, sotto la falsa apparenza di nobilitare l´uomo, nasconde almeno due truci intenzioni che qui vorremmo evidenziare.
La teoria creazionista, concependo l´uomo a immagine di Dio, gli conferisce il privilegio del dominio incontrastato sull´intera natura. Leggiamo infatti nel primo libro della Bibbia: «Poi Iddio disse: facciamo l´uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza; domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie» (Genesi 1,26).
Per la mentalità greca antica questa concezione sarebbe stata considerata la più alta espressione di Hybris, di tracotanza, di inaudito oltrepassamento del limite. E questo perché, per il greco antico, la natura «che nessun uomo e nessun Dio fece» (Eraclito) rappresentava quello sfondo immutabile le cui leggi, regolate dal vincolo della necessità (ananke), costituivano il punto di riferimento da cui trarre indicazioni per il governo della città e per la buona conduzione di sé. Qui Platone è stato chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell´universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi 903 c).
All´opposto della mentalità greca, la tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura non come lo sfondo immutabile su cui l´uomo deve regolarsi, ma come il prodotto della "volontà" di Dio che l´ha creata a disposizione della "volontà" dell´uomo, a cui è concesso l´incontrastato dominio.
Questa concezione del "dominio", che non è greca ma giudaico-cristiana, se un tempo era compatibile con le dimensioni della terra e la scarsa densità della popolazione umana, oggi, a rapporto invertito, non è più praticabile. E sulla base della tradizione giudaico-cristiana, che ha sempre concepito la morale come una regolatrice dei rapporti fra gli uomini, non disponiamo di una morale che si faccia carico degli enti di natura, come la salvaguardia dell´aria, dell´acqua, della vegetazione, del clima, del mondo animale, con particolare riferimento alle specie in via di estinzione non per selezione naturale, ma ad opera dell´uomo.
E allora a me viene il dubbio che la teoria evoluzionista darwiniana, che, al pari del pensiero greco, colloca l´uomo nella grande catena dell´essere senza accordargli alcun privilegio rispetto alle altre specie viventi, sia messa a tacere a favore della teoria creazionista non tanto per salvaguardare la dignità dell´uomo fin dalla sua origine divina, quanto per garantirsi, in nome di Dio, il dominio incontrastato sulla terra come vuole l´insensibilità del profitto, del denaro e del mercato oggi globalizzato.
A fianco di questa prima malcelata intenzione, che vuole legittimarsi su base religiosa, ce n´è una seconda, ancora più truce, che utilizza impropriamente la teoria evoluzionista di Darwin per giustificare gli stessi risultati a cui è approdata, probabilmente suo malgrado, la teoria creazionista.
Volendo riassumere in una formula la teoria di Darwin potremmo dire: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri viventi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque un´unica causa dell´evoluzione, il cui meccanismo, per dirla in modo un po´ truculento, è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi che pazientemente si possono identificare.
Questa teoria, che Darwin aveva limitato all´ambito biologico, è stata impropriamente estesa all´ambito sociale e, sotto la denominazione di "darwinismo", si è fatta passare per "legge naturale", per cui anche nella società il pesce grosso può mangiare il pesce piccolo.
Equiparare l´evoluzione sociale all´evoluzione naturale significa riconoscere libertà illimitata a chi è più forte, accettazione indiscussa della disuguaglianza, nessun intervento dello Stato per aiutare i più svantaggiati, con tutto ciò che ne consegue praticamente in ordine all´assistenza agli anziani, lo sfruttamento delle donne e dei minori, le cure mediche a chi non dispone di risorse, l´istruzione a chi non può permetterselo, fino alla malattia, la fame e la morte per chi non ha denaro. E´ evidente che qui a garantire la «sopravvivenza del più adatto» non sono più le risorse biologiche come prevede la teoria di Darwin, ma le risorse economiche, ossia la ricchezza e la potenza che la ricchezza garantisce.
Il capitalismo non controllato, il mercato non regolato, la mancata distribuzione della ricchezza attraverso la tassazione che garantisce lo stato sociale sono le espressioni più evidenti della teoria biologica darwiniana impropriamente applicata alla società. Marx (che proprio a Darwin intendeva dedicare Il Capitale) propose di correggere il darwinismo sociale con il progetto comunista che, naufragato nella sua versione integrale in Russia e in Cina, ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che oggi vediamo sottoposto a una continua limatura nei paesi capitalisti, e del tutto assente nel resto del mondo.
A questo punto risulta a tutti evidente che gli esiti finali della teoria creazionista, che prevede il dominio incontrastato dell´uomo sulla terra, e l´impropria applicazione alla società della teoria evoluzionista di Darwin vanno perfettamente d´accordo, perché l´astuzia della ragione, coniugata alla malafede, fa sotterraneamente camminare in perfetta armonia gli esiti pratici di teorie che in superficie vengono presentate come opposte e inconciliabili.
L´assenza di cultura, di pensiero e di riflessione critica del nostro tempo, mescolata all´egoismo individuale completano il quadro desolante di un´umanità che all´uso della terra ha sostituito l´usura, e al rispetto dell´uomo il diritto della forza. La storia a questo punto ribolle, come sempre accade quando il suo artefice, l´uomo, regola la sua vita sul registro animale.
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