La Stampa 28 Gennaio 2005
EINSTEIN, POINCARÉ E LA «RELATIVITÀ SPECIALE»: IN UN SAGGIO LA LUNGA MARCIA PER ELIMINARE L’ANARCHIA DEGLI OROLOGI
DOMATORI DEL TEMPO
di Claudio Bartocci
IL giro del mondo di Phileas Fogg, il metodico e imperturbabile gentleman partorito dalla fantasia di Jules Verne, ha inizio, per scommessa, il 2 ottobre 1872 alle ore otto e quarantacinque in punto. La storia è nota a tutti. Viaggiando sempre verso Est, Fogg, accompagnato dal devoto servitore Passepartout, guadagna 4 minuti per ogni grado di longitudine attraversato e dunque, al termine del suo periplo, ventiquattro ore esatte. Così, malgrado il ritardo di un giorno rispetto alla tabella di marcia che aveva stabilito, può fare il suo ingresso flemmatico e trionfale nella sala del suo club dove l'attendono gli amici proprio mentre sta per scoccare l'ultimo secondo utile. In modo quasi fin troppo esplicito, è il tempo il vero protagonista di questo voyage extraordinaire: scandito dal battito di orologi che segnano ore diverse nelle diverse zone geografiche, non sempre in corrispondenza con quel che riportano gli orari dei treni o dei piroscafi, il tempo sembra molto più difficile da padroneggiare dello spazio.
In effetti, nella seconda metà dell'Ottocento, con il continuo ampliamento della rete ferroviaria e il diffondersi dei servizi telegrafici, il problema della standardizzazione dell'ora su scala mondiale era diventato prioritario per ragioni di carattere sia economico-politico, sia tecnico-scientifico. Più o meno negli stessi anni in cui Phileas Fogg e Passepartout attraversavano le pianure del Nord America, un ipotetico viaggiatore da San Francisco a Washington che avesse voluto regolare il proprio orologio in ogni città visitata, avrebbe dovuto rimettere a posto le lancette più di un centinaio di volte (prendiamo questa informazione, e altre, dal bel libro di Stephen Kern, Il tempo e lo spazio, Il Mulino 1995). Le ferrovie cercarono di uniformare la misura del tempo almeno su scala regionale, ma attorno al 1870 negli Stati Uniti rimanevano ancora circa 80 ore ferroviarie differenti. In Europa le cose non andavano meglio. L'ora ferroviaria di Parigi era avanti di ventisette minuti rispetto a quella di Brest e indietro di venti minuti rispetto a quella di Nizza. Per quanto riguarda la Germania, il conte Helmuth von Moltke, il trionfatore di Sedan, doveva rivolgere nel 1891 un vibrante appello al parlamento per l'adozione di un'unica ora ufficiale tedesca, che avrebbe permesso di coordinare piani militari e spostamenti di truppe in maniera più efficiente.
Nell'ottobre del 1884, diplomatici e scienziati in rappresentanza di venticinque nazioni si riunirono a Washington per stabilire un unico meridiano fondamentale di riferimento. Superando le divergenze politiche e le rivalità tra i grandi osservatori nazionali, i delegati decisero di fissare come meridiano zero quello di Greenwich (con grande scorno dei francesi) e divisero la Terra in ventiquattro fusi orari, ciascuno dell'ampiezza di un'ora. I singoli paesi, tuttavia, non furono tutti solerti nel mettere in pratica le convenzioni sancite dalla conferenza di Washington, e non soltanto a causa dell'inerzia degli amministratori o dell'ostilità di quanti preferivano continuare a regolare i propri ritmi di vita con il corso del Sole (nel 1894, ad esempio, un certo Martial Bourdin, anarchico francese, fu autore di un attentato all'osservatorio di Greenwich, un episodio che pochi anni più tardi darà a Conrad lo spunto per il suo Agente segreto). Il fatto è che riuscire a sincronizzare tra loro tutti gli orologi, non diciamo di un'intera nazione, ma anche solo di una grande città, non è impresa facile (guarda caso, in un altro suo romanzo non molto noto, Maître Zacharius, Verne narra proprio della tragedia di un orologiaio ginevrino, i cui orologi si fermano misteriosamente l'uno dopo l'altro, fino all'ultimo che gli sarà fatale).
Già dagli anni '30 e '40 dell'Ottocento, alcuni scienziati e inventori, quali gli inglesi Charles Wheatstone e Alexander Bain e, successivamente, lo svizzero Mathias Hipp, avevano cominciato a mettere a punto sistemi di distribuzione elettrica per coordinare numerosi orologi posti anche a grande distanza l'uno dall'altro collegandoli a un singolo orologio centrale. Sistemi di coordinazione su ben più vasta scala, ormai indispensabili per le esigenze dei trasporti ferroviari e dei commerci transoceanici, furono resi possibili dai progressi della telegrafia. Il primo cavo sottomarino attraverso la Manica fu posato nel 1851, mentre la prima linea telegrafica ad attraversare l'Atlantico venne posta in opera, superando enormi difficoltà tecniche, tra il 1858 e il 1866, sotto la direzione di William Thomson Kelvin (che inventò anche un apposito apparecchio, il galvanometro a specchio, per captare i debolissimi impulsi elettrici che pervenivano all'estremità ricevente della linea). Tra l'altro, le trasmissioni telegrafiche a lunga distanza, consentendo di sincronizzare orologi lontani migliaia di chilometri l'uno dall'altro, permisero anche di effettuare misure di longitudine molto più precise: gli ultimi cinquant'anni dell'Ottocento furono un'epoca eroica per la geodesia e per la cartografia, discipline di importanza strategica per paesi, quali l'Inghilterra o la Francia, con estesi possedimenti coloniali.
Questo complesso intreccio di questioni scientifiche, sfide tecnologiche e interessi politici attorno al problema della standardizzazione del tempo non serve soltanto a ricordarci che alcune di quelle caratteristiche che crediamo peculiari della nostra epoca in realtà già erano manifeste nel XIX secolo. Secondo l'originale interpretazione proposta da Peter Galison, storico della scienza di Harvard, nel suo recente saggio Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo (Cortina, traduzione di M. D'Agostino, pp. XI-394, euro 29) i problemi posti dalla coordinazione di orologi avrebbero innescato una riflessione critica sulla nozione di simultaneità, che sarebbe sfociata in una nuova teoria fisica del tempo e dello spazio: la relatività speciale. Insomma, se l'Ottocento è il secolo in cui saldamente si ancorano le radici del mondo contemporaneo, ciò vale anche per quel che riguarda le grandi rivoluzioni scientiche che hanno segnato la fisica del nostro tempo.
Due sono gli scienziati, come suggerisce lo stesso Galison, che più di ogni altro hanno contribuito alla genesi della relatività speciale: Albert Einstein, come tutti sanno, e Jules Henri Poincaré, il cui nome è più di rado ricordato. Proprio a Poincaré, forse il più versatile e geniale grand savant del XIX secolo, si deve l'articolo che costituisce il principale documento probatorio addotto da Galison a sostegno della sua tesi. Nella Misura del tempo, pubblicato nel 1898 sulla Revue de métaphysique et de morale (e successivamente ripreso in un capitolo de Il valore della scienza), il matematico francese argomentò che la simultaneità tra due eventi non è una nozione assoluta, ma definita sulla base di opportune convenzioni procedurali, ad esempio mediante lo scambio di segnali telegrafici. D'altra parte, Poincaré conosceva bene, oltre alle questioni teoriche, anche gli aspetti tecnici connessi al problema della sincronizzazione di orologi a distanza e possedeva specifiche competenze sulle applicazioni alla geodesia e alla cartografia: con una solida formazione di ingegnere alle spalle, membro dal 1893 del Bureau des longitudes, aveva approfondito la teoria della trasmissione telegrafica dei segnali e riesaminato gli studi sperimentali che misuravano la trasmissione elettrica in fili di ferro e di rame. Nel 1900, Poincaré applicò le proprie idee sul tempo e la simultaneità per reinterpretare in maniera del tutto originale l'ipotesi di un «tempo locale» che il fisico olandese Hendrik Lorentz aveva dovuto introdurre, chiaramente ad hoc, per rendere consistente la teoria dell'elettrone che aveva elaborato. In questo modo, come osserva Galison, «l'idea tecnologico-filosofica degli orologi coordinati elettricamente veniva trasferita nel cuore stesso della fisica»: ciò significava la nascita di una nuova concezione del tempo e dello spazio, non più assoluti e intimamente legati l'uno all'altro.
Mentre l'interpretazione proposta da Galison del percorso scientifico di Poincaré appare intelligente e ben argomentata, le pagine dedicate a Einstein non ci sembrano altrettanto convincenti. In effetti, sebbene il giovane Albert lavorasse all'Ufficio brevetti di Berna quando, nel 1905, pubblicò il celebre articolo «Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento», le sue conoscenze riguardo ai problemi di coordinazione di orologi e di trasmissione di segnali elettrici a distanza erano, nella migliore delle ipotesi, indirette, non certo di prima mano come quelle di Poincaré. L'originalità di Einstein non sta tanto nella critica della nozione di simultaneità, quanto nell'audacia di proporre una nuova teoria unificata in grado di spiegare sia i fenomeni meccanici sia quelli elettromagnetici sulla base di due soli postulati (il principio di relatività e il postulato di costanza della velocità della luce).
Venticinque anni separano Poincaré da Einstein. Potevano affrontare, come fecero, lo stesso problema fisico, ma il loro universo concettuale era diverso. Ebbero occasione di incontrasi di persona un'unica volta, nel 1911, al primo Congresso Solvay, e nelle ingenerose parole di commento che Einstein indirizzò a un amico sembra risuonare l'arroganza di chi sa di avere un debito ma non vuole riconoscerlo: «Poincaré, con tutta la sua acutezza, mostra di capire poco come stanno le cose». Il fair play di Phileas Fogg apparteneva a un'epoca ormai passata.