venerdì 28 gennaio 2005

MUSEUM BENAKI
BENAKI BUILDING Peireos Av.
Athens


Monday, 28 February 2005

The Archives of Greek Composers Thomas Tamvakos
&
Kelados Ensemble

Anna Mouzàki, mezzosoprano
Kostas Tiliakòs, oboe
Dimitri Magriòtis, Cello
Màro Fragkoùli, piano

Dimitri NICOLAU (1946),Italia

Op.255 Sapfoùs

with Voice (mezzosoprano), Oboe, Cello & Piano

a composition commissioned from The Archives of Greek Composers

Thomas Tamvakos in first world performance
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L'ESPRESSO 28 gennaio 2005
Antidepressivi
IMPUTATO PROZAC
Paola Emilia Cicerone


I pazienti che fanno uso di antidepressivi della famiglia degli SSRI, ossia inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina come il Prozac, sono a rischio emorragia?
Da tempo le emorragie - gastriche, ginecologiche o addirittura cerebrali - fanno parte dei possibili effetti avversi di questi farmaci. Una ulteriore conferma arriva da un'indagine su oltre 64 mila pazienti realizzata tra il 1992 e il 2000 dall'Istituto di Scienze Farmaceutiche di Utrecht, pubblicata sul "British Medical Journal".
Sarebbe proprio l'azione del farmaco della serotonina a influire sui meccanismi di aggregazione del sangue, causando le emorragie: "Adesso si aprono nuove prospettive sulla relazione tra uso di antidepressivi ed emorragie", commentano i ricercatori.

referendum sulla fecondazione
dopo la trasmissione di Ferrara con Cossu e Vescovi

Liberazione 28.1.05
Alle "Otto e mezzo" tra scienza, polemiche e propaganda

Caro Curzi
sono rimasto sbalordito dal programma "Otto e Mezzo" di mercoledì sera, per l'argomento interessante trattato in maniera faziosa da Ferrara, che non lasciava parlare chi osava contrapporsi al prof. Vescovi, fosse pure il suo superiore prof. Cossu. Ferrara non solo si arrogava il diritto di riassumere lui le posizioni dei partecipanti, deformando abilmente quelle dei radicali e del loro rappresentante alla trasmissione, ma pur di sostenere le sue tesi a favore dell'ovulo fecondato = uguale persona umana, ha irriso al documento firmato da un certo numero di scienziati Premi Nobel, insultando questi ultimi col dire "Voi avete sempre pronti tanti Nobel, sia che si tratti del Vietnam che della fecondazione artificiale" come se i firmatari fossero degli utili idioti assoldabili da chiunque. E sbeffeggiando il Nobel col dire sarcasticamente "pure Fo è Nobel, figuriamoci" (le parole forse non sono esatte, ma il significato sì). Poi ha criticato chi si serve degli esempi personali, come il Coscioni, per fini di propaganda, ma lui stesso ha invitato alla trasmissione un signor Brunetta che è portatore di un male ereditario, per fargli dire che è ben felice di essere vivo nonostante la malattia, mentre non lo sarebbe se qualche amico della scienza avesse all'epoca suggerito o imposto di eliminare il suo embrione perché malato. Forse tu non pubblicherai questa lettera perché sei amico di Ferrara e più volte hai detto che lo stimi come giornalista, ma questo è un tuo problema di coscienza.


Nuccio Massari e mail

Nessun problema di coscienza. Ferrara è un collega che sa il fatto suo, il che non significa che svolga la professione ineccepibilmente e che anzi troppo spesso interpreti assai male la sua funzione di introduttore e moderatore, trasformandosi per eccesso di autostima e di facilità verbale nella vera controparte di chi pure è stato invitato a "Otto e mezzo", ma non condivide la sua posizione. Mercoledì sera ha, come suol dirsi, passato il segno, e proprio in un campo nel quale la funzione della informazione è essenzialmente quella di rendere chiari i termini di un problema dalle molte facce, difficilmente accessibile a chi non sia uno specialista o non abbia seguito l'accesissimo dibattito che ha preceduto e seguito l'approvazione della legge 40, per l'abrogazione della quale, o la cancellazione delle norme più oscurantiste, si è mobilitato l'intero Paese, con l'apporto anche di personalità della scienza e dell'umanesimo, ivi compresi dei Premi Nobel che da parte di tutti meritano, se non condivisione, certamente rispetto. Ma l'uomo è questo. Per amore di polemica e per faziosità sarebbe capace di negare il sole. Tanto è vero che invita Luca Coscioni a non strumentalizzare la propria orribile malattia, per ora senza salvezza, mentre è stato lui Ferrara il primo a tirare in ballo l'esperienza personale. Forse non sei un ascoltatore abituale di "Otto e mezzo", ma nella prima trasmissione dedicata appunto alla legge 40 e alle sue storture, Ferrara ha dichiarato al microfono, inutilmente ripreso da Ritanna Armeni, che lui era ben felice di essere così com'è al mondo, e che nessuno, sua madre o altri, abbia potuto decidere di non far proseguire la sua vita, immaginando che avrebbe avuto problemi nel crescere. L'esempio, come vedi, oltre a essere destituito di fondamento, non è solo prova di furbizia ma volutamente spiazzante e dunque prova di cinismo. Anche l'altra sera ha impedito, dopo un ipocrita invito iniziale a non abbandonarsi alle polemiche personali e a discutere serenamente, al prof. Cossu, che si diceva favorevole alla sperimentazione sugli embrioni esistenti (destinati alla morte entro breve perché non richiesti da coppie sterili) a sviluppare il suo discorso perché dalle di lui parole si poteva capire che l'illustre medico sarebbe stato favorevole anche alla sperimentazione su embrioni creati in sopranumero non volontariamente). La legge che il referendum avrebbe voluto abrogare, infatti, prescrive che per ogni donna che voglia ricorrere alla fecondazione assistita, possano essere fecondati in provetta tre ovuli, i quali tutti debbono essere impiantati nell'utero materno, senza verificare se l'uno o l'altro di essi è portatore di una qualche malattia genetica o di un qualche "difetto" che ne impedirebbe il normale sviluppo. Se, dopo l'impianto nell'utero, ci si accorgerà che qualcosa va male, la donna sarà libera di ricorrere all'aborto. Chi tentava di argomentare questo aspetto è stato zittito dicendo che non si stava parlando di quello, e per buon peso l'impareggiabile conduttore ha anche detto che non si facesse finta di parlare di salute della donna, perché intanto si parlava del diritto a vivere (o a essere buttato, in verità) dell'embrione non impiantato. Meglio la morte del sacro embrione, portatore di un diritto sembrerebbe superiore a quello della donna che lo nutre nel suo grembo, piuttosto che usarne a fini di ricerca. Mi fermo qui, caro Nuccio, e forse sono andato oltre, perché la legge è stata ampiamente illustrata e criticata su "Liberazione", da altri più di me titolati a farlo. Per finire, un semplice augurio: che anche su "La 7" si torni ad affrontare il delicato argomento, con l'unico scopo di fornire informazioni esatte e far discutere, a parità di tempo e di rispetto, persone di opinioni diverse.

Alessandro Curzi
alessandro. curzi@liberazione. it

a Mosca: la prima mostra d'arte moderna nella storia della Russia

La Stampa 28 Gennaio 2005
«NON PROFANATE IL TEMPIO DELLA RIVOLUZIONE»: SI APRE NEL DISSENSO LA PRIMA «BIENNALE» FINANZIATA DALLO STATO. PARTECIPANO 41 ARTISTI DA 22 PAESI
L’arte moderna nel museo Lenin: e Mosca insorge
di Francesca Sforza
corrispondente da MOSCA


IL Museo Lenin, nel cuore di Mosca, è stato in disarmo per più di dieci anni. «Closed forever», rispondevano le guardie della Piazza Rossa al turista in cerca di indicazioni. Chiuso per sempre.
Da ieri, però, gli spazi che in epoca sovietica custodivano i cimeli della rivoluzione - oggi trasferiti nella cittadina di Leninskie Gorki - si animeranno di nuovo grazie alla Prima Biennale dell'Arte Contemporanea di Mosca. «Il vero gesto artistico è stato quello di cominciare dal Museo Lenin, in cui per anni non è entrata anima viva, per poi allargarsi a macchia d'olio su tutta Mosca», ci dice Iosif Backstein, coordinatore della Biennale. «Se non fosse per queste ragazze bellissime che servono vodka - dice un giornalista americano alla conferenza stampa di presentazione - sembrerebbe di essere a Londra, a Berlino, a New York». Ci si ricorda di essere a Mosca solo pochi minuti prima dell'inaugurazione, quando una folla rumorosa si addensa davanti alle porte del Museo Lenin gridando al sacrilegio: «Non profanate il tempio della rivoluzione, tenete Lenin fuori dai vostri quadri», dicono i cartelli dei nostalgici.
Nove luoghi espositivi, quarantuno artisti provenienti da ventidue paesi, più di venti progetti speciali con autori di prestigio internazionale come Christian Boltanski, Yuri Vassiliev o Bill Viola e oltre trenta manifestazioni parallele nelle gallerie della città (tra cui il padiglione italiano al Museo di Storia Contemporanea della Russia). La prima Biennale di Arte Contemporanea di Mosca è costata 53 milioni di rubli (2 milioni e mezzo di dollari), tutti pagati dallo Stato: «Non c'è stato neanche uno sponsor che si sia lasciato convincere a investire nell'operazione», ha detto il capo dell'Agenzia Federale della Cultura Mihail Shvidkoy.
Quello degli sponsor non è stato l'unico «niet». La Direzione della Metropolitana di Mosca ha rifiutato di prestare la stazione «Vorobiovy gory» alle videoistallazioni e uno dei curatori, Viktor Misiano, è stato allontanato dal gruppo per dissensi sulla direzione culturale. Problemi di censura? «Massima libertà per gli artisti - ha detto Shvidkoy - ma visto che era lo Stato a pagare, una certa selezione c'è stata». Alcuni lavori, in altre parole, sono stati finanziati dagli stessi artisti perché lo Stato non li aveva «selezionati».
«Inutile nasconderlo, questa prima biennale moscovita è un grande gioco - dice Iosif Backstein -. C'è l'arte, c'è la politica, c'è la memoria, ci sono i tabù da infrangere e la curiosità da risvegliare».
Tutti a chiedersi se Putin verrà all'inaugurazione. Il Cremlino tace fino all'ultimo, ma Putin alla Biennale c'è lo stesso, in forma d'arte. Dmitri Shubi, fotografo di San Pietroburgo, ha intitolato la sua opera Mosca negli occhi del presidente: una rassegna serrata e puntuale di ciò che Putin vede dal finestrino della sua auto nel tragitto che separa la sua abitazione dal Cremlino. I palazzi del Kutusovsky Prospekt, le insegne luminose del Nuovo Arbat, le persone che chiedono un passaggio per qualche centinaio di rubli. «La mia preferita - dice Shubi - è quella di una donna che guarda l'obiettivo da dietro le spalle di un barbone, e sembra avere paura di quello che vede».
L'immagine di Putin ricorre con insistenza anche nel progetto speciale «Rossia2», che si propone di presentare «la cultura parallela al sistema ufficiale». In questa Russia una Madonna con Bambino è una ragazza seduta su una poltrona di teatro, con in grembo un ordigno pronto a esplodere, e il Salvatore è un ragazzo con la faccia di Putin, che dà da accendere a Cristo. Il culto della personalità è una specialità dei russi, ma questa volta non si tratta di matrioske o di magliette.
«Vorrei che Mosca diventasse la Venezia d'Inverno» - dice Rosa Martinez, tra i curatori di questa Biennale e curatrice di quella veneziana. Anche il Lido risentirà dell'esperienza moscovita? «Qualche artista che oggi è qui, domani sarà a Venezia». Quanto al resto, «segreto assoluto».
I moscoviti stanno a guardare, indecisi se lasciarsi prendere dall'entusiasmo, arrabbiarsi o tenersi da parte: «Si fa presto a dire "la prima biennale di Mosca" - scrive ad esempio il tabloid popolare Moskovsky Komsomolets -. Per essere Biennale deve durare almeno due anni. Dunque sapremo solo nel 2007 se l'esperimento ha funzionato».

embrioni

Repubblica 28.1.05
L'inizio della vita secondo la Chiesa
CORRADO AUGIAS

Caro Augias, l'embrione è una persona, non è una muffa. Un concetto «alto», senza dubbio, quello espresso di recente dal presidente del Senato. Premesso che ognuno può avere la sua opinione (anche se chi rappresenta un'istituzione dovrebbe forse mantenere un profilo neutrale in quella che è diventata una battaglia politica), vorrei far sapere al presidente Pera, che per la scienza l'embrione non è considerato una persona fin dal concepimento. Per questo trovo aberrante la nuova legge sulla fecondazione assistita. Oltre a non poter congelare gli embrioni, ora è possibile fecondare solo tre ovociti che devono poi essere tutti impiantati. Un numero fisso che non incontra le esigenze di donne diverse: per una donna con più di 38 anni tre ovociti potrebbero essere pochi, ma per una più giovane potrebbero essere troppi e quindi comportare una gravidanza gemellare, indubbiamente più a rischio. E' certo difficile dare un giudizio imparziale su questa legge 40 ed è giusto che ciascuno di noi dichiari senza ipocrisie la propria cultura di provenienza. Ebbene, io rivendico la mia appartenenza laica. Per questo mi sento offesa da una legge che riflette solo il punto di vista della morale cattolica, mentre il pensiero laico avrebbe privilegiato la strada della convivenza umanistica tra più etiche differenti. Laura delle Donne, Roma
In questa lunga e delicata questione degli embrioni un aspetto non è stato sufficientemente discusso ed è il seguente: la posizione della Chiesa che vuole l'embrione "persona" titolare di diritti fin dai primi istanti da dove proviene? La chiesa infatti fa coincidere fecondazione e «animazione», un punto di vista più di fede che realmente scientifico. La scienza, più possibilista, sottolinea invece la gradualità dello sviluppo di un embrione, i vari stadi che le cellule fecondate attraversano, giudica che la sua potenzialità evolutiva non sia un dato sufficiente per attribuirgli subito diritti personali. Da dove la chiesa ricava il suo dettato? Un libro che all'apparenza riguarda altro, ci aiuta a rispondere. Nel saggio «Battesimi forzati» (Viella ed.) Marina Caffiero dedica un capitolo a "Il feto come non nato". Accadeva talvolta che qualche ebreo convertito al cattolicesimo offrisse anche la conversione dei suoi congiunti ("oblazione") compresa una figlia o nipote incinta. L'atteggiamento della chiesa in quei casi era di rifiutare il battesimo del feto «ventris pregnantis» cioè ancora nel corpo della madre. La Caffiero racconta come l'assessore del Sant'Uffizio autorevolmente argomentasse questo rifiuto «derivante da assioma filosofico, sulla base di S. Agostino e di S. Tommaso, e dal consenso dei giuristi secondo cui il feto doveva ritenersi parte del corpo della stessa madre, dunque non autonomo da quella ma totalmente subordinato».
Il libro non dice quando questa giurisprudenza è cambiata; sappiamo però che la questione è rimasta aperta fin quasi ai primi del 900 e che solo in seguito, soprattutto su impulso dei cattolici irlandesi, si è ritenuto di poter battezzare i feti di aborti spontanei avviando così il processo che ha portato alle convinzioni attuali.
La chiesa ha quindi come fonte una posizione affermatasi solo di recente e non senza contrasti. Un dato che finora è mancato alla discussione.

Jules Henri Poincaré, Albert Einstein: il tempo

La Stampa 28 Gennaio 2005
EINSTEIN, POINCARÉ E LA «RELATIVITÀ SPECIALE»: IN UN SAGGIO LA LUNGA MARCIA PER ELIMINARE L’ANARCHIA DEGLI OROLOGI
DOMATORI DEL TEMPO
di Claudio Bartocci


IL giro del mondo di Phileas Fogg, il metodico e imperturbabile gentleman partorito dalla fantasia di Jules Verne, ha inizio, per scommessa, il 2 ottobre 1872 alle ore otto e quarantacinque in punto. La storia è nota a tutti. Viaggiando sempre verso Est, Fogg, accompagnato dal devoto servitore Passepartout, guadagna 4 minuti per ogni grado di longitudine attraversato e dunque, al termine del suo periplo, ventiquattro ore esatte. Così, malgrado il ritardo di un giorno rispetto alla tabella di marcia che aveva stabilito, può fare il suo ingresso flemmatico e trionfale nella sala del suo club dove l'attendono gli amici proprio mentre sta per scoccare l'ultimo secondo utile. In modo quasi fin troppo esplicito, è il tempo il vero protagonista di questo voyage extraordinaire: scandito dal battito di orologi che segnano ore diverse nelle diverse zone geografiche, non sempre in corrispondenza con quel che riportano gli orari dei treni o dei piroscafi, il tempo sembra molto più difficile da padroneggiare dello spazio.
In effetti, nella seconda metà dell'Ottocento, con il continuo ampliamento della rete ferroviaria e il diffondersi dei servizi telegrafici, il problema della standardizzazione dell'ora su scala mondiale era diventato prioritario per ragioni di carattere sia economico-politico, sia tecnico-scientifico. Più o meno negli stessi anni in cui Phileas Fogg e Passepartout attraversavano le pianure del Nord America, un ipotetico viaggiatore da San Francisco a Washington che avesse voluto regolare il proprio orologio in ogni città visitata, avrebbe dovuto rimettere a posto le lancette più di un centinaio di volte (prendiamo questa informazione, e altre, dal bel libro di Stephen Kern, Il tempo e lo spazio, Il Mulino 1995). Le ferrovie cercarono di uniformare la misura del tempo almeno su scala regionale, ma attorno al 1870 negli Stati Uniti rimanevano ancora circa 80 ore ferroviarie differenti. In Europa le cose non andavano meglio. L'ora ferroviaria di Parigi era avanti di ventisette minuti rispetto a quella di Brest e indietro di venti minuti rispetto a quella di Nizza. Per quanto riguarda la Germania, il conte Helmuth von Moltke, il trionfatore di Sedan, doveva rivolgere nel 1891 un vibrante appello al parlamento per l'adozione di un'unica ora ufficiale tedesca, che avrebbe permesso di coordinare piani militari e spostamenti di truppe in maniera più efficiente.
Nell'ottobre del 1884, diplomatici e scienziati in rappresentanza di venticinque nazioni si riunirono a Washington per stabilire un unico meridiano fondamentale di riferimento. Superando le divergenze politiche e le rivalità tra i grandi osservatori nazionali, i delegati decisero di fissare come meridiano zero quello di Greenwich (con grande scorno dei francesi) e divisero la Terra in ventiquattro fusi orari, ciascuno dell'ampiezza di un'ora. I singoli paesi, tuttavia, non furono tutti solerti nel mettere in pratica le convenzioni sancite dalla conferenza di Washington, e non soltanto a causa dell'inerzia degli amministratori o dell'ostilità di quanti preferivano continuare a regolare i propri ritmi di vita con il corso del Sole (nel 1894, ad esempio, un certo Martial Bourdin, anarchico francese, fu autore di un attentato all'osservatorio di Greenwich, un episodio che pochi anni più tardi darà a Conrad lo spunto per il suo Agente segreto). Il fatto è che riuscire a sincronizzare tra loro tutti gli orologi, non diciamo di un'intera nazione, ma anche solo di una grande città, non è impresa facile (guarda caso, in un altro suo romanzo non molto noto, Maître Zacharius, Verne narra proprio della tragedia di un orologiaio ginevrino, i cui orologi si fermano misteriosamente l'uno dopo l'altro, fino all'ultimo che gli sarà fatale).
Già dagli anni '30 e '40 dell'Ottocento, alcuni scienziati e inventori, quali gli inglesi Charles Wheatstone e Alexander Bain e, successivamente, lo svizzero Mathias Hipp, avevano cominciato a mettere a punto sistemi di distribuzione elettrica per coordinare numerosi orologi posti anche a grande distanza l'uno dall'altro collegandoli a un singolo orologio centrale. Sistemi di coordinazione su ben più vasta scala, ormai indispensabili per le esigenze dei trasporti ferroviari e dei commerci transoceanici, furono resi possibili dai progressi della telegrafia. Il primo cavo sottomarino attraverso la Manica fu posato nel 1851, mentre la prima linea telegrafica ad attraversare l'Atlantico venne posta in opera, superando enormi difficoltà tecniche, tra il 1858 e il 1866, sotto la direzione di William Thomson Kelvin (che inventò anche un apposito apparecchio, il galvanometro a specchio, per captare i debolissimi impulsi elettrici che pervenivano all'estremità ricevente della linea). Tra l'altro, le trasmissioni telegrafiche a lunga distanza, consentendo di sincronizzare orologi lontani migliaia di chilometri l'uno dall'altro, permisero anche di effettuare misure di longitudine molto più precise: gli ultimi cinquant'anni dell'Ottocento furono un'epoca eroica per la geodesia e per la cartografia, discipline di importanza strategica per paesi, quali l'Inghilterra o la Francia, con estesi possedimenti coloniali.
Questo complesso intreccio di questioni scientifiche, sfide tecnologiche e interessi politici attorno al problema della standardizzazione del tempo non serve soltanto a ricordarci che alcune di quelle caratteristiche che crediamo peculiari della nostra epoca in realtà già erano manifeste nel XIX secolo. Secondo l'originale interpretazione proposta da Peter Galison, storico della scienza di Harvard, nel suo recente saggio Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo (Cortina, traduzione di M. D'Agostino, pp. XI-394, euro 29) i problemi posti dalla coordinazione di orologi avrebbero innescato una riflessione critica sulla nozione di simultaneità, che sarebbe sfociata in una nuova teoria fisica del tempo e dello spazio: la relatività speciale. Insomma, se l'Ottocento è il secolo in cui saldamente si ancorano le radici del mondo contemporaneo, ciò vale anche per quel che riguarda le grandi rivoluzioni scientiche che hanno segnato la fisica del nostro tempo.
Due sono gli scienziati, come suggerisce lo stesso Galison, che più di ogni altro hanno contribuito alla genesi della relatività speciale: Albert Einstein, come tutti sanno, e Jules Henri Poincaré, il cui nome è più di rado ricordato. Proprio a Poincaré, forse il più versatile e geniale grand savant del XIX secolo, si deve l'articolo che costituisce il principale documento probatorio addotto da Galison a sostegno della sua tesi. Nella Misura del tempo, pubblicato nel 1898 sulla Revue de métaphysique et de morale (e successivamente ripreso in un capitolo de Il valore della scienza), il matematico francese argomentò che la simultaneità tra due eventi non è una nozione assoluta, ma definita sulla base di opportune convenzioni procedurali, ad esempio mediante lo scambio di segnali telegrafici. D'altra parte, Poincaré conosceva bene, oltre alle questioni teoriche, anche gli aspetti tecnici connessi al problema della sincronizzazione di orologi a distanza e possedeva specifiche competenze sulle applicazioni alla geodesia e alla cartografia: con una solida formazione di ingegnere alle spalle, membro dal 1893 del Bureau des longitudes, aveva approfondito la teoria della trasmissione telegrafica dei segnali e riesaminato gli studi sperimentali che misuravano la trasmissione elettrica in fili di ferro e di rame. Nel 1900, Poincaré applicò le proprie idee sul tempo e la simultaneità per reinterpretare in maniera del tutto originale l'ipotesi di un «tempo locale» che il fisico olandese Hendrik Lorentz aveva dovuto introdurre, chiaramente ad hoc, per rendere consistente la teoria dell'elettrone che aveva elaborato. In questo modo, come osserva Galison, «l'idea tecnologico-filosofica degli orologi coordinati elettricamente veniva trasferita nel cuore stesso della fisica»: ciò significava la nascita di una nuova concezione del tempo e dello spazio, non più assoluti e intimamente legati l'uno all'altro.
Mentre l'interpretazione proposta da Galison del percorso scientifico di Poincaré appare intelligente e ben argomentata, le pagine dedicate a Einstein non ci sembrano altrettanto convincenti. In effetti, sebbene il giovane Albert lavorasse all'Ufficio brevetti di Berna quando, nel 1905, pubblicò il celebre articolo «Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento», le sue conoscenze riguardo ai problemi di coordinazione di orologi e di trasmissione di segnali elettrici a distanza erano, nella migliore delle ipotesi, indirette, non certo di prima mano come quelle di Poincaré. L'originalità di Einstein non sta tanto nella critica della nozione di simultaneità, quanto nell'audacia di proporre una nuova teoria unificata in grado di spiegare sia i fenomeni meccanici sia quelli elettromagnetici sulla base di due soli postulati (il principio di relatività e il postulato di costanza della velocità della luce).
Venticinque anni separano Poincaré da Einstein. Potevano affrontare, come fecero, lo stesso problema fisico, ma il loro universo concettuale era diverso. Ebbero occasione di incontrasi di persona un'unica volta, nel 1911, al primo Congresso Solvay, e nelle ingenerose parole di commento che Einstein indirizzò a un amico sembra risuonare l'arroganza di chi sa di avere un debito ma non vuole riconoscerlo: «Poincaré, con tutta la sua acutezza, mostra di capire poco come stanno le cose». Il fair play di Phileas Fogg apparteneva a un'epoca ormai passata.

sinistra
Fausto Bertinotti, Brecht e Lella

Corriere della Sera 28.1.05
La moglie Lella: Fausto, vai in pensione. E lui: lo farò
Il capo del Prc: non dico che si può lasciare la politica, ma i posti di direzione sì. Lo fa anche la Chiesa con i vescovi
di
Maria Latella
Lella Bertinotti rivela invece di non sostenere il marito nella sua scelta di candidato alle primarie. «Sono per qualsiasi cosa lo porti a casa». Ovvero a una «vita in campagna e marmellatine fatte in casa»
ROMA - In via Santi Apostoli Romano Prodi riunisce il centrosinistra. Dall’altra parte della strada, Gianfranco Fini discute di Europa e America con gli ospiti della Fondazione Rebecchini. A poche decine di metri, intanto, in via Nazionale, Fausto Bertinotti parla di Brecht: lo fa a teatro, in quell’Eliseo tanto caro ai devoti della Proclemer, della Malfatti, della Moriconi. Roma è così, concentra molti e diversi eventi in poco spazio e certo il segretario di Rifondazione Comunista pare a suo agio qui, in quest’atmosfera che, per farsi più brechtiana, schiera anche una mendicante cinquantenne davanti all’ingresso del teatro. «Regina povertà» si intitola l’incontro dedicato al musicista Kurt Weill e all’autore di teatro Bertold Brecht, icone di una certa fase culturale, citatissimi, amatissimi negli anni Sessanta-Settanta: lo conoscevano perfino i liceali di provincia e, racconta Lella Bertinotti, loro due, sposati da poco, addirittura partivano da Novara, in 500, per andare a Milano, la sera, a vedere Strehler e il suo Brecht, al Piccolo Teatro. Innamoramenti remoti, saranno almeno vent’anni che di Brecht non parla più nessuno e invece adesso spunta, o rispunta, in un pomeriggio di quelli che all’Eliseo cura il giornalista Curzio Maltese. Il soggetto stimola Fausto Bertinotti, convinto che Brecht abbia, da intellettuale visionario, tutto anticipato e previsto, anche la globalizzazione: «C’è in lui un elemento profetico che consiste nel vedere l’umanità a un bivio, di qui la catastrofe, di là la salvezza». Del drammaturgo tedesco, Bertinotti apprezza «la critica al potere tout court». Eppure, si potrebbe osservare, eppure anche lui, anche Bertinotti, di questo sistema è parte, se non altro perché inserito nell’ingranaggio ansiogeno dei media... L’altro giorno, al Riformista , la moglie Lella ha confessato un privatissimo obiettivo: convincere il marito ad andare in pensione. Cederà Fausto alla coniugale insistenza? Oppure, come tanti altri, politici, giornalisti, imprenditori, resterà sulla breccia anche oltre gli ottanta, perché lasciare la ribalta è doloroso, troppo perché si arrivi a deciderlo da soli? «Anche su questo vi sorprenderà - sorride Lella Bertinotti - Perché? Perché, come dice Prodi, Fausto è strampalato».
Tra una riflessione su Brecht e una sull’Opera da tre soldi, pure il segretario di Rifondazione sembra condividere il punto di vista della moglie. «Lella vuole mandarmi in pensione? Sono d’accordo. Non ho detto che si lascia la politica, la politica è una scelta di vita, ma si possono lasciare i posti dai quali la politica si organizza, si dirige. Se lo prevede la Chiesa per i suoi vescovi, perché non possono prevederlo i partiti?». Far parte di organi direttivi richiede quotidiana fatica, riflette il segretario di Rifondazione Comunista, e tempo, soprattutto, tempo. «Mentre a lui piace leggere, piace studiare - confida ancora Lella Bertinotti - Io ci ho pensato, anch’io mi rendo conto di quanto possa lasciare spaesati trovarsi senza più riflettori, senza cronisti, senza taccuini...». Ci ha pensato ed è arrivata alla conclusione che Bertinotti sarebbe felice comunque, «purché possa studiare, leggere e magari essere chiamato, di tanto in tanto, a dibattere di quel che sa». «L’impegno quotidiano deve aver un termine - aggiunge lui - Vale per tutti i campi, perché non deve valere per la politica?». E poi, citando l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per e un tempo per...». Ma quella parola lì, «pensione», ecco, quella proprio non gli viene.

IL GIORNALE DI BRESCIA 28.1.2005
Bertinotti: «Non mi ritiro neanche se lo chiede il Papa»
Corrado Martucci


La moratoria sulle primarie chiesta da Prodi e Fassino è in atto nelle sedi ufficiali, ma ciò non toglie che se ne parli in dichiarazioni e interviste. E per quanto Bertinotti abbia affermato più volte di non voler compiere il ’’passo indietro’’ da qualcuno richiesto, da molti auspicato, ha fatto rumore l’ultimo intervento del leader di Rifondazione Comunista: «Non mi ritiro dalle primarie neanche se me lo chiede il Papa». Un’asserzione categorica, tanto più che alla domanda provocatoria di un giornalista, «e se glielo chiedesse Prodi?», il segretario del Prc ha replicato: «Nella mia gerarchia personale il Papa è più di Prodi». Ad ogni modo coloro che sono abituati a leggere tra le righe hanno attribuito notevole valore a un’ulteriore chiosa del parlamentare: «Se esiste un problema politico da parte di alcune forze, lo si ponga alla luce del sole e io sono prontissimo a discuterne». Il che potrebbe rappresentare una minaccia, ma pure una apertura. La condotta di Bertinotti è stata duramente criticata da Marco Rizzo, dell’alleato ma antagonista Pdci, il quale ha esortato il leader di Rifondazione a «smettere di rimirarsi allo specchio per cominciare a pensare alle cose serie, innanzitutto a vincere le elezioni». Rizzo ha citato un recentissimo sondaggio il quale «dà oggi alla Gad qualche punto di vantaggio rispetto al centrodestra». Dell’indagine demoscopica, realizzata da Demos-Eurisko su incarico del gruppo ’’L’Espresso’’ risulta che «l’entusiasmo per la squadra del Governo Berlusconi scende al 36 per cento, ma il giudizio dell’elettorato nei confroni del centro sinistra rimane comunque poco benevolo». Dall’autunno a oggi i due schieramenti si sarebbero riallineati nelle previsioni degli elettori, passando per l’Ulivo dal 45,8 per cento di settembre al 35,4, la Casa delle Libertà sarebbe risalito dal 34,2 per cento al 36,2, mentre l’area degli incerti si sarebbe allargata dal 20 al 28 per cento. Di questo sondaggio si è parlato al vertice dei leader della Federazione dell’Ulivo svoltosi nello studio di Prodi con i dirigenti dei Ds, della Margherita, dello Sdi e dei Repubblicani europei. È stato deciso che alle regionali i partiti federati si presenteranno con lo stesso simbolo ’’Uniti per l’Ulivo’’. Il 26 gennaio in una manifestazione a Roma saranno presentati i 14 candidati presidenti, mentre il 27 l’assemblea plenaria della Federazione eleggerà presidente e comitato esecutivo. Non è stato trattato il problema delle primarie.

ebrei americani e crimini cattolici

Corriere della Sera 28.1.05
LE ORGANIZZAZIONI AMERICANE
«La Chiesa tolga il segreto sui bimbi ebrei»


WASHINGTON - Alcune organizzazioni di ebrei statunitensi minacciano di avviare azioni legali contro il Vaticano se non «aprirà i propri archivi per fornire l’elenco completo dei bambini israeliti rifugiati in conventi nel corso della Seconda guerra mondiale, e non restituiti alle famiglie d’origine». David Schoen, avvocato dell’Alabama, ha detto che il Vaticano finora non ha risposto alla richiesta. Di fronte al silenzio, ha continuato il legale, si è giunti quindi alla decisione di imporre un ultimatum: «Se entro una settimana non riceveremo le informazioni che abbiamo chiesto, la "Coalition of Jewish Concerns-Amcha" avvierà azioni legali contro la Santa Sede»

a Roma

Corriere della Sera 28.1.05
INCONTRI
«Giornata della memoria» per i Rom


Una Giornata della Memoria anche per il «popolo invisibile», i Rom. È questo l’obiettivo che si è posta la Fondazione «Theater und Kunst Diletta Benincasa» che, con il patrocinio di Comune e Provincia di Roma, ha realizzato il progetto artistico «Libertà e bellezza». L’iniziativa, che sarà presentata oggi, alle 17, vuole contribuire a far conoscere la storia e la cultura del popolo nomade, da sempre perseguitato e avversato, facendosi in particolare portavoce della memoria dei circa 600 mila rom uccisi nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale. Saranno presentati il primo calendario di ragazzi rom con fotografie di Stephanie Gengotti e il libro «Il popolo invisibile Rom», autobiografia di Najo Adzovic, trentacinquenne originario dell’ex-Jugoslavia che vive nel campo nomadi «Casilino 900», di cui è portavoce. A partire dalle 12, inoltre, sarà possibile visitare una mostra fotografica con le immagini del calendario (nella foto) .
CASA DELLE LETTERATURE, piazza dell’Orologio 3. Per informazioni: 339.7103837