Corriere della Sera 3.4.05
CINETECA «I pugni in tasca» fanno ancora male?
Restaurato l’esordio di Bellocchio
Una giornata per Marco Bellocchio in Cineteca. Dopo quarant’anni, una copia restaurata del suo primo film, «I pugni in tasca», verrà proiettata ogni domenica, da oggi (alle 21.30) al 18 settembre.
Nell’Italia del 1965 nulla preparava a un antieroe come Alessandro (l’esordiente Lou Castel). Rampollo di una famiglia piacentina, contestava i valori borghesi uccidendo il fratello ritardato e la madre oppressiva. Oggi appare evidente come, nel rapporto di Bellocchio con le proprie radici, l’odio disperato sia accompagnato da un amore rabbioso. Giusto, quindi, iniziare alle 15 con due mediometraggi autobiografici e memoriali «Vacanze in Val Trebbia» e «Addio al passato».
La vena comico-grottesca che tanto piacque a Mario Soldati nel 1965 si ritrova nel recente «L’ora di religione», in programma alle 17. Alle 19, i nove video finalisti del concorso «Location Piacenza». (Alberto Pezzotta)
Repubblica, ed. di Milano
Domenica mattina coi Pugni in tasca
MARIO SERENELLINI
Piacenza, città natale di Marco Bellocchio, è anche la sua mini-Cinecittà. Lì sono ambientati alcuni tra i suoi documentari più pungenti, di lì parte ‘Piacenza Location´, concorso nazionale rivolto ai giovani videomaker. Saranno proprio i corti finalisti della seconda edizione a focalizzare una giornata di proiezioni, ‘Location Bellocchio´, con cui la Cineteca Italiana rende oggi omaggio, all´Oberdan, al grande regista: la presentazione di nove video alle 19, a ingresso libero, sarà seguita da una degustazione di prodotti tipici locali (quasi una ‘Piacenza Collation´). Aperta alle 15 da Vacanze in Val di Trebbia documentario del 1980 (con musiche di Nicola Piovani) che da ciak "in famiglia" trae pretesto per un´arguta radiografia delle origini, la non stop Bellocchio prosegue col recente Addio del passato, caldo, affettuoso reportage nel nome di Verdi, condotto sui volti e le voci di nuove interpreti e degli anziani della casa di riposo intitolata al musicista. Infine, il miglior Bellocchio di finzione, con due film agli estremi della sua carriera, ma saldati, a decenni di distanza, da una stessa, intatta passione civile, oltre che dai turbamenti d´una personalità insofferente e ostinata. Da una parte, alle 17, L´ora di religione del 2002, apologo furente e visionario sul diritto/dovere etico di dubitare con la propria testa, tema su cui il regista sta tornando in Il regista di matrimoni ora in lavorazione (ancora con Sergio Castellitto, oltre che con Sami Frey e Donatella Finocchiaro). Dall´altra, alle 21.30, l´esordio folgorante del 1965, Pugni in tasca, film tra i più esplosivi contro l´istituto della famiglia borghese, interpretato da un memorabile Lou Castel. Sarà questo capolavoro che, 40 anni dopo, la Cineteca proietterà poi ogni domenica (fino al 18 settembre), dopo la felice esperienza delle ‘maratone settimanali´ di I 400 colpi e Baci rubati.
LOCATION BELLOCCHIO, Cineteca Italiana Milano
Viale Vittorio Veneto 2
Tel. 02.77.40.63.00
Spazio Oberdan, dalle ore 15
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 3 aprile 2005
la comunicazione della scienza
Galileo aprile 05
LIBRI
La comunicazione della scienza
Daniela Cipolloni
Per analizzare come la scienza stia cambiando, per riflettere sulle problematiche della comunicazione e creare un momento di incontro e di confronto intorno a questi temi, ogni anno, dal 2002, a Forlì si tiene un convegno nazionale sulla comunicazione della scienza, il primo del genere istituito in Italia. Organizzato dal Master in Comunicazione della Scienza della Sissa (Scuola internazionale di studi superiori avanzati) di Trieste, in collaborazione con l'Associazione Nuova Civiltà delle Macchine, il convegno è ormai diventato un appuntamento di riferimento per tutti coloro che nella pratica quotidiana operano e partecipano al sistema della comunicazione. Dei primi due convegni (ottobre 2002 e novembre 2003) è ora disponibile un volume in cui sono raccolti gli interventi di chi vi ha partecipato. Scienziati, giornalisti, sociologi, storici e ricercatori sociali affrontano molti aspetti del rapporto tra scienza e società, ciascuno portando un contributo e un punto di vista diverso, che nel complesso fanno la ricchezza d questo volume, nel quale compaiono firme di rilievo come Pietro Greco e Paolo Rossi, Piero Angela, Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Franco Pratico, Enrico Bellone, Massimiano Bucchi.
Gli argomenti toccati spaziano dalla politica della ricerca scientifica, alla teorizzazione di modelli di comunicazione, a testimonianze reali, fino a ricerche sulla percezione pubblica della scienza. Giornali, radio, televisione, internet e scuola non sono i soli canali a veicolare informazione scientifica. La costruzione delle immagini e delle conoscenze segue percorsi molto più complessi, non lineari, dei quali non si può non tener conto se si vuole riflettere sul reale impatto della scienza nella società. Da questa consapevolezza nascono alcune delle ricerche riportate nel volume, per esempio sull'immaginario scientifico dei bambini, sull'atteggiamento degli adolescenti verso la scienza, sulla scienza nella pubblicità o nei protagonisti di film e fiction. Molti dei lavori sono frutto del gruppo di ricerca Ics (Innovazioni sulla comunicazione della scienza) della Sissa di Trieste. Ai primi due convegni raccolti in questo volume, è seguito un terzo, che si è svolto nel dicembre dello scorso anno, mentre il prossimo appuntamento è fissato per dicembre 2005, sempre a Forlì.
LIBRI
La comunicazione della scienza
Daniela Cipolloni
Nico Pitrelli, Giancarlo Sturloni (a cura di)Se uno scienziato non pubblica i propri risultati è come se non li avesse mai ottenuti. Non a caso, la scienza moderna nasce il giorno in cui Galileo Galilei, nel 1610, pubblicò a Venezia il suo Sidereus Nuncius, esponendo al mondo i risultati delle osservazioni del cielo che aveva fatto con il cannocchiale. La comunicazione non è un fatto accessorio nella scienza: è una condizio sine qua non, e lo è a tutti i livelli. Le pubblicazioni scientifiche nelle riviste specializzate, oggi, rappresentano solo uno dei mille rivoli in cui si articola un sistema complesso e in divenire, quale quello della comunicazione della scienza, che coinvolge, con ruoli e modalità differenti, una miriade di attori sociali, tra esperti e non esperti, con aspettative, obiettivi e preparazioni differenti tra di loro. La scienza entra nel quotidiano, permea la nostra società, si infiltra tra le maglie della politica, nelle logiche economiche, nel dibattito culturale, diventa arena di scelte e discussioni a cui sono chiamati a prendere parte attiva tutti i cittadini. L'attenzione verso il ruolo cruciale della comunicazione è testimoniato anche dal fervore delle iniziative volte a favorire il dialogo tra scienza e società (programmi radio e televisivi, collane editoriali dedicate, nuovi science centre, scuole di formazione per giornalisti scientifici, uffici stampa, festival della scienza ecc.).
La comunicazione della scienza
Atti del I e II Convegno Nazionale
Dialoghi/ I libri di Ics, 2005
pp. 368, euro 10,00
Per analizzare come la scienza stia cambiando, per riflettere sulle problematiche della comunicazione e creare un momento di incontro e di confronto intorno a questi temi, ogni anno, dal 2002, a Forlì si tiene un convegno nazionale sulla comunicazione della scienza, il primo del genere istituito in Italia. Organizzato dal Master in Comunicazione della Scienza della Sissa (Scuola internazionale di studi superiori avanzati) di Trieste, in collaborazione con l'Associazione Nuova Civiltà delle Macchine, il convegno è ormai diventato un appuntamento di riferimento per tutti coloro che nella pratica quotidiana operano e partecipano al sistema della comunicazione. Dei primi due convegni (ottobre 2002 e novembre 2003) è ora disponibile un volume in cui sono raccolti gli interventi di chi vi ha partecipato. Scienziati, giornalisti, sociologi, storici e ricercatori sociali affrontano molti aspetti del rapporto tra scienza e società, ciascuno portando un contributo e un punto di vista diverso, che nel complesso fanno la ricchezza d questo volume, nel quale compaiono firme di rilievo come Pietro Greco e Paolo Rossi, Piero Angela, Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Franco Pratico, Enrico Bellone, Massimiano Bucchi.
Gli argomenti toccati spaziano dalla politica della ricerca scientifica, alla teorizzazione di modelli di comunicazione, a testimonianze reali, fino a ricerche sulla percezione pubblica della scienza. Giornali, radio, televisione, internet e scuola non sono i soli canali a veicolare informazione scientifica. La costruzione delle immagini e delle conoscenze segue percorsi molto più complessi, non lineari, dei quali non si può non tener conto se si vuole riflettere sul reale impatto della scienza nella società. Da questa consapevolezza nascono alcune delle ricerche riportate nel volume, per esempio sull'immaginario scientifico dei bambini, sull'atteggiamento degli adolescenti verso la scienza, sulla scienza nella pubblicità o nei protagonisti di film e fiction. Molti dei lavori sono frutto del gruppo di ricerca Ics (Innovazioni sulla comunicazione della scienza) della Sissa di Trieste. Ai primi due convegni raccolti in questo volume, è seguito un terzo, che si è svolto nel dicembre dello scorso anno, mentre il prossimo appuntamento è fissato per dicembre 2005, sempre a Forlì.
il velo arabo
L'Unità 3.4.05
Il velo arabo, Giulietta e Romeo
FERNANDO LIUZZI
Ai primi di marzo è giunta da Londra una notizia, relativa ai rapporti fra Europa e Islam, che, sui mezzi di informazione italiani, ha avuto una vita troppo breve. Credo sia utile tornarci sopra.
Shabina Begum, una studentessa di fede musulmana, si è vista riconoscere da un tribunale britannico il diritto ad andare a scuola indossando la jilbab, una lunga veste che lascia scoperti soltanto il volto e le mani. A Shabina, un'orfana sedicenne originaria del Bangladesh, era stato infatti vietato l'ingresso in un liceo di Luton, località sita a nord di Londra. La direzione della Denbigh High School, frequentata all'80% da allievi musulmani, aveva deciso di consentire alle studentesse di indossare lo shalwar kameez, un completo composto da tunica e pantaloni e corredato dallo hijab, il velo che copre i capelli. Compiuti i tredici anni, Shabina aveva però optato per un abito più severo sostenendo che la tunica, lasciando “in vista parte delle braccia”, va bene per una bambina ma non è adatta a una donna. Da qui l'esclusione contro cui la ragazza era ricorsa in tribunale.
Nel giugno 2004, l'Alta Corte ha dato ragione al liceo affermando che era stato opportuno stabilire norme sul vestiario degli studenti “per proteggere la libertà di tutti”. Shabina, però, ha proposto appello, affidandosi a un avvocato di grido, Cherie Booth, che, tra l'altro, è la moglie del primo ministro Blair. Il 2 marzo la Corte d'Appello ha dato ragione alla ricorrente. Constatando che, nel Regno Unito, non esiste una legge che vieti di indossare a scuola un abito legato a una tradizione religiosa, la Corte ha affermato che il liceo di Luton non può imporre le proprie scelte ai singoli studenti. Negando a Shabina il diritto a “manifestare la sua religione”, le ha impedito di andare a scuola e, quindi, la ha privata del diritto a ricevere un'istruzione.
Questo episodio riporta alla mente una notizia dei primi mesi del 2004. In Francia fu allora varata una legge, voluta dal Governo, che vieta nelle scuole pubbliche l'esibizione ostentata di simboli religiosi a partire, appunto, dallo hijab, il cosiddetto “velo islamico”. Questo provvedimento fu accolto in Italia, e anche a sinistra, con una certa simpatia. Più d'uno manifestò, privatamente o pubblicamente, il suo favore per una decisione in cui credeva di sentire l'eco di un certo spirito giacobino che, secondo una diffusa opinione, permeerebbe di sé le istituzioni d'Oltralpe. In altre parole, anche a sinistra c'è stato chi ha condiviso la supposta volontà di ribadire, con tale decisione, che la scuola pubblica costituisce uno spazio che, in quanto è pubblico, è aperto solo a persone prive di segni identificativi o identitari. Ovvero, uno spazio i cui gli allievi e le allieve devono presentarsi in modo tale che nessuno possa percepire a quale classe sociale o a quale credo religioso appartengano e, insomma, da quale particolare origine provengano. In quel provvedimento avrebbe quindi trionfato una concezione dell'egalité che deriverebbe dallo spirito dell'89. Ma siamo sicuri che l'uguaglianza, per essere tale, debba essere anche, e necessariamente, uniformità?
Per istituire in modo compiuto un paragone tra l'«interventismo» legislativo di Chirac e il «non interventismo» di Blair, circa il rapporto tra osservanza religiosa e scuola pubblica, occorrerebbe anche analizzare l'impatto che la diffusione delle tendenze e delle mode rigoriste tra i giovani musulmani produce sulle periferie francesi e britanniche. Ma quello che a me qui interessa è un ragionamento sui retaggi storici che stanno dietro a questi due approcci. Credo, infatti, che tale riflessione sia fondamentale per cogliere il senso della diversità, che oggi si ripropone in modo così netto, tra via francese e via inglese.
Alle soglie della modernità, in Europa si pone in termini nuovi e drammatici il problema del rapporto fra religione e potere. Uno degli aspetti decisivi di questa problematica fu quello della presenza di seguaci di fedi diverse in un unico territorio. Sulla scena europea, tale questione ebbe un ruolo centrale per un periodo che va dal 1492, con la cacciata dalla Spagna delle popolazioni non cristiane (ebrei e arabi musulmani), al 1688, con la definitiva ascesa al trono d'Inghilterra di un re non cattolico (Guglielmo d'Orange). In mezzo a queste due date stanno la Riforma protestante e le feroci guerre di religione che insanguinarono, a fasi alterne, il nostro continente.
Tagliando le cose con l'accetta, possiamo dire che, in Francia, il compromesso storico che fu trovato tra cattolici e protestanti con l'editto di Nantes fu uno dei fondamenti e, insieme, dei materiali su cui e con cui fu costruito l'edificio dell'assolutismo. Nel senso che lo Stato (monarchico) si assunse la funzione di garante della convivenza dei suoi sudditi proprio nel momento in cui la corona, come mostrano plasticamente le torri del castello di Chambord, si poneva al di sopra della croce. Ovvero nel senso che il re di Francia si poneva, all'interno dei propri confini, non solo al di sopra della nobiltà (e quindi di ogni altra classe sociale), ma anche al di sopra della Chiesa cattolica (e quindi di ogni altra chiesa).
In Inghilterra, invece, il quadro fu reso più mosso da tre elementi. In primo luogo, sia pure attraverso persecuzioni e scontri sanguinosi, si affermò la presenza, a fianco della Chiesa cristiana prevalente, frutto della scissione anglicana, di una molteplicità di sette “non conformiste” e di tendenze eterodosse, alcune delle quali più intimamente religiose (quali i quakers), altre più esplicitamente politiche (quali i levellers). A ciò si aggiunga l'antica tendenza a limitare, attraverso il Parlamento, il potere del monarca e quella ad aggiustare via, via i risultati dell'attività legislativa attraverso il largo spazio concesso alle sentenze che fanno giurisprudenza.
Ebbene, io penso che l'analisi dei modi diversi in cui i conflitti intercristiani furono affrontati e superati in Francia e in Inghilterra ci aiuti a capire come oggi questi due paesi si atteggino nei confronti delle crescenti minoranze islamiche.
La tradizione inglese consegna al presente un pluralismo mobile e adattivo che, attraverso modificazioni successive, tende ad accettare il nuovo per quel che è. La tradizione francese, invece, le cui radici profonde traggono linfa più dal Seicento assolutista che dal Settecento illuminista, assegna allo Stato, e quindi al potere politico, il compito di produrre soluzioni valide in termini generali.
Per ridurre la presa che le organizzazioni islamiste hanno sui giovani musulmani delle periferie metropolitane, Chirac ha voluto un provvedimento che finisce per impedire a un giovane ebreo ortodosso, che porti sul capo la kippah, o a un giovane sikh, che porti il turbante, di mettere piede in una scuola statale. Con quali benefici sulla convivenza dei cittadini francesi del 2020 è difficile immaginare.
Blair, invece, si è limitato a prendere nota del fatto che una celebre avvocatessa, incidentalmente sua moglie, è riuscita a convincere un tribunale britannico che anche le più rigide fra le giovani seguaci dell'Islam hanno diritto ad apprendere dalla viva voce di un insegnante, pagato dallo Stato, la dolorosa storia, narrata da Shakespeare, “di Giulietta e del suo Romeo”.
Il velo arabo, Giulietta e Romeo
FERNANDO LIUZZI
Ai primi di marzo è giunta da Londra una notizia, relativa ai rapporti fra Europa e Islam, che, sui mezzi di informazione italiani, ha avuto una vita troppo breve. Credo sia utile tornarci sopra.
Shabina Begum, una studentessa di fede musulmana, si è vista riconoscere da un tribunale britannico il diritto ad andare a scuola indossando la jilbab, una lunga veste che lascia scoperti soltanto il volto e le mani. A Shabina, un'orfana sedicenne originaria del Bangladesh, era stato infatti vietato l'ingresso in un liceo di Luton, località sita a nord di Londra. La direzione della Denbigh High School, frequentata all'80% da allievi musulmani, aveva deciso di consentire alle studentesse di indossare lo shalwar kameez, un completo composto da tunica e pantaloni e corredato dallo hijab, il velo che copre i capelli. Compiuti i tredici anni, Shabina aveva però optato per un abito più severo sostenendo che la tunica, lasciando “in vista parte delle braccia”, va bene per una bambina ma non è adatta a una donna. Da qui l'esclusione contro cui la ragazza era ricorsa in tribunale.
Nel giugno 2004, l'Alta Corte ha dato ragione al liceo affermando che era stato opportuno stabilire norme sul vestiario degli studenti “per proteggere la libertà di tutti”. Shabina, però, ha proposto appello, affidandosi a un avvocato di grido, Cherie Booth, che, tra l'altro, è la moglie del primo ministro Blair. Il 2 marzo la Corte d'Appello ha dato ragione alla ricorrente. Constatando che, nel Regno Unito, non esiste una legge che vieti di indossare a scuola un abito legato a una tradizione religiosa, la Corte ha affermato che il liceo di Luton non può imporre le proprie scelte ai singoli studenti. Negando a Shabina il diritto a “manifestare la sua religione”, le ha impedito di andare a scuola e, quindi, la ha privata del diritto a ricevere un'istruzione.
Questo episodio riporta alla mente una notizia dei primi mesi del 2004. In Francia fu allora varata una legge, voluta dal Governo, che vieta nelle scuole pubbliche l'esibizione ostentata di simboli religiosi a partire, appunto, dallo hijab, il cosiddetto “velo islamico”. Questo provvedimento fu accolto in Italia, e anche a sinistra, con una certa simpatia. Più d'uno manifestò, privatamente o pubblicamente, il suo favore per una decisione in cui credeva di sentire l'eco di un certo spirito giacobino che, secondo una diffusa opinione, permeerebbe di sé le istituzioni d'Oltralpe. In altre parole, anche a sinistra c'è stato chi ha condiviso la supposta volontà di ribadire, con tale decisione, che la scuola pubblica costituisce uno spazio che, in quanto è pubblico, è aperto solo a persone prive di segni identificativi o identitari. Ovvero, uno spazio i cui gli allievi e le allieve devono presentarsi in modo tale che nessuno possa percepire a quale classe sociale o a quale credo religioso appartengano e, insomma, da quale particolare origine provengano. In quel provvedimento avrebbe quindi trionfato una concezione dell'egalité che deriverebbe dallo spirito dell'89. Ma siamo sicuri che l'uguaglianza, per essere tale, debba essere anche, e necessariamente, uniformità?
Per istituire in modo compiuto un paragone tra l'«interventismo» legislativo di Chirac e il «non interventismo» di Blair, circa il rapporto tra osservanza religiosa e scuola pubblica, occorrerebbe anche analizzare l'impatto che la diffusione delle tendenze e delle mode rigoriste tra i giovani musulmani produce sulle periferie francesi e britanniche. Ma quello che a me qui interessa è un ragionamento sui retaggi storici che stanno dietro a questi due approcci. Credo, infatti, che tale riflessione sia fondamentale per cogliere il senso della diversità, che oggi si ripropone in modo così netto, tra via francese e via inglese.
Alle soglie della modernità, in Europa si pone in termini nuovi e drammatici il problema del rapporto fra religione e potere. Uno degli aspetti decisivi di questa problematica fu quello della presenza di seguaci di fedi diverse in un unico territorio. Sulla scena europea, tale questione ebbe un ruolo centrale per un periodo che va dal 1492, con la cacciata dalla Spagna delle popolazioni non cristiane (ebrei e arabi musulmani), al 1688, con la definitiva ascesa al trono d'Inghilterra di un re non cattolico (Guglielmo d'Orange). In mezzo a queste due date stanno la Riforma protestante e le feroci guerre di religione che insanguinarono, a fasi alterne, il nostro continente.
Tagliando le cose con l'accetta, possiamo dire che, in Francia, il compromesso storico che fu trovato tra cattolici e protestanti con l'editto di Nantes fu uno dei fondamenti e, insieme, dei materiali su cui e con cui fu costruito l'edificio dell'assolutismo. Nel senso che lo Stato (monarchico) si assunse la funzione di garante della convivenza dei suoi sudditi proprio nel momento in cui la corona, come mostrano plasticamente le torri del castello di Chambord, si poneva al di sopra della croce. Ovvero nel senso che il re di Francia si poneva, all'interno dei propri confini, non solo al di sopra della nobiltà (e quindi di ogni altra classe sociale), ma anche al di sopra della Chiesa cattolica (e quindi di ogni altra chiesa).
In Inghilterra, invece, il quadro fu reso più mosso da tre elementi. In primo luogo, sia pure attraverso persecuzioni e scontri sanguinosi, si affermò la presenza, a fianco della Chiesa cristiana prevalente, frutto della scissione anglicana, di una molteplicità di sette “non conformiste” e di tendenze eterodosse, alcune delle quali più intimamente religiose (quali i quakers), altre più esplicitamente politiche (quali i levellers). A ciò si aggiunga l'antica tendenza a limitare, attraverso il Parlamento, il potere del monarca e quella ad aggiustare via, via i risultati dell'attività legislativa attraverso il largo spazio concesso alle sentenze che fanno giurisprudenza.
Ebbene, io penso che l'analisi dei modi diversi in cui i conflitti intercristiani furono affrontati e superati in Francia e in Inghilterra ci aiuti a capire come oggi questi due paesi si atteggino nei confronti delle crescenti minoranze islamiche.
La tradizione inglese consegna al presente un pluralismo mobile e adattivo che, attraverso modificazioni successive, tende ad accettare il nuovo per quel che è. La tradizione francese, invece, le cui radici profonde traggono linfa più dal Seicento assolutista che dal Settecento illuminista, assegna allo Stato, e quindi al potere politico, il compito di produrre soluzioni valide in termini generali.
Per ridurre la presa che le organizzazioni islamiste hanno sui giovani musulmani delle periferie metropolitane, Chirac ha voluto un provvedimento che finisce per impedire a un giovane ebreo ortodosso, che porti sul capo la kippah, o a un giovane sikh, che porti il turbante, di mettere piede in una scuola statale. Con quali benefici sulla convivenza dei cittadini francesi del 2020 è difficile immaginare.
Blair, invece, si è limitato a prendere nota del fatto che una celebre avvocatessa, incidentalmente sua moglie, è riuscita a convincere un tribunale britannico che anche le più rigide fra le giovani seguaci dell'Islam hanno diritto ad apprendere dalla viva voce di un insegnante, pagato dallo Stato, la dolorosa storia, narrata da Shakespeare, “di Giulietta e del suo Romeo”.
i classici
Il Mattino 3.4.05
Vegetti: classici, maestri di politica
Salvo Vitrano
Via la polvere dai classici.
Platone o Senofonte, Eschilo o Aristofane, sono vecchi di millenni, ma se si prova a leggerli cercando di fare a meno dei pregiudizi della modernità possono apparire illuminanti e rivolti al domani più di molti contemporanei. Perché loro - come spiegò Nietzsche a proposito dei primi filosofi - non erano schiacciati come noi dal peso della tradizione. I temi e i problemi li decidevano senza farsi condizionare dalle convenzioni di scuole, accademie e consolidate ideologie. I classici antichi rappresentano lo «stato nascente» della nostra cultura. Cosa c’è di meglio che tornare a interrogarli quando la cultura occidentale, che nel loro pensiero ha le radici, sembra attraversare momenti di crisi? E questa è la prospettiva indicata dal ciclo di conferenze «I contemporanei del futuro», proposto a Napoli dall’Università Suor Orsola Benincasa a partire da martedì 5 aprile. Il titolo è lo stesso che inventò Giuseppe Pontiggia per un suo volume di «viaggio nei classici». In programma per le prime due giornate ci sono gli appuntamenti con lo storico della filosofia antica Mario Vegetti, docente all’Università di Pavia, che parlerà dello Ierone di Senofonte, martedì 5 mattina, e della discussione sulla tirannide tra Strauss e Kojève, mercoledì 6 mattina. Tema centrale la crisi della pratica e del concetto di democrazia, con possibili soluzioni. Silvia Vegetti Finzi, moglie di Mario, esperta e studiosa di psicoanalisi - insegna psicologia dinamica, anche lei all’Università di Pavia - parlerà di Edipo, del suo lungo cammino tra passato e presente, martedì pomeriggio, e dei suoi percorsi futuri, mercoledì pomeriggio. Tema centrale la struttura affettiva e formativa della famiglia: da quando un bambino cresceva tra un papà e una mamma, a un presente con ruoli familiari tendenti spesso alla frammentazione e alla dispersione, verso un futuro in cui potranno entrare in casa, in aggiunta a tv e videogiochi, androidi e robot. Tra fine aprile e maggio il ciclo di conferenze proseguirà con interventi di Franco Montanari (su Pindaro), di Guido Avezzù (su Sofocle), di Diego Lanza (su Aristofane), di Gennaro Carillo (ancora su Aristofane), di Luciano Canfora (sulla storiografia politica tra Tucidide e Sallustio). Il professor Mario Vegetti, autore di riletture importanti del pensiero filosofico antico - per esempio nel volume su L’etica degli antichi, pubblicato da Laterza - spiega: «I classici sono buoni per pensare. Pongono i problemi in modo radicale, ingenuo se vogliamo, e così vanno dritti all’essenziale. Perciò il dialogo di Senofonte tra il tiranno Ierone e il poeta Simonide è servito, ancora a metà 900, a due maestri del pensiero contemporaneo come Leo Strauss e Alexandre Kojève da paradigma per riflettere sul potere». Leo Strauss, pensatore oggi amato dai neocons americani, e non solo, pubblicò nel 1948 La tirannide: un’interpretazione dello Ierone di Senofonte, indicando nel velleitarismo del pensiero politico moderno una causa essenziale delle derive totalitarie. Per Strauss la democrazia in politica è il male minore, ma a farsi troppe illusioni sulla sua natura e sul suo funzionamento si rischia continuamente il peggio. Allo scritto di Strauss replicò nel 1950 Kojève con Tirannide e saggezza che tendeva, ricorda Vegetti, «a immaginare come soluzione alla crisi della democrazia una sorta di dispotismo illuminato, il cui modello a lui appariva Stalin». Erano gli anni della guerra fredda, il mondo da allora è cambiato parecchio. «Ma - dice Vegetti - Senofonte resta lì a definire nel suo dialogo i termini essenziali della questione. Se in un periodo di crisi della democrazia, come quello della Grecia mentre lui scriveva, la soluzione potesse essere un tiranno illuminato, ben consigliato da intellettuali e filosofi. Senofonte pensa di si. In età ellenistica varie esperienze sembrano dargli ragione. Per esempio con i Tolomei di Alessandria, che, senza democrazia, seppero governare con saggezza e promuovere straordinariamente le arti e la cultura. Alla loro corte gli intellettuali erano presenti e ascoltati». I governanti di oggi, più o meno tirannici, dovrebbero ascoltare gli intellettuali? «Oggi gli intellettuali nel senso tradizionale, individuale, non ci sono più. Nel senso che è illusorio fare affidamento su un loro ruolo come persone singole, se non come personaggi televisivi. È vano pensare che i consigli di un Vittorio Sgarbi o di qualunque altro personaggio possano avere decisivi effetti politici. Per rileggere utilmente Senofonte, che è persuasivo sulla funzione degli intellettuali, bisogna capire chi oggi questa funzione può svolgerla. Gruppi più che singole persone». Gruppi professionali? Scienziati, politologi, sociologi? «No - chiarisce Vegetti - non penso a specifiche categorie professionali. Partendo dall’intellettuale collettivo che Gramsci identificava con il partito, io penso a gruppi eterogenei che, pur non formati da intellettuali di professione, fanno lavoro con valore intellettuale nei campi, per esempio, della medicina, dell’informazione, dell’informatica. Questi gruppi potrebbero avere un più efficace ruolo politico». Non solo con i dialoghi filosofico-politici ma persino con i miti i classici possono insegnare molto al futuro. Freud interrogò il vecchio Edipo per esplorare l’inconscio, Silvia Vegetti Finzi è convinta che i miti siano utili: «I miti aprono la mente, sono spesso modelli efficaci dei rapporti affettivi e svelano molte cose che la scienza sta raggiungendo solo ora».
Vegetti: classici, maestri di politica
Salvo Vitrano
Via la polvere dai classici.
Platone o Senofonte, Eschilo o Aristofane, sono vecchi di millenni, ma se si prova a leggerli cercando di fare a meno dei pregiudizi della modernità possono apparire illuminanti e rivolti al domani più di molti contemporanei. Perché loro - come spiegò Nietzsche a proposito dei primi filosofi - non erano schiacciati come noi dal peso della tradizione. I temi e i problemi li decidevano senza farsi condizionare dalle convenzioni di scuole, accademie e consolidate ideologie. I classici antichi rappresentano lo «stato nascente» della nostra cultura. Cosa c’è di meglio che tornare a interrogarli quando la cultura occidentale, che nel loro pensiero ha le radici, sembra attraversare momenti di crisi? E questa è la prospettiva indicata dal ciclo di conferenze «I contemporanei del futuro», proposto a Napoli dall’Università Suor Orsola Benincasa a partire da martedì 5 aprile. Il titolo è lo stesso che inventò Giuseppe Pontiggia per un suo volume di «viaggio nei classici». In programma per le prime due giornate ci sono gli appuntamenti con lo storico della filosofia antica Mario Vegetti, docente all’Università di Pavia, che parlerà dello Ierone di Senofonte, martedì 5 mattina, e della discussione sulla tirannide tra Strauss e Kojève, mercoledì 6 mattina. Tema centrale la crisi della pratica e del concetto di democrazia, con possibili soluzioni. Silvia Vegetti Finzi, moglie di Mario, esperta e studiosa di psicoanalisi - insegna psicologia dinamica, anche lei all’Università di Pavia - parlerà di Edipo, del suo lungo cammino tra passato e presente, martedì pomeriggio, e dei suoi percorsi futuri, mercoledì pomeriggio. Tema centrale la struttura affettiva e formativa della famiglia: da quando un bambino cresceva tra un papà e una mamma, a un presente con ruoli familiari tendenti spesso alla frammentazione e alla dispersione, verso un futuro in cui potranno entrare in casa, in aggiunta a tv e videogiochi, androidi e robot. Tra fine aprile e maggio il ciclo di conferenze proseguirà con interventi di Franco Montanari (su Pindaro), di Guido Avezzù (su Sofocle), di Diego Lanza (su Aristofane), di Gennaro Carillo (ancora su Aristofane), di Luciano Canfora (sulla storiografia politica tra Tucidide e Sallustio). Il professor Mario Vegetti, autore di riletture importanti del pensiero filosofico antico - per esempio nel volume su L’etica degli antichi, pubblicato da Laterza - spiega: «I classici sono buoni per pensare. Pongono i problemi in modo radicale, ingenuo se vogliamo, e così vanno dritti all’essenziale. Perciò il dialogo di Senofonte tra il tiranno Ierone e il poeta Simonide è servito, ancora a metà 900, a due maestri del pensiero contemporaneo come Leo Strauss e Alexandre Kojève da paradigma per riflettere sul potere». Leo Strauss, pensatore oggi amato dai neocons americani, e non solo, pubblicò nel 1948 La tirannide: un’interpretazione dello Ierone di Senofonte, indicando nel velleitarismo del pensiero politico moderno una causa essenziale delle derive totalitarie. Per Strauss la democrazia in politica è il male minore, ma a farsi troppe illusioni sulla sua natura e sul suo funzionamento si rischia continuamente il peggio. Allo scritto di Strauss replicò nel 1950 Kojève con Tirannide e saggezza che tendeva, ricorda Vegetti, «a immaginare come soluzione alla crisi della democrazia una sorta di dispotismo illuminato, il cui modello a lui appariva Stalin». Erano gli anni della guerra fredda, il mondo da allora è cambiato parecchio. «Ma - dice Vegetti - Senofonte resta lì a definire nel suo dialogo i termini essenziali della questione. Se in un periodo di crisi della democrazia, come quello della Grecia mentre lui scriveva, la soluzione potesse essere un tiranno illuminato, ben consigliato da intellettuali e filosofi. Senofonte pensa di si. In età ellenistica varie esperienze sembrano dargli ragione. Per esempio con i Tolomei di Alessandria, che, senza democrazia, seppero governare con saggezza e promuovere straordinariamente le arti e la cultura. Alla loro corte gli intellettuali erano presenti e ascoltati». I governanti di oggi, più o meno tirannici, dovrebbero ascoltare gli intellettuali? «Oggi gli intellettuali nel senso tradizionale, individuale, non ci sono più. Nel senso che è illusorio fare affidamento su un loro ruolo come persone singole, se non come personaggi televisivi. È vano pensare che i consigli di un Vittorio Sgarbi o di qualunque altro personaggio possano avere decisivi effetti politici. Per rileggere utilmente Senofonte, che è persuasivo sulla funzione degli intellettuali, bisogna capire chi oggi questa funzione può svolgerla. Gruppi più che singole persone». Gruppi professionali? Scienziati, politologi, sociologi? «No - chiarisce Vegetti - non penso a specifiche categorie professionali. Partendo dall’intellettuale collettivo che Gramsci identificava con il partito, io penso a gruppi eterogenei che, pur non formati da intellettuali di professione, fanno lavoro con valore intellettuale nei campi, per esempio, della medicina, dell’informazione, dell’informatica. Questi gruppi potrebbero avere un più efficace ruolo politico». Non solo con i dialoghi filosofico-politici ma persino con i miti i classici possono insegnare molto al futuro. Freud interrogò il vecchio Edipo per esplorare l’inconscio, Silvia Vegetti Finzi è convinta che i miti siano utili: «I miti aprono la mente, sono spesso modelli efficaci dei rapporti affettivi e svelano molte cose che la scienza sta raggiungendo solo ora».
psichiatria a Verona
L'Arena 3.4.05
Presentato ieri all’Università uno studio del centro Oms di Salute Mentale di Verona, diretto dal professor Michele Tansella
Più rischi per i pazienti psichiatrici
Sono colpiti da una mortalità maggiore rispetto al resto della popolazione
Si chiama «More research for mental health» ed è il progetto per la ricerca sulla salute mentale e per migliorare la qualità delle cure presentato ieri mattina in sala Barbieri, a Palazzo Giuliari, dal professor Michele Tansella, direttore del centro Oms Salute Mentale di Verona, e dal dottor Benedetto Saraceno, direttore del Department of Mental Health and Substance Abuse dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Il centro, che ha sede presso l’Università di Verona, ha condotto un recentissimo studio coordinato dalla professoressa Mirella Ruggeri, primo del genere mai realizzato in Italia e uno dei pochi al mondo. Tant’è vero che sull’importanza di questo lavoro si è espresso anche il professor Michele Mirabella, giornalista e noto conduttore di «Elisir» (Raitre), che, anche se ieri mattina non è potuto essere presente di persona a Verona, lo è stato comunque, per così dire virtualmente, attraverso un video che è stato visto durante l’incontro, nel quale Mirabella ha avuto parole di forte approvazione per il lavoro del team scaligero, ricordando insieme come troppo spesso la ricerca in Italia sia orfana di fondi, nonostante essa rappresenti la via maestra per le conquiste future.
Un principio ribadito da tutte le autorità presenti: il sindaco Paolo Zanotto, il presidente della Provincia Elio Mosele, il professor Alessandro Mazzucco, rettore dell’ateneo scaligero, Valerio Alberti, direttore dell’Azienda ospedaliera, Angelo De Cristan, direttore sanitario dell’Ulss 20.
I risultati emersi dallo studio del gruppo scaligero hanno dimostrato che soffrire di un disagio psichico espone a una maggiore probabilità di morire rispetto al resto della popolazione e, contrariamente a quanto si crede, tale eccesso di mortalità non è legato a cause direttamente correlate con la patologia psichiatrica, come per esempio il suicidio, ma piuttosto ad altre patologie.
«Per esempio è stata dimostrata una maggiore mortalità per malattie cardiovascolari», ha spiegato il professor Tansella, «tra i pazienti che hanno anche una diagnosi di disturbo mentale, e gli studi fino a oggi condotti hanno evidenziato come ciò sia dovuto principalmente alla difficoltà di tali pazienti di accedere alle cure mediche e alle procedure comunemente disponibili per la popolazione generale».
Già in passato il Centro Oms di ricerca sulla Salute Mentale che ha sede a Verona aveva condotto e pubblicato uno studio per un periodo di osservazione di 10 anni, coordinato dal professor Francesco Amadeo, che ha dimostrato come anche in Italia, per i pazienti dei servizi psichiatrici, il rischio di morte sia due volte e mezzo quello della popolazione generale. Lo stesso professor Amadeo ha anche ricordato che oggi i dati disponibili riguardano un periodo di 20 anni, con un campione di circa 7.000 pazienti: i nuovi risultati non solo confermano i precedenti, ma dicono addirittura che il rischio per i pazienti psichiatrici in riferimento a quelle cause di morte che per i soggetti normali sono considerate «evitabili» (per le quali cioè esiste una cura o una misura preventiva valida) è di quattro volte superiore per le malattie cardiovascolari, e di 25 volte per cirrosi e malattie epatiche croniche.
Ciò che lo studio condotto a Verona dimostra innanzitutto è dunque la necessità di mettere subito in atto misure che migliorino l’accessibilità ai servizi sanitari da parte delle persone con disagio mentale e la qualità delle cure mediche a loro dedicate. In questo senso è necessaria una maggiore attenzione ai problemi medici dei pazienti da parte degli stessi servizi psichiatrici, mentre va anche facilitato l’accesso ai programmi di promozione e prevenzione della salute, soprattutto a quelli orientati alla riduzione del fumo e dell’alcol.
Presentato ieri all’Università uno studio del centro Oms di Salute Mentale di Verona, diretto dal professor Michele Tansella
Più rischi per i pazienti psichiatrici
Sono colpiti da una mortalità maggiore rispetto al resto della popolazione
Si chiama «More research for mental health» ed è il progetto per la ricerca sulla salute mentale e per migliorare la qualità delle cure presentato ieri mattina in sala Barbieri, a Palazzo Giuliari, dal professor Michele Tansella, direttore del centro Oms Salute Mentale di Verona, e dal dottor Benedetto Saraceno, direttore del Department of Mental Health and Substance Abuse dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Il centro, che ha sede presso l’Università di Verona, ha condotto un recentissimo studio coordinato dalla professoressa Mirella Ruggeri, primo del genere mai realizzato in Italia e uno dei pochi al mondo. Tant’è vero che sull’importanza di questo lavoro si è espresso anche il professor Michele Mirabella, giornalista e noto conduttore di «Elisir» (Raitre), che, anche se ieri mattina non è potuto essere presente di persona a Verona, lo è stato comunque, per così dire virtualmente, attraverso un video che è stato visto durante l’incontro, nel quale Mirabella ha avuto parole di forte approvazione per il lavoro del team scaligero, ricordando insieme come troppo spesso la ricerca in Italia sia orfana di fondi, nonostante essa rappresenti la via maestra per le conquiste future.
Un principio ribadito da tutte le autorità presenti: il sindaco Paolo Zanotto, il presidente della Provincia Elio Mosele, il professor Alessandro Mazzucco, rettore dell’ateneo scaligero, Valerio Alberti, direttore dell’Azienda ospedaliera, Angelo De Cristan, direttore sanitario dell’Ulss 20.
I risultati emersi dallo studio del gruppo scaligero hanno dimostrato che soffrire di un disagio psichico espone a una maggiore probabilità di morire rispetto al resto della popolazione e, contrariamente a quanto si crede, tale eccesso di mortalità non è legato a cause direttamente correlate con la patologia psichiatrica, come per esempio il suicidio, ma piuttosto ad altre patologie.
«Per esempio è stata dimostrata una maggiore mortalità per malattie cardiovascolari», ha spiegato il professor Tansella, «tra i pazienti che hanno anche una diagnosi di disturbo mentale, e gli studi fino a oggi condotti hanno evidenziato come ciò sia dovuto principalmente alla difficoltà di tali pazienti di accedere alle cure mediche e alle procedure comunemente disponibili per la popolazione generale».
Già in passato il Centro Oms di ricerca sulla Salute Mentale che ha sede a Verona aveva condotto e pubblicato uno studio per un periodo di osservazione di 10 anni, coordinato dal professor Francesco Amadeo, che ha dimostrato come anche in Italia, per i pazienti dei servizi psichiatrici, il rischio di morte sia due volte e mezzo quello della popolazione generale. Lo stesso professor Amadeo ha anche ricordato che oggi i dati disponibili riguardano un periodo di 20 anni, con un campione di circa 7.000 pazienti: i nuovi risultati non solo confermano i precedenti, ma dicono addirittura che il rischio per i pazienti psichiatrici in riferimento a quelle cause di morte che per i soggetti normali sono considerate «evitabili» (per le quali cioè esiste una cura o una misura preventiva valida) è di quattro volte superiore per le malattie cardiovascolari, e di 25 volte per cirrosi e malattie epatiche croniche.
Ciò che lo studio condotto a Verona dimostra innanzitutto è dunque la necessità di mettere subito in atto misure che migliorino l’accessibilità ai servizi sanitari da parte delle persone con disagio mentale e la qualità delle cure mediche a loro dedicate. In questo senso è necessaria una maggiore attenzione ai problemi medici dei pazienti da parte degli stessi servizi psichiatrici, mentre va anche facilitato l’accesso ai programmi di promozione e prevenzione della salute, soprattutto a quelli orientati alla riduzione del fumo e dell’alcol.
Liberazione
...che ci sia qualche equivoco?
Liberazione 2.4.05
Jean Paul Sartre,
fedele solo all'infedeltà
Un ricordo tra filosofia e biografia del grande intellettuale francese che continua a far discutere in occasione dell'anniversario della nascita. L'esistenzialismo alla prova del presente
Michel Contat
Jean-Paul Sartre aveva concepito per se stesso questo grande progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Durante tutta la sua vita, da La nausea (1938) a L'idiota di famiglia (1971), Sartre andrà precisando la sua visione radicale dell'esistenza.
I suoi amici di gioventù lo chiamavano «il piccolo uomo», forse perché lo sapevano destinato alla grandezza. Lui stesso non ne aveva il minimo dubbio, dal momento che la cosa non dipendeva che da lui. Raymond Aron ricorda quanto ammirasse la risolutezza del suo giovane compagno. Kant, Hegel? E perché no? E aggiunge che gli studenti della Scuola normale di questa generazione si domandavano chi fra Sartre e Nizan, gli inseparabili, sarebbe stato per primo celebre, e chi lo sarebbe stato per sempre. Aron dal canto suo era convinto che Sartre avrebbe creato la propria opera in campo filosofico, Nizan letterario.
Sartre racconta di essersi pensato come un grande uomo dell'avvenire, di aver vissuto la propria gioventù come quella del "giovane Sartre", anni che avrebbero in seguito dettagliato i biografi. Meglio ancora, aveva concepito questo progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Quando Simone de Beauvoir lo incontrò, nella primavera del 1929, fu impressionata dalla formidabile convinzione di cui dava prova, dall'inesauribile sgorgare di idee e di teorie che produceva ma anche, quando lui le fece leggere i suoi primi saggi, da quanto fossero maldestri. A Sartre era capitata un'avventura metafisica: era nato. Questo è un incidente che succede a tutti, ma per lui la nascita assunse un valore veramente ontologico: era pura contingenza. In altre parole, Sartre sentiva perfettamente che questo avvenimento avrebbe anche potuto non accadere. Più tardi, quando interpretò le circostanze particolari della sua infanzia, ne Le parole, scrisse: «La mia fortuna fu di appartenere ad un morto: un morto aveva versato le poche gocce di sperma che sono il prezzo abituale di un bambino», e se ne rallegrò. Orfano di padre, è a questo "giovane morto" che doveva di non essere «consumato dal cancro del potere», e di non avere un super-ego. Era dunque "di troppo" e questo suo carattere aggiuntivo, questo suo essere in soprannumero doveva suggerirgli l'intuizione che precisamente là risiede il carattere peculiare dell'uomo. Tutto sommato, era il filosofo della libertà fin dalla nascita, perché aveva vissuto già nell'infanzia la nostra condizione di essere senza alcun destino se non quello che possiamo darci noi stessi.
Ma bisognava ancora trovare la forma che conferirà a questa scoperta il valore di una verità universale. Sartre ci impiegò un po' di tempo. Aron, armato dell'idealismo kantiano, aveva demolito una ad una le sue teorie, ma senza convincerlo. Tirava avanti per la sua strada, ostinato, sicuro di aver ragione perché viveva ciò che pensava, mentre Aron giocava elegante sui campi da tennis. Durante gli anni in cui il suo compagno Nizan, forte del suo impegno al lato dei dannati della terra iscritti al Partito comunista francese, attaccava in romanzi virulenti la classe nemica del genere umano, la borghesia, Sartre, impegolato in un classicismo ereditato da Valéry, proponeva miti sulla "Leggenda della verità" cercando di ricostruirne la storia. Poi, consigliato dal suo fedele Castor, come chiamava la sua compagna, si decise a dare la forma di un romanzo all'esperienza costitutiva della sua persona.
Castor storse il naso quando ne lesse una prima versione, scritta a Le Havre dove insegnava filosofia: puzzava ancora troppo di prof. Non poteva metterci un po' della suspense che amavano tanto al cinema e nei romanzi americani? A Berlino, dove era andato per leggere Husserl e Heiddeger nel testo originale, negli anni 1933-1934, mentre un certo Adolf Hitler consolidava il suo potere, Sartre riprese la sua teoria da cima a fondo.
Beauvoir, descritta da Sartre più tardi come uno di quei «testimoni aggrottati che non gliene lasciavano passare una», non fu ancora convinta. Rimise dunque il manoscritto sul banco, piallò, lustrò, ridusse. Eppure questo manoscritto migliorato, intitolato Melancholia non ebbe la fortuna di piacere ai lettori di Gallimard. Sartre si sentì rifiutato in tutto il suo essere, e siccome al tempo stesso era rifiutato da una giovane avvenente persona per la quale aveva del desiderio, cadde nella depressione, si credette inseguito da aragoste e granchi, si pensò vittima di una psicosi allucinatoria cronica, con grande fastidio della sua compagna che riteneva si compiacesse nella pazzia. Cessò dunque di essere pazzo, fece intervenire Charles Dullin presso il suo amico Gaston Gallimard; costui accettò lo strano romanzo, propose come titolo La nausea, e Sartre consentì di buon cuore ad edulcorarlo un po' nei suoi aspetti più populisti ed osceni. Il seguito è noto. Successo della critica, premio Goncourt mancato di poco, pubblicazione di racconti e di articoli clamorosi su La nouvelle revue française.
Quale è stato il contributo di Sartre al mondo letterario prima della guerra? Una visione radicale della condizione umana. Non tanto politica, ma ontologica: l'essere umano è in preda all'angoscia dal momento in cui considera l'esistenza nella sua verità. E' ciò che non è, e non è ciò che è, e questa distanza da se stessi, questa impossibilità di coincidere con sé non è altro che la libertà della coscienza.
Husserl ha chiamato questa proiezione della coscienza verso le cose l'"intenzionalità". L'uomo è interamente, nel suo essere proiettato verso l'esterno, nel mondo, esposto al gran vento del reale. Non c'è interiorità: ciò che chiamiamo la vita interiore è una mistificazione, un vano compiacimento ai miti della personalità unica ed eccellente. La fenomenologia ci libera da Proust e dalla psicologia. L'immaginazione è la facoltà di "ridurre al nulla", facoltà che è propria della coscienza e che a questa conferisce libertà. La libertà non è gratuita, al contrario ci impegna alla responsabilità, tanto più che è impossibile sfuggirle, tranne mentendo a se stessi ed agli altri per malafede. Ma ciò permette anche la grandezza in cui si esprime una vita assunta come libertà, contro tutti i determinismi, compreso quello dell'inconscio.
Questi temi dell'esistenzialismo sartriano o dell'esistenzialismo ateo (per opposizione all'esistenzialismo cristiano che ha la sua fonte in Kierkegaard) che saranno formalizzati, concetualizzati in L'essere e il nulla (1943), sono già presenti negli scritti che Sartre pubblica negli anni Trenta. La guerra gli permetterà di approfondirli, di svilupparli.
La guerra è la grande fortuna della sua vita, potremmo dire rischiando uno scandaloso paradosso. Alla Liberazione, Sartre comincerà il suo articolo su "La Repubblica del silenzio" con questa frase diventata celebre: «Non siamo mai stati più liberi quanto sotto l'occupazione tedesca». Liberi perché esposti, in una situazione-limite, alla verità della condizione umana e messi a confronto con le scelte più estreme. Spesso si rimprovera a Sartre, soprattutto da quando è morto, di non essere stato fucilato o almeno torturato, d'aver resistito scrivendo invece di farlo con le armi in pugno. Di non essere stato né Jean Cavaillès, né René Char. Insomma di essere stato Sartre. Di aver scritto Le mosche, L'essere e il nulla, invece di aver ammazzato tedeschi o fatto saltare treni. Che se lo sia rimproverato lui, dopo, lo si può capire; che altri, soprattutto quelli che l'hanno letto, gli rimproverino di aver scritto, sembra uno scherzo. La resistenza di Sartre in quanto scrittore e filosofo è irreprensibile.
I rimproveri, se veramente si vuole fargliene, riguardano il modo in cui ha argomentato e giustificato le sue scelte politiche del dopo guerra, e degli anni Cinquanta e Sessanta. Possiamo oggi preferire gli obbiettivi del "Rassemblement démocratique révolutionnaire" che animò nel 1948-1949 (dare un contenuto concreto ai diritti astratti della democrazia con la creazione di un'Europa socialista e rivoluzionaria), alle attese suscitate dalla sua posizione di "compagno di strada" del Partito comunista dal 1952 al 1956 (difendere il partito perché rappresenta gli interessi della classe operaia e perché soggetto a repressione, difendere il blocco sovietico nella guerra fredda perché meno armato del blocco atlantico e dunque con più ragioni di volere la pace).
Ma queste posizioni sono sempre e solo politica e ciò che ci importa è altrove, nel fatto che l'opera che Sartre prosegue in questi anni "litigiosi" (agli occhi di Bernard-Henry Lévy, per esempio) è l'opera di un genio. La strada della libertà, esamina la libertà stessa attraverso la sperimentazione letteraria e secondo la linea del romanzo americano, del suo realismo soggettivo. Santo Genet, prodigiosa psicanalisi esistenziale di uno scrittore fatta da un altro scrittore. Le mani sporche, Il diavolo e il buon dio, I sequestrati di Altona, appassionate interrogazioni sul cosa facciamo quando siamo presi nel meccanismo della Storia. La critica della ragion dialettica, gigantesco sforzo per capire come la libertà si trasformi in contro-finalità non appena l'atto si iscrive nel mondo materiale, e come il gruppo si fossilizzi nel voto di perpetuarsi una volta passate le condizioni che hanno permesso la sua emergenza. Le parole, maniera ironica di prendere congedo da se stesso demistificando ciò che ci ha costituiti. L'idiota di famiglia, impresa di antropologia totalizzante in cui l'individuo Flaubert ed il suo progetto di fondere il mondo intero nell'immaginario diventano una saga della scrittura in un mondo storico diventato intellegibile.
Opere che danno una visione dell'uomo i cui misteri sono dissipati dai lumi dell'intelligenza, la più agile e la più vigorosa che abbia conosciuto il Novecento.
Si può essere fieri di essere stati contemporanei di quest'uomo, Jean-Paul Sartre, commovente, buffo, fraterno. Aveva sessant'anni quando l'ho conosciuto, era coperto di gloria come mai nessuno scrittore francese era stato prima di lui, irradiava dinamismo, esaltava in voi i rifiuti, tutte le speranze, tutti i progetti. Ignorava completamente che era Sartre, questo Altro che i giurati del Nobel avevano voluto pietrificare in statua di se stesso, esattamente ciò che lui più aborriva. Amava la vita, non mentiva a se stesso, non diceva la verità, nell'intimità, a quelle che non volevano accettarla; non se ne desolava, non si tormentava di sensi di colpa. Lui tirava dritto, l'ho sempre conosciuto così, anche debilitato, senza preoccuparsi di cosa lasciasse dietro di sé, libero da quanto vincola tanto gli uomini: l'interesse. «Fedele al bel programma di essere infedele a tutto», libero è stato, libero resta, esposto al vento della Storia, al soffio spesso e infuocato del mondo.
Un grande essere vivente che non è morto, perché si è trasformato in ciò che era, un richiamo alla libertà.
(Traduzione di Chiara Ristori, da "Le Monde" dell'11 marzo Un uomo libero, esposto al vento della storia)
Jean Paul Sartre,
fedele solo all'infedeltà
Un ricordo tra filosofia e biografia del grande intellettuale francese che continua a far discutere in occasione dell'anniversario della nascita. L'esistenzialismo alla prova del presente
Michel Contat
Jean-Paul Sartre aveva concepito per se stesso questo grande progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Durante tutta la sua vita, da La nausea (1938) a L'idiota di famiglia (1971), Sartre andrà precisando la sua visione radicale dell'esistenza.
I suoi amici di gioventù lo chiamavano «il piccolo uomo», forse perché lo sapevano destinato alla grandezza. Lui stesso non ne aveva il minimo dubbio, dal momento che la cosa non dipendeva che da lui. Raymond Aron ricorda quanto ammirasse la risolutezza del suo giovane compagno. Kant, Hegel? E perché no? E aggiunge che gli studenti della Scuola normale di questa generazione si domandavano chi fra Sartre e Nizan, gli inseparabili, sarebbe stato per primo celebre, e chi lo sarebbe stato per sempre. Aron dal canto suo era convinto che Sartre avrebbe creato la propria opera in campo filosofico, Nizan letterario.
Sartre racconta di essersi pensato come un grande uomo dell'avvenire, di aver vissuto la propria gioventù come quella del "giovane Sartre", anni che avrebbero in seguito dettagliato i biografi. Meglio ancora, aveva concepito questo progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Quando Simone de Beauvoir lo incontrò, nella primavera del 1929, fu impressionata dalla formidabile convinzione di cui dava prova, dall'inesauribile sgorgare di idee e di teorie che produceva ma anche, quando lui le fece leggere i suoi primi saggi, da quanto fossero maldestri. A Sartre era capitata un'avventura metafisica: era nato. Questo è un incidente che succede a tutti, ma per lui la nascita assunse un valore veramente ontologico: era pura contingenza. In altre parole, Sartre sentiva perfettamente che questo avvenimento avrebbe anche potuto non accadere. Più tardi, quando interpretò le circostanze particolari della sua infanzia, ne Le parole, scrisse: «La mia fortuna fu di appartenere ad un morto: un morto aveva versato le poche gocce di sperma che sono il prezzo abituale di un bambino», e se ne rallegrò. Orfano di padre, è a questo "giovane morto" che doveva di non essere «consumato dal cancro del potere», e di non avere un super-ego. Era dunque "di troppo" e questo suo carattere aggiuntivo, questo suo essere in soprannumero doveva suggerirgli l'intuizione che precisamente là risiede il carattere peculiare dell'uomo. Tutto sommato, era il filosofo della libertà fin dalla nascita, perché aveva vissuto già nell'infanzia la nostra condizione di essere senza alcun destino se non quello che possiamo darci noi stessi.
Ma bisognava ancora trovare la forma che conferirà a questa scoperta il valore di una verità universale. Sartre ci impiegò un po' di tempo. Aron, armato dell'idealismo kantiano, aveva demolito una ad una le sue teorie, ma senza convincerlo. Tirava avanti per la sua strada, ostinato, sicuro di aver ragione perché viveva ciò che pensava, mentre Aron giocava elegante sui campi da tennis. Durante gli anni in cui il suo compagno Nizan, forte del suo impegno al lato dei dannati della terra iscritti al Partito comunista francese, attaccava in romanzi virulenti la classe nemica del genere umano, la borghesia, Sartre, impegolato in un classicismo ereditato da Valéry, proponeva miti sulla "Leggenda della verità" cercando di ricostruirne la storia. Poi, consigliato dal suo fedele Castor, come chiamava la sua compagna, si decise a dare la forma di un romanzo all'esperienza costitutiva della sua persona.
Castor storse il naso quando ne lesse una prima versione, scritta a Le Havre dove insegnava filosofia: puzzava ancora troppo di prof. Non poteva metterci un po' della suspense che amavano tanto al cinema e nei romanzi americani? A Berlino, dove era andato per leggere Husserl e Heiddeger nel testo originale, negli anni 1933-1934, mentre un certo Adolf Hitler consolidava il suo potere, Sartre riprese la sua teoria da cima a fondo.
Beauvoir, descritta da Sartre più tardi come uno di quei «testimoni aggrottati che non gliene lasciavano passare una», non fu ancora convinta. Rimise dunque il manoscritto sul banco, piallò, lustrò, ridusse. Eppure questo manoscritto migliorato, intitolato Melancholia non ebbe la fortuna di piacere ai lettori di Gallimard. Sartre si sentì rifiutato in tutto il suo essere, e siccome al tempo stesso era rifiutato da una giovane avvenente persona per la quale aveva del desiderio, cadde nella depressione, si credette inseguito da aragoste e granchi, si pensò vittima di una psicosi allucinatoria cronica, con grande fastidio della sua compagna che riteneva si compiacesse nella pazzia. Cessò dunque di essere pazzo, fece intervenire Charles Dullin presso il suo amico Gaston Gallimard; costui accettò lo strano romanzo, propose come titolo La nausea, e Sartre consentì di buon cuore ad edulcorarlo un po' nei suoi aspetti più populisti ed osceni. Il seguito è noto. Successo della critica, premio Goncourt mancato di poco, pubblicazione di racconti e di articoli clamorosi su La nouvelle revue française.
Quale è stato il contributo di Sartre al mondo letterario prima della guerra? Una visione radicale della condizione umana. Non tanto politica, ma ontologica: l'essere umano è in preda all'angoscia dal momento in cui considera l'esistenza nella sua verità. E' ciò che non è, e non è ciò che è, e questa distanza da se stessi, questa impossibilità di coincidere con sé non è altro che la libertà della coscienza.
Husserl ha chiamato questa proiezione della coscienza verso le cose l'"intenzionalità". L'uomo è interamente, nel suo essere proiettato verso l'esterno, nel mondo, esposto al gran vento del reale. Non c'è interiorità: ciò che chiamiamo la vita interiore è una mistificazione, un vano compiacimento ai miti della personalità unica ed eccellente. La fenomenologia ci libera da Proust e dalla psicologia. L'immaginazione è la facoltà di "ridurre al nulla", facoltà che è propria della coscienza e che a questa conferisce libertà. La libertà non è gratuita, al contrario ci impegna alla responsabilità, tanto più che è impossibile sfuggirle, tranne mentendo a se stessi ed agli altri per malafede. Ma ciò permette anche la grandezza in cui si esprime una vita assunta come libertà, contro tutti i determinismi, compreso quello dell'inconscio.
Questi temi dell'esistenzialismo sartriano o dell'esistenzialismo ateo (per opposizione all'esistenzialismo cristiano che ha la sua fonte in Kierkegaard) che saranno formalizzati, concetualizzati in L'essere e il nulla (1943), sono già presenti negli scritti che Sartre pubblica negli anni Trenta. La guerra gli permetterà di approfondirli, di svilupparli.
La guerra è la grande fortuna della sua vita, potremmo dire rischiando uno scandaloso paradosso. Alla Liberazione, Sartre comincerà il suo articolo su "La Repubblica del silenzio" con questa frase diventata celebre: «Non siamo mai stati più liberi quanto sotto l'occupazione tedesca». Liberi perché esposti, in una situazione-limite, alla verità della condizione umana e messi a confronto con le scelte più estreme. Spesso si rimprovera a Sartre, soprattutto da quando è morto, di non essere stato fucilato o almeno torturato, d'aver resistito scrivendo invece di farlo con le armi in pugno. Di non essere stato né Jean Cavaillès, né René Char. Insomma di essere stato Sartre. Di aver scritto Le mosche, L'essere e il nulla, invece di aver ammazzato tedeschi o fatto saltare treni. Che se lo sia rimproverato lui, dopo, lo si può capire; che altri, soprattutto quelli che l'hanno letto, gli rimproverino di aver scritto, sembra uno scherzo. La resistenza di Sartre in quanto scrittore e filosofo è irreprensibile.
I rimproveri, se veramente si vuole fargliene, riguardano il modo in cui ha argomentato e giustificato le sue scelte politiche del dopo guerra, e degli anni Cinquanta e Sessanta. Possiamo oggi preferire gli obbiettivi del "Rassemblement démocratique révolutionnaire" che animò nel 1948-1949 (dare un contenuto concreto ai diritti astratti della democrazia con la creazione di un'Europa socialista e rivoluzionaria), alle attese suscitate dalla sua posizione di "compagno di strada" del Partito comunista dal 1952 al 1956 (difendere il partito perché rappresenta gli interessi della classe operaia e perché soggetto a repressione, difendere il blocco sovietico nella guerra fredda perché meno armato del blocco atlantico e dunque con più ragioni di volere la pace).
Ma queste posizioni sono sempre e solo politica e ciò che ci importa è altrove, nel fatto che l'opera che Sartre prosegue in questi anni "litigiosi" (agli occhi di Bernard-Henry Lévy, per esempio) è l'opera di un genio. La strada della libertà, esamina la libertà stessa attraverso la sperimentazione letteraria e secondo la linea del romanzo americano, del suo realismo soggettivo. Santo Genet, prodigiosa psicanalisi esistenziale di uno scrittore fatta da un altro scrittore. Le mani sporche, Il diavolo e il buon dio, I sequestrati di Altona, appassionate interrogazioni sul cosa facciamo quando siamo presi nel meccanismo della Storia. La critica della ragion dialettica, gigantesco sforzo per capire come la libertà si trasformi in contro-finalità non appena l'atto si iscrive nel mondo materiale, e come il gruppo si fossilizzi nel voto di perpetuarsi una volta passate le condizioni che hanno permesso la sua emergenza. Le parole, maniera ironica di prendere congedo da se stesso demistificando ciò che ci ha costituiti. L'idiota di famiglia, impresa di antropologia totalizzante in cui l'individuo Flaubert ed il suo progetto di fondere il mondo intero nell'immaginario diventano una saga della scrittura in un mondo storico diventato intellegibile.
Opere che danno una visione dell'uomo i cui misteri sono dissipati dai lumi dell'intelligenza, la più agile e la più vigorosa che abbia conosciuto il Novecento.
Si può essere fieri di essere stati contemporanei di quest'uomo, Jean-Paul Sartre, commovente, buffo, fraterno. Aveva sessant'anni quando l'ho conosciuto, era coperto di gloria come mai nessuno scrittore francese era stato prima di lui, irradiava dinamismo, esaltava in voi i rifiuti, tutte le speranze, tutti i progetti. Ignorava completamente che era Sartre, questo Altro che i giurati del Nobel avevano voluto pietrificare in statua di se stesso, esattamente ciò che lui più aborriva. Amava la vita, non mentiva a se stesso, non diceva la verità, nell'intimità, a quelle che non volevano accettarla; non se ne desolava, non si tormentava di sensi di colpa. Lui tirava dritto, l'ho sempre conosciuto così, anche debilitato, senza preoccuparsi di cosa lasciasse dietro di sé, libero da quanto vincola tanto gli uomini: l'interesse. «Fedele al bel programma di essere infedele a tutto», libero è stato, libero resta, esposto al vento della Storia, al soffio spesso e infuocato del mondo.
Un grande essere vivente che non è morto, perché si è trasformato in ciò che era, un richiamo alla libertà.
(Traduzione di Chiara Ristori, da "Le Monde" dell'11 marzo Un uomo libero, esposto al vento della storia)
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