sabato 4 dicembre 2004

da "Avvenimenti" adesso nelle edicole
un articolo di Federico Masini

ricevuto da Simona Maggiorelli

Da Avvenimenti numero 47
adesso nelle edicole
Gemelli diversi L’effetto Cina giova al Giappone che guarda con curiosità alle possibilità dell’economia e della cultura cinese
di Federico Masini*

Osaka (Giappone) 22 novembre 2004: Mi sono sempre chiesto perché la Cina e il Giappone nella lontana, e di questi tempi tanto piccola, Italia siano sempre stati confusi, come se l’oriente estremo fosse un tutt’uno, di gente dalla carnagione giallastra e dalla bassa statura. In realtà questi due paesi hanno condiviso grandi pezzi della loro storia, pur essendo radicalmente diversi, per usi, costumi e lingua; e forse in questi primi anni del nuovo millennio stanno nuovamente vivendo un periodo di grande sintonia economica e culturale, sviluppando, come altre volte nella loro storia, una fase di fecondo reciproco scambio.
Il Giappone è stato per millenni un paese chiuso ad ogni influenza esterna, ad eccezione di brevi periodi durante i quali subì fortemente l’influsso della cultura classica cinese, che insegnò a questo popolo un sistema di scrittura che poi, una volta rielaborato e trasformato, ha dato luogo alla complessa scrittura giapponese, unica al mondo per il fatto di impiegare, concorrentemente quattro distinti sistemi di trascrizione dei suoni: lettere del nostro alfabeto, caratteri cinesi e due alfabeti sillabici, fatti da segni derivati dalla scrittura cinese, impiegati foneticamente per trascrivere parole autoctone o prestiti dalle lingue occidentali. La Cina invece ha sviluppato un sistema di scrittura originale in tempi antichissimi e ad esso è restata fedele nei millenni, potendo oggi vantare forse uno dei più longevi sistemi di scrittura al mondo. Già da questo si possono osservare due diverse attitudini rispetto al mondo esterno: uno plastico e apparentemente disponibile all’assorbimento di influenze esterne ed uno chiuso e refrattario ai cambiamenti derivanti dallo sconto con altre civiltà. Così è andata anche la storia dei rapporti con l’occidente: la Cina fu la prima a scontrarsi con le potenze occidentali durante i primi decenni del XIX secolo, ma non reagì, se non dopo massacranti guerre, che imposero progressivamente al paese una sorta di protettorato straniero, conducendola alla fine all’abbandono del sistema imperiale e ad una estenuante guerra civile, che terminò solo nel 1949 con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Il Giappone invece fu conquistato dalla moderna cultura americana nella seconda metà del XIX secolo, senza che fosse stato necessario sparare un solo colpo di cannone, e procedette speditamente sulla strada della modernizzazione economica e scientifica, conservando il proprio sistema imperiale grazie ad un efficace riforma costituzionale.
La Cina è stato il paese delle rivoluzioni. Mentre il Giappone quello delle riforme. Oggi a distanza di quasi due secoli, il Giappone appare quindi come un paese in cui l’Occidente è presente in maniera compiuta, senza che abbia intaccato più di tanto le ataviche tradizioni nazionali - il sistema imperiale, lo shintoismo (la religione tradizionale), i costumi sociali - e dove tradizione e modernità convivono in apparente armonia; mentre la Cina dopo aver faticato ad aprirsi al mondo esterno, finalmente (chissà!) solo ora inizia a vedere le sue città pullulare di occidentali, ancora visti come mosche rare, assorbendo i modi del mondo occidentale in maniera a volte acritica, asettica e in radicale contrasto con ogni permanenza delle proprie tradizioni culturali, minate da anni di semicolonizzazione, guerre di occupazione, influenze sovietiche e maoismo.
Oggi questi due paesi visti da vicino appaiono come uno l’opposto dell’altro, ma al tempo stesso sembrano condividere aspetti salienti. L’economia giapponese, proverbialmente forte durante gli anni Ottanta, ha subìto un notevole rallentamento negli anni Novanta, per iniziare a decollare nuovamente adesso, proprio grazie all’effetto traino esercitato dall’economia cinese, che negli ultimi anni ha visto crescere la propria economia ad un tasso annuale a due cifre. Se dell’effetto Cina ha potuto godere l’economia americana e quindi mediatamente anche quella europea; il paese che in questo momento ne ha tratto più giovamento è proprio il Giappone che ha riversato sulla Cina le proprie esportazioni di tecnologia e di capitali. A fronte di tali relazioni economiche e commerciali, però Cina e Giappone non smettono mai di avere notevoli attriti politici, dovuti tanto al desiderio della Cina di estendere la propria supremazia militare nel bacino dell’Asia orientale, quanto alla riluttanza del Giappone di disfarsi del proprio passato militarista. Al tempo stesso però la Cina accusa sempre più un debito “culturale” nei confronti del Giappone: esportatore di cultura imprenditoriale e di civiltà sociale verso la Cina, paese sempre meno incline ai comportamenti socialmente corretti, nonostante voglia ancora dichiararsi ispirato ai principi del socialismo. Un caro amico e collega cinese, ormai naturalizzato giapponese, mi diceva appunto che nulla sarebbe più auspicabile che la Cina importasse dal Giappone della cura per la realtà collettiva: quell’insieme di naturali comportamenti civili che consentono l’armonica convivenza di grandi masse di popolazione, pur se ristrette in spazi angusti dove la densità della popolazione raggiunge i massimi livelli al mondo, e il rispetto dell’igiene pubblica. Negli spaventosi assembramenti di gente che affollano le stazioni della metropolitana ed i centri commerciali, le persone scorrono senza neppure sfiorarsi, senza mai però dare l’impressione di omologazione che potrebbero suggerire tanto ordine e pulizia. In Cina, invece, le folle sembrano scomposte e rissose, e si accalcano alle fermate dei mezzi pubblici come paventando sempre la possibilità di perdere l’occasione di assicurarsi un posto. La raccolta differenziata dei rifiuti è così diffusa e capillare in Giappone che, nelle zone residenziali che circondano i grandi centri urbani, fatte di case basse e minute, non esistono neppure i cestini per le strade; mentre in Cina cataste di immondizia circondano spesso anche le strade dei centri urbani maggiori, come Pechino e Shanghai. Sembra che la modernità del Giappone non abbia intaccato le sue tradizioni, ma sia stata digerita durante un lungo periodo di gestazione e raffinamento, mentre in Cina l’occidente moderno è arrivato fra singulti e folate e non ha ancora trovato il tempo per venir assimilato e reso armonico con la sua grande tradizione culturale. Anche il diverso panorama umano suggerisce paragoni e dissimetrie: le donne giapponesi appaiono curate nell’aspetto, variano nell’abbigliamento e nelle acconciature, mentre l’altra metà del cielo cinese, raramente mostra grazia e cura nel vestire. Il Giappone, da terra di conquista delle mode occidentali, oggi potrebbe invece essere la fonte di alcuni atteggiamenti che da esso si sono diffusi nel mondo, in primo luogo proprio in Cina. Ad esempio forse scorgiamo nel Giappone la fonte della moda dei nostri ragazzi di tenere sempre allacciate le scarpe, senza mai sciogliere i lacci: tipica abitudine giapponese dettata dal bisogno costante di essere sempre pronti a togliersi le calzature tutte le volte che si entra in un luogo chiuso, sia esso una palestra, un tempio o una casa privata, dove pavimenti laccati sembrano non essere mai stati calpestati da suola alcuna. Anche le teste dei ragazzi cinesi e giapponesi, così simili per la rigidità dei loro capelli corvini, appaiono diverse: sempre pareggiati e uguali quelli dei cinesi, e sempre ostinatamente scalati e variati quelli di ragazzi e ragazze giapponesi, con forme tanto inusuali, quanto curatissime nel loro, apparente, disordine, vigilato con specchi sempre a portata di mano.
I giovani giapponesi, proprio come quelli italiani - e questo è l’aspetto che più mi colpisce - sembrano oggi guardare alla Cina con estremo interesse, tentati dalle grandi prospettive economiche del gigante asiatico verrebbe da pensare. Ma vale forse la pena di interrogarsi sul perché a Roma come a Osaka la seconda lingua studiata nelle università, dopo l’immancabile inglese, sia proprio il cinese. Gli studenti a cui faccio lezione qui in Giappone, sembrano proprio uguali a quelli che ho lasciato a Roma: curiosi di un mondo molto più simile al loro che al nostro, ma pur sempre diverso. Per i ragazzi italiani la Cina è l’ultima frontiera del mondo moderno, per quelli giapponesi è la terra cui i loro avi hanno sempre guardato con rispetto e che hanno tentato di conquistare militarmente negli anni Trenta; mi sembra ciononostante di scorgere una comunanza di intenti in questi giovani: un profondo interesse per una realtà tanto diversa dalla loro, il segreto di una civiltà millenaria, che dopo tanta cultura e moderazione ha attraversato un periodo di soggezione lungo oltre un secolo, per riuscire solo oggi a riaffacciarsi sulla scena mondiale, come unico reale contendente del modello nordamericano. Molti dei ragazzi che studiano cinese in Giappone, come alcuni in Italia, sono di origine cinese e hanno preso questa strada per ritrovare le proprie radici culturali. Raccontando ai ragazzi giapponesi che tanti in occidente non li distinguono dai cinesi, gli ho chiesto cosa sentono di avere in comune con i cinesi: "Noi giapponesi, come i cinesi, siamo dei gran lavoratori - mi ha risposto un ragazzo - e solo grazie al nostro lavoro siamo riusciti a riscattare la nostra condizione". Forse voleva dire che la modernità da queste parti è stata conquistata - da tempo in Giappone e solo ora in Cina - a duro prezzo, per impedire che travolgesse oggi identità culturale, diventando solo omologazione.
Il Giappone, nonostante quello che si pensa, sembra essere sfuggito all’omologazione americana, riuscendo a mantenere vivo il retaggio di un’antica cultura propri di un popolo del quale ancora oggi si ignora l’origine e la parentela genetica. Il Giappone sembra quindi un paese ormai stabilizzato nel suo rapporto con l’Occidente, il suo governo non è più in alcun modo percepito come una minaccia dagli altri paesi occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, essendo ormai stabilmente entrato a far parte delle potenze sviluppate del mondo. La Cina, invece, costituisce la vera minaccia del XXI secolo, con il suo ribollire di azzardate esperienze economiche e singolari sperimentazioni politiche, volte ad incentivare i meccanismi di controllo sociale, non potendo o non volendo aderire acriticamente al modello delle democrazie occidentali. Il Giappone invece è una democrazia con suffragio universale, ma conserva al potere la più antica dinastia di imperatori al mondo, anzi forse l’unica insieme a quella dei Papi! In Cina tutto sembra cambiare da un giorno all’altro: il paesaggio urbano come le strutture amministrative ed il sistema legale sono in continua trasformazione; in Giappone tutto sembra regolato una volta per sempre, come fosse il frutto di un sapiente e delicato equilibrio fra spirito collettivo che impregna tutti gli appartenenti alla medesima azienda o università che sia, e culto della personalità individuale che trova la sua massima realizzazione nella vita privata fatta di rituali e di gelosa conservazione della propria privacy. In Cina invece, a fronte di un formale e ostentato spirito collettivo, l’individualismo è assolutamente mal tollerato e mai si potrebbe uscire o entrare in casa senza che il proprio vicino non ne fosse a conoscenza.
Per certi aspetti il Giappone sembra un paese più collettivista della Cina, che ancora si dichiara comunista, ma al tempo stesso la Cina è un paese dal quale attendersi ancora molto, mentre il Giappone sembra invece staticamente destinato a perpetrare se stesso. Il Giappone, inoltre, come la Cina non appare un paese impregnato di sentimenti religiosi; se in Cina le religioni tradizionali, una autoctona, il taoismo, ed una importata dall’India, il buddismo, sono ormai completamente sbiadite e ridotte a pallidi simulacri, in Giappone, lo shintoismo, religione ufficiale di Stato e il buddismo, qui anticamente giunto dalla Cina, godono ancora di vitalità, ma senza mai che i loro sentimenti pervadano la vita pubblica, essendo eventualmente ed esclusivamente contenuti nella sfera dei comportamenti privati. Società quindi collettivamente atee entrambe, anche se in Giappone la religione sembra mantenere una vitalità legata alla conservazione delle tradizioni, mentre in Cina la religione non appare mai aver fatto compiutamente parte della vita sociale e collettiva della popolazione. Visti così da vicino e in rapida successione, questi due paesi lasciano sensazioni opposte, ma anche convergenti: un profondo sentimento d’irrequietezza e movimento la Cina, una silenziosa e rassicurante pace il Giappone; ma, pur nella loro diversità, entrambi stimolano nella ricerca di quello che tutti gli esseri umani condividono ad ogni latitudine.

*sinologo e preside della Facoltà di studi Orientali Università La Sapienza di Roma

"La rosa e le spine"
un convegno su Rosa Luxemburg delle donne del Prc

Liberazione 4.12.04
Dedicato a Rosa Luxemburg
"La rosa e le spine", un convegno oggi a Napoli dal Forum donne del Prc
«Nel buio sorrido alla vita»
La febbrile vitalità, la capacità di reagire alle situazioni più difficili, la fiducia, tutta laica e "materialistica", nella possibilità del riscatto finale dell'umanità
L'attualità di Rosa Luxemburg

di Rina Gagliardi

Un convegno-seminario su Rosa Luxemburg? E perchè? Non c'è alcun anniversario, quest'oggi, da celebrare. Non ci sono neppure circostanze particolari che "giustifichino" la giornata di discussione che si terrà quest'oggi a Napoli, la rosa e le spine, promossa dal Forum delle donne del Prc, dall'ateneo Federico II, dall'associazione Transform. E dunque? Dunque, c'è semplicemente la voglia di fare i conti con una figura straordinaria del '900: una «ebrea polacca», come scrisse Bertolt Brecht, «che combatté per i lavoratori tedeschi». Una donna che morì sulle barricate, nel 1919, durante lo sfortunato moto insurrezionale spartachista e che, troppo spesso, è stata ricordata solo come «martire», eroina sconfitta, icona. Ma proprio questa donna, questa intellettuale cosmopolita che visse sul crinale tra Otto e Novecento, questa rivoluzionaria intransigente che gli avversari del tempo rappresentarono come «Rosa la sanguinaria», fu anche e soprattutto il «miglior cervello» marxiano del suo tempo: «un'aquila», come ebbe a scrivere Vladimir I. Lenin, in un saggio pur ampiamente polemico che raccomandava alle generazioni future «la lettura e lo studio» delle sue opere complete. Può oggi quest'aquila dirci ancora qualcosa di importante e di utile, a noi, s'intende, che non abbiamo smesso di pensare alla grande trasformazione del mondo? Possiamo provare a riannodare i fili - rimasti troppo a lungo spezzati - di un'eredità rivoluzionaria che abbia finalmente al suo centro l'alternativa sociale, ciò che lei chiamava Umwaelzung, rivoluzionamento profondo di tutti i rapporti indotti dal dominio e dall'egemonia "borghese"? E ritrovare qualche radice della nostra attuale lotta per la pace nelle sue analisi e nella sua lotta contro il militarismo e la guerra?

Noi, appunto, anche quelli di noi che più hanno amato, letto e discusso Rosa Luxemburg, non siamo luxemburghiani - non cerchiamo nuove (e nel caso specifico insostenibili) ortodossie. Noi siamo mossi e motivati, una volta di più, da quel bisogno di rammemorazione - del passato e delle sue sconfitte - di cui parlava Walter Benjamin.

Socialismo o barbarie
«... E nel buio sorrido alla vita, come se conoscessi un qualche segreto magico che sbugiarda tutto il cattivo e triste e lo trasforma in chiarità e felicità. E io stessa cerco la causa di questa gioia, ma non trovo niente, e di nuovo non posso che sorridere di me stessa. Credo che il segreto non sia altro che la vita stessa...». Per capire la singolare personalità di Rosa Luxemburg, questo brano di una lettera famosa (scritta nel dicembre del 1917 dal carcere di Breslavia, dove stava scontando il suo terzo anno consecutivo di prigionia), può essere più utile di tanti articoli di analisi o battaglia politica: c'è qui la sua febbrile vitalità, la sua capacità di reagire alle situazioni più difficili o apparentemente perdute, e quella sua fiducia, tutta laica e "materialistica", nella possibilità del riscatto finale dell'umanità, che non ha nulla a che fare con l'ottimismo - neanche con l'ottimismo della volontà. Nonostante tutto, è la conclusione di quella lettera. Nonostante la morte, il sangue e le sofferenze (anche del «fratello bufalo») che la guerra sta producendo. Nonostante il revisionismo, la disfatta degli eserciti proletari. Nonostante la coazione carceraria. Tentare di rovesciare il corso degli eventi, provare a produrre da soli un nuovo corso della storia, anche se l'esito è sempre incerto, è sempre possibile: è una "necessità".

Certo, questi sono, per Rosa, gli anni più terribili della sua vita. La guerra mondiale imperversa, produce devastazioni e carneficine di massa, brucia «la meglio gioventù» operaia sui campi d'Europa. Ma, soprattutto, il movimento socialista ha ceduto di schianto: ha abbracciato in ogni singolo Paese la causa della «guerra patriottica», venendo meno ai solenni impegni internazionalisti e pacifisti fino ad allora sottoscritti. Per Rosa Luxemburg - che aveva visto con molti anni d'anticipo la natura struttturale del riarmo imperialista ed era stata incarcerata, nel 1913, per la sua propaganda attiva contro il militarismo e la guerra - il tradimento socialdemocratico è una delusione drammatica, un trauma politico ed esistenziale: quel 4 agosto 1914, nel quale i socialisti tedeschi votano a favore dei crediti di guerra, diventa perciò un tournant della storia. «Questa guerra», scriverà nel saggio La crisi della socialdemocrazia, «è già in sé la sconfitta del proletariato mondiale. Questa guerra «è la barbarie»: è la manifestazione dispiegata di un aut aut che il capitalismo cova da decenni nel suo seno, a dispetto dell'esplosione di progresso di fine Ottocento: socialismo o barbarie, appunto. Guerra o rivoluzione. Regresso o percorso verso il socialismo.

Una persona "intera"
Nel marxismo creativo e antidogmatico di Rosa Luxemburg, dunque, la tensione rivoluzionaria nasce dalla disillusione "riformista", dalla persuasione analitica (perfino "scientifica") che il modo di produzione capitalistico non è correggibile, non è riformabile, perchè non incarna più una civiltà davvero progressiva. Dunque, si diventa rivoluzionari, come lei è diventata, non per pura vocazione soggettiva o un qualche "fuoco" messianico, ma in virtù di un rapporto positivo col mondo, con le persone, con la natura - sulla base di un'istanza di nuova civiltà, il socialismo. In questo senso (e solo in questo senso), lei fu una intellettuale organica che però non ebbe alcun bisogno di "tradire" la sua classe d'origine. Ebbe un'infanzia e un'adolescenza felici, in una famiglia affettuosa ed aperta, fu una "prima della classe", divenne una "migrante politica": una che stava a proprio agio «dovunque ci fossero nuvole» e lotte politiche. Una persona «intera» nella quale non è lecito separare più di tanto il pubblico dal privato (ho una maledetta voglia di essere felice scrive al suo compagno, Leo Jogiches, mentre si sta organizzando la fondazione della nuova socialdemocrazia polacca) - così come l'etica dalla politica, l'idea di sé dall'idea dell'Altro. In virtù di questa intierezza, Rosa Luxemburg non fugge da Berlino, nel momento in cui la sconfitta della rivoluzione si profila con nettezza all'orizzonte: non è una scelta eroica, non è voluttà di sacrificio. E', quasi all'opposto, l'impossibilità di separare la propria sorte personale da un evento - la rivoluzione pur immatura - che si è contribuito comunque a produrre. E' ubbidienza ad una responsabilità tutta terrena e terrestre, rigorosamente antiidealistica: chi salvaguarda se stesso, la propria sopravvivenza ad una temperie rivoluzionaria, non confessa in fondo di custodire nella propria persona un "messaggio" capace di attraversare i tempi e i contesti? Rosa Luxemburg fu, come tutta la sua vita ha testimoniato, una rivoluzionaria e una pacifista senza se e senza ma. Ma visse sempre la sua vita di partito con un sottile e permanente disagio: «Come lei sa, spero di morire sulle barricate» scrive in un'altra nota lettera. «Ma in cuor mio sento di appartenere più alle cinciallegre che non ai compagni». Fu proprio, come scrisse Paul Froelich, una candela che brucia dalle sue parti.
Rina Gagliardi

salute mentale
dalle agenzie di stampa

Ansa.it
Sabato 4 Dicembre 2004, 18:50
PSICHIATRIA: MILIONI MALATI AL MONDO, LA FOTO DEL DISAGIO/ANSA

(ANSA) - ROMA, 4 DIC - Le patologie mentali affliggono milioni di persone nel mondo. Nonostante ciò, il pregiudizio sociale resta uno dei maggiori scogli da superare per questi pazienti e ancora lacunosa si presenta la rete assistenziale sul territorio, che in Italia, dove domani si celebrerà la prima giornata nazionale della salute mentale, si conferma a macchia di leopardo.
NEL MONDO 450 MLN CON DISTURBI MENTE, COLPITO 1 ITALIANO SU 10
Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono 450 milioni le persone che nel mondo soffrono di qualche disturbo mentale. Per quanto riguarda invece il nostro Paese, un italiano su cinque (18,3%) ha sofferto di un qualche disturbo mentale nell'arco della propria vita e ad essere più colpite, sulla base dei dati del recente studio europeo Esemed, sono le donne. In Italia, così come nel resto dei paesi occidentali, inoltre, due persone su dieci sono a rischio di ammalarsi di qualche patologia mentale, più o meno grave, nel corso della loro esistenza, come rilevano gli ultimi studi epidemiologici sulla prevalenza dei disturbi mentali in Italia e in Europa. Una percentuale di rischio, concordano gli esperti, che spinge sicuramente a riflettere e che evidenzia la necessita' di un'ancora maggiore sensibilizzazione su questeproblematiche.
600 MILA FAMIGLIE ITALIANE CON UN MALATO, PER 70% E' VERGOGNA
Sono 600 mila le famiglie che vivono in Italia il dramma di un caro che soffre di psicopatologia grave e di queste 200 mila vivono un dramma nel dramma, con un familiare che non risponde alle cure oppure non vuole curarsi. Un ulteriore macigno da superare resta però il pregiudizio, a volte da parte delle stesse famiglie: ''Per circa il 70% degli italiani - ha sottolineato il presidente della Società degli psicologi e psichiatri cattolici, Tonino Cantelmi - resta una vergogna parlare di un familiare malato''.
SUL TERRITORIO SITUAZIONE A MACCHIA DI LEOPARDO
Risale alla fine del 2002 la chiusura dell'ultimo manicomio pubblico in Italia, con la dimissione degli ultimi pazienti. Da allora, in base ai dati più recenti aggiornati al dicembre 2003, sono rimasti operanti sette ex ospedali psichiatrici (OP) privati convenzionati, con circa 188 pazienti ancora ricoverati a causa della ritardata disponibilità di strutture residenziali. Al 31 marzo 2000, i malati usciti dagli ospedali psichiatrici erano 15.943, il 41,5% dei quali è entrato in strutture residenziali. Dal 1978 a oggi, 219 sono state le leggi regionali sulla salute mentale: la Regione che ha attuato il maggior numero di provvedimenti legislativi in materia è la Liguria con 24. Seguono la provincia di Trento con 23 e il Lazio con 21. Dieci sono le proposte di legge presentate durante questa legislatura in Parlamento, sei della maggioranza e quattro dell'opposizione. Ma come si presenta oggi la situazione sul territorio? Dipartimenti di salute mentale sono presenti in tutta Italia, oltre a una rete capillare di servizi diurni, ma con profonde diversità sul territorio nazionale: le Regioni meridionali sono infatti al di sotto dello standard obiettivo. La Valle D'Aosta è in testa alla classifica per Centri diurni (oltre 4 per 150 mila abitanti quando lo standard e' 1) seguita da Friuli (3), Toscana (2,5) e Veneto (2), mentre al di sotto di 1 si trovano Abruzzo, Calabria, Sardegna e provincia autonoma di Bolzano. Anche i posti letto in strutture pubbliche seguono un andamento simile: più numerosi nelle regioni del Nord e via via al di sotto dello standard obiettivo al Sud e al Centro (con Lazio e Umbria fanalini di coda). Le strutture residenziali hanno operatori in numero sufficiente solo in poche Regioni: Trento, Liguria, Toscana e Bolzano. Gli operatori in tutta Italia sono poco più di 30.700, di cui il 48% infermieri e il 18% medici. Un dato, osservano gli psichiatri, inferiore del 25% all'auspicabile: vale a dire che mancano almeno 5000-7000 operatori.(ANSA).


Ansa.it 04/12/2004 - 08:52

Psichiatria: 8 bimbi su 100 mostrano segnali di disagio
Fondamentale la prevenzione sin dall'infanzia

(ANSA) - ROMA, 4 DIC - In Italia, otto bambini su 100 tra i 2 e i 6 anni mostrano segnali di disagio psichico. Lo afferma il neuropsichiatra infantile Gabriel Levi. "Se si vuole combattere lo stigma della malattia mentale - ha affermato oggi Levi, in occasione della presentazione della Campagna nazionale promossa dal ministero della Salute - bisogna dimostrare che la malattia mentale può essere prevenuta, e per ottenere questo risultato è necessario aumentare gli investimenti nell'età evolutiva".
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04/12/2004 13.32
SANITA' LAZIO: NASCE NUMERO VERDE SALUTE MENTALE

Roma, 4 dic. (Adnkronos Salute) - Nasce nel Lazio un nuovo servizio per le persone con disagio psichico: la "Linea per la vita salute mentale", un numero verde (800 298298) attraverso il quale un gruppo di esperti fornirà informazioni sui servizi sanitari e sociali per la salute mentale e sul trattamento dei disturbi psichici. L'iniziativa, avviata in occasione della Giornata nazionale della salute mentale, che si celebra domani, è stata illustrata oggi dall'assessore alla Sanità del Lazio, Marco Verzaschi. ( ... )
(Adnk/Adnkronos Salute)

Adnkronos Salute 03/DIC/04 - 17:02
PSICHIATRIA: L'ESPERTO, VIOLENZA ESPLODE IN FAMIGLIA MA POCHI GLI OMICIDI

Roma, 3 dic. (Adnkronos Salute) - La violenza dei malati di mente esplode soprattutto in famiglia, come dimostrano i recenti casi di cronaca. Ma gli omicidi commessi da persone con disturbi psichici in Italia sono pochi, meno di quanto la gente creda. Lo afferma Mario Maj, presidente della Societa' europea di psichiatria, a margine della presentazione della prima Campagna per la salute mentale questa mattina al ministero della Salute. ''Secondo il rapporto Eures 2004 - spiega Maj - dei 658 omicidi volontari registrati in Italia nel 2003, solo 27 (4,1%) sono stati commessi da persone con problemi mentali. E in molti casi non e' chiaro se il movente sia stato il disturbo. Un dato minimo, in linea con quelli internazionali, a fronte di un 7,3% di italiani che in un anno soffre di malattie psichiche''. ''Nel 63,3% dei casi - afferma Maj - la causa dell'omicidio e' una depressione grave, nel 16,7% la schizofrenia, nel 5% l'Alzheimer''. La violenza esplode in casa. ''Degli 88 omicidi commessi da malati di mente dal 2000 al 2003 - prosegue l'esperto - 77 hanno avuto come vittima un familiare, 8 conoscenti e solo 3 estranei. Dunque, sulle famiglie dovrebbero concentrarsi gli interventi, che pero' vengono attuati solo nel 5% delle famiglie di psicotici''. Maj ci tiene a precisare che si tratta di ''una minoranza di omicidi e atti violenti che fanno notizia perchè appaiono inspiegabili, ma sono imprevedibili solo all'apparenza: ricostruendo la storia della persona, si trovano segnali premonitori passati inosservati, nascosti o trascurati. Se fossero stati tenuti in debito conto, avrebbero potuto 'predire' la tragedia. Senza dimenticare che il comportamento di ognuno di noi è imprevedibile''.
(Mad/Adnkronos Salute)

il Centro di Medicina Sessuale del San Raffaele di Milano
sesso e cioccolato

Repubblica 4.12.04
LA SCOPERTA

Il consumo quotidiano influenza la libido. La prova in uno studio del San Raffaele di Milano
"Sesso, mangiare sempre cioccolata accresce il desiderio nelle donne"
CARLO BRAMBILLA

MILANO - All'accoppiata sesso-cioccolato e alle relative allusioni erotiche, più o meno esplicite, ci avevano da tempo abituato i messaggi pubblicitari. Da quelli dei tradizionali Baci Perugina al più trasgressivo gelato ricoperto Magnum Algida, fino alla familiare Nutella. E che il cacao in polvere avesse un leggero effetto stimolante ed eccitante sulle cellule cerebrali (grazie al contenuto di teobromina e feniletilamina) lo avevano a lungo spiegato gli alimentaristi e le case produttrici del settore. Ma adesso a certificare, scientificamente, lo stretto rapporto positivo che lega il consumo di cioccolato e la soddisfazione sessuale femminile, è una scoperta involontaria fatta da un gruppo di ricercatori del Centro di Medicina Sessuale dell'Ospedale San Raffaele di Milano, coordinati da Andrea Salonia, specialista in disfunzioni femminili.
«Una scoperta del tutto incidentale - racconta con entusiasmo Salonia - che presenteremo martedì prossimo, a Londra, al Congresso internazionale della Società Europea di Medicina sessuale. Nel corso di un approfondito studio sul comportamento sessuale di 163 donne, di età compresa tra i 22 e i 59 anni, ci siamo accorti, analizzando i dati conclusivi di una serie di questionari, che nelle donne con abitudine quotidiana al consumo di cioccolato, la soddisfazione sessuale è decisamente superiore rispetto a quella di chi non fa uso della stessa sostanza».
Le donne milanesi del campione hanno dovuto rispondere a una serie di questionari internazionali, messi a punto da un gruppo di psichiatri americani. Tra i diversi indici presi in considerazione il cosiddetto Fsfi (Female Sexsual Function Index) che analizza sei ambiti: il desiderio sessuale, l'eccitamento dei genitali, la lubrificazione vaginale, l´orgasmo, la soddisfazione sessuale complessiva e il dolore durante il rapporto. A ogni ambito viene assegnato un punteggio. «Le donne con l'abitudine all'utilizzo di cioccolato hanno registrato punteggi significativamente migliori - spiega Salonia. - Il nostro è un dato descrittivo, statistico. Il 78,4% del nostro campione fa uso di cioccolato contro il 21,6% che non ne fa uso. Ma la cosa particolarmente interessante è che tra tutti gli indicatori analizzati, peso, fascia di età, consumo di fumo, di alcol, di caffè e molti altri ancora, solo il consumo di cioccolato è risultato in evidente relazione con una maggiore soddisfazione sessuale».
Perché il cioccolato migliora le performance sessuali femminili? È possibile che il motivo sia strettamente alimentare, da cercare cioè nel contenuto del cioccolato. Ma è anche possibile che le motivazioni siano tutte di ordine psicologico. Il cioccolato, alimento gratificante, aiuterebbe a migliorare l'umore. «La prossima fase della ricerca tenterà di stabilirlo - racconta Salonia. - Daremo da mangiare del cioccolato a un campione di donne, poi faremo vedere loro un video erotico e controlleremo le reazioni a livello genitale».

Il premio "Biblioteche di Roma"
a Gianrico Carofiglio

Corriere della Sera ed. di Roma 4.12.04
IL PREMIO A TERMINI
A Carofiglio e Barberis il «Biblioteche di Roma»

I libri fanno viaggiare con la fantasia e per rafforzare con immediatezza questo messaggio ieri sera alle 20,30 i circoli di lettura degli utenti delle Biblioteche si sono riuniti nell’Ala Mazzoniana - Mezzanino Giallo della stazione Termini in occasione della seconda edizione del Premio letterario Biblioteche di Roma. Alla presenza dell’assessore comunale alle Politiche culturali Gianni Borgna e del presidente delle Biblioteche di Roma, Igino Poggiali, sono stati votati i vincitori per questa edizione del premio:
[...]
Per la narrativa Gianrico Carofiglio con «Ad occhi chiusi», edito da Sellerio, recente vincitore dello Strega.[...]