domenica 10 aprile 2005

a proposito degli psichiatri condannati
l'Ordine, naturalmente, li difende a tutt'uomo...

La Stampa 10 Aprile 2005
MILANO, DUE ANNI E UN ANNO E DIECI MESI PER OMICIDIO COLPOSO
«SENTENZA INGIUSTA» I MEDICI SI RIBELLANO
L’Ordine difende gli psichiatri condannati per omicidio colposo dopo il «sì» al porto d’armi ad un uomo che poi fece una strage e si suicidò
Il presidente dell’Ordine: «Dal dottore un assassino può divenire agnello»
Grazia Longo

«È uno scandalo. Con tutto il rispetto per la magistratura, quei due medici non andavano condannati. Come potevano immaginare che dietro all’uomo che hanno considerato abile per il porto d’armi si nascondesse un potenziale assassino?».
Il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Giuseppe Del Barone, boccia come «anomala al 100 per cento» la sentenza del giudice milanese Anna Introini: ha condannato a due anni di reclusione lo psichiatra Massimiliano Dieci e a un anno e dieci mesi il tenente colonnello medico Fortunato Calabrò. Entrambi erano accusati di omicidio colposo plurimo e falso ideologico per irregolarità nei certificati che consentirono ad Andrea Calderini, 33 anni, di fare una strage e poi suicidarsi.
Il 5 maggio 2003 Calderini uccise una vicina, la moglie e poi, dalla finestra della sua casa a Milano, sparò a tre passanti che rimasero feriti. Quindi rivolse verso di sé la pistola e si suicidò. Per il giudice quell’arma - una pistola semi automatica Kimber calibro 45 - Calderini non avrebbe dovuto averla. La colpa? Dei due medici che firmarono i certificati utilizzati da Calderini - giovane di buona famiglia e di salute mentale instabile - per procurarsi le armi. I reati sono quelli di concorso in omicidio colposo e falso, con la sospensione condizionale della pena e la non menzione. I due medici dovranno, entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza, versare la condizionale di 750 mila euro. Un’altra somma dovrà essere pagata alle dodici parti civili, quando la sua entità sarà individuata in una causa civile.
Ma il presidente dei medici auspica che la vicenda prenda un altro corso.
«L’unica cosa da augurarsi in questi casi - dice Del Barone - è che i condannati facciano ricorso. Sono sicuro che in appello la loro posizione sarà valutata diversamente».
Se Calderini non avesse ottenuto il via libera sanitario non avrebbe mai potuto ottenere il porto d’armi...
«E allora? La questione va affrontata diversamente. Dobbiamo renderci conto che di fronte a un medico anche il più spietato degli assassini può apparire un agnellino».
Non ci sono strumenti per rendersi conto della realtà?
«E in che modo? Innanzitutto è assodato che anche le persone più instabili psichicamente, in alcuni momenti sanno essere perfettamente calmi e tranquilli. L’incapacità di intendere e di volere, ma anche uno squilibrio mentale, possono essere momentanei. Assolutamente momentanei. E non è detto che queste occasioni di manifesto disagio psichico coincidano con le visite mediche. Anzi, ribadisco dall’alto dei miei 45 anni di professione che i pazienti sanno mentire benissimo».
Quando però si è a conoscenza di difficoltà psichiche di una persona non si dovrebbe essere più prudenti?
«Certo, ma ripeto, è molto difficile valutare la pericolosità di un individuo. Sono figlio di un avvocato e nello svolgere il mio lavoro sono sempre stato attento agli aspetti giuridici. Proprio per questo mi sento di dire che in questo caso si è esagerato: siamo di fronte a una soggettiva interpretazione giuridica da parte del magistrato che ha condannato i medici».
Non ha nemmeno una perplessità?
«No, mi sento nel diritto di difendere due colleghi che non potevano essere a conoscenza dei disegni criminali di quello che si è rivelato un assassino».

neurobiologia:
così il cervello decifra tono, natura e significato delle frasi

Corriere della Sera 10.4.05
Così il cervello decifra le parole
Scoperti due canali uditivi che rivelano tono, natura e significato delle frasi


Il numero di aprile della rivista scientifica «Trends in Neurosciences» contiene una importante conferma che il nostro sistema uditivo assomiglia al nostro sistema visivo più di quanto si potesse sospettare fino a tempi assai recenti. Nina Kraus e Trent Nicol, del laboratorio di neuroscienze dell’udito alla Northwestern University (Evanston, Illinois, negli Stati Uniti), modulando a piacere delle sillabe, in un apparato produttore di suoni linguistici perfettamente realistici, hanno messo in evidenza due distinti segnali che, partendo dalle zone inferiori del cervello (il tronco cerebrale), si ramificano e poi raggiungono i centri superiori (la corteccia uditiva).

FRASE - Immaginate di sentire la frase «Un leone è fuggito dallo zoo», detta dapprima in tono normale da un uomo anziano, quindi pronunciata in tono concitato da una bambina. Ebbene, nel suo complesso, il nostro cervello registra ciascuno di questi due segnali linguistici in modo globale. Nina Kraus e Trent Nicol, però, hanno mostrato che, un attimo prima che essi raggiungano i centri di analisi linguistica, compresa la prima «stazione» superiore, cioè la corteccia uditiva, partono dal profondo del cervello, per ciascun segnale, due treni distinti di impulsi. Uno di questi treni comunica le frequenze dominanti, ci dice, cioè, di chi è la voce (uomo o bambina) e se la voce è piana o eccitata. Il secondo treno ci dice quali sillabe e quali parole sono state dette. Il primo canale, cioè, è sensibile alla fonte e alla sua qualità, il secondo ai filtri. Poco stupisce che il primo risulti essere evolutivamente più antico del secondo, spiegando come mai anche una scimmia identifica prontamente il grido di terrore di un’altra scimmia come diverso dal ruggito del predatore, mentre solo la nostra specie percepisce la differenza tra le parole, per esempio, «detto» e «fatto».

LEGAMENTI - Uniformandosi ai termini già consolidati nella neuropsicologia della visione, questi due canali uditivi sono stati battezzati «cosa» (what) e «dove» (where), benché una migliore nomenclatura, in questo caso, sarebbe «chi come» e «che cosa». Fino dalla metà degli anni Ottanta, il neurobiologo Premio Nobel David Huebel, a Harvard, e la sua collaboratrice Margaret Livingstone avevano ben identificato canali visivi separati, da un lato (quello ventrale del cervello), per colore e forma, dall’altro (quello detto dorsale), per posizione e movimento.

LEGAMENTI - Gli anni successivi hanno visto moltiplicarsi ulteriormente, per divisioni sempre più fini, questi canali, generando il tormentoso problema detto «del legamento» (in inglese binding problem).
Ci si chiede tuttora, in sostanza, coma sia possibile a noi (ma anche a una scimmia) osservare con perfetta armonia un oggetto di forma e colore ben precisi volteggiare in aria, invece di vedere un oggetto incolore e senza forma spostarsi lungo la sua traiettoria e, separatamente, vedere forma e colore di quell’oggetto, altrove, immoti. Per quanto naturale, ovvia e semplice ci possa sembrare l’osservazione di comuni oggetti in movimento, i neurobiologi hanno difficoltà a spiegare come tutte queste diverse sensazioni, veicolate da canali nervosi distinti, con neuroni aventi caratteri anatomici distinti, riescano a «fondersi» (ossia a legarsi tra di loro) in millesime frazioni di secondo, nel nostro cervello.

PROBLEMA - Si conoscono, infatti, rari casi clinici di specifiche lesioni cerebrali che provocano la perdita, oppure l’attenuazione differenziata, dell’una o dell’altra componente visiva. Il daltonismo, tra queste lesioni, è la più diffusa e nota, ma si noti che i daltonici non hanno problemi nel riconoscere le forme. Adesso si presenta un secondo e non meno temibile problema del legamento: il legamento uditivo-linguistico. Anche qui, non c’è alcun problema a riconoscere chi dice cosa, ma non si sa ancora bene come avvenga la fusione dei due segnali.

CASI - Anche qui, alcuni rari e interessanti casi di lesioni cerebrali corticali mostrano che un individuo può perdere la capacità di riconoscere le parole, ma non il tono della voce, o l’opposto (usualmente accompagnato da un disturbo nella percezione musicale, detto amusia). Nell’articolo appena pubblicato su «Trends in Neurosciences», in conclusione, si fa presente che questa scoperta di segnali sotto-corticali distinti e molto precoci può aiutarci a meglio capire i fattori responsabili della perdita progressiva e selettiva dell’udito negli anziani e le cause di certi tipi di sordità.
Capiremo anche meglio l’elaborazione cerebrale e mentale della parola e della musica e, forse, almeno in modo indiretto, come funziona in genere un sistema percettivo.

archeologia
Atlantide era in Sardegna?

La Gazzetta del Mezzogiorno 10.4.05
Si troverebbe in Sardegna secondo una suggestiva ipotesi archeologica
Atlantide non più continente perduto?
Ernesto Delicolli

«Atlantika: Sardaigne, Ile Mythe» è il titolo della mostra che a partire da domani e sino al 26 aprile porterà a Parigi una delle più suggestive ipotesi archeologiche su cui da qualche anno si confrontano e scontrano studiosi e cacciatori di miti. L'ipotesi, formulata dal giornalista archeologo Sergio Frau, sposta le famose Colonne d'Ercole da Gibilterra al canale di Sicilia e indica la Sardegna come la famosa Atlantide di cui tanti testi antichi parlano. L'esposizione parigina sarà ospitata alla Maison de l'Unesco a place de Fontenoy dove il 12 aprile è previsto anche un convegno: «La connaissance du monde ancien: au etaient Les Colonnes d'Hercule?». Fra i relatori, grandi nomi: l'accademico di Francia Azedine Beschaouch, gli archeologi Louis Godard e Andrea Carandini, il vicedirettore dell'Unesco per la cultura Mounir Bouchenaki. Ci sono tutti gli ingredienti per prevedere che da Parigi possa avviarsi una revisione storica sul Mediterraneo della prima età del Bronzo, una svolta appassionante che potrebbe imporre nuove interpretazioni dei testi antichi. Siamo attorno alla fine del terzo millennio avanti Cristo, nella prima età del bronzo. La Sardegna è abitata da un popolo di temuti guerrieri e abili navigatori costruttori dei misteriosi nuraghi, le torri-grattacielo che facevano fantasticare l'intero Mediterraneo. Fin qui tutti d'accordo ma poi, qualche anno fa, arriva il libro di Sergio Frau, Le Colonne d'Ercole - un'inchiesta (come, quando e perché la Frontiera di Herakles/Milqart, dio dell'Occidente slittò per sempre a Gibilterra), edito da Nur Neon, ora in ristampa, e vecchi miti sopiti, scritti antichi considerati errati cominciano a essere guardati con nuovi occhi. Giornalista culturale di «Repubblica», 56 anni, Frau ebbe l'illuminazione quando gli capitò fra le mani una cartina geografica, pubblicata da parte di Vittorio Castellani (ordinario di fisica stellare a Pisa), che mostrava come doveva essere il Mediterraneo 2.550 anni fa. Privato di quasi duecento metri d'acqua il Canale di Sicilia si presentava come una sorta di doppio stretto: il primo costituito da Malta e dalla Tunisia, l'altro punto situato un po' più su, con una Sicilia irriconoscibile, che presenta Marsala, Mazara, Capo Lilibeo e Sciacca situate nell'entroterra, lontane dal mare. Il canale di Sicilia visto così, apparve subito a Frau come l'alternativa a Gibilterra e alle sue Colonne d'Ercole, tanto lontane dalla storia e dalla geografia dei greci più antichi. A trasferire il finis terrae, dalla strozzatura fra Sicilia-Malta e Libia-Tunisia, allo Stretto di Gibilterra fu il grande geografo Eratostene. Ma per compiacere Eratostene si è dovuto accusare Omero, Esiodo, Erodoto, Timeo, Avieno e Dicearco di Messina, di aver commesso errori madornali riguardo alle indicazioni geografiche disseminate nelle loro pagine. Frau, inseguendo il sogno di rendere giustizia a un mito antichissimo, illuminato dalla cartina del professore pisano, ha impiegato tutto se stesso per contestare Eratostane (i suoi detrattori lo chiamano il bibliotecario perché fu direttore della biblioteca di Alessandria) e riabilitare poeti, storici e filosofi. Ora la mostra di Parigi metterà a fuoco le rivoluzionarie tesi di Frau e si metterà alla ricerca della nuova Atlantide. Secondo questa revisione, sarebbe la Sardegna, la mitica isola descritta da Platone nel Timeo collocandola al di là delle colonne d'Ercole e dalla quale si arrivava «ad altre isole e al continente che tutto circonda». Come il mito d'Atlantide vuole, anche la Sardegna – sottolineano gli studi di Frau – venne sommersa dalle acque, lo dimostrano numerosi riscontri archeologici e geologici secondo i quali l'isola venne repentinamente abbandonata attorno al 1178-1175 avanti Cristo. I nuraghi della costa sarda meridionale e occidentale, quelli che si trovano a quote basse, sono tutti distrutti capitozzati, le grandi pietre gettate a terra, mentre quelli coevi della Sardegna settentrionale sono ancora oggi in piedi. Da qui l'ipotesi che la Sardegna subì a metà dell'età del Bronzo uno tsunami, un maremoto dalle proporzioni spaventose simili a quelle che ha colpito il Sud-Est asiatico il 26 dicembre 2004. Ce n'è abbastanza per riprendere in mano testi già scritti, certezze consolidate, confrontarsi con un'intuizione imprevista, ma suggestiva che ha il fascino di risvegliare vecchi miti e di riportare, come scrive Sergio Donadoni, egittologo e accademico dei Lincei, l'orizzonte dei Greci più antichi (da Omero a Erodoto) ai mari che li circondano e che li uniscono alle loro colonie, lasciando a un severo controllo fenicio-punico il Mediterraneo occidentale.

sinistra
Pietro Folena aderisce al Prc

ADDIO ALLA QUERCIA
Folena passa con Rifondazione. Mussi: un dolore
Alle ultime elezioni amministrative non è riuscito a diventare sindaco del Comune di Mattinata, nel Gargano, anche se bastavano 2.495 voti
Monica Guerzoni


ROMA - Da numero due del Correntone a «reclutatore» di diessini per conto di Bertinotti. Il salto di Pietro Folena era nell’aria, eppure la notizia del passaggio al Prc ha sorpreso persino il leader della minoranza Ds. Non che Fabio Mussi fosse all’oscuro dei contatti, anzi c’era anche lui in quel bar a due passi dal Senato dove Bertinotti ha incontrato più volte l’ala sinistra della Quercia, ma un addio così non se l’aspettava. «Non così repentino, almeno. Non è il momento, non c’è ancora un percorso...», risponde al telefono il vicepresidente della Camera. «Per me è una cosa dolorosa, una scelta sua, che io rispetto ma che non mi sento di condividere». Non ci sarà mica una scissione in corso, onorevole Mussi? «Ma quale scissione, è una scelta personale». Il cellulare di Folena suona a lungo, poi una voce femminile spiega che l’onorevole è in Francia e che non ha niente da dichiarare, cosa inusuale per uno che Cossiga amava chiamare Pietro «Falena», per via della generosa esposizione ai riflettori. A volte però la visibilità non basta e così il deputato di Manfredonia, nato a Padova nel ’57, non ce l’ha fatta a strappare al centrodestra la fascia tricolore di Mattinata. E dire che la piazza principale del piccolo comune garganico ha visto in pochi giorni Veltroni, Boselli, Franceschini, Vendola e persino Fassino, che ancora non ha capito perché Folena si sia messo in testa di sfidare quel «bravo sindaco» della CdL.
Folena l’ha presa male, ha accusato i Ds di tradimento e «ostilità organizzata» e ha rotto con il collegio di Manfredonia, forse il più sicuro della Puglia. Una «botta di panico», come dicono gli ex colleghi di partito? Una «folenata»? Non proprio. Folena è politico navigato, è stato segretario della Fgci, ha coordinato la segreteria della Quercia e nel 2001, quando Veltroni abbandonò per fare il sindaco, si fece carico da solo della batosta elettorale. In via del Policlinico arriva da indipendente, per far da calamita e poi da guida a quei Ds che guardano con più interesse a Porto Alegre che alla Fabbrica di Prodi. Col Prc al 5 per cento la nuova «soggettività politica autonoma» potrebbe tardare a formarsi. Ma Bertinotti è fiducioso: «Folena? Fenomeno interessante, anche per il modo in cui è avvenuto».
Chiuso e passionale, gli amici lo dipingono immune dal cinismo e mai ruffiano, i nemici elencano la fase dalemiana e quella antidalemiana, il giustizialismo e gli attacchi alle toghe, il veltronismo e poi il cofferatismo, l’appoggio alla guerra del Kosovo e il pacifismo senza se e senza ma. «Folena e Mussi non se ne andranno, fuori dai Ds chi li vota?» preconizzava D’Alema alla vigilia del congresso. Sbagliava, almeno per metà. Lunedì, Folena ha visto Bertinotti, martedì Fassino. Non per chiedergli un posto nella giunta Vendola, ma per dirgli che, dopo Vattimo, De Zulueta, Falomi e Tranfaglia, la Quercia perde un’altra foglia. Il segretario, dicono, ha provato a capire, ma non risulta che abbia provato a fermarlo.

La Stampa 10.4.05
BERTINOTTI ANNUNCIA L’ARRIVO DI FOLENA
«Prc determinante per la vittoria»

ROMA. Di delusione per il mancato avanzamento elettorale Fausto Bertinotti non vuole sentir parlare. Di correggere la svolta «governista» sancita al congresso di Venezia nemmeno. Il segretario di Rifondazione Comunista, dopo le elezioni regionali, canta vittoria: al comitato politico nazionale, riunitosi ieri a Roma, esibisce il grande successo di Nichi Vendola in Puglia. «Quella vittoria unita ai risultati elettorali dimostra una nostra grande affermazione. Significa che l'Unione, così come è fatta, può essere guidata da qualunque sua componente», dice al parlamentino di Rifondazione.
Bertinotti rivendica il merito di aver reso possibile, insieme alle altre forze dell'Unione, la «fine del berlusconismo». Ma deve anche riconoscere che il risultato elettorale è stato «inferiore alle aspettative». «Al Nord c'è un risultato positivo, c'è una sofferenza al centro e, paradossalmente, anche al Sud». Le ragioni? Bertinotti ne elenca alcune: il voto di scambio, la tradizionale debolezza del partito nelle elezioni amministrative, gli odiati rivali del Pdci con il loro simbolo molto simile a quello del Prc, l'effetto calamita dell'Ulivo nel momento in cui si profila la vittoria dello schieramento di centrosinistra.
Ma Bertinotti non ha perso la speranza che presto il vento possa cambiare e che ci possa essere «un grande balzo». Rifondazione «può schizzare anche al dieci per cento, anche in presenza di una crescita dell'Ulivo», azzarda. Nel frattempo, la linea deve restare quella del congresso di Venezia: accordo con il centrosinistra, dialogo con la società e i movimenti, sfida sul programma .
Per il futuro immediato, Bertinotti propone di lanciare due grandi campagne contro la precarizzazione del lavoro e per il salario sociale. Poi presenta il prossimo arrivo di Pietro Folena e quello già certificato del senatore dei verdi Francesco Martone come segni positivi della capacità di attrazione del partito.
Nichi Vendola appoggia Bertinotti nell'indicare quale dovrà essere la strada da seguire. Da Vendola viene l'appello a «correre di più e a compiere fino in fondo il cammino in favore della pace e della non violenza. E poi, senza imbarazzi, ha «sdoganato» socialisti ed ex democristiani, ringraziandoli per la sua vittoria in Puglia.
Le minoranze interne però non si sono fatte convincere: all'unisono accusano Bertinotti di aver sottovalutato il risultato elettorale. Nonostante le critiche a Bertinotti, le minoranze hanno comunque deciso di entrare nella direzione che sarà eletta domani a conclusione dei lavori del comitato politico.

Agi.it 9 apr 2005
AMNISTIA: BERTINOTTI, IL PARLAMENTO SE NE OCCUPI SUBITO

Fausto Bertinotti esprime massimo rispetto per lo sciopero della sete di Marco Pannella, "poiché - dice - vanno molto rispettate le iniziative che comportano sacrificio personale", e chiede al Parlamento un impegno perché si affronti subito la questione carceri in Italia. Per Bertinotti è uno scandalo l'aggravio di pena per i detenuti derivante dalle pessime condizioni della vita carceraria: ciò costituisce un vero e proprio scandalo e giustamente Giovanni Paolo II lo fece presente durante la sua visita alla Camera. Per questo penso che sarebbe giusto che in Parlamento si mettesse all'ordine del giorno la risposta legislativa a questo problema". (AGI)

inizia la campagna per i sì ai referendum del 12 giugno

L'Unità 10 Aprile 2005
Dopo la scelta della data «balneare» da parte del governo (12 e 13 giugno), parte il piano-comunicazione: in campo anche gli scienziati
Referendum, battaglia contro l’astensione
Fecondazione, parte la campagna per andare a votare: e-mail, manifesti, Internet, appelli, seminari...
Wanda Marra

ROMA «Il referendum sulla fecondazione assistita segnerà il destino di molte donne. Vota sì», «Il referendum sulla fecondazione assistita segnerà il futuro dell’autodeterminazione della donna. Vota sì», «Il referendum sulla fecondazione assistita segnerà il futuro di molti malati. Vota sì», «Il referendum sulla fecondazione assistita segnerà il futuro di molte coppie. Vota sì». Una matita e il logo verde del referendum «Sì, per Nascere, Guarire, Scegliere» accompagnano questi brevi ma eloquenti testi, che si leggono sulle quattro cartoline virtuali – come quattro sono i sì abrogativi da esprimere – che si possono inviare a vari destinatari e-mail dall’indirizzo internet www.iovotosi.it. È questa solo una delle tante iniziative del Comitato referendario nazionale trasversale (di cui fanno parte associazioni, personalità della scienza ed della cultura, esponenti di partiti, dei Ds, del Pdci, degli stessi Radicali, dei Verdi, della Margherita, ma anche di Fi, dei Repubblicani di La Malfa e del nuovo Psi) per far vincere i referendum abrogativi della legge 40 sulla procreazione assistita. Iniziative che saranno tantissime, per sconfiggere il muro di silenzio, mobilitare l’opinione pubblica, battere l’astensionismo. In questo senso, la data del 12 e 13 giugno scelta dal Governo è l’ennesimo tentativo di boicottaggio dei referendum: si tratta infatti di una data «balneare» volutamente difficile. Ma da qui a giugno la battaglia capillare che ha portato la scorsa estate a raccoglimento le firme necessarie per indire i referendum, riprenderà con ancora più forza.
Il piano di comunicazione. Il Comitato produrrà tantissimo materiale cartaceo: manifesti, depliant, inserti per riviste. Inoltre utilizzerà spazi radiofonici. Centrale l’uso della Rete: sul sito (http://www.comitatoreferendum.it/) si potranno trovare iniziative, documenti e approfondimenti. Inoltre, ci sarà uno spazio interattivo, nel quale gli utenti potranno porre le loro domande e avere risposte. Per invitare a votare e a votare sì, saranno usati anche gli Sms. La campagna sarà poi imperniata su una serie di testimonial, che saranno un po’ il suo filo conduttore, sia per quel che riguarda gli spot radiofonici e televisivi, che il materiale cartaceo. Saranno personaggi che appartengono sia al mondo scientifico, che a quello dello spettacolo. Oltre a loro, ci saranno testimonial che presteranno il loro volto e la dichiarazione di voto solo una volta. Inoltre, sono in via di organizzazione concerti e spettacoli gratuiti. Per cominciare, già nei prossimi dieci giorni nelle stazioni italiane usciranno i manifesti e i materiali cartacei con la matita e il logo. Sarà proprio la matita, infatti, il leit motiv della campagna, insieme ai testimonial.
Comitati. In tutta Italia nasceranno comitati regionali, provinciali e comunali, che avranno il compito sistematico di indire dibattiti, presentare libri e diffondere i materiali illustrativi sulle tematiche della legge 40.
Gli scienziati. Sta per uscire un appello di una sorta di comitato di scienziati, che affiancherà il Comitato nazionale, per i 4 sì.
I seminari. I Ds stanno organizzando seminari di approfondimento con esperti, medici, bioeticisti, rappresentanti delle associazioni e delle coppie di malati, un po’ in tutta Italia: ieri si sono svolti a Palermo e a Cagliari, il 16 ce ne sarà uno a Napoli, per dire solo alcune date. I diessini inoltre stanno organizzando direzioni regionali o di Federazione per mettere a punto la campagna referendaria. Un seminario organizzato da Mamma Provetta dedicato proprio ai giornalisti si terrà dopodomani mattina all’Hotel Bologna di Roma, anche questo con una serie di esperti, tra cui i medici Guglielmino e Tricarico.
L’opuscolo. Alcune associazioni, tra cui Mammeonline, Madre provetta, Madre cicogna hanno realizzato un opuscolo divulgativo, nel quale i quesiti sono spiegati attraverso delle storie personali.
Il sito 4 sì. Uno spazio Internet gestito dai Radicali e dall’associazione Luca Coscioni (www.4si.it) ospita i “ritratti di speranza”, storie di persone malate, che sarebbero aiutate dalla ricerca medica sulle cellule staminali che la legge 40 vieta. E poi, un blog in cui ciascuno può dire la sua e una lista di appuntamenti.

dal manifesto
tutte le guerre del papa

una segnalazione di Andrea Ventura

il manifesto 9.4.05

KAROL WOJTYLA
Tutte le guerre dell'ultimo papa
TOMMASO DI FRANCESCO

Appena è terminata la lunga, teatrale liturgia del saluto per l'ultima volta in terra, in piazza S. Pietro, al papa globale Giovanni Paolo II, un'altra «liturgia» non smetteva di lavorare, recitando la sua parte. Migliaia e migliaia di militari hanno continuato a vigilare sulla cerimonia e in una città blindata che ha visto all'opera agenti dei servizi segreti di tutto il mondo, tiratori scelti, navi da guerra allertate nei porti, spazio aereo chiuso pattugliato da bombardieri. Non era certo l'eco di un temuto attentato al papa, visto che il seggio è, ancora per pochi giorni, vacante. E' stato invece il segno, tutto terreno, della reale rappresentazione del mondo nel quale ci è dato vivere. Era l'ombra imperante della guerra. Così come inverosimile invece era il recinto che faceva tutti eguali i potenti e i governi della terra. Mentre le contrapposizioni del mondo, mal sopite davanti all'essenziale bara in cipresso del papa, erano solo nascoste dalla scelta del rituale: elencare il potere terreno sulla base dell'alfabeto.

Quando tra alcuni giorni il conclave annuncerà il «gaudio» del nome di un altro papa, allora si capirà che Karol Wojtyla è stato davvero l'ultimo papa. Non certo nel senso della progressione numerica e temporale. In quello profondo della inimitabilità e irriproducibilità insieme della sua esperienza e della sua autorità.

Si è detto che questo papa ha fatto crollare il comunismo, i regimi dell'Est, quello che insomma più correttamente abbiamo chiamato «socialismo reale». Poco si è riflettuto sul principio d'autorità derivato al papa proprio dal crollo di quel sistema che, è bene ribadirlo, è precipitato nel baratro delle sue contraddizioni. Basta ricordare che nel 1972 gli operai in rivolta in Polonia contro il «loro» potere socialista a Danzica e Stettino sventolavano ancora bandiere rosse e cantavano l'Internazionale, poco prima che la polizia di regime sparasse sulla folla. Il sindacato Solidarnosc e il ruolo politico della Chiesa nascono da questa sconfitta precedente. E un pontefice non a caso venuto dall'Est, non poteva non esserne il primo interlocutore ed essere quindi investito di questa eredità che, con la caduta del Muro di Berlino prima e la fine dell'Unione sovietica poi, di fatto cambiava la faccia della terra.

La conquista dell'est. E dei Balcani

Ma l'interrogativo profondo è chiedersi ora come Wojtyla ha speso subito il bene prezioso dell'autorità derivatagli dalla fine di quel mondo, proprio interagendo con quel processo. Se vogliamo rispondere onestamente non possiamo non riconoscere che il papa globale è stato, nell'occasione, parziale, nazionalista, ossequiente al «Cesare» di turno, revisionista storico e co-responsabile di secessioni che hanno alimento guerre sanguinose. E' stato un papa con le mani sporche di sangue. Come potremmo definire altrimenti il ruolo del Vaticano all'inizio del disastro dei Balcani nel 1991?

I governi europei uniti avevano deciso alla fine di quell'infausto anno, di comune accordo, che di fronte alle pericolose secessioni che si annunciavano in tutto l'est, si sarebbero dovute riconoscere solo quelle che avvenivano «democraticamente, non in modo unilaterale, senza il ricorso alla violenza e nel rispetto delle minoranze interne». Solo dopo pochi giorni la Germania e il Vaticano riconobbero l'indipendenza dalla Jugoslavia della Slovenia e della Croazia, nonostante che si fossero autoproclamate indipendenti con la violenza, nel disprezzo delle minoranze e sulla base dei princìpi etnici della slovenicità e della croaticità, ben fissati nei primi articoli delle rispettive costituzioni. Che fine avrebbero fatto in non sloveni - mentre la Slovenia stato indipendente tagliava la Jugoslavia dal resto dell'Europa - e in non croati nella cattolicissima Croazia, Wojtyla non se lo chiese o se se lo chiese pensò ad un nodo facilmente districabile. Quel nodo intanto veniva «sciolto» con lo scatenarsi di una guerra nazionalistica da tempo preparata e da tutti, serbi, croati e musulmani. Mentre ancora esisteva una Federazione jugoslava, con le sue istituzioni, il suo esercito, il suo governo con tanto di sede all'Onu. Fu l'innesco della guerra in Bosnia-Erzegovina, lì dove tutte le etnie erano rappresentate quasi in una piccola Jugoslavia, con il massacro dell'assedio di Sarajevo, ma anche con la strage di Mostar. Era tornata la guerra in Europa, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Certo per responsabilità dei nazionalismi (alimentati anche dall'esterno) e dei limiti della costituzione jugoslava, ma è bene sottolineare che non sarebbe stato possibile senza la deflagrazione dei riconoscimenti internazionali delle indipendenze autoproclamate sulla base di identità etniche, grazie al ruolo della Germania forte allora della riunificazione, e al suggello del rappresentante in terra del dio cattolico, al secolo il polacco Karol Wojtila. Era così tanto amato dai croati quel papa, quanto era odiato dai serbi e dai musulmani. Apostolicamente il papa andò a Sarajevo nel 1997 alla fine della guerra ed accadde che, insieme alla curiosità di una città sostanzialmente laica e moderna che aveva sopportato un feroce assedio, e alla presenza mal sopportata di tanti cattolici arrivati per l'occasione, ci fu un tentativo di uccidere il papa - una potente carica di esplosivo sotto un ponte, qualcosa di più deleterio degli spari di Ali Agca. Sventato all'ultimo momento grazie alla scoperta di un complotto, così misterioso che nei mesi successivi furono uccisi capi dei servizi, vice-ministri, e pezzi del governo di Sarajevo vennero defenestrati dagli americani e dalla Nato. Eppure - ecco il punto - il papa, accettando il nuovo principio dell'«ingerenza umanitaria» aveva dato il suo benestare al bombardamento della Nato delle postazioni serbe che circondavano Sarajevo ad agosto-settembre 1995. Fu l'ingresso della Nato nei Balcani, la prima trasformazione da patto militare difensivo ad azione armata offensiva. E invece lo stesso papa aveva taciuto su Mostar, sui massacri che le cattolicissime milizie croate compivano a danno dei serbi e dei musulmani.

Fu proprio nell'occasione del viaggio a Sarajevo, alla fine di quella guerra - ma può mai finire una stagione che riporta la guerra in Europa - che il papa si domandò se era stato fatto tutto il possibile per evitare quella guerra. Non poteva rispondersi pubblicamente, riconoscendo di avere avuto le mani insanguinate. Da quel che sappiamo, pronunciò solo un enfatico ma significativo: «Che abbiamo fatto..!».

Una Via Crucis tra i conflitti

Si parla tanto di Via Crucis. E' proprio da allora che Giovanni Paolo II ha cominciato, solo cominciato, sulla guerra una sorta di road-map dolorosa, un viatico insieme autocritico da inverare, volta a volta però, o con il rifiuto secco e netto o con il silenzio assenso - come era del resto accaduto per la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e poi, più ambiguamente, per la sanguinosa avventura militare in Somalia nel 1993-1994. Una Via Crucis, ma restando fedele allo spirito di conquista delle sue prime iniziative verso l'Est negli anni Novanta. A partire dalla nomina in Russia di 11 vescovi in regioni dove il cattolicesimo era a dir poco improbabile, appena venne ammainata sul Cremino la bandiera rossa, così compromettendo per sempre il rapporto con la chiesa ortodossa; oppure con il suggello dato al revisionismo storico, quando beatificò nel 1998 la figura del cardinale Alojs Stepinac che aveva benedetto il regime nazi-fascista di Ante Pavelic in Croazia; o ancora, più recentemente nel 2000, quando beatificò sacerdoti in Slovacchia demonizzando il comunismo, ma semplicemente tacendo sulle responsabilità della Chiesa che aveva visto il vescovo Josef Tiso, la massima autorità ecclesiale slovacca negli anni Quaranta, governare il paese ed allearsi con Hitler - e dei 90mila ebrei slovacchi non si salvò nessuno.

Una Via Crucis che, da allora in poi, ha portato questo papa ad essere strenuamente contrario ad ogni guerra o presunta ingerenza umanitaria, e limpidamente facitore del messaggio della «pace attraverso la pace». E' accaduto nel 1999 con la guerra «buona», «umanitaria», quella che ha visto protagonista il centrosinistra mondiale al governo in Europa e negli Stati uniti con Bill Clinton, scatenare una guerra impari contro la piccola Jugoslavia. Allora il papa non si limitò a ricordare che c'era ancora la possibilità di trattare e a insistere che nulla sarebbe stato risolto ma anzi aggravato. Lanciò una campagna mediatica per denunciare il sangue degli innocenti ch si stava versando. Non possiamo dimenticare le prime pagine dell'Osservatore romano dell'aprile 1999 che denunciavano i sanguinosi «effetti collaterali» sui civili in Serbia e in Kosovo prodotti dai raid aerei della Nato e vantati da ineffabili premier occidentali che si sono ben guardati dal riflettere poi sui risultati drammatici di quella guerra.

Così all'annuncio del conclave capiremo che è morto l'ultimo papa. L'ultimo capace di passare dalla dimensione trionfale a quella agonale. Il papa sconfitto che voleva portare l'est e il resto del mondo nell'ecumene e lo ha invece portato nel mercato. Che lascia un pianeta più diseguale e misero, più senza speranze di come l'aveva incontrato. Che si esalta nel suo testamento per la guerra nucleare evitata con la fine della guerra fredda, mentre ogni stato costruisce ora la sua atomica. L'ultimo però ad essersi opposto alla guerra di civiltà contro il mondo arabo scatenata dai neocon americani e post-moderni con l'avventura della guerra all'Iraq nel 2003 che non è apparsa al mondo musulmano come guerra di religione solo grazie al no del papa. Bush ieri l'ha pianto e preventivamente seppellito.

il saccheggio del tesoro di Bagdad e l'Italia

Liberazione 9.4.05
Senza più limiti la rapina del patrimonio storico
Reperti archeologici iracheni all'asta su eBay
L'Italia, messa a tutela dei beni culturali iracheni dall'Unesco, non riesce a impedire il traffico dei reperti
I carabinieri non fermano il sacco di Babilonia
Lucio Manisco

Il museo nazionale di Baghdad ha scoperto con grande indignazione che alcuni reperti archeologici iracheni, rubati e di piccoli dimensioni, sono stati messi all'asta su internet da "eBay" uno dei principali siti delle compravendite "on line". Non è certo una novità perché "Le Monde" e il "Guardian" avevano documentato e denunciato il traffico illecito sulle grandi reti telematiche sin dal gennaio del 2004. Si tratta peraltro di un ennesima riprova della rapina senza più limiti del patrimonio archeologico dell'antica Mesopotamia, rapina che rimarrà incisa a caratteri di fuoco nella storia dell'umanità anche quando i nomi George Bush e Saddam Hussein diverranno annotazioni a margine nelle cronache senza fine dell'infamia nei tempi moderni.

L'ultimo campionario offerto con dovizia di fotografie da "eBay", aggiornato dopo la denuncia del museo di Baghdad (la licitazione dura poche ore), include un sigillo conico babilonese del 2000 a. C. del diametro di 24 millimetri e squisita fattura: presenta l'immagine della "battaglia celeste" di una divinità alle prese con un demone; sfilano poi le riproduzioni di una tavoletta cuneiforme del periodo sumero al prezzo di base di 699 dollari, di un cono cuneiforme reale (111 dollari), di un monile sumero con le teste congiunte di due gemelli siamesi al prezzo stracciato di 99 centesimi di dollaro e di altri 53 reperti che abbracciano i cinquemila anni della più antica civiltà mediorientale, sopravvissuta alla devastazione mongola ma non a quella dei nuovi crociati bushisti.

Dalla denuncia del museo, che ammonisce sulle sanzioni penali di questi furti, si evince un fatto fin troppo noto a chi abbia visitato l'Iraq dopo i sei giorni di saccheggio indisturbato della capitale dal 7 al 12 aprile del 2003: tutti questi piccoli reperti venivano offerti per pochi dollari da ladruncoli locali ai soldati americani e da questi acquistati e riportati in patria come souvenir di guerra e poi messi in vendita su internet.

A quanto ha dichiarato a Bruxelles il ministro giordano per la cultura, i giornalisti occidentali, compresi molti italiani, hanno contribuito alla razzia: fermati alla frontiera con la Giordania, dalle loro valigie sono uscite dozzine di reperti analoghi, a volte bronzei e di più grande formato. Alla confisca degli oggetti rubati non è seguita la denunzia e tantomeno la divulgazione dei nomi dei reprobi, apparentemente per non creare tensioni diplomatiche con i governi dei paesi di provenienza dei giornalisti.

La commissione e il consiglio europeo, al di là di qualche declamatoria condanna della rapina del secolo, e malgrado le sollecitazioni dell'Unesco, hanno fatto poco o nulla per ostacolarla o per reprimere il traffico illecito nell'Unione. Per ben sei volte, alla commissione cultura del parlamento europeo, abbiamo denunziato l'improvvisa esibizione nelle vetrine degli antiquari del quartiere di Sablon a Bruxelles di cilindri, sigilli sumeri di terracotta e di frammenti di bassorilievi babilonesi. La commissaria alla cultura Viviane Reading, a cui confronto la nostra Vincenza Bono Parrino è figura di eccelsa dottrina, non ha manifestato il minimo interesse per le nostre esternazioni né si è mai degnata di presenziare alle conferenze sul tema indette dall'Unesco, da archeologi insigni, da enti universitari e dalle stesse interpol ed europol. La lobby degli antiquari è indubbiamente molto potente negli ambienti decisionali dell'Unione, soprattutto in Belgio che, grazie a compagnie come la Arthemis, è diventato uno dei centri più importanti, dopo quello svizzero e britannico, nei traffici leciti ed illeciti di opere d'arte. E' altrettanto vero che il grande antiquariato internazionale si occupa solo marginalmente del commercio "minuto" di piccoli anche se importanti reperti archeologici iracheni e comunque non ricorrerebbe mai a pratiche dilettantistiche come le aste della "eBay".

Ben altri sono gli obiettivi delle operazioni varate, direttamente come mandante o indirettamente con l'offerta di munifiche taglie, alle squadre di rapinatori specializzati che con dovizia di scavatrici meccaniche e bulldozers stanno devastando gli strati superiori di diecimila e più siti archeologici alla ricerca di grandi sculture in marmo e bronzo sepolte in profondità.

In una conferenza internazionale indetta dal ministro Giuliano Urbani a Bruxelles durante l'effimero e costoso semestre italiano un ufficiale dei carabinieri ha presentato le immagini fotografiche aeree di alcuni di questi siti, veri e propri paesaggi lunari perforati da buche profonde molti metri.

Delle dimensioni delle opere rubate ed avviate al grande mercato Usa si può avere un'idea leggendo il comunicato dell'Fbi dello scorso anno; annunciava il fermo e la confisca nel porto di Napoli di alcuni containers stracolmi di grandi opere mesopotamiche a bordo di una nave battente bandiera panamense. Certo, l'Fbi si dà un po' da fare per bloccare questi traffici illeciti e per imporre l'osservanza dello "United States National Stolen Property Act" la legge passata dal congresso dopo la spoliazione delle piramidi Maya. E' anche vero che Matthew Bogdanos, colonnello dei marines ma anche uomo di discreta cultura archeologica e forense, ha fatto del suo meglio in Iraq per reprimere le devastazioni e i furti, ma dopo meno di cinque mesi dalla sua nomina è stato richiamato in patria. Le informazioni sul suo caso e sui dettagli di questi infamanti "danni collaterali" inflitti dalla guerra scatenata dagli Stati Uniti sono stati raccolti da Frederick Mario Fales in un saggio di grande valore, Saccheggio in Mesopotamia edito dalla Forum. L'autore dedica anche un capitolo al «ruolo dell'Italia», un ruolo di cui ha fatto gran parlare il ministro dei beni e delle attività culturali Giuliano Urbani, anche in un libro-intervista dal tono autocelebrativo che reca il titolo "Un liberale alla cultura".

Il ministro parla della sua iniziativa volta «al salvataggio dei tesori iracheni in varie parti di quel paese» e poi del riconoscimento dell'Unesco con l'incarico dato all'Italia di assolvere alle funzioni di paese guida in questo e in altri settori a rischio del mondo intero. Esautorato da qualsiasi compito diretto di tutela in Iraq dagli Stati Uniti e in grata memoria della donazione di un milioni di dollari ricevuta l'anno scorso dal governo Berlusconi, l'Unesco ha effettivamente «formalizzato in un apposito memorandum» - come ha scritto l'Urbani - l'onore esteso al nostro paese.

L'onore è stato indubbiamente meritato dai "cinque - carabinieri - cinque" che hanno cercato con gran coraggio e con pochi mezzi di far fronte alle migliaia di rapinatori locali che operano indisturbati nel paese (sequestrati 101 reperti e arrestate 19 persone sospette). Un lascito controverso è stato purtroppo lasciato dall'ambasciatore recentemente deceduto Pietro Cordone che era tornato in Italia dopo un attentato alla sua vita dei soliti marines: il diplomatico nei primi mesi del suo mandato si era dedicato su suggerimento del governatore Usa Paul Bremer, alla "debaathificazione" dei vertici museali e culturali del paese; solo in un secondo tempo si era reso conto dell'entità della catastrofe che aveva colpito una delle più antiche civiltà del pianeta.

Un'assistenza italiana c'è stata, ma non ha riguardato la prevenzione dei saccheggi o la tutela dei beni, bensì gli aiuti di esperti, archeologi e restauratori del nostro paese ora costretti ad abbandonare il campo e a proseguire la loro attività dall'estero. Questi aiuti sono stati magnificati in una inutile quanto lussuosa e dispendiosa pubblicazione a cura del ministero degli Esteri. Insieme a saggi di alcuni studiosi di valore, l'opera è curata dai soliti berluscones, Pialuisa Bianco, Franco Frattini e naturalmente Giuliano Urbani: assente il consenso-assenso del consigliere Salvatore Settis.

i cinesi contro il revisionismo storico giapponese

Corriere dela Sera 10.4.05
Oggi migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Canton e Shenzhen
Cina, ancora proteste contro il Giappone
La popolazione si oppone al revisionismo nipponico, accusato di minimizzare le atrocità commesse durante l'occupazione

PECHINO - Proseguono in Cina le proteste contro il Giappone, accusato di voler minimizzare le atrocità commesse durante l'occupazione della Cina, dal 1931 al 1945. Oggi 20 mila persone in tutto, incitando al boicottaggio dei prodotti giapponesi, hanno sfilato in due città del sud, Canton e Shenzhen, proprio mentre il vice ministro degli Esteri Qiao Zonghuai, a nome del governo cinese, assicurava l'ambasciatore nipponico Koresighe Anami che sarà fatto il possibile per impedire gesti di violenza come quelli che ieri hanno macchiato Pechino, teatro delle manifestazioni. Era stato Anami a chiamare il vice ministro per lamentarsi dei lanci di bottiglie e dei tentati assalti contro l'ambasciata e altri esercizi commerciali giapponesi.
Anche a Tokyo c'è stata un'iniziativa diplomatica: il ministro degli Esteri Nobutaka Machimura ha convocato l'ambasciatore cinese chiedendo «scuse e risarcimenti» per i danni subiti dai compatrioti. Le autorità cinesi, pur invitando alla calma i manifestanti, non hanno vietato i cortei. Alcuni dei 10 mila dimostranti che oggi sono scesi in strada a Canton hanno già tentato di forzare il cordone di sicurezza attorno al consolato giapponese e hanno cominciato a lanciare vernice e bottigliette contro gli esercizi commerciali del Sol Levante. Bruciate e calpestate bandiere giapponesi. La stessa rabbia si è diretta contro ristoranti e negozi giapponesi a Shenzhen, grande città industriale vicina a Hong Kong. I 10 mila dimostranti, fra i quali molti studenti, si sono fermati davanti a un supermercato giapponese, Jusco, urlando slogan e invitando al boicottaggio dei prodotti. Tutto tranquillo a Pechino per il momento, dove contingenti di polizia presidiano i punti a rischio.
La Cina aveva protestato nei giorni scorsi contro i libri di testo scolastici che minimizzano le brutalità dell'imperialismo nipponico del secolo scorso. Il Giappone ha replicato dicendo che il patriottismo inculcato nelle scuole cinesi è responsabile della xenofobia anti-giapponese.

fra tutto ciò...
il vescovo intellettuale di Chieti, Mons Bruno Forte, programma un convegno...

Corriere d'Abruzzo Domenica 10 Aprile 2005
L’incontro annunciato dall’arcivescovo Forte durante la messa in suffragio per il Papa
Ratzinger e Cacciari a Chieti
Il 28 aprile alla d’Annunzio convegno di studi col filosofo Vidello
di MARIO D’ALESSANDRO

Il cardinale Joseph Ratzinger e i filosofi Massimo Cacciari e Vincenzo Vidello sono attesi a Chieti all’incontro teologico promosso dall’Arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte, per il 28 aprile all’Università G. d’Annunzio. Il convegno di studi sul tema: “Dio, la ricerca e la fede” è stato annunciato dallo stesso arcivescovo, celebrando l’altro ieri una S.Messa di suffragio per Papa Giovanni Paolo II nella piazzetta della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo nel campus di Madonna delle Piane, affollata di studenti, autorità accademiche ed istituzionali e personale tecnico-amministrativo.
Nel congedarsi, al termine del rito religioso, monsignor Forte ha colto l’occasione per segnalare l’importante appuntamento di interesse culturale. Le sue parole: «Non è possibile sapere oggi – ha detto monsignor Forte – se ci potranno essere Ratzinger e Cacciari. Il cardinale Rtazinger, decano della Sacra Congregazione dei Cardinali, dal 18 aprile è impegnato nel Conclave, il prof. Massimo Cacciari è impegnato per il ballottaggio nelle elezioni a sindaco a Venezia. Ma il cardinale Ratzinger mi ha confermato la disponibilità a venire a Chieti, se sarà ultimato il Conclave nel quale potrebbe anche essere eletto Papa. Chissà che non venga a Chieti ugualmente, anche come Pontefice, ci affidiamo alla Divina Provvidenza».
Un grande applauso ha salutato questo annuncio tra l’imprevedibile e l’imponderabile, che nessuno avrebbe potuto immaginare possibile quando l’Arcivescovo Forte ha deciso il programma degli incontri teologici. Si è determinata una ben curiosa coincidenza: due autorevoli esponenti del mondo teologico e del mondo filosofico nazionale ed internazionale chiamati a riprogrammare i propri impegni per circostanze che nessuno avrebbe potuto ipotizzare alcuni mesi fa.
Monsignor Bruno Forte, forse per la presenza di tanti giovani studendesse e studenti al rito di suffragio per il Papa scomparso (“Abbiamo fatto i miracolo dei pani e dei pesci”, facendo riferimento al gran numero di persone che si sono comunicate facendo quasi finire le particole) ha proposto al Rettore ed alle autorità accademiche: «Perché non costruire una cappella in questo luogo? In tutti i campus universitari se ne trovano. Nell’Università di Lublino, quella di Papa Giovanni Paolo II, la cappella è frequentata da tutti anche da persone di diversi credi religiosi. Anche qui la rappresentanza religiosa di maggioranza può realizzare un luogo di preghiera aperto a tutti».
Ha voluto tener conto, insomma, della differenziazione di culti anche all’interno della cristianità, per giustificare la sua richiesta. Resta da vedere se le autorità accademiche (il Rettore prof. Franco Cuccurullo è stato “battezzato” dai colombi liberati in segno di pace nel corso della cerimonia e monsignor Forte ha sottolineato, sorridendo, il simbolico segno di favorevole auspicio) vorranno tener conto della richiesta.