sabato 17 luglio 2004

filosofia antica
i Cinici

Il Giornale di Brescia 17.7.04
Antistene di Elide e Diogene di Sinope: due «cani sciolti» per le strade di Atene
I MASSIMI RAPPRESENTANTI DELLA SCUOLA DI PENSIERO CINICA
Maestri di saggezza, non sempre di vita
di Maria Mataluno


«Su, non fare il cinico!». Quante volte ci capita di dire così a un amico, accusandolo di demolire convenzioni e valori condivisi dai più solo per il gusto di andare controcorrente. Eppure non sono molti coloro che usano l’aggettivo «cinico» a proposito, consapevoli del suo significato. Di certo c’è un fondo di verità nella tendenza ad associare al cinico l’immagine dell’outsider, di colui che rifiuta di sottostare a qualsiasi norma imposta dall’alto: proprio da outsider si comportarono Antistene di Elide e di Diogene di Sinope, i due massimi rappresentanti della scuola cinica, protagonisti della vita intellettuale ateniese tra il V e il IV secolo a. C. Una scuola che si chiamò così dal nome del ginnasio in cui Antistene teneva le sue lezioni ad Atene, il Cinosarge - che in greco significa «cane agile», - ma forse anche perché i seguaci di questa corrente di pensiero predicavano una vita sciolta da ogni vincolo familiare, sociale o politico, in tutto e per tutto simile a quella di un cane (kynòs in greco) randagio, e «abbaiavano» contro ipocrisia, mediocrità e conformismo; tanto che Diogene è sempre raffigurato con un cane al suo fianco. Una conseguenza di una precisa concezione morale: per i cinici la virtù si può apprendere solo con un costante esercizio interiore - l’ascesi - che allena lo spirito nello stesso modo in cui la ginnastica educa il corpo alla fatica. E la virtù dei cinici ha molto a che fare con la fatica, perché si esprime nelle opere e non nel pensiero, tanto che il modello etico di riferimento fondamentale per Antistene era Ercole, l’eroe delle dodici fatiche. Tanti sforzi, ovviamente, devono avere uno scopo preciso, che per i cinici non è una felicità materiale quale può essere offerta dai sensi, dal potere, dalla ricchezza. Né il sommo bene può consistere nella conoscenza: il rifiuto delle convenzioni spingeva Antistene a negare persino la possibilità di formulare definizioni, perché queste non colgono la natura delle cose, ma si limitano a stabilire analogie tra di esse. L’unica conoscenza possibile, perciò, è quella dei nomi, e le uniche frasi che abbiano un senso sono simili a queste: «l’uomo è uomo», «il cane è cane». Scartato anche il sapere, non rimane, come massimo ideale del saggio, che l’autosufficienza, l’indipendenza tanto dagli altri esseri umani quanto da se stesso, dai desideri e dalle passioni che ingombrano l’animo. Nasce da qui l’insofferenza dei cinici alle leggi e alla loro natura convenzionale, la scelta di vivere al di fuori da ogni regola di convivenza sociale. Diogene Laerzio racconta che Antistene «diceva queste cose, ma dava anche l’esempio facendole: di fatto falsificava monete, non concedendo nulla né alle regole morali, né a quelle naturali. Egli diceva di vivere secondo il modello di vita che era stato proprio di Ercole, senza dare la preferenza a nulla rispetto alla libertà». Quanto a Diogene di Sinope, non era da meno del maestro in fatto di stravaganze: è passato alla storia come colui che disprezzava talmente i beni materiali da preferire a una casa una botte e andare in giro vestito di stracci; e non per nulla nella Scuola di Atene Raffaello ce lo presenta disteso sui gradini dell’Accademia, fra gli altri pensatori dai drappeggi e le pose solenni, lacero e scarmigliato. Convinto assertore della libertà di parola ma nemico della democrazia come di qualunque altra forma politica - troppo angusta è, per il saggio, la vita da membro della polis: il vero filosofo è cittadino del mondo -, Diogene è celebre per le sue sentenze lapidarie e folgoranti. Spesso quegli apòphtegma erano ispirati al comportamento di bambini e animali, che considerava depositari di quella particolare forma di sapienza derivata da un rapporto privo di filtri con la natura. Così, fu un topo a insegnargli il segreto della felicità - gli bastò vederlo correre qua e là senza meta, senza affannarsi a cercare un luogo per dormire, senza temere né desiderare alcunché, per capire che quello era l’atteggiamento giusto nei confronti della vita -, mentre fu un fanciullo a dimostrargli come il saggio non debba provare alcun bisogno, neanche il più elementare: quando vide un bambino bere nell’incavo delle mani e mangiare lenticchie dentro una crosta di pane, non esitò a gettare via la ciotola e il catino che portava sempre nella sua bisaccia e che costituivano i suoi unici beni. La proprietà, amava ricordare Diogene, non deve rientrare tra le preoccupazioni del saggio, perché «tutto appartiene agli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa». La vera felicità consisteva, per Diogene, nell’avere un animo allegro e sereno: senza la pace dello spirito, nemmeno le ricchezze di Ciro avrebbero potuto riparare gli uomini dalla tristezza. Quando un giorno Alessandro Magno gli disse «chiedimi ciò che vuoi, io te lo darò», Diogene non si sognò di chiedere oro o ville, ma si limitò a invitarlo a restituirgli il sole, dal momento che Alessandro, in piedi di fronte a lui, gli faceva ombra. Non fu l’unica volta in cui il grande conquistatore fu beffeggiato dal lacero filosofo: quando Alessandro, prendendosi gioco di lui e del suo «cinismo», gli fece portare un piatto pieno di ossi, non si scompose e gli mandò a dire: «Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo». Arguto indagatore dell’animo umano, Diogene non era tipo da provare soggezione per chicchessia, come dimostra un altro famoso aneddoto riportato da Diogene Laerzio. Navigando verso Egina, egli fu catturato dai pirati, portato a Creta e messo in vendita. Quando un araldo gli domandò cosa sapesse fare, lui rispose: «Comandare agli uomini». E additò un uomo di Corinto che indossava una ricca veste di porpora, Seniade, dicendo: «Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone». Seniade lo comprò e lo portò a Corinto, dove gli affidò l’educazione dei figli e l’amministrazione familiare. Diogene fu talmente abile nei suoi compiti che in breve tempo Seniade cominciò a ripetere a tutti gli amici: «Un demone buono è venuto a casa mia». Diogene invecchiò presso Seniade e, quando morì, fu seppellito dai suoi figli. Prima che spirasse, Seniade gli aveva domandato come volesse essere seppellito. «Sulla faccia - aveva replicato Diogene -, perché tra poco quel che è sotto si sarà rivoltato all’insù». Con questa frase sibillina intendeva riferirsi probabilmente ai Macedoni, che da umili si erano tramutati in potenti. Più in generale, alludendo alla mutevolezza della sorte umana, essa compendia il massimo insegnamento lasciatoci in eredità dai cinici: a nulla serve affannarsi dietro consolazioni materiali, perché nella vita non c’è niente di eterno, e ciò che è vero oggi potrebbe non essere più vero domani. Stando così le cose, l’unico vero bene, come già aveva capito Aristotele, non è tanto il piacere, quanto l’assenza di dolore.

che cos'è il materialismo?

La Stampa TuttoLibri 17.7.04
Che cos’è il materialismo?
di Ermanno Bencivenga


CHE cos'è il materialismo? Difficile dirlo, perché sostenitori e avversari ne hanno dato definizioni diverse, funzionali ai loro scopi apologetici o polemici, e i relativi dibattiti sono stati spesso viziati da pregiudizi, confusioni e malintesi. Per esempio: c'è chi ha identificato il materialismo con la tesi che tutto quel che esiste sia un'entità materiale, percepibile con i nostri cinque sensi o con una qualche versione riveduta e corretta dei medesimi. La tesi, però, è assurda: gli esseri umani che fanno matematica sono entità materiali, ma il numero 3 di cui essi discorrono non lo è, né si può verificare che 2 + 3 = 5 guardando molto attentamente in una direzione qualsiasi. In termini analoghi (anche se più controversi), i gruppi sociali che seguono certe pratiche di vita sono entità materiali, ma la questione se tali pratiche siano giuste va affrontata con argomentazioni razionali, non con l'osservazione di quei gruppi. Quindi il materialismo può solo essere la tesi che entità materiali siano all'origine di tutti i processi che costituiscono ogni altra entità: che il 3 o la giustizia non esisterebbero se non ci fossero (diciamo) esseri umani che ci pensano e ne parlano. È una tesi metafisica, la cui principale alternativa è una forma di dualismo platonico o cartesiano: se ci sono entità immateriali come i numeri, i valori etici o le argomentazioni razionali, e se possiamo averci a che fare, ci dev'essere una componente immateriale di ciascuno di noi - un'anima, una mente o un Io. Al che un materialista che si rispetti replicherebbe con una qualche variante del rasoio di Occam: aggiungere al corpo un'anima non semplifica le cose, perché adesso dobbiamo spiegare in che rapporti stiano anima e corpo. Tanto vale considerare il problema originario: in che rapporti cioè stiano il corpo da una parte e il 3 o la giustizia dall'altra. Negli ultimi decenni, questo antico discorso metafisico si è riproposto a livello pratico, per gli enormi progressi delle tecniche di ingegneria biologica e cognitiva. Quando si è decifrato l'intero genoma umano o si sono costruiti computer in grado di simulare attività molto complesse, è risultato naturale concludere che il materialismo (rispettabile) fosse sul punto di trionfare: che prima o poi gli esseri umani si sarebbero rivelati nient'altro che macchine, sofisticate quanto si vuole ma non radicalmente diverse da un frigorifero o un tostapane. Due libri recenti, "La macchina vivente" di Giorgio Israel e "La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Massimo De Carolis, fanno del loro meglio per smorzare l'entusiasmo legato a questa promessa. Curiosamente, è Israel (matematico e storico della scienza) a esprimersi in proposito con toni del tutto negativi, parlando del "sostanziale fallimento del programma dell'intelligenza artificiale teorica", mentre De Carolis (filosofo) chiude immaginando un futuro in cui la scissione "fra la tecnica e la vera saggezza pratica possa superarsi". Il pessimismo del primo è legato a evidenti simpatie dualiste: "gli scienziati che trattano con sufficienza il dualismo cartesiano come un errore, persino puerile, danno una prova evidente di puerilità"; "la soluzione dualistica non è un banale errore, ma una risposta discutibile a un problema difficile". Il cauto ottimismo del secondo si fonda invece su un ennesimo riferimento ai giochi linguistici di Wittgenstein, che ci consentirebbero di limitare le ambizioni intrinsecamente globali della tecnica "riducendone le pretese di validità, volta per volta, a un ambito locale". La difficoltà su cui sono destinati a incagliarsi gli entusiasmi dei tecnocrati, però, è di carattere politico, e lo stesso De Carolis, pur evitando di caratterizzarla in tal modo, ne fornisce una descrizione abbastanza chiara. Chi parla dell'essere umano come di una macchina, di solito, non vuole soltanto dire che sia costituito da componenti materiali e agisca (anche quando pensa o ragiona) in base a processi materiali; intende aggiungere che lo si può controllare a piacere - che ogni suo passo non fa che realizzare un'istruzione predeterminata. Ed è qui che intelligenza artificiale e ingegneria biologica entrano in crisi, perché un'entità completamente controllabile è priva di quella creatività che associamo all'essere umano, e in generale alla vita.
Nelle scienze cognitive, questa difficoltà è spesso formulata come "il problema della cornice" (the frame problem): una volta fissato il contesto (la cornice) in cui deve muoversi, un computer procede con un'efficienza inimmaginabile per ciascuno di noi, ma le nostre abilità più preziose (percepire oggetti, parlare una lingua, adattarsi a un nuovo ambiente) dipendono dalla libera esplorazione di una gran quantità di contesti possibili e dalla libera scelta di uno di essi - dalla libertà insomma di "leggere" il mondo fuori da ogni schema precostituito. A mio modo di vedere, non ci sono obiezioni di principio al fatto che gli esseri umani possano creare entità (materiali) capaci di tanta intelligenza e razionalità quanta ne hanno loro stessi; ma lo faranno solo se avranno il coraggio (o l'irresponsabilità, a seconda dei punti di vista) di lasciarle muovere, crescere e imparare liberamente. A tratti, i nostri due autori suggeriscono che una scienza e una tecnica ossessionate dalla previsione e dal controllo debbano essere sostituite (o almeno integrate) da forme intellettuali tradizionalmente associate a passione e ispirazione. "Siamo convinti che il racconto e la letteratura siano una forma di conoscenza, di dignità pari a quella di tutte le altre, incluse quelle scientifiche esatte", dice Israel, e De Carolis: "Cosa andrebbe perduto, se dovessimo ammettere che il linguaggio è sempre una specie di poesia?" Nulla, risponderei, se non che, come il più grande fra i poeti, anche noi saremmo ciechi: creatori proprio in quanto incapaci di dominare le conseguenze della nostra azione creativa.

Giorgio Israel, La macchina vivente, Bollati Boringhieri, pp.147, euro 20

Massimo De Carolis, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, pp.261, euro 20

Assia Djebar
una grande scrittrice algerina francofona

La Stampa Tuttolibri 17 Luglio 2004
Tra arabo e francese
il velo sta sul volto
o sulle parole scritte?
di Elena Loewenthal


QUANDO si svolge e si dispiega il velo - nel mio ricordo, è sempre un velo di seta bianca marezzata - quei pochi minuti per prepararsi, proteggersi, maneggiare il tessuto sono essenziali: perché ogni donna ha una maniera particolare di velarsi!». E' immagine trattenuta nella memoria: un «certo modo di stringere il velo sui fianchi, ripiegarlo sulle spalle, riportarne i lembi sotto il mento». Ogni bambino del Maghreb, racconta Assia Djebar nel suo ultimo libro, Queste voci che mi assediano (Il Saggiatore), ha impresso nella mente questo momento di vita quotidiana, ripetuto quasi all'infinito. Un tempo che pare sospeso fra il dentro delle mura domestiche e il fuori del mondo circostante, separati non soltanto dalle quattro mura, ma anche da quel pezzo di stoffa indispensabile alle donne. Divenuto quasi parte di loro, una parte unica e insostituibile. Ed è proprio vero che il velo imprime ai gesti di chi lo indossa una grazia antica, leggera.
Ma Assia Djebar, la grande scrittrice algerina francofona, ha smesso il velo tanto tempo fa. Anzi non l'ha mai portato se non negli occhi di bambina intenta a contemplare sua madre. In compenso, dichiara con un entusiasmo dolente, che «scrivevo pur restando velata», e che ha fatto della scrittura stessa un velo, il suo spazio femminile dove è lei a decidere che cosa tenere intimo e che cosa «svelare».
E davvero le pagine di questo libro lasciano un'impressione profonda: che molto vi sia detto, e con forza illuminante. Ma che quasi altrettanto vi sia taciuto, proprio perché scrivere è un'operazione a tu per tu con se stessi prima ancora che con chi leggerà. Assia Djebar conduce il suo lettore in quel fragile territorio di confine che sta fra una lingua e l'altra. Un po' come fa Laura Bocci nel suo saggio-romanzo Di seconda mano (Rizzoli). Quest'ultima per vocazione del tradurre, mentre la scrittrice algerina vive da sempre in uno spazio linguistico doppio, arabo e francese: ma per entrambe in fondo la scrittura è come il ricamo sottile lungo due orli da congiungere, dove il filo deve risultare il meno possibile, nascosto nella trama del tessuto.
Djebar racconta della propria iniziazione, «sono entrata così in letteratura, per la pura gioia d'inventare, di ampliare intorno a me - io, così rigida fuori, tra gli altri, per via dell'educazione musulmana - uno spazio di leggerezza immaginativa, una boccata d'ossigeno». Racconta di quel che significa scrivere per necessità d'autobiografia, ma anche delle emozioni che le ha dato fare cinema. Dedica molto di sé e della propria scrittura - a volte melodica a volte strozzata -, a quell'andirivieni fra lingue che la segna. E spiega in modo convincente al lettore quanta ibridazione ci sia in ogni cultura: basti pensare, ad esempio, che il primo grande romanzo occidentale è in fondo «L'asino d'oro» di Apuleio, un africano che scriveva in latino e che oggigiorno, stando ai confini nazionali segnati sulla carta, non potremmo non definire «algerino».
Ma di contro a un retaggio comune, segnato dalla conciliazione, vi è una realtà attuale tutt'altro che confortante. Scrivo a forza di tacere, spiega ancora Assia Djebar, che dichiara di sentirsi affetta da un autismo senza voce, di fronte a quel che succede nel suo paese. E invece ha una voce di vera poesia, calibrata ma possente, che non cede mai alla tentazione di chiudersi in se stessa: forte e delicata, sofferta e partecipe.

Assia Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell'altro. Traduz. di Roberto Salvadori, Il Saggiatore pp.250, euro 18

Cina

17 Luglio 2004
Mao a prezzi scontati
di Francesco Sisci


PECHINO. LA ragazzina passa lì davanti, strizza gli occhi e poi li allarga: chi è quel nonnino dal faccione bonario che campeggia al centro di piazza Tienanmen? Ah sì, sospira, è Mao Zedong. Una generazione fa i suoi genitori sapevano a memoria il libretto rosso ed erano pronti a morire per Mao, oggi i ragazzini nemmeno se ne ricordano.
Per questo il governo ha deciso di incoraggiare il turismo cultural-ideologico verso il villaggio natale del Grande Timoniere. I turisti per Shaoshan godranno di sconti fino al 50 per cento su biglietti e alberghi. Se trent’anni fa in decine di milioni andavano ogni mese a Shaoshan a chiedere il miracolo dell'illuminazione comunista, nell'intero anno scorso i turisti sono stati poco più di un milione, un'inezia su quasi un miliardo e mezzo di cinesi.
Preferiscono Qufu, luogo di nascita dell'antico saggio Confucio, o le decine di santuari buddhisti che dopo lustri di assenza, sono ricomparsi come funghi in tutto il Paese. La santa Guangying, protettrice dei disgraziati ha un altare in quasi ogni casa, mentre il ritratto del vecchio timoniere penzola nostalgico solo sul parabrezza di qualche tassista attempato.
Un'epoca è finita, e non si può tornare indietro, e a Pechino, nonostante gli sconti per Shaoshan, lo sanno bene. Del resto solo qualche giorno fa il ministro della Difesa nepalese ha annunciato pubblicamente che la Cina avrebbe sostenuto il suo governo nella repressione di quei ribelli che combattono e vogliono la rivoluzione proprio in nome del vecchio comandante Mao.

il doppio

il Mattino di Napoli 17.7.04
Alieni a se stessi
di Raffaele Aragona


Si dice che ciascuno di noi abbia un altro da sé, un io rovesciato rispetto alla propria natura; la cosa non produce effetti consistenti finché rimane pura astrazione ma, appena intacca il nostro essere unico, essa comincia a perturbare; «il perturbante», come lo chiamava Freud, è quell'aspetto di noi che sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché vi riconosciamo noi stessi al di fuori di noi. Esso può rappresentare un rafforzamento narcisistico dell'identità, ma può mutare di segno e assumere il connotato inquietante della persecuzione.
Il doppio è uno dei temi ricorrenti nella letteratura di tutti i tempi, dove si presenta come espediente narrativo (così come nel teatro e nel cinema); esso interessa molte altre discipline, dalla filosofia all'arte, dalla psicoanalisi alla linguistica. Pensare al doppio di sé, osservarsi dall'esterno è un pensiero antico dell'uomo ed è evidente come la questione abbia trovato una caratterizzazione diversa nel corso dei secoli: l'ombra, lo specchio, il sosia, l'altro da sé sono tutti aspetti del doppio che ritrovano una loro manifestarsi nella letteratura, dove esso assume diverse sfumature, tragiche, divertenti o del tutto fantastiche. A cominciare dall'«Anfitrione» di Plauto nel quale l'espediente del doppio è destinato a suscitare il riso e a generare equivoci, per passare ad altre opere nelle quali lo sdoppiamento genera angoscia: l'ombra, il sosia, il riflesso diventano allora proiezioni della condizione triste dell'uomo.
Il problema è quasi sempre quello del rapporto con l'altro, ma lo sforzo dell'individuo impegnato a vivere insieme due esistenze può anche condurre ad una equilibrata convivenza: si pensa così facilmente a Calvino, al suo Visconte dimezzato, che rappresenta una particolare variante del doppio, immaginandosi una ricomposizione del protagonista.
Manco a farlo apposta, mentre Capri, a fine ottobre prossimo, ospiterà un convegno sul «doppio» e a Dubrovnik, un mese prima, si svolgerà un incontro sul «doppio nella lingua e nella letteratura italiana», esce in questi giorni un volume a cura di Guido Davico Bonino: Io e l'altro (Einaudi, pagg. 360, euro 11,50). Si tratta di ventiquattro «Racconti fantastici sul Doppio», come specifica il sottotitolo, di altrettanti autori: Hoffmann, Gogol, Théophile Gautier, Henry James, Maupassant e, naturalmente, Stevenson, Virginia Woolf, Kafka, Borges, Cortázar, tanto per fare qualche nome.
«L'idea della identità-diversità e la metafora del Doppio che ciascuno di noi si porta dentro (che lo sappia, che lo voglia o meno, non conta) s'annida nella mente e dell'individuo dalle età più remote» scrive Davico Bonino nell'Introduzione, che s'apre facendo ricorso a due forti nomi dell'antichità - Platone e Ovidio - con l'evocare l'Androgino e Narciso e si svolge con una lunga carrellata di autori che il tema immediatamente richiama: Dostoevskij, Wilde, Nabokov, Mann, Robbe-Grillet, Rank ecc.
La letteratura resta un luogo privilegiato per il doppio; essa ha sempre dato spazio a sdoppiamenti, a scissioni, a moltiplicazioni di persona e risulta naturalmente molto ricco il panorama degli esempi possibili. L'interesse di Davico Bonino è vòlto al racconto, anche perché, come egli stesso osserva, è proprio in strutture caratterizzate dal «narrar breve» che l'evocazione fantastica del Doppio consegue risultati particolarmente incisivi.
La scelta degli autori, poi, è derivata, rivela Davico Bonino, dall'adesione agli scritti di un filosofo francese, Clement Rosset, e in particolare ad un suo saggio del 1976, Le Reel et son double, nel quale si osserva che ciò che angoscia il soggetto, molto più della sua morte, è la sua non-realtà, la sua non-esistenza; la morte sarebbe il male minore, se si potesse almeno esser certi di aver vissuto; nello sdoppiamento della personalità, nella coppia costituita dall'io e dall'altro da sé, il reale non è dalla parte dell'io, ma dalla parte del fantasma, dalla parte del doppio.
Questa scelta di campo è a monte di molti dei racconti scelti da Davico Bonino, racconti di autori appartenenti a diverse aree linguistiche: Stevenson, Conrad, Woolf; Maupassant; Borges, Gogol', Andersen; Kafka; Poe, James; Pirandello, Savinio, tanto per citare i notissimi. Gli esempi, ciascuno preceduto da una nota critica del curatore, sono sufficienti a mettere in luce le varie «categorie» e le diverse manifestazioni del doppio. Vi sono doppi emergenti da una duplicazione fisica del personaggio («doppio manifesto»), altri nei quali i due personaggi si presentano come complementari l'uno dell'altro («doppio latente»).
C'è poi da distinguere il modo nel quale avviene lo sdoppiamento: la comparsa di un doppio, la divisione fisica del soggetto, la sua trasformazione o addirittura attraverso la comparsa di un doppio artificiale (un robot, ad esempio).
Le forme e le modalità sono quindi le più svariate. Nel William Wilson di Edgar Allan Poe, ad esempio, il doppio si spoglia delle vesti demoniache per significare il mondo delle regole rispetto alla trasgressione rappresentata dall'io narrante, e nel contrasto si configura la dimensione romantica di contrapposizione tra bene e male. Una contrapposizione ambigua, in verità, poiché alla fine del racconto il secondo Wilson appare come una proiezione del narratore.
Ne Il coinquilino segreto di Joseph Conrad, invece, si rappresenta un incontro reale fra due individui distinti che non si somigliano fisicamente; il rapporto fra i due è molto vicino ad un legame piuttosto «particolare» e il protagonista finisce per riconosce l'altro come il proprio doppio.

Isaac Newton

Galileo 15.7.04
LIBRI
L'uomo che vide lontano


James Gleick
Isaac Newton
Codice Edizioni, 2004
pp.202, euro 19,00


Trovò la legge di gravità universale. L'unica necessaria e sufficiente a spiegare perché una mela cade al suolo e perché la luna orbita intorno alla terra, e la terra e gli altri pianeti danzano intorno al sole. Comprese il significato di forza, di moto, di spazio e tempo. Indagò le proprietà della luce e dell'ottica. Insaziabile di conoscenza, di trovare risposte per poi porsi nuove domande. Isaac Newton disse di aver visto lontano, stando sulle spalle dei giganti. "Uno gnomo che sta sulle spalle di un gigante può vedere più lontano del gigante stesso". Ma non era vero. Ribaltò la visione del mondo dei giganti, mise al bando una volta per sempre i concetti aristotelici di moto ed essenza dei corpi e gettò le basi della moderna fisica. James Gleick, uno dei più grandi divulgatori scientifici di oggi, già autore di libri come "Genio. La vita e la scienza di Richard Feynman"e "Caos" che lo hanno reso celebre, ripercorre la vita di Isaac Newton in una mirabile biografia, in cui riesce a dipingere non solo i tratti del genio matematico che fu, ma anche dell'essere umano, con le sue contraddizioni e le sue ossessioni. Ne inquadra la personalità, nel mondo e nel tempo in cui Newton si trovò a vivere. Un mondo ancora permeato di oscurità, esoterismo e magia, in cui le leggi della natura sono subordinate alle leggi di un Dio motore primo di ogni cosa. Ne deriva l'immagine di uno scienziato al contempo profondamente immerso nel mondo alchemico e artigianale della fisica, eppure capace di trascenderlo radicalmente.
Dalla sua nascita nel 1642, l'anno in cui morì Galileo Galilei, in un paese di campagna del Lincolnshire a sud dell'Inghilterra, Gleick segue Newton passo dopo passo, fino alla sua morte, all'età di 84 anni, e va oltre, nel mito che è seguito al suo passaggio. Solitario per natura, condusse una vita senza genitori, amici o amanti, diviso tra scienza e alchimia, tra religione ed eresia. Si tuffò presto a capofitto nello studio. Leggeva voracemente, mosso dalla curiosità e avido di conoscenza. Trascriveva quanto leggeva in quaderni o taccuini, da cui sono tratte diverse citazioni nel libro, e faceva tutto ciò per se stesso. Rifuggiva la notorietà e la visibilità, preferendo tenere nascosto quello che la sua intuizione e i suoi calcoli matematici gli permettevano di comprendere. Pubblicò pochissimo dei suoi risultati scientifici, perché il mondo prenewtoniano a cui Newton apparteneva, era fatto di segreti e di silenzi.
La biografia di Gleick è appassionante, perché è anche un viaggio nella mente del suo protagonista. La scrittura è coinvolgente. Così, man mano che le idee si fanno strada in Newton, il lettore incespica con lui, ha l'impressione di vederlo mentre compie i suoi esperimenti rubando ore al sonno e ai pasti, mentre la sua mente febbrile non si dà tregua, alla ricerca delle leggi del mondo. È facile che chi legge prenda parte emotivamente alle controversie scientifiche, scatenate nelle liti epistolari tra Newton e lo scienziato Robert Hooke, sulla natura della luce e dei colori.
Con la pubblicazione nel 1687 dei suoi "Philosophiae Naturalis Principia Matematica", Newton scardinò violentemente l'immagine statica del mondo. Era arrivato alla gravitazione universale, alla sua legge del quadrato inverso della distanza. Gli oggetti cadono verso la terra allo stesso modo con cui la luna cade verso la terra. Secondo una linea retta nel primo caso e secondo una linea retta continuamente deflessa nel secondo,ovvero un'orbita a forma di ellisse. Parlò di azione e reazione, enunciò il principio di inerzia, intuì l'azione a distanza dei corpi, la natura del vuoto. Preannunciava un sistema del mondo e lo fece senza mai separare veramente materia e Dio, realizzando al contempo che l'universo non era una macchina perfetta, che dall'interazione di più corpi si generavano sistemi caotici. Per alcuni storici Newton è stato il punto conclusivo della rivoluzione scientifica, avviata da Copernico, Keplero e Galilei. Di certo è stato un punto di svolta nello sviluppo della cultura umana, al punto che, quando nel XX secolo arrivò Einstein, la fisica newtoniana venne corroborata ed estesa, ma non scalzata via.

uno psichiatra
ancora sulla polemica fra Cancrini e Cantelmi

il Messaggero 16.7.04
Prima la polemica innescata dal professor Luigi Cancrini: ...
C.M.


Prima la polemica innescata dal professor Luigi Cancrini: «la Regione Lazio mette a rischio la sopravvivenza delle Comunità terapeutiche». Poi la replica della Regione: «Sono accuse incredibili, prive di fondamento». Sulla riconversione dell’assistenza neuropsichiatrica parla ora il dottore Paolo Rosati, vice presidente dell’Aiop Lazio, l’associazione che raggruppa gli istituti privati.
«La sottoscrizione delle intese tra Regione, Asl e Case di Cura del giugno 2003 è il punto finale di un processo che ha avuto inizio molti anni fa, aperto a livello scientifico e politico con l'emanazione della Legge Basaglia», riassume e fissa i paletti Rosati. D’allora l’amministrazione regionale si è fatta carico dell'assistenza e, dopo una serrata consultazione con i rappresentanti delle associazioni Aris e Aiop, si è pervenuti all'attuale progetto di riorganizzazione.
«Per limitarci agli ultimi anni - riprende il vice presidente dell’Aiop - nel dicembre 1999 la Giunta Badaloni e le associazioni di categoria avevano sottoscritto un protocollo di intesa che, superando le norme della legge regionale 55/93, attraverso un processo di riorganizzazione, ipotizzava l'integrazione tra le strutture private ed i Dipartimenti di Salute mentale mediante la stipula di appositi protocolli».
Lei vuol dire che l’ex giunta Badaloni aveva già condiviso il progetto di riconversione ? «La Giunta Badaloni aveva approvato la proposta di Legge contenente le norme per la riorganizzazione della rete ospedaliera ai sensi della legge 30 dicembre 1991. Riguardava 4 aree di vitale importanza: assistenza psichiatrica di tipo clinico-ospedaliera; assistenza clinico-sanitaria neurologica; comunità terapeutico-riabilitative; residenze sanitarie assistenziali di tipo non specifico».
Che ne fu poi di questa proposta di legge?
«Purtroppo nella scorsa legislatura il Consiglio regionale chiuse i lavori senza aver discusso il provvedimento, l’attuale giunta ha ripreso quel progetto».
E la questione dei farmaci che le Case di cura userebbero con troppa disinvoltura ?
«Cancrini sbaglia: i nostri progetti terapeutici individuali vengono continuamente verificati, confrontati e supervisionati dai servizi territoriali pubblici (Dsm). E sbaglia anche quando cita l'entità delle nostre diarie: sono ferme al 1994 e sono state rivalutate dei soli indici Istat fino al ’99».

ancora sugli psicofarmaci ai bambini

Yahoo! Salute 16.7.04
Pediatria
Psicofarmaci ai minori: molti dubbi
Il Pensiero Scientifico Editore


Continua la controversia sulle prescrizioni di psicofarmaci ai bambini. In particolare l’utilizzo del metilfenidato come terapia per la discussa sindrome del disturbo del deficit dell’attenzione e iperattività, (conosciuta come ADHD dall’inglese).
In Italia statistiche allarmanti di bambini malati di questa sindrome accompagnano la campagna che glorifica l’uso di questa terapia come la scoperta del secolo che risolverà finalmente  i problemi di comportamento dei nostri bambini. E’ risaputo invece che all’estero, in particolare negli Stati Uniti d’America, dove da molti anni ormai stanno sperimentando queste terapie,   sono stati evidenziati nefasti effetti collaterali, tanto da mettere in allarme gran parte della comunità scientifica.
E’ importante rilevare che il metilfenidato fa parte delle sostanze controllate e rientra nella tabella degli stupefacenti, essendo un derivato dell’anfetamina. A causa di questo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense,  organismo federale incaricato della lotta contro la droga,  ha regolato strettamente la sua produzione, distribuzione  e prescrizione; ha ripetutamente esortato ad una maggiore cautela nell’uso di questo prodotto, specialmente alla luce del loro potenziale abuso tra gli adolescenti ed i giovani.
Quello che in Italia il Presidente dell’Associazione europea di psichiatria infantile e dell’adolescenza, dice a riguardo dell’approccio farmacologico è che: “…..non abbiamo prove vere di efficacia né studi sufficienti a dimostrarne la validità”. Giuseppe Dell'Acqua, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, reduce dagli incontri preparatori al Forum per la Salute Mentale che terrà nel prossimo novembre il suo secondo congresso nazionale a Livorno, lancia l’allarme sull’utilizzo di psicofarmaci nei bambini e adolescenti:   "C'è il tentativo”, denuncia Dell'Acqua, “di lavorare, in termini sedicenti preventivi, con questionari nelle scuole e nelle famiglie per individuare il disturbo mentale del bambino e dell'adolescente, che poi viene sottoposto a terapia farmacologica. Alcune aziende farmaceutiche stanno inoltre invogliando gli accademici di Pisa, di Siena, di Milano, a sperimentare i farmaci per adulti, anche alcuni neurolettici che si usano per i disturbi psicotici, sui bambini e gli adolescenti.  Oggi è talmente addormentata la coscienza della gente che chi denuncia questo stato di cose non produce discussioni, valori attorno a cui riflettere, ma viene minacciato e costretto al silenzio".
Il Comitato dei Cittadini per i Diritti dell’Uomo, invita chiunque sia a conoscenza o   testimone di attività, che favoriscono il dilagare di questa situazione,   in violazione dei diritti delle persone e dei minori,   a segnalarle,   affinchè si possano sottoporre alle autorità competenti per una maggiore tutela della salute mentale dei cittadini.

la memoria

Repubblica Salute 15.7.04
Per ricordare serve solo l'attenzione
La memoria


SECONDO Joaquìn M. Fuster, neuroscienziato dell'Università di California e massimo studioso della corteccia cerebrale, l'intelligenza è difficile da definire perché ha una relazione stretta con altre quattro funzioni: la percezione, la memoria, l'attenzione e il linguaggio. Fuster fa notare che, per sviluppare un comportamento intelligente, cruciale è l'attenzione. "È per questo che", spiega, "i circuiti nervosi dell'intelligenza coincidono largamente con quelli dell'attenzione e stanno nella parte anteriore del cervello, nelle aree frontali e prefrontali (nel cosiddetto giro del cingolo anteriore) e sono costituiti dal fitto intreccio tra neuroni corticali dotati di assoni molto lunghi. Concentrarsi, focalizzare l'attenzione su qualcosa significa non solo attivare questi circuiti ma anche selezionare il flusso di informazioni dalle aree percettive della parte posteriore del cervello. Il flusso viene quindi fermato, inibito, dai circuiti prefrontali di modo che l'attenzione possa focalizzarsi.
In soccorso dell'attenzione giunge la memoria con schemi di di comportamento, impastati di valori, giudizi, emozioni sperimentati in situazioni analoghe. Infine, entrano in ballo la regione prefrontale laterale, che integra la dimensione tempo, e altre aree frontali che ci danno un'idea delle intenzioni altrui. Si forma così uno "spazio di lavoro", come dice il grande neurobiologo francese Jean Pierre Changeux, nel suo ultimo libro L'uomo di verità, (Feltrinelli, Milano 2003). La decisione e l'utilità del conseguente comportamento, saranno espressione di maggiore o minore intelligenza. Un comportamento poco intelligente dipende da una scarsa attenzione o dagli automatismi. La nostra capacità di ragionamento deve infatti fare i conti con meccanismi di ragionamento automatico. Decidere in modo intelligente vuol dire evitare gli automatismi.